5° INCONTRO
LA VIPASSANA E IL DOLORE
“Va con il dolore, lascia che ti porti con sé. Apri le mani e il corpo al dolore. Arriva a onde, come una marea:
bisogna essere aperti come un recipiente adagiato sulla spiaggia e lasciare che ti riempia per poi lasciarti vuoto e limpido, quando si ritrae. Con un respiro profondo – dev’essere profondo come il dolore – si raggiunge una sorta di libertà interiore dal dolore, come se questo non fosse il proprio dolore ma il dolore del proprio corpo. Lo spirito posa il corpo sull’altare.”
Il cuore Saggio, Jack Kornfield
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Il dolore è un ottimo maestro, il migliore. Prima di tutto, ci consente di stare svegli, lucidi, all’erta. Altrimenti, potremmo addormentarci o scivolare nel torpore. In secondo luogo, è una sensazione fisica di solito molto intensa, quindi molto ‘visibile’, facile da osservare e sentire con
concentrazione, al contrario delle sensazioni sottili troppo sfuggenti perché la mente riesca a fermarsi su di esse.
Il dolore, inoltre, ci dà la possibilità di lavorare con la nostra naturale
avversione e sperimentare come, con osservazione priva di giudizio e avversione anche la sensazione fisica più intensa finisce con il dissolversi e mutare in altro. Nella vita di tutti i giorni noi sfuggiamo continuamente alle situazioni scomode in cui sentiamo dolore. Se abbiamo mal di testa prendiamo antidolorifici; se una posizione è scomoda, ci spostiamo immediatamente; se un cibo non ci va, lo sputiamo; se una persona ci sta antipatica, ci allontaniamo.
La consapevolezza non rifiuta l’esperienza ma ne fa il suo Maestro. Praticando
Vipassana, capita spesso che uno dei principali maestri sia il dolore. Si è infatti obbligati a stare in posizione eretta,
immobili, a lungo e il corpo – non abituato – si ribella.
La nostra reazione condizionata a ogni tipo di sensazione sgradevole è quella di allontanarla il più possibile da noi. A volte, però, nella vita questa cosa non è possibile. E altre volte, sebbene sia possibile, allontanare tale situazione non serve a darci sollievo, né risulta una garanzia per cui non ci troveremo più ad affrontarla.
Il dolore infine ci insegna in modo potente che tutto nell’universo è impermanente, destinato a finire.
È utile quindi imparare a lavorare con il dolore perché ne faremo esperienza tutti prima o poi nella vita.
Quando parliamo di dolore nella Vipassana, di solito, ci riferiamo a un dolore di tipo fisico, una sensazione fisica intensa. Tuttavia, questo non è sempre vero e soprattutto nella vita noi ci troviamo molto più spesso a
fronteggiare un tipo di dolore che non ha nulla di fisico.
Per farvi un esempio pratico: picchio il mignolino contro lo spigolo della porta.
Le terminazioni nervose portano al cervello l’impulso del dolore per
avvisare che c’è qualcosa che non va e mandare un segnale di pericolo. Avverto una sensazione di
pulsazione, bruciore, pressione, calore dolore fisico.
Appena picchio il mignolino, scoppio a gridare infuriata una sfilza di improperi.
La rabbia mi invade:
inveisco contro lo spigolo della porta, il mio piede, me stessa,
la situazione dolore psicologico.
Non appena riesco a sedermi e mettere su un po’ di ghiaccio, la mia mente parte come un razzo a fare associazioni mentali e film: sabato ho il matrimonio della mia migliore amica e sono la sua testimone, devo indossare delle scarpe strettissime e ora il mio dito ha le dimensioni di un’anguria. Mio dio sono spacciata, come farò mai? L’ansia mi assale e mi fa aumentare i battiti cardiaci
e il respiro dolore mentale.
Osserviamo quindi la differenza tra i dolori che capitano nella vita e la sofferenza che NOI generiamo attorno al dolore.
