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NICOLETTA BORTOLOTTI. Storia di un amicizia ai tempi di Chernobyl

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Academic year: 2022

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Storia di un’amicizia ai tempi di Chernobyl

NICOLETTA BORTOLOTTI

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www.ragazzimondadori.it

© 2021 Mondadori Libri S.p.A., Milano Prima edizione: marzo 2021 Stampato presso ELCOGRAF S.p.A.

Stabilimento di Cles (TN) Printed in Italy ISBN 978-88-04-73762-9

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Sempre a mia madre che distraeva le piccole febbri dell’infanzia, leggendomi I ragazzi della via Pál.

Adesso mia prima lettrice.

A mio padre, a mio marito, consulente storico e scientifico di tutti i miei libri, e ai miei figli.

Ad Antonietta Gnerre e a Mimmo Muolo, scrittori, poeti e miei mentori.

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Anche gli alberi un tempo erano croci.

ELIO FILIPPO ACCROCCA

Non ricordo quali alberi davano i frutti, so solo che erano al centro di un luogo.

ANTONIETTA GNERRE,Quello che non so di me

Io non abbraccio gli alberi li prego.

PIETRO BERRA, L’indifferenza del cinghiale

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UCRAINA, 1986

PROLOGO

IL RACCONTO DI CODA SCARLATTA

In silenzio girandole di fiamma bruna spaccano le te- nebre. Esplosioni lontane, attutite dalla verde muraglia della foresta. Il cielo si accartoccia e cade sulle abetaie come polvere nera. C’è una luce intensa, ancora più forte dei fari che uccisero mia madre. Ma spingo i ri- cordi in un luogo lontano dal suo odore.

Non oso avvicinarmi alla casa. È una chata di tron- chi grezzi. Scuri. Steccato azzurro scolorito. Tetto in lamiera, uguale a tante altre nei dintorni di Pripyat.

Capanne solitarie. Gli acquitrini. I boschi. Il nulla, co- perto di neve per sei mesi all’anno o inzuppato dal fan- go del disgelo.

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QUELLE IN CIELO NON ERANO STELLE

Un ronzio simile a un trattore. Proviene dalla chata.

Mia madre non ha fatto in tempo a insegnarmi i peri- coli della foresta. Ho imparato da solo a tenermi lon- tano dalle vespe. Di sicuro stanno facendo un nido sotto il tetto.

Ho fame, ma non mi avvicino.

C’è quella luce prodigiosa. E i puntali verde chia- ro dei pini mughi, dei larici e dei cembri. Ogni prima- vera ha il suo modo di rimettere in ordine il mondo.

Scruto la Madre, il capo ancora avvolto nel fazzo- letto colorato che portava al kolchoz. Sa di latte caglia- to e ricotta. È una mungitrice e guai a chi le tocca la sua mucca. Con lei c’è la Bambina. Sa di lana vecchia e degli avanzi di cibo che per tutto l’inverno, insieme al Ragazzo, depone per me sul terreno duro e ghiac- ciato intorno alla casa. Noi volpi rosse siamo ghiotte di mirtilli. Piccoli volatili. Uova. Insetti. Roditori. Ma ci adattiamo facilmente a qualunque tipo di cibo. An- che a quello degli umani.

Stanno ferme, in piedi, sul balcone azzurro come due tronchi di betulla fatti di notte e freddo.

I loro occhi sono fissi sul bagliore color ribes del cie- lo, visibile anche da lontano.

Gli ultimi freddi dell’inverno provano a insinuarsi, strato dopo strato, nella mia pelliccia.

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PROLOGO

11 Dov’è il Ragazzo? Nessuna traccia del suo dopobar- ba al mentolo. Eccolo sul balcone, accanto alla Madre e alla Bambina.

Un suono affilato. Intermittente. Un taglio secco nei miei timpani. Quando la famiglia rientra in casa io rimango ancora un po’ acquattato fra le stoppie gri- gie, prima di riprendere la via del fiume, straripante di neve sciolta.

