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“nuovi quartieri”, e ancora uno sfondato e il dipinto d’altare – sempre ad affresco - nella cappella palatina. Tutto distrutto nel corso dell’ultima guerra

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Capitolo 10.

La fine.

1- Giunto alla soglia dei sessant’anni Giovanni Battista non diminuì l’impegno nella grande pittura, cui riuscì evidentemente a far fronte non solo per le doti del mestiere, ma anche perché coadiuvato da un’ampia e strutturata bottega. Molte di queste imprese degli anni della sua ultima maturità sono però andate distrutte e di loro non resta spesso neppure qualche testimonianza grafica o ecfrastica, nonostante si sia spesso trattato d’imprese cospicue.

Prendiamo ad esempio il palazzo Granducale, abitato per gran parte dell’anno dal sovrano e dalla sua folta famiglia, dove, secondo Baldassare Benvenuti, Tempesti avrebbe dipinto due sfondi nei

“nuovi quartieri”, e ancora uno sfondato e il dipinto d’altare – sempre ad affresco - nella cappella palatina. Tutto distrutto nel corso dell’ultima guerra

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.

Lo stesso deve dirsi per gli affreschi eseguiti in palazzo Mecherini nei pressi dell’Arno

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, arricchiti dalle quadrature del Cioffo. Così come scomparso è anche un soffitto con “vezzosi putti”, dipinto nella cosiddetta Sala degli stucchi della canonica dei Cavalieri di S. Stefano

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, sebbene una delle perdite più gravi sia probabilmente costituita dalla cancellazione degli affreschi che Tempesti eseguì nel cospicuo palazzo Mastiani, dove nel 1798 Da Morrona aveva notato che il pittore vi stesse “ultimando i cartoni, onde abbellir le volte del nuovo quartiere […] colla sua vaga, e bella maniera di dipingere a fresco”

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. Il palazzo esiste ancora nell’attuale Corso Italia, e, per quanto disabitato, conserva una serie fittissima di decorazioni ad affresco, ma nessuna delle quali riconducibile all’artista, sembrando anzi databili al secolo successivo, a quando cioè la residenza, ristrutturata da Alessandro Gherardesca, venne completamente trasformata e ridecorata.

                                                                                                               

1 CIAMPOLINI 1993, p. 167: biografia del Tempesti di B. Benvenuti. A causa della mancanza di studi specifici sulla sede granducale (poi Reale, e infine della Soprintendenza alle Belle Arti) di Pisa, è impossibile circoscrivere al minuto l’intervento di Giovanni Battista. Si può solo ipotizzare che abbia di poco preceduto l’altro lavoro tempestiano in un palazzo granducale: quello della Sala della Musica in palazzo Pitti (v. oltre).

2 DA MORRONA 1798, p. 190; FROSINI 1981, p. 161 (li indica come distrutti).

3 MARIANINI 2007, p. 35.

4 DA MORRONA 1798, p. 195. Il Benvenuti indicava l’intervento del Tempesti come nella volta del salone, che in effetti ha oggi una decorazione databile al primo Ottocento (CIAMPOLINI 1993, p. 167; v. anche FROSINI 1981, p.

161, che li ricorda come distrutti; BURRESI – MORESCHINI 2008, p. 257).

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Più dolorosa, perché esattamente circoscrivibile alla follia degli eventi bellici, risulta essere invece la scomparsa degli interventi che Giovanni Battista portò a termine dal 1789 al 1794 nella villa Prini di Pontasserchio: lo “sfondo della scala” e “del salotto”, la “pittura di uno sfondino, e 4 statue nell’ingresso, con due ovati, e due quadretti nella sala”; e poi un ulteriore“sfondo” raffigurante “il tempo, e altri putti”

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. Si trattò come si vede d’interventi assai articolati e si rimpiange di doverli sapere distrutti assieme alla villa che li conteneva. Eppure la notizia di quegli affreschi è importante non solo per la testimonianza di una decorazione di cui altrimenti non si avrebbe traccia, ma anche perché nelle carte d’archivio è pure rintracciabile un elenco dei collaboratori di cui il Nostro si valse per eseguirli, che getta qualche luce ulteriore sulla struttura della sua bottega. Perché se dei suoi tre collaboratori in villa - Giuseppe Soldaini, Francesco Attanasio, Nicola Matraini

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- solo il primo, come sappiamo, fu suo allievo diretto (mentre gli altri due seguirono strade affatto autonome e occasionalmente vicine), se ne deve concludere che Giovanni Battista, specie quando dopo la morte del Preisler aveva di fatto rinunciato a dirigere un’Accademia, aveva probabilmente allentato il confine della bottega, con una decisione che lo costrinse talvolta a fare ricorso anche a collaboratori estranei al suo proprio atelier. Mancava il ricambio dei giovani studenti, o probabilmente, non più giovane e ormai disilluso, più non ne volle

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.

La conferma di come tra anni Ottanta e Novanta la struttura delle collaborazioni dell’artista stesse cambiando, è dimostrata dai risultati di un recente restauro che ha consentito di restituire con sicurezza all’ambito tempestiano un ciclo di pitture da sempre inverosimilmente situate agli inizi del Settecento. Si tratta della decorazione dello scalone del convento di S. Silvestro a Pisa, che un approssimativo regesto delle fonti d’archivio aveva attribuito al quadraturista Bartolomeo Busoni

                                                                                                               

5 Su tutto questo v. AFP 132 R, c. 286, 30.12.1790 (ma i pagamenti iniziano dal 23.6.1789); 204 R, 12.12.1794.

Secondo la testimonianza del Benvenuti, nei due ovati Tempesti aveva dipinto Diana e Endimione (CIAMPOLINI 1993, p. 168).

6 Francesco Attanasio è attestato dal 1774 (quando viene pagato da Angelo Roncioni “per averli dipinto una stanza”), al 1794 (quando assieme a Vincenzo Piattelli dipinge il Caffeaus di villa Prini), v. ASP, Roncioni (135) 369, 13.5.1774;

AFP 204 R, 12.12.1794 (da segnalare anche le decorazioni che eseguì nel 1786 nella soppressa chiesa di S. Felice: ASF, Compagnie Religiose Soppresse da Pietro Leopoldo 2771, aff. 793). Quanto a Matraini, solo a tratti è documentato a Pisa, circostanza che fa pensare ad una sua frequente assenza dalla città.

7 Come già ricordato, nel 1790 Tempesti vendette probabilmente la casa in via del Castelletto, dove aveva tenuto lo studio (NOFERI 2003, p. 262), per trasferirsi nella parrocchia di S. Nicola.

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(morto nel 1721), confondendola con le altre da questi realmente eseguite con Luca Bocci sulle pareti interne della chiesa conventuale, e ancora esistenti sebbene sotto uno strato d’intonaco

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. I restauri consentono invece di riconnettere in modo indubitabile le grandi grisaglie delle animate Virtù Teologali alla bottega di Giovanni Battista, e di identificarle in quelle racchiuse entro le ampie e ben concepite quadrature per le quali Pasquale Cioffo – abituale collaboratore del Nostro - venne pagato nel 1793 a conclusione di un vasto programma di decorazione dell’intero convento

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. Dal momento però che le carte d’archivio rammentano Giovanni Battista solo per lavori minori e affatto estranei a questi pur macroscopici, mentre ricordano con dovizia di riferimenti gli interventi pittorici di Giovanni Corucci

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, sarà a questi – il migliore degli allievi di Giovanni Battista, secondo il giudizio di Carlo Lasinio – che andranno assegnate le figure, che è facile immaginare come fondate su cartoni disegnati e concepiti dal caposcuola. Era insomma lo specchio di un riassestamento della bottega tempestiana che suggeriva da una parte la declinante vecchiezza di Giovanni Battista (specie nei faticosi interventi sui ponteggi), ma dall’altra anche il successo della sua bottega, sì che il rammentato ricorso a collaborazioni esterne si deve interpretare con la necessità di soddisfare impegni sempre più vasti, a fronte di un atelier ormai decimato dalle intraprese carriere individuali dei singoli allievi.