“Va con il dolore, lascia che ti porti con sé. Apri le mani e il corpo al dolore. Arriva a onde, come una marea:
bisogna essere aperti come un recipiente adagiato sulla spiaggia e lasciare che ti riempia per poi lasciarti vuoto e limpido, quando si ritrae. Con un respiro profondo – dev’essere profondo come il dolore – si raggiunge una sorta di libertà interiore dal dolore, come se questo non fosse il proprio dolore ma il dolore del proprio corpo. Lo spirito posa il corpo sull’altare.”
Il cuore Saggio, Jack Kornfield
Il dolore può essere rappresentato come un panino a tre strati:
1. il primo strato è il dolore fisico
2. il secondo strato è il dolore psicologico 3. il terzo strato è il dolore mentale
Sul dolore fisico non abbiamo molto raggio d’azione. Su quello psicologico e mentale però sì, perché hanno
entrambi origine nella nostra mente. La meditazione agisce proprio sulla
mente, come una mega turbina
capace di pulire anche le incrostazioni più potenti. Più la mente è libera e leggera, meno andremo in avversione e meno rischieremo di aumentare la gravità della situazione. Il Buddha a tal proposito dice che la sofferenza
umana è come quando si è colpiti da una freccia (dolore fisico) e noi,
anziché togliere la freccia, la premiamo ancora più profondamente dentro il costato, girandola e facendo
sanguinare ancora di più la ferita.
FISICO
PSICOLOGICO MENTALE
DOLORE
Molti si avvicinano alla meditazione e hanno paura delle proprie sensazioni.
Sperano che la meditazione li aiuti a trascendere il casino del mondo e li lasci invulnerabili alle sensazioni difficili.
Questa però è negazione della vita, falsa saggezza! Le sensazioni, anche quelle più potenti, sono solo un flusso di energia e passano, tutto finisce.
Ciò che accade quando proviamo dolore è che ci identifichiamo con esso, diventiamo il dolore e non riusciamo più a cogliere altro, quindi veniamo presi dall’ansia e dalla paura e inneschiamo processi non solo mentali ma anche fisici che ci portano a contrarci ancora di più (nel meccanismo primitivo che ci faceva scattare quando provavamo paura per sfuggire al predatore) e a provare ancora più dolore.
L’unica via è quella di
un’osservazione e un’investigazione profonda del dolore. Non si può lasciare andare una cosa che non si vede e non si conosce! Per tanto la prima cosa da fare è quella di fermarsi e osservare profondamente. Ma non con l’intento di farlo sparire, bensì con l’intento di conoscere il dolore, per conoscere il dolore. Altrimenti staremmo di nuovo cadendo nel
tranello della reazione, del giudizio e del non stare con quello che c’è nel
momento presente.
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Basta guardare un bambino molto
piccolo, che è ancora privo delle costruzioni mentali sul dolore:
cade e subito si rialza, piangendo i pochi
istanti necessari
all’impulso nervoso di passare
l’informazione al cervello.
Siamo tutti molto prevedibili: quando sorge sensazione spiacevole
cerchiamo di evitarla, quando sorge una piacevole cerchiamo di tenerla stretta. Quando è neutra, la ignoriamo.
Passiamo la vita a cercare le
sensazioni giuste (piacevoli) e evitare quelle sbagliate (spiacevoli) e quando sono spiacevoli reagiamo senza fine, lottando per aggiustarle.
Man mano che diventiamo più saggi ci rendiamo conto che non serve a nulla aggiustare le sensazioni perché la vita è un flusso inesauribile di sensazioni giuste e sbagliate per tutti. La vita è difficile e dolorosa per sua natura, non perché stiamo
sbagliando qualcosa.
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Il dolore va sempre a braccetto con la paura.
Quando abbiamo un dolore fisico o
psicologico, spesso scatta in noi avversione, subito seguita dalla paura. La paura è un
riflesso incondizionato legato a una parte del nostro cervello. sensazioni fisiche nel corpo.
