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CATECHESI IN FRATERNITA 21 OTTOBRE Che cos'è l'educazione? Qual è il ruolo dell educatore? C è un metodo educativo?

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CATECHESI IN FRATERNITA’ 21 OTTOBRE 2013 Che cos'è l'educazione?

Qual è il ruolo dell’educatore? C’è un metodo educativo?

Una sintesi straordinaria dell'azione educativa l'ha formulata Antonio Rosmini, quando scrisse che educare vuol dire 'rendere l'uomo autore del proprio bene'.

Formare i giovani è un compito entusiasmante, che Dio stesso ha delegato soprattutto ai genitori.

Un compito delicato e duro, paziente e piacevole, non privo di dubbi, che tante volte induce a rivolgersi al Signore in cerca di luci. Educare è opera d’artista, che vuole portare alla perfezione le potenzialità insite in ognuno dei propri figli: aiutare a scoprire l’importanza di preoccuparsi degli altri, insegnare a essere protagonisti di relazioni autenticamente umane, a vincere la paura di impegnarsi... In definitiva, si tratta di rendere tutti capaci di rispondere al progetto di Dio sulle loro vite.

Vi saranno sempre difficoltà ambientali e aspetti migliorabili; per questo San Josemaría incoraggia i genitori a conservare giovane il loro cuore, per riuscire così ad accogliere con simpatia le giuste aspirazioni dei figli e perfino le loro stravaganze. La vita cambia e ci sono parecchie cose nuove che magari a noi non piacciono – è pure possibile che oggettivamente non siano migliori delle precedenti –, ma che non sono cattive: sono semplicemente modi diversi di vivere; tutto qui. In più di un caso i conflitti sorgono perché si dà importanza a piccolezze su cui invece, con un po’

di prospettiva e disenso dell’umorismo, si può transigere.

Premessa

Non vi è nessuno che abbia a portata di mano - pronti per l'uso - indirizzi pedagogici e suggestioni psicologiche adatte a ogni circostanza.

Educare è un'arte, che si acquisisce con l'esperienza, la pazienza e l'umiltà. E l'esperienza la si fa sperimentando, augurandosi di sbagliare il meno possibile, anche se l'errore lo si deve sempre mettere in conto!

Quanti genitori sussurrano e sospirano che al compito dell'educazione e al ruolo di educatori non sono mai stati preparati e formati.

Si vive spesso di buon senso, di memoria storica, di esperienze pregresse, di imitazione ed emulazione delle esperienze migliori attuate dai propri genitori.

Ma - si dice, e giustamente - i tempi sono cambiati; la cultura non è più quella di una volta.

E' cambiata la società in modo repentino, imprevedibile e con essa l'istituzione familiare, che della società è la cellula prima e vitale.

E poi - si dice, e sempre giustamente - la famiglia, ormai, si trova pressoché quotidianamente a dover opporre resistenza alle suggestioni che provengono da altri ambiti istituzionali e sociali: la scuola, il tempo libero, le amicizie, i messaggi radio-televisivi e dei mass-media in genere. . .

Vi sono poi i momenti difficili, dati dalla psicologia dell'età evolutiva degli adolescenti e dei giovanissimi, con i loro lunghi silenzi, la loro apatia, la loro apparente indifferenza di fronte alle realtà anche forti della vita.

Non manca il disorientamento degli stessi educatori, che denunciano i propri limiti, la propria perplessità, i propri imbarazzi, la propria impreparazione in ordine alla educazione e si chiedono

- che cosa sia giusto chiedere ai figli - che cosa sia giusto dare ai figli - che cosa sia giusto proporre ai figli

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anche a fronte di un sempre più invalso clima generale di disaffezione, di superficialità, di indifferenza.

Quanti genitori si domandano se è opportuno, se è giusto esigere dai propri figli, ciò che altre famiglie, altre istituzioni non esigono più. Tale interrogativo non è senza fondamento e non senza qualche preoccupazione, nel sospetto che, creando diversificazione di azione educativa, i figli si sentano un poco diversi dagli altri.

Evidentemente c'è tutta una cultura nuova da creare per combattere una ideologia che vorrebbe relegare in un angolo i valori tradizionali. Perciò - senza avvilimenti, ripiegamenti o chiusure, senza proclamarsi incapaci - occorre unire le forze e impegnarsi a scoprire un nuovo progetto educativo.

C’è quel principio fondante dell'educazione, che non è dare ricette o predisporre indirizzi, ma 'tirar fuori dall'altro' quella potenzialità che ogni persona possiede, quelle ricchezze di cui è dotato ogni individuo, quel tesoro nascosto che è nel cuore di ogni personalità.