2- Ma nella biografia artistica del Tempesti tra anni Ottanta e Novanta il grande conviveva col piccolo, perché tutta quella produzione di dipinti parietali, spesso affidati al soccorso della bottega,

                                                                                                               

8 Gli affreschi del Bocci e del Busoni si devono datare al 1707 circa (FANUCCI LOVITCH 1995, pp. 275-76).

Consistettero in un grande fregio dipinto sotto la copertura e dietro l’altar maggiore (TITI 1751, p. 173), o meglio in

“ornati a fresco consistenti in putti, in arabeschi, in frutta, ed in fiori” (DA MORRONA 1793, vol. III, p. 196), per un totale di “braccia settecento quaranta otto di pittura fatta a frescho” (ACP, Misc. Zucchelli C87, c. 37; v. anche BURRESI 2011, p. 41). L’erronea attribuzione si fondava sull’indebita estensione di questi interventi anche allo scalone (FABBRINI 1970).

9 I lavori di trasformazione del convento iniziarono nell’inverno del 1788 sotto la direzione di Giovanni Andreini (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1763), e i lavori di pittura poterono dirsi conclusi nel 1791 (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1804, aff. 1). Quasi tutti i pagamenti per gli affreschi (oggi non più esistenti, ad eccezione di quelle dello scalone), fanno riferimento alla bottega del Cioffo.

10 Giovanni Corucci, allievo appunto di Tempesti (ma anche di Lussorio Bracci Cambini), venne ripetutamente pagato per lavori di pittura nel convento dal luglio del 1790 all’ottobre del 1793 (ASP, Corporazioni Religiose Soppresse 1763). In genere i compensi non sono di altissima entità, il che conferma la sua identità gregaria nei confronti del maestro.

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necessitava di repertori sicuri e pronti all’uso, per le mani non sempre docili degli allievi, ma anche per proporre soluzioni alla committenza.

In questa prospettiva, quella dell’attenzione rivolta alla costituzione di un patrimonio d’immagini utili anche alla bottega per affrontare autonomamente un’impresa pittorica, trova allora una più giusta collocazione quel gruppo di telette ampiamente note, che tra il 1797 e il 1799, furono dal Tempesti donate al suo medico, il pesciatino Luigi Gherardi, chirurgo presso lo Spedale di S.

Chiara. Si tratta di almeno ventinove tele raffiguranti volti d’invenzione e teste di carattere, di quelle insomma di cui erano piene gli studi dei più importanti pittori, non dipinte per una committenza diretta ed individuabile, ma tenute lì, tra i banchi della bottega e sottoposte al tirocinio grafico degli allievi, probabilmente utilizzate come fonte d’ispirazione per tele più vaste e complicate, come repertorio d’immagini e di formule compositive, per esercitare la fantasia creatrice e, magari, per essere mostrate a qualche cliente nella fase preliminare di un’articolata committenza che abbisognava di volti scorciati e variati. Cose ad esempio sul tipo delle numerosissime realizzate dal veronese Pietro Rotari (e a Verona lavorò il Cioffo …, e a Pisa vi ristette a lungo l’architetto veronese Ignazio Pellegrini …), che non non per caratteri stilistici e caratura qualitativa, per le posture ricordano davvero le teste del Nostro. Come è stato notato, lo spettro stilistico delle telette tempestiane è assai ampio, al punto da rendere ben possibile una loro calettatura in un ventaglio cronologico piuttosto esteso, come consiglierebbero quelle figure di più accostante riferimento batoniano e corviano (L’autunno, Volto al lume di candela) e al Costanzi (Testa di moro), rinsaldate da un pari orientamento verso le cose di Benedetto Luti (Fanciulla con cane), di cui sono note le sperimentazioni e gli approfondimenti sul terreno dello studio dei volti

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. Altri numeri del gruppo di tele sono invece il frutto di mode e sensibilità occasionali per non dire corrive (i volti vestiti alla turca, ad esempio), o di semplice e paziente sensibilità cronachistica, come nel caso delle fanciulle alle prese con gli animali. Quanto bastava, nella ricca estensione delle posture e dei soggetti, a farne un repertorio che diventava immediatamente risorsa di bottega, e per                                                                                                                

11 Sulla collezione di tele v. Tra Ottocento e Novecento 1989; CIARDI 1990 c, p. 120; Da Cosimo III 1990, scheda di R. P. Ciardi, pp. 73-8. Gherardi morì nel 1806; alla sua morte la collezione passò alla marchesa Bianca Gondi Bonci- Casuccini, eppoi, per via testamentaria, ai Simoneschi. Nel palazzo della famiglia (già Mecherini) nell’attuale Corso Italia fu visitata dal Bellini Pietri, che attestò come in una sala del palazzo fosse per l’appunto “conservata una numerosa raccolta di quadri e bozzetti di G. B. Tempesti” (BELLINI PIETRI 1913, p. 248). Alla morte di Ottavio Simoneschi (1960), i quadri – assieme a gran parte del resto della sua collezione, costituita da mobili, oggetti di arredo e quadri di autori diversi -, furono custoditi nel palazzo Reale di Pisa. Nel 2006 l’intera collezione fu acquistata dalla Fondazione Pisa, che attualmente la espone presso la sede di palazzo Blu (figg. 13, 29, 51, 63-66, 112, 193, 203).

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questo usato nelle sperimentazioni e negli studi d’atelier, nelle lezioni nella domestica accademia sperimentata in casa del barone Preisler (fig. 29, 51, 63-66).

Luigi Gherardi, nominato chirurgo nell’ottobre del 1778 in sostituzione del Commissario di S.

Chiara, Antonio Quarantotti, posto a riposo dal Sovrano

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, entrò subito in contatto con l’ambiente degli artisti e con l’entourage di Giovanni Battista, se è vero che il medico fu colui che nel 1783 tentò inutilmente di salvare la vita a Mattia Tarocchi, “celebre pittore di Prospettiva, e di Architettura”

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. L’interesse per le curiosità fisiologiche faceva velo probabilmente ad una predisposizione scientifica orientata verso la ricerca, o almeno la classificazione, delle patologie, e bene se ne accorse Pietro Leopoldo che nel 1784, in visita allo Spedale, compensò il medico col dono di 48 zecchini in segno di soddisfazione per aver ben apprezzato le “varie rarità relative alla di lui professione” che il Gherardi gli aveva mostrato

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.

Che questi interessi scientifici (o almeno parascientifici) non fossero casuali, rivelando semmai un’attenzione che sarebbe certo eccessivo definire come collezionistica, ma almeno esorbitante lo stretto interesse professionale, lo dimostra il fatto che pochi anni dopo, nel 1789, il settore anatomico Venanzio Nisi lasciò per testamento al Gherardi “l’armomentario chirurgico, che sono tutto gl’istrumenti contenuti in un armadio con vetri”, ma anche “la spada con coccia d’argento di maggior peso dell’altre; la zuccheriera d’argento senza coperchio […]; uno dei due cucchiarini per il zucchero; libri, le Memorie dell’Accademia Reale di Parigi … recate in italiana favella”, le Osservazioni anatomiche di Frederik Ruysch

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. Circostanza, questa del lascito testamentario, che fu importante non solo in sé, ma anche perché tradiva una dimestichezza tra i due che non fu solo fisica, limitata ai tavoli di marmo delle stanze anatomiche, ma anche emotiva, governata insomma da stima reciproca e da amicizia.

Il Nisi fu collezionista d’arte e pare e impossibile che tra lui e il Gherardi la vicenda non avesse avuto un ruolo, di confronto e discussione; e se poi quel Francesco di Carlo Tempesti, con cui Nisi                                                                                                                

12 “Gazzetta Toscana” n. 41, 1778, p. 161. Il Gherardi veniva definito pistoiese, ma abitante a Pisa. La sua nomina fu avallata da Alberto Abati, Maestro di Chirurgia presso lo Spedale.