Il cervello limbico è quello più coinvolto con le emozioni.
E la corteccia prefrontale è quella che ci distingue dagli animali e ci permette di fare discorsi di senso compiuto e logici.
Dal punto di vista della meditazione, non è la realtà che causa una
determinata reazione da parte nostra, ma l’interpretazione che noi diamo a quella realtà. Oggi non ci sono più tigri pericolose in giro, ma la nostra mente le crea e per il nostro cervello rettiliano è come se ci fossero. Quindi, anche laddove non ce n’è bisogno, molto spesso scatta il meccanismo di fuga.
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Il nostro cervello si suddivide (molto grossolanamente) in tre parti:
rettiliano, limbico, corteccia prefrontale.
Il cervello rettiliano è il più antico, quello che possediamo sin dai tempi della preistoria e quello che ci
accomuna a tutti gli animali, rettili compresi. È un cervello molto
elementare e istintivo che risponde in modo immediato e inconscio agli stimoli. In particolare è preposto al mantenimento della specie e quindi responsabile del meccanismo di fuga, o congelamento. Quando c’è un pericolo il cervello rettiliano entra in azione e prepara il nostro corpo a fuggire, oppure a fingere di essere morto. Lo fa in modo immediato, perché se dovessimo stare a pensare:
“come fuggo? Quando fuggo? Metto gli scarponcini o le scarpe da
tennis…?” saremmo già morti.
I muscoli si tendono, il cuore inizia a pompare in tachicardia, il sangue va tutto agli organi principali, noi
sudiamo, il cervello secerne
adrenalina: siamo pronti per scattare e fuggire.
RETTILIANO sopravvivenza LIMBICO
emozioni
NEO CORTECCIA razionalità
Questo accade anche seduti in meditazione, quando un pensiero disturbante e magari molto forte viene da noi percepito come pericoloso e allora la prima cosa che facciamo, senza nemmeno accorgercene, è quella di muoverci, alzarci, andarcene via. Oppure quando percepiamo un dolore fisico intenso, la mente comincia a costruirci sopra una
fantasia distruttiva e noi ci spostiamo, ci alziamo, ce ne andiamo, oppure ci tendiamo talmente tanto che
ovviamente il dolore ne risulta amplificato.
Ciò che possiamo fare è illuminare con il fascio della consapevolezza questo meccanismo e smontarlo.
Il Buddha sulla paura dice:
“come sarebbe se in una delle notti buie senza luna del mese, dovessi entrare in luoghi strani e spaventosi, nel folto della foresta e vicino a sepolcri, così da arrivare a
comprendere la paura e il terrore? E se mi avvicinasse un animale selvatico, oppure il vento facesse stormire le foglie e io pensassi? Forse ora mi prenderà la paura e il terrore? E se essendo determinato a sciogliere la presa di quella paura e di quel terrore io rimanessi in qualunque posizione mi trovavo quando sono sorti, seduto o in piedi, sdraiato a terra o in cammino?
Non cambierei posizione finché non avrei affrontato quella paura e quel terrore proprio in quella stessa posizione, finché non sarei stato libero dalla loro presa. E avendo questo pensiero, così ho fatto.
Fronteggiando la paura e il terrore mi sono liberato.”
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PRATICARE LA VIPASSANA A CASA
La vipassana ci mette in contatto con il dolore perché nell’inattività totale fa sorgere tutti i
fastidi cui di solito non prestiamo attenzione, o che cerchiamo di evitare in molti modi.
Per questo, quando siedi a praticare la vipassana, dovresti cercare di resistere al desiderio di muovere il corpo per dargli sollievo e stare con le sensazioni fisiche che sorgono, qualsiasi esse siano. Ci saranno sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre. La mente tenderà a mettere un’etichetta-giudizio su ciascuna di esse e rincorrerà quelle piacevoli, sfuggendo da quelle spiacevoli. È nella sua natura e non serve a nulla disperarsi o ingaggiare una lotta sfinente. Puoi invece notare questi movimenti della tua mente e considerare che sono solo pensieri e in quanto tali, vacui, passeggeri, privi di identità. Sono come nuvole che passano su un cielo sereno: non ne alterano la natura, ne offuscano solo per qualche istante la luminosità.
