M AGISTRATURA E LETTIVA
di Riccardo Fratini
Questo libro e tutti i suoi contenuti sono sottoposti a una Licenza internazionale Creative Commons Attribuzione 4.0 .
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Sommario
1. Potere e divisione dei poteri ... 18
2. Polibio e il ciclo delle forme di governo. ... 22
3. Montesquieu e la divisione dei tre poteri. ... 31
4. La Rivoluzione Americana ... 37
5. Controlli e Contrappesi ... 43
6. Common Law e potere giudiziario ... 51
7. Il popolo e in nome del popolo ... 57
8. Quel disastro chiamato rivoluzione francese. ... 66
9. Le Bugie di Napoleone ... 72
10. L’Italia dei “soloni” ... 77
11. La terza via: la magistratura elettiva ... 84
12. Il secondo passo della democrazia ... 92
13. La carriera giudiziaria elettiva. ... 97
14. Il Missouri Plan, cioè il piano per il merito ... 107
3 15. Le elezioni giudiziali negli Stati Uniti d’America
prima del 2001. ... 113
16. Repubblicani contro White: la rinascita delle elezioni giudiziali. ... 119
17. Vincitori e vinti. ... 123
18. Giustizia a Saldo ... 127
19. Trasparenza e chiarezza: i gruppi di interesse come “educatori sociali” ... 132
20. Competizione e legittimazione. ... 138
21. Inquisizione e accusa ... 144
22. Il processo accusatorio di parti private ... 151
23. Accusatori e democrazia ... 157
24. Italia, la vecchia Signora ... 163
4 Prefazione
“Ridendo dicere verum.”
(Scherzando si dice la verità) Terenzio
Dopo quasi settant’anni di storia repubblicana, l’Italia deve ammettere che non tutto è andato proprio come ci si aspettava. Per citare quel coltissimo cantautore nostrano che è stato Giorgio Gaber si tratta di una democrazia
“che a farle i complimenti ci vuole fantasia” e non solo per la sanguinosa storia che riguarda l’esercizio del potere democratico.
Molte delle perplessità riguardano anche la capacità delle istituzioni e dei magistrati di amministrare il potere con
5 parsimonia, di farlo nel vero interesse pubblico, di evitare faziosità e antipatie personali.
Questo libro ovviamente non sarà la soluzione di tutti i mali. Vuole più che altro essere un racconto sul potere e sulla società composta da uomini. Una specie di rocambolesca favola, che come tutte le favole è semplice, ma fa riflettere su problemi complessi. È uno scritto breve, scherzoso, che vuole essere alla portata di tutti.
Non dice tutto quello che si può dire sul tema, ma è uno stimolo. Come diceva Montesquieu, “non bisogna mai esaurire un argomento al punto tale da non lasciare niente da fare al lettore. Non si tratta di far leggere, ma di far pensare”. La democrazia è questo: la partecipazione di tutti alla vita sociale del paese e il controllo del popolo sulle scelte che si fanno. Il controllo di un popolo libero e consapevole. Un popolo che non ha paura di fermare quello che non ritiene giusto, anche se la scelta è costosa.
Su questo noi italiani possiamo ben dire di avere una storia importante alle spalle. Il popolo ha fatto tante scelte importanti dalla seconda guerra mondiale ad oggi.
6 Ha scelto di non volere la monarchia, ma la Repubblica.
Ha scelto di non volere il nucleare. Ha scelto di volere il divorzio e l’aborto. Di non volere i sindacati in aziende in cui non hanno fatto nulla per i lavoratori. Ha scelto di cambiare la costituzione quindici anni fa e di non cambiarla l’anno scorso. Insomma siamo un popolo che ha scelto tanto e vuole la libertà.
Eppure abbiamo un rapporto strano con le istituzioni.
Per esempio non eleggiamo il Capo dello Stato, non eleggiamo il governo. E ovviamente non eleggiamo i giudici.
Insomma i padri costituenti avevano fiducia nel popolo, ma anche no. Si fidavano di più di quella classe politica che erano loro stessi. Uomini colti e istruiti in un’Italia semianalfabeta. Uomini di un certo spessore culturale e con enorme dedizione al lavoro.