13 “Gazzetta Toscana” n. 11, 1783, p. 44. Il medico, sezionando il cadavere, con grande stupore “ritrovò nella vescica oltre gran quantità di materie una grossa pietra di figura ovale del peso di venti once (…). Il nominato Direttore [il Gherardi], e quelli che l’hanno veduta sono restati con molta meraviglia e sorpresa non solo per la straordinaria mole di questo corpo estraneo, quanto ancora per non aver mai preso sospetto di esso durante la malattia”.

14 “Gazzetta Toscana” n. 8, 1784, p. 32.

15 MORELLI TIMPANARO 2004 a, pp. 134-35 (cui spetta il merito di aver chiarito i rapporti tra Nisi e Gherardi).

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ebbe intensi e prolungati rapporti, fosse identificabile nel nipote di Giovanni Battista

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, la vicenda si arricchirebbe di aspetti assolutamente decisivi, in quanto segnerebbe l’esistenza di un legame tra persone che spiega molto del dono dei dipinti al Gherardi.

Gherardi a Pisa si era sposato con Angiola Pieraccini, che non era un personaggio da poco, perché facente parte dell’omonima importante famiglia di stampatori pisani, per i quali il medico pubblicò addirittura varie opere, manifestando un’inclinazione scientifica e letteraria non proprio liminare

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. Fu possessore di una biblioteca di un qualche merito che è da ricostruire nella fisionomia, ma che sappiamo essere stata l’espressione di una consapevole volontà collezionistica, dal momento che i pochi volumi che ne facevano parte che ci è stato possibile rintracciare nelle biblioteche pisane, sono contrassegnati non solo da semplici note di possesso, ma da un ex-libris, rivelavando l’autocoscienza culturale del possessore. Si trattava del resto di volumi della tradizione cattolica e gesuitica (come Theopile Raynaud), ma anche dei Pensées philosophiques di Diderot, ad ulteriore testimonianza di una personalità fortemente chiaroscurata e antidogmatica, di cui ci piacerebbe sapere di più

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.

Per un individuo di questo calibro pare comunque evidente che il dono delle tele del Tempesti non fu un accidente o una casuale necessità dettata dall’esigenza di allungare la vita all’illustre paziente;

ma dovettero rispecchiare una deliberata volontà del Gherardi di circondarsi di oggetti significativi e rari, capaci di alimentare i propri vezzi culturali e d’integrarne le curiosità scientifiche. In questo senso, il bel Cristo morto sorretto dagli angeli (fig. 149) non venne certo valutato dal Gherardi solo da punto di vista strettamente figurativo, perché quel corpo steso ed esanime, con i piedi in evidenza ad accogliere lo spettatore, non poteva non ricordare al Gherardi i cadaveri stesi sui tavoli anatomici da lui stesso sezionati nelle aule universitarie

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. Allo stesso modo, le numerose teste furono certo il modo ingentilito e grazioso, artistico, di rendere flagrante e diretto il variar delle teste che si                                                                                                                

16 MORELLI TIMPANARO 2004 a, passim. La sua collezione comprendeva quadri di pittori locali come Pietro Ciafferi e di artisti fiorentini come Alessandro Allori.

17 MORELLI TIMPANARO 2004 a, pp. 134-35 n. In quello stesso 1783 della morte del Tarocchi egli ad esempio per Pieraccini pubblicò l’Istoria di un caso assai particolare accaduto in natura, osservato nell’Ospedale di Pisa, che trattava della sezione di un bambino mostruoso nato morto. Nel 1791 pubblicò invece una Lettera … al Sig. Dottore Gio. Geremè Santerelli di Forlì, con cui Gherardi accompagnava un discorso pronunciato da Francesco Vaccà Berlinghieri.

18 Il De ortu infantium contra naturam, per sectionem cesarea, tractatio di Raynaud (Lugduni 1637) è conservato nelle Biblioteca Cathariniana di Pisa (coll. A/M07/031); i Pensées philosophiques di Diderot (La Haye 1700), sono invece conservati nella Biblioteca Universitaria (coll. B H 4.41).

19 Il dipinto, facente parte di quella collezione di ventinove tele di Giovanni Battista già posseduta da Ottavio Simoneschi, è ora esposta a palazzo Blu.

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accompagnava alle espressioni; la mutevolezza dei gesti e dei corpi; l’inesauribile disciplina della macchina corporea dell’uomo, per ben illustrare come l’umore cangiante e mobile passasse attraverso le rubriche fisiognomiche e le posture.

Un modo insomma per sospettare come quelle tele, pur senza volerne amplificare l’importanza, rispecchiassero a loro modo lo spirito del tempo.

3- L’impegno nella vasta scala dell’affresco, così come della sperimentazione grafica o nella minuta teletta repertoriale, si precisava nel Tempesti anche in una speculare attenzione al segno calcografico, al disegno concepito per il libro o la stampa d’occasione: che fu un altro modo per vedersi riconosciuto il talento dal contesto socio-culturale che lo circondava, secondo un orientamento professionale che, com’è noto, fu ampiamente diffuso nella Toscana (e non solo) settecentesca

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. E che fu, questa risorsa grafica, l’espressione ulteriore di quell’attitudine ben approfondita a Roma e che, per quanto ne racconta la leggenda dell’artista, gli aveva fatto conquistare anche l’esplicito apprezzamento di Mengs

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.

Nel 1788 vedeva la luce a Pisa una Raccolta di XIV vedute della città di Pisa, con disegni in gran parte degli allievi del Tempesti (Saverio Salvioni, Antonio Niccolini e anche del Da Morrona) tradotti dal lucchese Ferdinando Fambrini (che già aveva collaborato all’edizione lucchese dell’Enciclopedia), dove Giovanni Battista dette un contributo diretto disegnando una Veduta di Piazza dei Cavalieri

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(fig. 159), che fu il suo primo – e probabilmente unico –tentativo di proporsi come artista di vedute urbane. Può darsi che si sia trattata di una semplice vacanza dai canali consueti, la risposta ad una esigenza di sperimentazione fine a se stessa. Ma c’è un elemento che c’induce a qualche riflessione supplementare. Nel 1793 è infatti attestato un intenso rapporto artistico tra Tempesti e Carlo Conti, membro di quella famiglia lucchese che possedeva nella propria collezione – tra le molte cose – le Vedute di Lucca di Bernardo Bellotto

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. Approfondire i nessi e i tempi del rapporto è tuttora difficile, ma ci pare certo che quella “sesta Opera eseguita per […] commissione” del Conti dal Tempesti nel detto anno, riveli una familiarità tra i due che doveva                                                                                                                

20 Tra tutti basti citare il caso di Giuseppe Zocchi, pittore di successo ma anche assai impegnato nella calcografia (su questo v. TOSI 1997).

21 “Fu questa l’occasione in cui Egli inventò il modo semplice di granire le ombre senza sfumatura. Fu allora che il Cavalier Mengs celebrollo con elogi per tutta Roma”: GRASSINI 1838, p. 80 n.

22 TONGIORGI TOMASI – TOSI 1990, pp. 318-19.

23 Sul collezionismo dei Conti a Lucca v. almeno l’ormai classico HASKELL 1966, pp. 350-54.

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essere ben precedente quell’ultima commissione, tanto più che il Conti aveva in grande “stima” il

“Professore”

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. Siamo nel campo delle congetture, certo, ma non possiamo sottrarci all’ipotesi che quella così eccentrica prova tempestiana si giustificasse anche grazie alla suggestione dai vedutisti veneti.

Ovviamente per un pittore che aveva mantenuto una sua esemplare coerenza di toni e di contenuti, pur tra approfondimenti e digressioni, non era certo pensabile un cambiamento radicale, che in lui le correzioni di rotta erano sempre il frutto di una lenta meditazione.

Sotto il velo di una sostanziale fedeltà alla sua lingua più consolidata, verso gli anni Novanta il compasso delle sperimentazioni tempestiane si arricchì infatti di nuove proposte.