Il giudizio della mente si riversa anche sull’esperienza esterna: “che fastidio questo rumore!”, “Che profumo, chissà cosa starà cucinando mio marito, ho molta fame, non vedo l’ora che
finisca!”, “Quando suona la campana, che noia mortale questa meditazione!”,
“Sto perdendo un mucchio di tempo quando avrei un sacco di cose da fare…”. “La voce del maestro è troppo acuta e mi dà sui nervi.”… Potrei continuare per pagine. Questi pensieri sorgono molto velocemente e
altrettanto velocemente si dissolvono.
Sono appunto solo nuvole, prive di reale consistenza. Basta aprire gli occhi, o spostare una mano per
dimenticarsene del tutto. Nella pratica, vengono accolti come pensieri, giudizi, noia, rumori, odori… Ogni cosa deve essere etichettata. Quando usiamo le etichette, riusciamo a distaccarci subito dai pensieri perché rompiamo
l’identificazione. Si tratta semplicemente di ripetere
silenziosamente nella nostra testa:
“Pensiero”, oppure: “Rabbia” ogni volta in cui sorge una sensazione/pensiero.
Scegli uno di questi due metodi e praticalo almeno per 30 minuti al giorno per 5 giorni alla settimana. Puoi anche alternarli per vedere con quale ti trovi meglio. Al termine di ogni pratica, annota sul tuo diario le riflessioni che sono emerse. Come stai? Sei riuscito a concentrarti? Sei riuscito a stare nel presente? Hai avvertito sensazioni fisiche nel tuo corpo? Che natura avevano? Erano fisse o in continuo mutamento? Ti è capitato di avere a che fare con le sensazioni del dolore? Che cosa è successo?
Continua a praticare anche durante la tua giornata, scegliendo da 1 a 3 attività quotidiane su cui desideri appoggiare la tua attenzione consapevole per tutta la loro durata.
Osserva nella tua giornata le reazioni della tua mente a sensazioni dolorose.
Annota ciò che fai: le accogli o le respingi? Prendi antidolorifici? Le nascondi sotto stimoli diversi? Ti fermi a osservarle?
COMPITI A CASA:
1. Entra in concentrazione
focalizzandoti sul respiro nell’addome.
Quando la mente è abbastanza quieta, fai in modo che si appoggi sulle
sensazioni fisiche più intense che trova nel corpo e ci resti finché non si
dissolvono. La mente avrà come oggetto le sensazioni che sorgono nei vari punti del corpo, sempre diversi, quindi si sposterà da una all’altra, andando sempre verso quella più intensa. Osserverà queste sensazioni con l’attenzione di uno scienziato, cercando di comprenderne la natura e NON con il fine di
modificarle/sistemarle. Se non dovessero esserci sensazioni forti, tornerà ad appoggiarsi sull’addome.
2. Entra in concentrazione
focalizzandoti sul respiro nell’addome.
Quando senti la concentrazione abbastanza forte, comincia a
scannerizzare tutto il tuo corpo dalla testa fino ai piedi, prestando attenzione a TUTTE le sensazioni che incontri nelle varie parti. Se la tua mente è molto attiva, procedi dall’alto verso il basso;
se invece sei più nel torpore, parti dal basso per andare verso l’alto.
In entrambi i metodi, usa le
etichettature per ritornare al corpo ogni volta in cui perdi l’attenzione.
Possiamo praticare la vipassana da soli, senza guida esterna, scegliendo tra due modalità diverse.
(La prima modalità di cui vi ho parlato nella dispensa precedente è ottima, ma forse un po’ complicata all’inizio se non si è guidati da una voce esterna).