Solo che qualcosa è cambiato. La politica è diventata più personalistica. I parlamentari sono sempre più legati ad interessi di fazione e meno a effettivi meriti personali.
Abbiamo eletto al Parlamento, con il sistema del “listino
7 bloccato”, alcuni che si potrebbero definire di “dubbia competenza”, per usare un eufemismo e restare nel campo del politically correct.
E forse è anche vero che i politici altro non sono che lo specchio della nostra società. Una società impoverita, imprigionata dall’agio di delegare le decisioni senza preoccuparsi delle conseguenze, per poi lamentarsi dopo quando ormai è tardi. Così quei politici, che dovrebbero essere lo strumento del popolo e per questo vengono eletti, diventano un nemico da combattere.
Il cittadino medio non sempre si preoccupa di verificare accuratamente chi fruisce del suo voto, come farebbe con un idraulico, un medico o un avvocato, anche se il politico esercita per suo conto una funzione ugualmente importante nel gestire la collettività.
Se si guarda poi al panorama dei giudici, però, il panorama non è che sia molto più consolante. Il criterio per la loro selezione è sempre stato considerato quello del “solo merito”, da stabilire prima con un concorso in sede di primo incarico, poi, dopo l’incardinazione, con
8 giudizi dei supervisori magistrati e, in ultima istanza, del Consiglio Superiore della Magistratura. Eppure questi magistrati “ultra competenti” ne combinano di tutti i colori.
Io ricordo nitidamente l’aula di università in cui mi trovavo in attesa di un colloquio con un professore quando lessi l’articolo che, nel 2013, riportava l’assoluzione in Cassazione di un sessantenne che aveva fatto sesso con una bambina di 11 anni, ma che aveva visto accolta la propria difesa in cui sosteneva che “era amore” e che, per tale motivo, poteva non essere condannato.
Sono saltato sulla sedia.
Le Sentenze “anomale” di questo tipo sono moltissime e chiunque faccia la professione forense lo sa.
Ma i giudici sono “mostri sacri ed inviolabili” a cui nessuno può dire nulla. Gli avvocati insegnano ai loro praticanti ad essere sempre accomodanti con i giudici, a non contraddirli, a cercare sempre l’approccio giusto per compiacerli, anche quando fanno le peggiori stramberie.
9 Lo fanno perché sanno benissimo che l’eventuale reclamo sarebbe giudicato da un altro giudice, che probabilmente metterebbe la solidarietà per il collega “oberato” di lavoro davanti a tutto.
Ora non è nemmeno detto che tale impressione che si ha sul mondo della magistratura sia effettivamente fondata su dei fatti. Molte volte essa è solo la conseguenza di un pregiudizio, anche perché nel mondo della magistratura ci sono tante persone di elevatissima caratura e la nostra storia lo dimostra. Il servizio che alcuni magistrati hanno reso alla Patria è fuori da ogni discussione.
Quello che non risulta piacevole è di doverci “sorbire”
anche quelli che invece tale caratura non ce l’hanno o non ce la vogliono avere. E sono protagonisti delle più strampalate decisioni.
Ad esempio in una sentenza, che fece molto scalpore all’epoca, una donna che indossava dei “blue jeans” non vide riconosciuta la violenza carnale ai suoi danni perché l’indumento non sarebbe sfilabile senza la fattiva collaborazione di chi lo indossa. Dunque la ragazza che
10 indossa i jeans ci sta, è consenziente e non è stata violentata perché non si può essere opposta con tutte le sue forze. Ovviamente che una donna possa rimanere paralizzata dalla paura non è stato preso in considerazione.
Nel gennaio 2009 fu annullata la condanna a un uomo scoperto a coltivare cannabis. Motivazione: le piante non erano ancora giunte a maturazione, dunque non rappresentavano un pericolo per la salute pubblica.
Quindi i carabinieri dovrebbero aspettare la maturazione per intervenire.