All’inizio degli anni Novanta l’artista tornò in quel palazzo Arcivescovile che lo aveva visto assai impegnato negli anni precedenti, per concludere due sfondati nel “quartiere nuovo” dell’edificio, sempre su incarico del Franceschi. Vi dipinse due fondi raffiguranti il Buon Pastore e il Sogno di Giacobbe

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(figg. 180), con l’evidente collaborazione degli allievi (probabilmente del Corucci e dello Stella), ma dove i risultati furono ugualmente interessanti perché segnarono appunto una ulteriore correzione di strada da parte del pittore. Le due scene infatti furono condotte con una discorsività e con un gusto per il racconto che furono più volte sperimentati dall’artista nel suo ultimo periodo, forse perché più consistente si faceva appunto la collaborazione degli allievi, specie nelle fisicamente impegnative imprese sui ponteggi, anche se soprattutto la seconda scena – che non sembra così distante da quella analoga dipinta dal Tiepolo nel palazzo Arcivescovile di Udine -, rende possibile l’ipotesi di un aggiornamento del Nostro anche su fonti venete, affrontato a queste date col sussidio calcografico.

Certo, qui Tempesti mantenne una sostenutezza di toni comunque assai marcata, ma non è improprio ipotizzare come quell’attenzione al dettaglio narrativo, spogliato ancora dai garbi e con                                                                                                                

24 Sulla vicenda dei sei quadri dipinti dal Tempesti per Carlo Conti (assai impegnato come è noto nelle cose artistiche, segnatamente in quelle relative all’insegnamento delle arti, argomento che come sappiamo fu caro al Nostro), fino a ora affatto trascurata dalla critica: “Nello scorso foglio in data di Pisa ove parlasi di un Quadro dipinto dal Sig. Giovanni Tempesti Pisano, fu detto essere stato eseguito per commissione del Nobile Sig. Nobili di Lucca, e doveva dirsi, del Nobil' Uomo Sig. Carlo Conti di Lucca, che amantissimo delle Belle Arti sempre più dimostra la stima che ha di quel Professore, essendo questa la sesta Opera eseguita per sua commissione” (“Gazzetta Toscana” n. 15, 1793, p. 60).

25 AAP, Mensa, E/U 65, c. 332, 15.12.1792: si paga Tempesti “per aver dipinto a buon fresco nelle stanze del quartier nuovo a Levante” del palazzo arcivescovile. Dolfi (2000, p. 117) ha messo in relazione la documentazione d’archivio con gli affreschi esistenti in due distinte stanze del palazzo poste a levante, destinate a salotto e a camera invernale dell’Arcivescovo, raffiguranti i due menzionati soggetti.

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una patina assai coinvolgente, fosse alla base di opere concluse in anni non troppo distanti, sebbene poi presto archiviate, che se non conoscessimo come tempestiane grazie ai documenti faticheremmo non poco ad inserire nel suo catalogo. Intendiamo riferirci alle due tele ovali che Tempesti spedì da Pisa allo scopo di arricchire l’interno della chiesa di S. Martino di Pietrasanta, raffiguranti fatti miracolosi relativi alla vicenda religiosa della cittadina: Il Voto della città per la preservazione della peste del 1629-31; L’oltraggio recato ad un’immagine sacra da un giocatore di dadi

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(figg.

194).

Assegnati di volta in volta al 1786 e – col conforto sembra dei documenti – al 1797

27

, i due episodi sono tuttora di problematica datazione, in quanto le ragioni dello stile mal si accordano alle cose conosciute del pittore. Le due tele appaiono davvero come altrettanti ex-voto di dimensioni maiuscole, con un’attenzione per un fare rustico e domestico, un macchiettismo cavato da qualche retropalco della pittura di genere, che sembrerebbe accordarle effettivamente alle cose del pittore degli anni Ottanta

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. Si tratta insomma di temi svolti con un’intenzione che sfiorava il bozzetto d’occasione, e gli episodi concepiti come sotto la sorvegliata presenza dell’icona della miracolosa Madonna del Sole, che non potevano non ricordare l’analoga soluzione svolta dal Tempesti nell’affresco di S. Ranieri già in S. Vito.

Si fa certo fatica ad inserire questa coppia in una striscia temporale assestata sul 1797 (pur calcolando l’intervento degli allievi, particolarmente evidente nel pur vivace Oltraggio

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), e solo il Voto sembrerebbe conformarvisi, specie nel dettaglio di quel corpo trasportato che ricordava altre prove affrontate in gioventù dall’artista, ma cancora legato ai precordi del Corvi, che per intensità e disciplina accademica non è neppure così lontano dai due ultimi affreschi dipinti nel palazzo Arcivescovile.

                                                                                                               

26 Attualmente si trovano in controfacciata, sopra le porte laterali, ma in origine sembra fossero state collocate sopra i due ingressi che danno “alla crociata” (ORLANDI 1968, p. 106).

27 La datazione al 1786 è in FROSINI 1981, p. 159; CIARDI 1990 c, p. 146 n. La data del 1797 è invece sostenuta da ORLANDI (1968, pp. 106, 119-20 n.), poi ripresa anche da CONTINI (1995, p. 83). L’unico ad aver sostenuto la datazione con l’avallo dei documenti è l’Orlandi, ma nelle sue note non è chiaro se questa sia stata il frutto di una trascrizione o di una interpretazione. Nel sopralluogo effettuato dallo scrivente presso l’Archivio della chiesa allo scopo di verificare le fonti, non si è potuto far altro che constatare l’irreperibilità delle carte citate dall’Orlandi. L’Archivio manca del resto di un inventario scientifico e pure di un archivista.

28 CIARDI 1995, pp. 87-8.

29 Già Frosini (1981, p. 156) aveva notato come l’Oltraggio risultasse eccentrico rispetto alle cose conosciute del pittore (v. anche CONTINI 1995, p. 83, che leggeva questa scena come la più “saporita” delle due).

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Erano insomma cose che rivelavano un interesse per le minuzie del racconto, un’interpunzione a tratti felice sui particolari delle scene, che come è stato ben detto sembravano riallacciarsi alla pittura seicentesca

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, ma alimentata anche da altri e diversi riferimenti, specie letterari: a quella sorta di volterrismo a passo ridotto irriverente e anticonvenzionale che a Pisa segnò profondamente le attività novellistiche di Domenico Luigi Batacchi (Arcade, tra l’altro) e di Lorenzo Pignotti, la cui inclinazione bernesca e comica sembra prestarsi a far da sfondo alle due scene

31

.

Purtuttavia la committenza versiliese costituì il segnale di una emancipazione del Tempesti dal suo ruolo pisano, che in quegli anni (qualunque sia la datazione delle tele di Pietrasanta) beneficiò di almeno un’altra importante occasione. All’inizio degli anni Novanta Tempesti sanzionò quella notorietà che stava ormai con frequenza superando i confini di Pisa, con una delle sue tele più vaste, dove la raffigurazione di un evento religioso diventava tramite per la celebrazione di un’intera collettività, e l’espressione della religiosità popolare finiva col funzionare come espediente narrativo per descrivere la fondazione di una identità cittadina e di una coscienza cristiana.

Come accennato altrove, quando nel 1791 Ferdinando III in qualità di nuovo sovrano fece visita a Pisa per testimoniare “l’amore per le scienze e le belle arti”, oltre allo Studio passò in rassegna anche la scuola del Tempesti, dove il Granduca “si compiacque di osservare un Quadro in grande rappresentante la liberazione dell’antica Pontremoli dal contagio della peste; opera commessa dall’antica famiglia Caimi” e destinata alla Cattedrale di Pontremoli, eretta nel 1787 a sede diocesana

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. Il grande dipinto (fig. 179), raffigurante per esattezza il Ringraziamento del Consiglio della comunità per la scampata peste che afflisse Pontremoli nel 1622 per intercessione della Vergine del Popolo, venne concepito per occupare uno spazio significativo all’interno di un programma di riscrittura degli spazi e degli arredi interni della chiesa che coinvolse artisti di primissimo piano, a conferma della statura extraprovinciale che ormai Tempesti stava assumendo.