Cos'è l'educazione?

Fmiglia e società non vanno considerati ambiti separati entro i quali condurre una riflessione educativa, bensì soggetti profondamente connessi. Famiglia e società sono infatti chiamati ad assumere la sfida educativa come opportunità per raggiungere un obiettivo comune : il raggiungimento di una “vita buona”, ossia la promozione della piena umanità della persona.

Più che una riflessione su COME educare, dunque , sembra essenziale porsi la domanda sul PER CHE FINE educare. Se educare è ex-ducere, questo “ducere” verso dove porta?

S potrebbe dire che la finalità dell’educazione è aiutare la persona a far emergere ed orientare (ex- ducere) la sua vera natura, a “diventare ciò che è”, cioè una persona pienamente umana,

La questione dell'educazione e dell'educare è antica quanto l'uomo.

L'uomo, infatti ha bisogno di educazione, perché al momento della nascita egli possiede un ampio bagaglio di informazioni genetiche, sociali, culturali, psicologiche che - nel corso degli anni - è chiamato a sviluppare per un armonioso adattamento all'ambiente e alla storia.

1. L'educazione è una azione che tende a sviluppare ciò che nell'uomo è già costituito.

2. L'educazione è un intervento inteso ad attualizzare le potenzialità native dell'individuo, adattandole concretamente ai modelli socio-culturali dell'ambiente sociale in cui l'individuo vive.

3. L'educazione è un processo volto a promuovere concretamente la realizzazione dell'individuo in modo completo e armonico.

Una sintesi straordinaria dell'azione educativa l'ha formulata Antonio Rosmini, quando scrisse che educare vuol dire 'rendere l'uomo autore del proprio bene. '

Essa 'deve promuovere la formazione della persona umana, sia in vista del suo fine ultimo, sia per il bene delle varie società, di cui l'uomo è membro e in cui - divenuto adulto - avrà mansioni da svolgere.

L'educazione è, quindi, la formazione della personalità globalmente considerata, tentando di armonizzare - in un tutto unificato - i diversi aspetti costitutivi della persona che cresce in un determinato contesto culturale.

L'educazione - in sostanza - è un processo razionale di formazione che si compie mediante certe esperienze sociali e che mira a un risultato.

Nessun buon educatore si prefigge un programma educativo e lo impone. Questo non sarebbe educare!

L'educare suppone un conoscere l'educando; conoscere le sue attitudini, i suoi interessi, le sue inclinazioni naturali.

Quante volte i genitori affermano: 'Ai miei figli ho riservato lo stesso trattamento, lo stesso modo di fare, le medesime attenzioni e le reazioni e i risultati sono stati differenti'.

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Non poteva che essere così! I figli sono sì figli, ma sono estremamente differenti tra loro; e per ciascuno deve essere individuato un diverso progetto educativo.

E' in questo - precisamente - che l'arte dell'educazione si fa complessa e a volte difficile.

Il ruolo dell'educatore

Colui che - a titoli differenti - si assume la responsabilità dell'azione educativa, non può sottovalutare mai che ogni educando va sempre considerato come persona: cioè come soggetto originale e irrepetibile. Ogni individuo necessita di un proprio itinerario educativo. Con una descrizione plastica si potrebbe dire che l'azione educativa è paragonabile a un educatore che con pazienza e disponibilità cammina alle spalle dell'educando, con le braccia tese, senza imbrigliarlo e quasi senza farsene accorgere, pronto a sostenerlo in caso di inciampo o di caduta.

Si tratta di lasciar camminare il soggetto lungo le strade della vita, sperimentando la quotidianità delle esperienze, non sostituendosi ad esso, consentendogli di vivere, pronti - tuttavia - a intervenire energicamente e anche con determinazione in caso di pericolo.

L'intervento - anche quello dei genitori - è educativo, quando non si pone come imperativo di cose da eseguire o di comportamenti da acquisire, ma quando diventa servizio per il processo di autodeterminazione e autoformazione dell'educando per aiutarlo a liberarsi dai propri condizionamenti e sviluppare la capacità di determinazione.

L'azione educativa si esprime nella fermezza e nella vigilanza e si esercita mediante l'esempio.

Attraverso tale esempio l'educatore suscita nell'educando comportamenti motivati dando concreta manifestazione della propria realizzazione in ordine alla propria personalità e nei confronti della realtà sociale in cui vive e opera.