Sono trascorse diverse albe. La foresta è color ruggi- ne. Bella come una coda scarlatta leccata ciuffo dopo ciuffo. Uno strano autunno che brucia in primavera.

Un odore nuovo. Forte. Cattivo. Inabitabile.

Attendo poco lontano dalla chata che la porta si apra.

Mi aspetto di vedere la Bambina, ma esce solo il Ra- gazzo. Mi tende il palmo della mano. Doktorskaja. Sa- lame sovietico. Sa di grasso e cenere.

Poi, però, solleva anche l’altra mano.

Le dita sono strane. Terminano in una canna nera e stretta.

Ci guardiamo per un istante. L’oro dei miei occhi si è appena mescolato nel ghiaccio dei suoi quando mi spara.

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Mi chiamano U-235.

Ma non sono solo Uranio-235. Anche Cesio-137. Io- dio-131. Stronzio-90. Un concentrato di elementi chi- mici mescolati come in un letale succo di frutta.

Mi chiamano nube radioattiva. Altero il DNA delle cellule umane. Animali. Vegetali.

Sto bruciando. E più il cielo arde, più io mi sento viva.

Mi hanno imprigionata nel cuore pulsante di un reattore nucleare perché, con la mia energia, potes- si illuminare le case. Le strade. Le città. E far funzio- nare le industrie. Gli apparecchi. Televisori. Telefoni.

Computer. Asciugacapelli.

UCRAINA, 1986

BREVE STORIA DI ME

IL RACCONTO DI U-235

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BREVE STORIA DI ME

13 Se un reattore di energia ne produce troppa, però, e diventa troppo caldo, fonde ed esplode.

Impazzisce.

La reazione a catena, si scatena.

La notte del 26 aprile 1986 i Capi Tecnici che lavo- ravano nella Centrale hanno deciso di fare un esperi- mento.

Volevano vedere cosa sarebbe successo se, per un guasto, la Centrale non fosse più riuscita a produrre energia elettrica sufficiente a far funzionare le pom- pe dell’acqua di raffreddamento. Volevano vedere se la turbina del reattore, continuando a vorticare per un po’ prima di spegnersi, avrebbe potuto mantenere at- tive quelle pompe, prima che si avviassero i generato- ri di emergenza.

Hanno abbassato la potenza. Ma il reattore si stava spegnendo troppo rapidamente e così non avrebbero potuto fare l’esperimento. Allora hanno deciso di ri- avviarlo, togliendo le barre di controllo che bloccano la reazione a catena.

Un tecnico si è ribellato agli ordini. Il Capo Tecni- co gli ha detto: «O fai quello che ti dico o ti licenzio.

Qui comando io».

In realtà sono io a comandare, non gli uomini, e così il reattore RBMK numero quattro della Centrale

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QUELLE IN CIELO NON ERANO STELLE

nucleare Lenin, a tre chilometri da Pripyat e a diciot- to da Chernobyl, è saltato in aria.

Si è scoperchiato.

E finalmente.

Adesso.

Sono libera.

Poi è venuto qualcuno.

Ha pompato acqua sulle fiamme. Ma l’acqua, frig- gendo sulla grafite, alimentava la combustione.

Qualcuno ha detto: «Il reattore funziona benissimo.

Non c’è nulla di cui preoccuparsi».

L’uomo ha cominciato a tossire. E a vomitare.

Non si è preoccupato nemmeno quando la pelle gli si è annerita.

Qualcuno, invece, è stato mandato da me il giorno dopo.

E ora attendo che si apra la porta di casa sua, ugua- le a tante altre nei dintorni di Pripyat. Ha la divisa dei giovani militari di leva e la spilla del Partito.

Lo aspetto. Proprio come lo aveva aspettato quel cuc- ciolo di volpe che, ormai quasi ogni mattina, a qual- che metro dalla chata riceveva la sua ciotola di cibo.

Aveva una folta coda scarlatta.

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