A fianco tra gli altri del Bottani, Cades, Cavallucci e Ferretti, Giovanni Battista fu visto come artista degno di stare alla pari con alcuni tra i più significativi pittori toscani e romani (di nascita o di educazione) dell’epoca; e il risultato fu così soddisfacente che l’artista venne addirittura ricompensato con una somma maggiore del pattuito

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, ed i Caimi – che quell’opera finanziarono -                                                                                                                

30 Per una indicazione volta a vedere in questi lavori tempestiani un orientamento neoseicentesco cfr. CIARDI 1990 c, p. 146 n.

31 Sul Batacchi cfr. TRIBOLATI 1883; AMATURO 1970. Sul Pignotti, PAOLINI 1816.

32 “Gazzetta Universale”, n. 97, 3.12.1791, p. 216.

33 Secondo l’allievo Benvenuti, Tempesti per questa tela “ebbe un più del fissato” (CIAMPOLINI 1993, p. 167). Per Giuli (1841, p. 488), “Il duomo di Pontremoli ha un gran quadro a olio il di cui tema è lo scioglimento d'un voto fatto da

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conservarono volentieri il bozzetto dell’opera e un fascicolo di suoi disegni, probabilmente gli antecedenti grafici del lavoro finale

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.

La tela, destinata a trovare il suo posto nel braccio sinistro del transetto del Duomo solo nell’autunno del 1792, fu in effetti un dono degli abbienti fratelli Stefano e Giuseppe Caimi a quella Cattedrale in cui quest’ultimo rivestiva la carica di Operaio. Si trattò, così l’atto notarile di donazione, di un’opera espressamente richiesta al Tempesti in quanto “celebre” pittore “della città di Pisa”

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, circostanza che dice molto per l’appunto su come il Nostro avesse raggiunto una fama compiaciuta e unanime.

La tela sfrutta in parte moduli e soluzioni compositive già affrontate dal pittore: il gesto largo e cadenzato della Vergine che rammenta quello della Madonna del Rosario di S. Caterina;

l’Officiante assai prossimo all’ Eugenio III della Cattedrale pisana, mentre il gruppo a sinistra è                                                                                                                

quei cittadini a Maria Santissima per essere stati salvati dalla peste che desolò nel 1630 la maggior parte del granducato di Toscana, lavoro di gran studio per le molte persone dall'artefice introdottevi, e si distingue anche per il bel colorito, e pastosità delle carni delle figure. I Pontremolesi furon tanto contenti dell'esecuzione di questo quadro, che oltre il prezzo convenuto li diedero un vistoso regalo in contanti”.

34 Il bozzetto, di collezione privata ed esposto in almeno due occasioni a Pontremoli (l’ultima nel 1968), è oramai da anni privo di una storia, ed è scomparso dall’orizzonte degli studi storico-critici. Anche recenti accertamenti sui dipinti della Cattedrale di Pontremoli non ne hanno fatto più menzione (ANGELLA 1999, p. 252). Per le volte in cui è stato esposto v. I Mostra 1939, p. 19; FROSINI 1981, p. 160. Quanto invece ai disegni, vennero citati per l’ultima volta in un inventario di 1810 della biblioteca Caimi. Erano raccolti in un volume che recava l’invitante titolo di Tempesti. Esercizi, che fa nascere molti rimpianti sulla sua scomparsa (ANGELLA 1999, p. 252 e n.).

35 SASP , Notarile 828, Notaio Maurizio Caimi, c. 169 v, 12.9.1792: “Donazione dell’Opera del Duomo dalli ss.ri Giuseppe e Stefano fratelli Caimi”. Avendo essi “fatto dipingere dal celebre sig. Gio. Batt.a Tempesti della città di Pisa un quadro rappresentante la Liberazione di questo territorio dalla peste per intercessione della B. Vergine detta del Popolo per cui da questo pubblico viene solennizzata la festa del dì due di luglio, ed essendosi determinati d.i fra.lli Caimi di donare l’uso di detto quadro all’Opera della Cattedrale di questa città con gl’inf.ti patti, e condizioni però, e non altrimenti”, dichiarano di donare all’Opera del Duomo l’uso del quadro “con che però sia sempre rissavuta (sic) la proprietà del med.o a d.i fratelli Caimi, né i loro eredi in alcun tempo possino privare d.a Opera dell’uso, e detentione di d.o quadro, se non per cause giustissime e che non possa variarsi al d.o quadro il luogo, ove presentemente resta collocato senza il consenso di d.i SS.i Caimi, o loro eredi, ed inoltre che sotto al d.o quadro venghi collocata la lapide di marmo già stata commessa in Carrara dai d.i SS.i Fratelli Caimi, esprimente d’essere stato fatto fare da essi d.o quadro

…”. Giuseppe Caimi era stato eletto Operaio del Duomo il 25.9.1788, e molto si preoccupò d’incrementare la dotazione artistica del tempio e di ripristinarne le parti bisognose di restauri: SASP, Comune di Pontremoli. Consigli Generali 35, cc. 170-71, 4.3.1793; c. 228, 3.6.1793, (Giuseppe Caimi Operaio del Duomo, dove chiede che venga restaurata la cupola del duomo).

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memore dei diaconi cerofori dipinti dal Torelli nel Miracolo di S. Ranieri nel monastero di S. Vito, nel segno probabilmente non di una senile pigrizia creativa, ma della necessità di sfruttare al meglio strategie compositive collaudate, per comporre un’opera che si adattasse per compostezza e gravità alle ragioni della committenza. Infatti è stato notato come “la fattura […] pregevole” della tela si concretizzasse soprattutto nel riuscito tentativo di coinvolgere “lo spettatore al dramma attraverso alcune persone rivolte verso chi guarda”, valutato come misura della “consapevolezza della commemorazione di un evento importante”

36

. Il semicerchio della folla che si spezza davanti al fedele, come a lasciargli posto e ad invitarlo ad assistere al miracolo, sottolineavano pur nell’epoca appena terminata con la partenza di Pietro Leopoldo e la sconfitta di Scipione de’ Ricci, l’idea di una religiosità che si nutriva di fatti miracolosi misurabili e quasi compulsabili dal fedele, la necessità di una fede mutuata dall’esperienza, che sembrava concepita apposta per essere calata in una realtà come quella pontremolese

37

. La madre che allatta i propri figli è allora posta lì sulla destra, con vicino il pastore che s’inginocchia in primo piano (come nella Natività) e il diacono che fa l’elemosina, mentre sullo sfondo i maggiorenti della città, con tanto di gonfalone, s’inginocchiano riconoscenti

38

. E’ un miracolo che si riflette nelle cose concrete e negli esercizi di carità e di umiltà, a descrivere il paradosso di una fede muratoriana e piena di suggestioni illuministe.

4- La solenne sostenutezza della tela di Pontremoli costituì il preambolo – non compositivo, ma espressivo – della definizione di una nuova prova, che l’artista affrontò a partire dal 1793 nell’ultima grande commissione che ottenne nella Cattedrale pisana: l’Istituzione dell’Eucarestia

39

(fig. 185).

Il dipinto, situato nei pressi della cosiddetta sacrestia dei Cappellani, a fianco del presbiterio e nei pressi dell’altar maggiore, come accusato dal titolo fu concepito come indifferente alla celebrazione                                                                                                                

36 BOSSAGLIA-BIANCHI-BERTOCCHI 1997, pp. 167-68 (v. anche BOLOGNA 1898, p. 41).

37 Non fu probabilmente un caso che Pietro Leopoldo solo pochi anni prima il coinvolgimento del Tempesti, nel 1788 per la precisione, avesse tentato di far nominare Antonino Baldovinetti a capo della costituenda diocesi apuana (ROSA 1963).