E' assai facile comprendere che sarebbe anti-educativo chiedere al proprio figlio assunzioni di responsabilità e/o attuazioni di comportamenti, nei confronti dei quali il genitore per primo è inadempiente o trasgressivo.

Come si può pensare di educare un figlio al rispetto per gli altri, alla stima verso il prossimo, alla solidarietà e alla giustizia, all'onorare gli impegni assunti se proprio il genitore non dà testimonianza concreta di ciò che chiede e propone?

Viene qui in mente il proverbio, che tante volte si cita: le parole volano, gli esempi trascinano!

O ciò che ricordava, molto sovente, quel grande educatore che fu S. Giovanni Bosco ai suoi collaboratori: 'Quello che più conta è la predica del buon esempio!'

Ha scritto L. Evely nel suo Educare Educandosi: 'l'educazione è un'arte: ciò che essa richiede di più è previdenza e tatto. Dimenticando le proprie ambizioni, i pregiudizi personali, l'educatore si mette appassionatamente al servizio di colui che vuole educare'.

Un metodo educativo

Non è certo impresa facile proporre un metodo educativo.

Sia perché - nell'educazione non ci sono facili ricette; sia anche perché i modelli pedagogici - oltre che rispondere a certe sensibilità - si configurano molto e in un certo senso sono mediati da correnti ideologiche di differente orientamento.

Pur tuttavia, una proposta sembra doveroso formularla, anche se di proposta si tratta.

Mi riferisco al sistema preventivo di S. Giovanni Bosco, anche se occorrerà tener conto che don Bosco aveva prevalentemente, quali destinatari, giovani in situazione istituzionalizzata: i celebri oratori.

Il sistema preventivo fonda la sua peculiarità sull'attenta preoccupazione per gli individui, le singole personalità degli educandi, ciascuno dei quali è al centro di un processo educativo fatto di inviti, proposte, possibilità, scelte, decisioni.

Don Bosco era solito ripetere: occorre 'lasciare ai giovani piena libertà di parlare di cose che maggiormente loro aggradano: Il punto sta di scoprire in essi i germi delle loro buone disposizioni e

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procurare di svilupparli. E poiché ciascuno fa con piacere soltanto quello che sa di poter fare, io mi regolo con questo principio e i miei giovani lavorano tutti non solo con attività, ma con amore'.

Secondo gli insegnamenti del Santo di Valdocco la confidenza, la fiducia, l'amore e la collaborazione, sono le condizioni per ogni autentico rapporto educativo.

La radice del sistema educativo di don Bosco è l'amore, che nell'educatore diventa ragione e amorevolezza e nell'educando confidenza e spontanea collaborazione.

L'amorevolezza trasforma il rapporto educativo in rapporto filiale e l'ambiente educativo in una famiglia.

Perciò l'amorevolezza - nel sistema preventivo di don Bosco - è considerata come il principio informatore. Tutte le più diverse problematiche della pedagogia sono affrontate e risolte dal Santo di giovani dalla sua pedagogia del cuore.

Infatti ogni atto educativo deve essere soffuso di carità e di amorevolezza.

La pratica del sistema preventivo trova fondamento - secondo l'espressione stessa di don Bosco - nelle parole dell'apostolo Paolo: 'la carità è paziente. . . tutto copre, tutto spera, tutto sopporta' (1 Cor 13, 4-7).

Tutti gli studiosi del santo Fondatore dei Salesiani riconoscono l'importanza e la centralità di questa ispirazione pedagogica.

Di lui si afferma di aver tentato - quasi sempre con successo - di ricostruire attorno al fanciullo lo spirito di famiglia e che ogni suo sforzo fu continuamente diretto a ottenere nelle sue case di educazione la fusione dei cuori, ad affiatare - in una intimità di buona lega -superiori ed alunni.

L'amorevolezza è precisamente l'amore dell'educatore verso l'educando e mentre tende al progetto educativo, al tempo stesso si preoccupa che il giovane si senta amato.

L'amorevolezza implica dunque la carità soprannaturale, cioè il vero e spirituale amore di Dio e del prossimo.

E fin qui - parlando di educazione in famiglia - non si dovrebbero riscontrare difficoltà.

Ma un secondo elemento che corrobora il sistema preventivo 'boschiano' è la ragionevolezza, che è fatta di adattamento e di intelligente comprensione.

Essa include pure l'affetto, cioè il palpito umano della benevolenza e dell'affezione.

A ben vedere don Bosco ha calibrato con giuste dosi l'azione educativa, la quale è essenzialmente azione della ragione.