La cosa si fa ancora più intricata poi quando sono coinvolti temi politici come la tolleranza verso minoranze etniche e culturali o un personaggio pubblico. In materia di accattonaggio, ad esempio, in un caso è stata annullata la condanna a una donna rom che aveva costretto il figlio a chiedere l’elemosina perché l’accattonaggio per alcune comunità costituisce condizione di vita radicata nella cultura.
11 In un caso un signore si rivolge ad un Presidente del Consiglio dei Ministri chiamandolo “buffone”. La Cassazione lo assolve perché non lo ha ingiuriato bensì ha svolto “utile critica sociale”. Ma in un altro caso la stessa Corte confermava la condanna di un contadino che, stufo dei continui rutti del proprio vicino, lo aveva apostrofato come maiale.
Insomma decisioni discutibili.
Dall’altro lato non si può non dare conto del fatto che i nostri giudici lavorano in condizioni che, con uno sforzo di eleganza, potremmo definire “difficili”.
Nella Sintesi della Relazione sull’amministrazione della giustizia per l’anno 2016, il Ministro della Giustizia affermava che al 30 giugno di quell’anno i 5.113 giudici italiani avevano un carico di 3.820.935 procedimenti pendenti da sbrigare, con un costo complessivo a carico dei contribuenti pari a 7.743 milioni di euro.
Una vera “montagna di casi”.
Questo breve scritto non si propone di dare una soluzione a questo triste dipinto, ma di far riflettere chi
12 legge, almeno in parte, sul fatto che non è poi tanto vero che i politici fanno le leggi e i magistrati le applicano.
Tante volte sono questi ultimi che “se le inventano” un po’ a piacere, anche nello sforzo, magari nobile, di adattarle meglio al caso concreto che gli si pone davanti.
Ma se una parte di legge la fanno anche loro e non sono solo la bocca della legge, non sarà il caso che il popolo possa controllare cosa fanno questi signori?
13 Discorsetto sul metodo.
Qualche premessa un po’ più seria occorre farla, ma solo per dire che il lettore si dovrà abituare ad alcuni assiomi di cui nel libro non si darà nessuna spiegazione, nemmeno breve.
Il primo assioma riguarda l’influenza della storia remota sul mondo presente, che viene nettamente affermata. Il mondo antico ha determinato per primo, quando ancora nulla esisteva, di quali temi si debba parlare in una certa discussione. Partendo da questo assunto originale, l’assioma si sviluppa con l’assunto conseguente che ogni civiltà successiva a quelle antiche abbia ereditato qualcosa dalle precedenti, protraendo tale influenza fino ai nostri giorni.
Il secondo assioma riguarda la nozione di progresso del genere umano nel corso dei secoli. Infatti la stessa parola progresso, nel proprio senso comune, implica un miglioramento conseguente al succedersi dei passaggi considerati, mentre in questo libro questa idea si rifiuta.
14 Si ritiene piuttosto che il rapporto di influenza, di causa/effetto, di cui al primo assioma sia determinato dall’incontro tra l’influenza delle civiltà passate e dalla libertà delle civiltà posteriori, combinazione che non sempre portò ad un progresso in senso di miglioramento.
Il terzo assioma è una conseguenza del secondo ed afferma che, una volta assunto per vero quest’ultimo, non si può ritenere che quanto una civiltà ha prodotto sia necessario o appropriato per essa.
A parte questi concetti, che magari sfuggono al senso comune e pertanto occorre precisarli come assiomi, quando potrebbero non esserlo, il resto del libro sarà basato su molte altre nozioni, che però rispondono al senso comune e, pertanto, non possono essere ragionevolmente sindacate.
Non si può sindacare ad esempio che la storia degli uomini che hanno vissuto prima di noi sia rilevante in qualche misura per l’uomo contemporaneo, né che i concetti o i metodi di risoluzione dei problemi sviluppati
15 da civiltà geograficamente lontane siano errati per il solo fatto della diversità.
Né si può sindacare ragionevolmente che il mondo occidentale abbia una storia comune, che pertanto merita una trattazione unitaria, e che di questa storia il continente americano faccia parte dal momento in cui Colombo ci mise piede sopra.