38 C’è da chiedersi se la materia densa e scura di questa tela di Pontremoli non consenta di accostargli la teletta raffigurante una Fanciulla che pensa, passata sul mercato antiquario, sicuramente ascrivibile al Tempesti, ma senza alcuna storia specifica: Dipinti antichi 1998, p. 40, lotto 91 (fig. 196).

39 Il merito di aver restituito al dipinto il suo titolo autentico – dunque di averne riconosciuto il soggetto esatto -, spetta a Ciardi, che lo ha indicato ne l’Istituzione dell’Eucarestia, o ancor meglio, nel Cristo che impartisce la comunione agli apostoli: CIARDI 1990 c, pp. 140-41.

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dei santi pisani e dunque separato dal ciclo dei parati e infatti, caso unico tra le pitture settecentesche del Duomo, venne realizzato non in tela, ma ad affresco

40

. L’iniziativa, anche economica, ricadde per intero sulle spalle di Camillo Borghi

41

, che in questo modo volle celebrare nel migliore dei modi la sua elezione a Operaio del Duomo avvenuta in quello stesso anno, fino ad intessere un sodalizio col pittore che lo condusse col suo consiglio a concepire la trasformazione del Camposanto in luogo monumentale in senso proprio, attraverso il trasferimento di opere scultoree altrimenti ormai senza casa

42

.

Quello dell’Eucarestia fu lavoro di grande impegno. Innanzi tutto sotto il profilo religioso. La scelta del soggetto, in quel punto capitale della chiesa a fianco dell’officiante e in una posizione che rendeva il dipinto ben visibile dai fedeli, non fu certo casuale. In quella posizione sarebbe infatti stato più logico dipingervi un episodio che avesse fatto da controcanto alla Nascita della Vergine di Corrado Giaquinto, posta nei pressi, giusto per sottolineare l’intitolazione della Cattedrale alla Beata Vergine. L’insolita scelta della Comunione degli Apostoli probabilmente trovò una motivazione profonda nel riecheggiare un punto dibattuto della polemica antigiansenista, quello della riaffermazione della centralità sacramentale della Comunione, a fronte di chi invece in funzione antigesuitica ne sosteneva un uso parco e diradato, e di coloro che, come il teologo                                                                                                                

40 L’affresco presenta una vasta lacuna a sinistra, esistente da lungo tempo se è vero che venne denunciata già da Roberto Papini, che ne individuava le cause nell’umidità (PAPINI 1912, p. 107). E’ possibile giudicare l’affresco nella sua interezza grazie ad un foglio a matita e acquerello conservato nelle collezioni grafiche della Soprintendenza di Pisa, sostanzialmente identico al dipinto del Duomo, e per il grado di accuratezza da ritenersi una versione pressoché definitiva dello studio dell’opera: Da Cosimo III 1990, scheda A. Tongiorgi Tomasi - A. Tosi, pp. 107-8; TONGIORGI TOMASI - TOSI 1990, p. 308. Il foglio entrò a far parte delle collezioni nel 1907, mediante acquisto dell’allora Museo Civico (“Il Ponte di Pisa” n. 17, 28.4.1907) (fig. 185.1).

41 Il Borghi aveva chiesto il permesso di eseguire a proprie spese l’affresco con lettera del 19 gennaio 1793, diretta a Lussorio Bracci Cambini e Vincenzo Cosi Del Voglia, soprintendenti ai quadri del Duomo. La magistratura comunale dette risposta affermativa il giorno 30: “Riflettendo il Magistrato loro che trattandosi di un quadro separato dagl’altri, non sembra che possa fare implicanza veruna con quelli dipinti a olio, e che è troppo giusto che sia concesso a questo benemerito concittadino una memoria del suo sincero attaccamento alla Sua Patria …” (ASP, Comune D 171, cc. 121- 22, 30.1.1793).

42 “Ognuno sa che fino dal tempo dell’Operajo Cammillo Borghi per le premure del nominato Dottor Tempesti, e del distinto Pittore Gio. Batista di lui fratello furono tolti all’oblivione e alla polvere l’Ercole di marmo Numidico celebrato dal Cesalpino, e molti altri pezzi di scultura e di architettura, che nel 1793 furono collocati nel Campo-santo, ove sarebbero state anco restaurate le dipinte Pareti, e raccolti gli altri preziosi Monumenti, se il detto Borghi avesse goduto di più lunga vita o almeno di miglio salute”: “Nuovo Giornale de’ Letterati”, t. XXXV, 1837, p. 233.

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seicentesco giansenista Antoine Arnauld, avevano finito per revocarne le profonde motivazioni spirituali

43

.

Anche dal punto di vista strettamente formale l’affresco tendeva ad affermare una non secondaria verità relativa alla biografia artistica del Tempesti. L’affresco costituì uno dei punti più prossimi all’orbita francamente neoclassica dell’arte tempestiana

44

. Lo sviluppo orizzontale – ma non paratattico – della scena, come se si fosse trattato di una episodio tratto da un rilievo, rinforzano certo il senso di un episodio costruito per figure isolate, con sullo sfondo un tendaggio che traduceva in ambientazione storica, dunque veridica, quelli attuati in maniera identica e negli stessi anni e con le stesse soluzioni da Pasquale Cioffo e Antonio Niccolini nelle case pisane. Tuttavia la sintassi dell’affresco del Tempesti va probabilmente letta anche in altro modo, legata alla necessità di distinguersi dall’appena collocato dipinto del Cavallucci raffigurante la Vestizione di S. Bona, di cui volentieri si sottolineò come elemento positivo il virtuosistico intreccio dei personaggi, la moltitudine di figure attrici della vicenda, ma che si consolidarono in un labirinto di relazioni e di pose non sempre chiarissimo, che fece poi nascere addirittura dei dubbi sul reale significato della scena

45

.

La chiarezza espositiva come elemento determinante della committenza, per chi come il Borghi affidava all’affresco la funzione di bene introdurlo tra i maggiorenti pisani, e per giustificare il significato di un’operazione che, senza una forte motivazione religiosa, sarebbe stata vista come una esibizione di vanità. Circostanza del resto che probabilmente spiega anche il non pienamente risolto neoclassicismo della scena, con forti residui di quel classicismo romano non metodologico

46

, ravvisabili nella prossemica accalcata e variata, nei gesti pieni di grazie e di mutamenti, e soprattutto nel sostanziale policentrismo della scena, che, nonostante il Cristo, si disperde un poco in una compiaciuta variatio, nell’ammirata capacità del fraseggio. Cose alla Maratta insomma, o addirittura ancora alla Luti, specie nell’esatto calibro dei volti

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.

                                                                                                               

43 VERGA 1972.

44 CIARDI 1990 c, pp. 140-41. Lo studioso notava come ad esempio la figura di Giuda abbia una sigla talmente classica che non sarebbe dispiaciuta a Drouais, ma che nel complesso il dipinto stentava a calarsi in un linguaggio interamente neoclassico.

45 Sul dipinto cfr. almeno VINCI 1795; DE ROSSI 1796; Da Cosimo III 1990, pp. 124-25, scheda di C. M. Sicca. Sulle polemiche sorte intorno all’esatta identificazione del soggetto v. FEDELI 1917; ZUCCHELLI 1917.