Infatti, chi si propone come guida, deve possedere la chiarezza delle idee e della verità e non cedere alla suggestione emotiva o alla pressione del sentimento.

Essere ragionevoli - nell'orizzonte educativo - significa, in sostanza, evitare stranezze, avere buon senso, usare semplicità e naturalezza, evitare complicati artifizi.

Don Bosco, infatti, chiede all'educatore un amore equilibrato, aperto, razionale.

Questa prima e fondamentale esigenza educativa non permette di confondere la paternità e il cuore di cui parla don Bosco con una troppo facile e sentimentale paternità di amore, priva di contenuto spirituale e religioso.

Del resto, l'equilibrio tra la ragione e il cuore è il punto più difficile da stabilirsi e da mantenere in ogni prassi educativa impegnata e consapevole.

La ragione sta all'inizio di tutto il processo educativo nella forma del preavviso leale e senza ambiguità.

Il ragazzo deve sapere prima chiaramente ciò che deve fare e deve esser aiutato a ricordarlo.

Per questo, nel sistema preventivo di don Bosco, una costante è quella del continuo e insistente - anche se garbato - preavviso.

Ma non è sufficiente preavvisare. Occorre che la ragionevolezza sia anche condivisa dall'educando, sino a diventare coscienza di una effettiva e personale responsabilità.

Il metodo della ragione è insieme il metodo della persuasione e del convincimento.

Nel suo sistema educativo, don Bosco raccomanda di farsi amare e non di farsi temere. Non omette mai di raccomandare la carità, i modi affabili e - in certi casi - anche la tolleranza nell'esigere l'obbedienza.

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La disciplina è per il Grande Educatore obbedienza a un ordine razionale, al quale tutti sono tenuti. Anche la correzione deve essere permeata d'amore.

La carità e la pazienza - ammonisce don Bosco - ti accompagnino costantemente nel comandare, nel correggere. Don Bosco vuole che le correzioni - a eccezione di rarissimi casi - non siano mai date in pubblico, ma privatamente e lungi dalla vista dei compagni. Egli esorta a usare la massima prudenza per fare sì che il giovane comprenda il proprio torto con la ragione e la religione.

Il trinomio ragione, religione, amorevolezza trova così un’ applicazione concreta anche nei momenti più delicati dell'opera educativa.

Di grande valore psicologico e pedagogico è l'atteggiamento che Giovanni Bosco consiglia riguardo alla paziente attesa da adottarsi prima della correzione.

Il Santo nelle sue 'Lettere ai giovani', ammoniva: 'i mezzi coercitivi non sono mai da adoperarsi, ma sempre e solo quelli della persuasione e della carità. Il castigo non è dato se non dopo aver esauriti tutti gli altri mezzi e se c'è speranza di qualche profitto per l'interessato. In ogni caso, deve essere ragionevole e amabile nel tempo e nel modo'.

Anche se sono trascorsi oltre cento anni dalla morte di questo grande educatore, i suoi principi fontali non hanno perso nulla della loro efficacia e tuttora rimangono validi itinerari per una adeguata e costruttiva azione educativa.

Tradotti e trasferiti nell'ambito familiare, essi possono contribuire alla ricerca di un metodo educativo, non sempre facile da trovare, per una armoniosa e serena prassi educativa.

“Come educare nella società contemporanea"

Durante la cena pasquale ebraica, ad un certo punto il figlio doveva rivolgersi al padre dicendo:

"perché diversa è questa notte da tutte le notti? Infatti tutte le notti noi mangiamo pane lievitato e azzimo; questa notte tutto quanto azzimo…". Il padre rispondeva: "schiavi fummo in Egitto del Faraone, e il Signore Dio nostro ci fece uscire di là con mano forte e con braccio disteso" . Questo testo ci aiuta a capire profondamente che senso ha parlare oggi di "emergenza educativa": E ci aiuterà ad individuare alcuni fondamentali orientamenti pratici per uscire da essa e dare origine ad una grande stagione educativa nella nostra Chiesa e nella società civile:

1. L’emergenza educativa.

Ritorniamo al testo ebraico. Esso ci mostra come si può stringere un legame buono fra le

generazioni: la generazione dei padri e la generazione dei figli. La prima costatazione. Il legame è istituito dalla narrazione del fatto che ha fondato l’identità e quindi la libertà del popolo a cui il bambino appartiene. È stata la liberazione dalla schiavitù egiziana a dare origine ad Israele; è stato l’evento fondatore della sua identità. La narrazione viene ripetuta ogni anno – ogni anno la Pasqua deve essere celebrata – perché si custodisca la memoria dell’evento fondatore "di generazione in generazione". La memoria deve essere custodita, perché quando si perde la memoria si perde la consapevolezza della propria identità; si è sradicati, spaesati, esiliati da se stessi. Dunque la narrazione che il padre fa al figlio impedisce a questi di ignorare la sua origine, di ignorare la sua dignità di uomo libero, e gli consente di sentire la propria libertà come un bene condiviso con gli altri. In questo modo, mediante quella narrazione, il rapporto fra le generazioni non era solo biologico ma diventava pienamente umano. La generazione dei figli, già legata biologicamente a quella dei padri, entrava nello stesso universo dei padri: la stessa religione, la stessa legislazione, gli stessi valori. Si costituiva un popolo non solo in senso etnico, ma anche culturale. Israele è l’Israele di Dio e Dio è il "Santo di Israele". Ma c’è un altro aspetto ancora più importante; anzi è il più importante di tutti. La risposta del padre al figlio si conclude nel modo seguente: "in ogni

generazione e generazione ognuno è obbligato a vedere se stesso come essendo proprio lui uscito dall’Egitto" La narrazione del padre racconta l’evento fondatore non semplicemente come un fatto

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che definitivamente appartiene al passato, ma come un avvenimento che continua anche ora ad esercitare il suo influsso. Anche ora, ogni generazione di figli ha bisogno di sapere la sua origine, di accedere alla dignità di uomini liberi, di condividerla dentro una comunità di persone. La tradizione che si trasmette di generazione in generazione è una dimensione essenziale del presente, dal cui riconoscimento o negazione dipende la costituzione del proprio io. Ed è la generazione dei padri a testimoniare questa presenza, ed introdurre così il figlio nella vita. Quando nelle vostre famiglie il rapporto padre-figli "funziona", anche in esse accade tutto ciò che accadeva la sera di Pasqua in ogni famiglia ebraica. C’è un episodio realmente accaduto in una famiglia. Essa fu colpita da un gravissimo lutto. La bambina di pochi mesi fu colpita da un tumore che la portò alla morte. Il fratellino di qualche anno di vita, dopo qualche giorno dal funerale, chiese a sua madre: "mamma, ma quando torna a casa Lucia?". La risposta a questa domanda, una delle più radicali che l’uomo possa compiere, ha dato inizio in senso forte alla grande narrazione della vita che i genitori fecero al loro bambino. Essi non partivano dal niente: Sono due sposi radicati e fondati dentro

l’avvenimento cristiano. Essi hanno risposto narrando quell’incontro che avevano fatto con Cristo risorto dai morti. Un incontro che in quel momento, mediante la testimonianza dei suoi genitori, accadeva anche per il bambino, rispondendo al bisogno di una presenza: la presenza della persona amata. La Tradizione cristiana mediante la testimonianza dei padri diveniva risposta adeguata al bisogno del cuore dei figli: questa è l’educazione. Possiamo ora tentare come una definizione.

L’educazione è la tradizione che diventa presenza dentro alla testimonianza che i padri ne fanno ai figli. Queste tre categorie, tradizione-presenza-testimonianza, costituiscono l’atto educativo. Alla richiesta del bambino la madre non avrebbe saputo rispondere se non in maniera inadeguata ["non può ritornare, perché è morta"], se non avesse in quel momento fatto memoria dell’evento fondatore di senso, la risurrezione di Gesù, e non lo avesse ritenuto un fatto vero. In un caso e nell’altro la generazione dei padri o diventa una generazione di testimoni ["è accaduto un fatto, e questo fatto ti riguarda ora, poiché esso è il fatto che illumina la tua ragione, dona consistenza al tuo io, rende la tua libertà capace di grande rischi"] o diventa la generazione che apre la porta di casa della

generazione dei figli all’ospite più inquietante, il nichilismo. Il profeta Malachia preannuncia che la venuta del Messia coinciderà colla "conversione del cuore dei padri verso i figli e del cuore dei figli verso i padri" e che sarà questa reciproca conversione a "risparmiare il paese dallo sterminio" [cfr.

3,24]. Quando l’angelo apparve a Zaccaria, gli preannuncia la missione del figlio Giovanni colle parole del profeta [cfr. Lc 1,17]. Concludendo l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire in cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ci mette in mano le chiavi. Studiamoci di farci amare, di trasmettere il santo timore di Dio, e cantare le lodi e le benedizioni di colui, che volle farsi nostro modello, nostra via, nostro esempio in tutto.

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