In ultimo non si può ritenere ragionevole alcun tipo di pregiudizio del lettore sul fatto che i sistemi in vigore nel nostro paese siano più o meno efficienti di quelli presentati in questo piccolo volume.
L’obiettivo del libro è evidenziare come il processo di elaborazione della teoria della divisione dei poteri e del loro bilanciamento abbia come naturale conclusione l’applicazione del sistema di controlli e contrappesi anche al potere giudiziario e che tale sistema non può che essere applicato mediante l’elezione dei giudici.
Insomma il lettore legga, tanto ci vuole poco.
Poi penserà alla fine, dopo aver letto.
16 Mentre pensare prima e poi leggere solo per confutare è un esercizio inutile e tedioso.
Riccardo Fratini Syracuse, New York Marzo 2017
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1. Potere e divisione dei poteri
“I popoli non devono avere paura dei propri governi, sono i governi che devono aver paura dei propri popoli.”
Thomas Jefferson
Per quanto possiamo sapere dalla storia noi contemporanei, non è mai esistita una società umana senza una forma di autorità che la governasse. E questa realtà prosegue oggi dai tempi delle caverne. Con un piccolo azzardo qualche studioso si è fatto avanti a sostenere che da questo si può dedurre che la dinamica di potere sia congeniale alla società umana. Non si può comunque negare che tutte le società abbiano cercato e formato un ordine di vita comune, su cui si sono basate le
19 vite degli uomini prima nelle caverne, poi nei villaggi, nelle città, nelle metropoli, negli imperi, nelle nazioni e, oggi, negli Stati. Se questo potere sia una cosa buona non si sa, ma resta il fatto che sembra difficile configurare una società umana priva di un insieme comune di regole che la tenga insieme. Per fare le regole, necessariamente occorreva affidare ad un gruppo di uomini, ritenuti saggi o forti, il compito di decidere cosa si potesse o non si potesse fare. Insomma il potere esiste da quando due soggetti, avendo un litigio su qualche cosa, hanno chiesto ad un terzo di cui si fidavano di decidere chi avesse ragione. Considerando quello che comunemente si può vedere nei bambini, che invocano l’intervento dei genitori in continuazione per dirimere i dissidi più vari fin dalla più tenera età, non sembra poi così difficile accettare l’idea che questo meccanismo sia venuto in essere quasi subito nella storia dell’umanità.
Solo molto dopo però gli uomini devono essere arrivati a domandarsi quale fosse il modo “giusto” per prendere tali decisioni; e così è nata la politica. È nata quando uno
20 di quegli antichi giudizi è sembrato così ingiusto ad una delle parti e al resto dei membri della comunità da spingerli a questionare l’autorità del soggetto che l’aveva emessa.
Ed ecco un nuovo passo del potere: tornare sui propri passi per accogliere la volontà della maggioranza o imporre con la propria forza, se possibile, la decisione presa.
Altre volte, invece, dopo aver assistito a decisioni affrettate prese da colui che deteneva il potere, sarà apparso più saggio ai membri della comunità di incaricare non uno, ma un gruppo di persone di portare avanti il processo decisionale, sperando che dal confronto di più menti potesse emergere un governo migliore.
Non sembrerà troppo difficile riscontrare questi passaggi anche negli ordinamenti giuridici contemporanei, pur molto più complessi.
In modo estremamente generico, questi schemi rispecchiano tuttora i soli schemi di governo noti al
21 genere umano ancora oggi. Concetti elaborati migliaia di anni fa e non troppo mutati nel tempo.
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2. Polibio e il ciclo delle forme di governo.
“Per gli uomini non esiste un mezzo più sicuro di farsi migliori
di quanto non lo sia la coscienza del passato.”