46 Il Duomo di Pisa 1995, I, p. 463, scheda di A. Ambrosini (che ricorda come l’affresco sia stato concluso nel 1794).

47 La sopravvivenza di questo orientamento stilistico renderebbe allora giustizia a quanti, a partire da Baldassare Benvenuti, sostennero essere stato l’affresco concepito anche sulla base del disegno (purtroppo perduto) col quale

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Che questo orientamento tuttavia più incline al Neoclassicimo fosse stato affrontato dal Tempesti agli esordi degli anni Novanta, venne confermato da una circostanza affatto dimenticata, ma che invece pare degna di una nota. Nel 1793, negli anni della pubblicazione dell’affresco pisano, l’artista aveva infatti consegnato a quel Carlo Conti di Lucca cui già abbiamo fatto cenno, il sesto dei dipinti da questi commissionatigli e l’unico di cui ci è noto il soggetto, che venne descritto come raffigurante “Socrate Filosofo Ateniese nell’atto di bevere la cicuta nella sua prigionia”, dove nonostante “il tema, sterile per se stesso, poiché una prigione oscura, i molti discepoli, che immersi nell’afflizione stanno d’intorno al loro Maestro nel punto ch’ei si beve il veleno, non sono quegli oggetti brillanti dell’arte, capaci d’appagare gli sguardi, ed il gusto di chicchessia”, Giovanni Battista seppe “unire in tal’ Opera la verità, e l’arte con un mirabile accordo; le ben contrapposte mosse delle figure, la varietà degli abiti, e delle tinte i diversi ben’intesi partiti di pieghe formano agli occhi dei riguardanti una dilettevole armonia, senza togliere punto quella maestosa serietà che richiede il soggetto dell’Opera, e senza punto allontanarsi dall’Idea che ne porge la Storia; ed oltre a tutto ciò risalta stupendamente l’abilità dell’Artefice nelle diverse espressioni del dolore, della confusione, e dei vari affetti, prerogative che fanno distinguere i veri Pittori dalla folla degli abili soltanto nel disegno”

48

.

Dalla calibratissima prosa si ricavano indicazioni assai utili per la precisazione dei limiti del confronto del Tempesti con la pittura Neoclassica, che in qualche modo confermano l’assunto dichiarato nell’affresco della Cattedrale. Perché se il soggetto, di fatto una prova isolata nel catalogo del pittore, rientrava in un repertorio erudito affatto insolito nel Tempesti, le parole stesse del recensore, così piene di cautele, facevano emergere in maniera efficace le perplessità evidentemente espresse dal pittore nell’affrontare un tema che per laconicità narrativa mal si prestava ad essere risolto con quegli artifici propriamente pittorici cari a Giovanni Battista, e che furono sottoposti ad un vaglio critico, capace di farne emergere la varietas degli affetti, la fragile mutevolezza delle pose e dei volti. Come nell’Eucarestia, per l’appunto.

                                                                                                               

Tempesti nel 1758 vinse il premio Clementino: “Un grandissimo quadro a fresco dipinse nel 1793 per conto particolare dell'operaio cavaliere Quarantotto [sic] nella primaziale Pisana, in cui ripetè l'argomento dell' Istituzione del Santissimo Sacramento dell'Eucarestia, premiato già dall'accademia di san Luca, mentre nella sua gioventù trattenevasi in Roma

…”: GIULI 1841, p. 488 (v. anche CIAMPOLINI 1993, p. 167). Per una riconsiderazione generale del dipinto v. DA MORRONA 1816, p. 16; FROSINI 1981, p. 160; CIAMPOLINI 1993, p. 176 n.

48 “Gazzetta Toscana” n. 14, 1793, p. 56; Id., n. 15, 1793, p. 60.

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5- Questo cauto avvicinamento al linguaggio neoclassico – nel senso almeno di una sobria semplificazione narrativa che ben si allontanava dai pur controllati patetismi di tradizione primo- settecentesca - trovò ancora in quegli anni fondamentali conferme sul terreno della grafica

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, ma ebbe un riscontro perfino nell’insistito ritorno di Giovanni Battista ad un genere da lui ben poco frequentato: quello del ritratto. Genere pittorico che secondo il pittore –a stare almeno alle fonti – non avrebbe permesso all’artista di dimostrare quanto valeva, secondo un pregiudizio accademico assai noto

50

, come abbiamo visto venne affrontato da Giovanni Battista in maniera asistematica, pure dimostrando una evoluzione da modi prossimi a Domenico Tempesti alle forme più mature del classicismo romano. Intorno agli anni Novanta il pittore parve misurarsi volentieri con questo genere, a partire da quel Ritratto di prelato che compie l’elemosina passato in asta recentemente da Pandolfini (fig. 172), dove il soggetto – indecifrabile nella sua esatta definizione -, si giustifica nella controllata definizione del volto, di sostenuta e non ostentata compostezza

51

.

Ad una data appena contigua sarà da collocare il ben più solenne Ritratto di Ferdinando III (fig.

178) d’incerta datazione ma quasi certamente del 1792, dal momento che dalle carte d’archivio risulta che se ne era cominciato a pianificare la realizzazione dal luglio dell’anno precedente

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. Era stato commissionato dai Cavalieri di S. Stefano (da qui l’evidenza della bellissima veste marezzata                                                                                                                

49 Nel 1794 Tempesti concluse un disegno per una incisione di Filippo Calendi eseguita sotto la supervisione di Raffaello Morghen per il frontespizio della Mantissa insectorum di Pietro Rossi (fig. 188), dove l’artista ideò “l’Istoria Naturale a piè d’un Antico Marmo, ove scolpita vedesi la Dedica all’Immortal Ferdinando III, che pensosa stassi sedente sul suolo nell’atto di leggere un libro, ed un valente Genietto, che va in traccia d’insetti” (“Giornale de’

Letterati”, XCIX, 1795, pp. 179-80). Si trattava di un’opera di levigata classicità, dove quell’Istoria Naturale recumbente faceva sentire un’urgenza che svaporava nello struggimento per gli studi, un Canova messo di fronte ad un muro sbrecciato di Piranesi. L’incisione venne pubblicata in ROSSI 1794, t. II. Su di essa v. anche Da Cosimo III 1990, scheda Tongiorgi-Tosi, pp. 108-10; TONGIORGI TOMASI - TOSI 1990, p. 317.

50 “Sarebbe stato anche fisionomista, ed i suoi ritratti somigliantissimi, ma non si curava di farne dicendo che la parte della pittura, la più obbrobriosa, era questa” (CIAMPOLINI 1993, p. 167, B. Benvenuti, biografia del Tempesti). Sulla sfortuna del genere ritrattistico nell’Italia del secondo Settecento v. BARROERO 2011, p. 95.

51 Per il dipinto v. Pandolfini 2008, p. 143, lotto 917.

52 Nel luglio del 1791 l’Auditore di Governo rivolgeva al Vice-Cancelliere dell’Ordine Giacinto Viviani una lettera ufficiale, in cui si rallegrava della decisione presa dal Consiglio di “porre nella sala delle sue adunanze il Ritratto del nostro nuovo Real Sovrano, per il quale son persuaso che ci possa essere costà qualche abile ritrattista per eseguirlo decorosamente. E nel caso che non ci fossi soggetto di soddisfazione del d.o Consiglio farò delle diligenze qua per proporli quello, o quelli che abbino il maggior credito” (ASP, Ordine S. Stefano 1882, c. 140). Difficilmente la tela sarà stata dipinta nei mesi immediatamente successivi, e dunque pare ragionevole proporne una datazione al 1792.

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con la croce stefaniana), e dunque posto nella sala del Tribunale dell’Ordine nell’edificio del Francavilla sulla piazza dei Cavalieri, a completare la serie dei Gran Maestri dell’Ordine, tra Medicei e Lorenesi

53

.

Fu, come è stato notato, un ritratto che giudiziosamente si accostava alle sigle di più smagato classicismo, dove il Granduca, con una artificiosa postura che sembrava alludere ad un passo di danza, pare smorzare gli eroici furori catafratti nell’armatura di Francesco Stefano dipinto in quella stessa stanza dal Ferretti, per evocare semmai quel senso del buongoverno accostante e comprensivo che fu già di Pietro Leopoldo. Ferdinando relegava del resto le medaglie al merito e alla fortuna sull’elegante tavolino posto accanto, dove trova posto perfino la corona non indossata, che sebbene fosse un topos della ritrattistica dei regnanti dal Rinascimento in poi, qui è probabile che si arricchisse di un senso ulteriore, come di chi tra i Cavalieri voleva apparire come uno di loro, e trarre prestigio dal loro stesso prestigio

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.

Un’analoga ma quasi accigliata misura bene emerge da una bellissima coppia di ritratti eseguiti dal pittore in questo torno di anni. Il primo, databile al 1796, è per l’appunto il suo Autoritratto

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(fig.

191). Il volto serio, con un’espressione che rischia di essere scostante, il tiralinee nella destra e la cartella di disegni nell’altra (come nell’Autoritratto di Mengs all’Ermitage), la giacca che si apre quanto basta a mostrare le insegne delle accademie di cui faceva parte

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, il volto misurato da una scrupolosa autopsia, brano per brano, frammento per frammento, che non retrocedeva neppure davanti alle imperfezioni dell’epidermide, la parrucca quasi scabra, Tempesti dette di sé un’immagine che si risolveva in quello sguardo non banale. Fu un ritratto di un uomo dimesso, della stessa temperatura di certi ritratti del Ghezzi, o, al limite, di quello del Corvi (esclusa, ovviamente, la virtuosistica postura del corpo), ma soprattutto affine al tono dimesso delle figure ritrattate da                                                                                                                

53 Da Cosimo III 1990, pp. 145-46, scheda di R. P. Ciardi.

54 Sulla tela v. anche CIARDI 1990 c, pp. 137-40; CIAMPOLINI 1993, p. 178 n.

55 Conservato ora nelle Collezioni pubbliche di Pisa, era stato donato dal pittore a Sebastiano Zucchetti, e da questi passò alle collezioni dell’Accademia di Belle Arti di Pisa, dove stette fino all’inaugurazione del Museo Civico. Nei repertori dell’Accademia la tela venne datata al 1796: Da Cosimo III 1990, p. 79, scheda di R. P. Ciardi (v. anche MARIANINI 2007, p. 41). Nella sala accademica dove era esposto, era riconoscibile per una lapide posta sotto alla tela, che ne indicava il soggetto e l’autore, voluta da un frate carmelitano (NOFERI 2003, pp. 258-59).

56 Per il biografo Tempesti esibisce le insegne delle accademie di Firenze, Roma, Bologna (CIAMPOLINI 1993, p. 167, B. Benvenuti, Biografia del Tempesti). In realtà una è una medaglia con l’Allegoria della Pittura; le altre due sono delle accademie di Bologna e di Firenze (non fu mai iscritto a quella di Roma).

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Sebastiano Ceccarini (v. ad esempio il Ritratto di Carlo Mosca), che bene serviva nella necessità di dare il senso come di un uomo che del proprio secolo aveva conosciuto gli alti e i bassi.

Simile attenzione per una modesta ma non frusta rappresentazione dell’uomo, venne adottata di lì a poco nel Ritratto di Sebastiano Zucchetti

57

. Già abate del convento di Nicosia, presso Calci, divenuto poi canonico decano della Cattedrale pisana, lo Zucchetti rappresenta un caso interessante per seguire i percorsi della storiografia locale. Egli infatti costituì un precoce e interessante esempio di valorizzazione fattuale dei cosiddetti Primitivi, di cui diventò assiduo collezionista, finendo insomma per rappresentare la sponda operativa di quegli autori che, come Alessandro Da Morrona e Ranieri Tempesti, dello studio degli artisti medievali pisani stavano facendo il centro dei propri interessi scientifici. Secondo percorsi ancora sconosciuti, lo Zucchetti mise insieme una straordinaria raccolta di fondi oro, che, donati all’Opera del Duomo nel 1796 e poi entrati a far parte delle raccolte accademiche, costituiranno il nucleo originario delle collezioni pubbliche locali

58

.

Eppure anche in questo ritratto, realizzato nel 1797

59

, Tempesti privilegiò la dimensione dimessa dell’uomo nel suo studio, con le Confessioni di S. Agostino come guida e sostegno – e non delle Vite del Vasari, che pure Sebastiano donò all’Opera nella recente edizione del Della Valle –, come si addiceva all’effige privata, all’icona di un vecchio di 74 anni: prete dunque, prima che erudito.

                                                                                                               

57 Il dipinto, donato dallo Zucchetti all’Opera del Duomo il 30 maggio 1796 assieme ai fondi oro passò poi nelle raccolte dell’Accademia di Pisa e da qui in quelle del Museo Civico (ora Nazionale di S. Matteo). Nelle collezioni dell’Accademia venne esposto nel Gabinetto dove si riuniva la Deputazione accademica, dove sembra peraltro che esistessero ben due ritratti del canonico, entrambi del Tempesti (POLLONI 1837, p. 6). Dell’altro esemplare – forse un bozzetto in scala ridotta? – non esiste comunque più traccia (v. anche MARIANINI 2007, p. 47, che però cita un solo ritratto).

58 Oggi le opere donate dallo Zucchetti costituiscono il nucleo fondamentale delle collezioni del Museo Nazionale di S.

Matteo; qualche cenno in BURRESI – CALECA 1999; BURRESI – CALECA 2011.

59 Nelle carte lasiniane studiate da Ciardi, il ritratto è citato come rappresentante lo Zucchetti all’età di 74 anni e sei mesi, e datato all’aprile del 1797 (Da Cosimo III 1990, scheda di R. P. Ciardi, pp. 79-80).

(19)

6- Nel 1799, quando dipinse la teletta con Quattro Santi Pisani (S. Ranieri, S. Ubaldesca, Beato Eugenio III, Pietro Gambacorti)

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(fig. 201), Tempesti affrontò il tema senza alcuna concessione a trovate trionfali e spettacolari, ma accentuando semmai i toni modesti di una rappresentazione del pantheon religioso pisano che in anni e contesti diversi aveva ricevuto ben altro trattamento. Mai quattro eroi della fede furono presentati sotto il velo di altrettanta mestizia: fu probabilmente un modo per raccomandare la propria anima, e per dire che era pronta. Eravamo appunto nel 1799, quando Giovanni Battista, così la scarna ed esatta prosa di Ranieri, costrinse il preoccupatissimo fratello a precipitarsi in tutta fretta a Pisa abbandonando gli agi crespinesi, “richiamato [da] una mortal malattia di mio fratello, che ora col divino ajuto è migliorato…”.

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Fu, la teletta, una sorta di ex-voto.

Appena l’anno prima, quando gli acciacchi si erano fatti pressoché costanti, Giovanni Battista era infatti oramai diventato ospite costante del fratello Ranieri a Crespina, che lo accudiva e lo coccolava, e dove poteva godere della buona stagione, di visite che valevano la pena e di qualche accademia letteraria e musicale.

Giusto nel paese, tra 1797 e 1798 Giovanni Battista aveva preso parte alla decorazione della parrocchiale di S. Michele, che Ranieri aveva caparbiamente deciso di riempire di pitture valendosi degli aiuti del nipote Carlo – il figlio di Giovanni Battista che già aveva lavorato in canonica – e dell’allievo Giovanni Corucci, e che, scomparse sotto un velo tenace d’intonaco, sono state solo in tempi recentissimi riportate alla luce.

Sulla parete di fondo e dietro l’altare, Giovanni Battista dipinse un imponente S. Michele Arcangelo (fig. 195 B-C) – unico frammento del ciclo risparmiato dalle mani di calce - ritratto nell’atto di cacciare Lucifero, e posto all’interno di un tempietto che si riallacciava al baldacchino già sperimentato in S. Apollonia. Si tratta di un grande S. Michele che sfiora la terra e guarda il fedele, che nonostante la scritta minacciosa (“QUIS UT DEUS?”) non era quello inesorabile con la spada, ma quello quieto e accostante col sorriso agrodolce, lo sguardo diretto e la destra

                                                                                                               

60 Il dipinto, passato in asta nel 2005 come Scena religiosa con quattro santi, è ora entrata a far parte della collezione Lemme. E’ firmata e datata due volte: sul recto in basso a destra (con la data del 1799): Old master paintings 2005, p.

127, lotto 139; Il Museo 2007, p. 274.

61 BMOF, Bigazzi 185.5, Ranieri Tempesti a Giovanni Mariti, Crespina, 7.4.1799.

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