Polibio
Fu uno studioso Greco il primo a condurre una ricerca accurata su questi temi. Si chiamava Polibio e di potere ne capiva parecchio dato che era figlio di un politico della città di Atene, che al tempo era ancora una discreta potenza. Dopo aver fatto la carriera militare come tutti i giovani greci di buona famiglia, fece il politico anche lui, ma ebbe meno fortuna di suo padre perché qualche anno
23 dopo Roma conquistò la Grecia e si portò in patria mille uomini illustri, tanto per far capire chi comandava. Tra questi mille c’era anche Polibio, che non sapeva ancora quanta fortuna gli avrebbe portato questo sfortunato evento.
A Roma ci rimase praticamente tutta la vita e, dato che era un uomo colto e i Romani lo iniziavano ad essere solo in quel momento, venne accolto subito in tutti i migliori circoli culturali tra cui quello del Console Emilio Paolo e quello che poi passò alla storia come “Circolo degli Scipioni”, vera culla della cultura romana.
La storia personale di Polibio lo influenzò profondamente quando, un po’ più anziano, decise di scrivere le sue “Storie” e cioè uno dei primi veri libri di storia.
Proprio in queste “Storie” Polibio ha lasciato la sua analisi delle forme di governo che, nella sua lingua natale, ha chiamato “anaciclosi”, cioè il ciclo del potere.
Il giovane Polibio è stato testimone in patria della forma di governo democratica che vigeva ad Atene. La città
24 greca era governata infatti da magistrati eletti dalla maggioranza del popolo. Ovviamente potevano votare solo i greci maschi e adulti e siccome Atene era una città grande e piena di stranieri, non erano alla fine molti gli abitanti che potevano effettivamente votare. Ma quel concetto di democrazia come affermazione della volontà della maggioranza era un modello tutto greco che aveva avuto una grande influenza su tutto il mondo antico e ancora oggi rimane il modello originario della democrazia. Questi magistrati eletti si chiamavano Strateghi e lo stesso padre di Polibio aveva ricoperto questa carica, di cui aveva quindi una conoscenza diretta.
L’elezione dei magistrati era fatta in assemblea dal popolo riunito nella Ecclesìa. Questa assemblea, inoltre, non esauriva i suoi compiti eleggendo gli Strateghi, ma era un vero e proprio organo legislativo, in cui il popolo era chiamato ad approvare leggi e decreti, a dichiarare la guerra, a ratificare i trattati di pace.
La storia della Grecia, però, aveva insegnato a Polibio che esistevano anche altri modi di governare i popoli. La
25 stessa Atene, non molto tempo prima, era stata protagonista di un’esperienza oligarchica, cioè di governo di pochi uomini. La città usciva da una lunga e sanguinosa guerra che l’aveva vista perdente contro la vicina Sparta. Dopo la sconfitta la città era debole e il governo democratico non lo era di meno. Così alcuni cittadini di Atene, forse con un po’ di aiuto da parte dei vincitori spartani, instaurarono un governo di soli trenta cittadini, che poi passarono alla storia come i “trenta tiranni”. In realtà gli storici greci si riferiscono ad essi solo come “i trenta” e l’aggettivo tiranni ce l’abbiamo aggiunto dopo per lasciar intendere che essi avevano messo da parte la democrazia. Per il resto i trenta non governarono affatto male, anzi provvidero a riformare il sistema giudiziario, che aveva visto molti abusi negli anni della democrazia, e a combattere la corruzione dei c.d. Sicofanti, che erano una sorta di testimoni falsi a pagamento. A capo dei trenta c’era Crizia, allievo di Socrate e parente di Platone, che è passato alla storia
26 come illustre filosofo, nonostante il buon numero di concittadini messi a morte durante il suo governo.
Arrivato a Roma, poi, Polibio studiò la storia romana e la sua prima fase monarchica in cui Roma era governata, appunto, da un re. La monarchia non gli era familiare, ma per tutta la sua vita, come emerge chiaramente dai suoi scritti, lo storico si chiese che cosa avesse reso Roma così forte e potente e non poteva non apprezzare anche quell’evoluzione ancestrale che era stata così necessaria al progresso della città.
Polibio era un uomo istruito e aveva letto Platone e Aristotele, che avevano parlato dei rapporti tra queste tre forme di governo. I greci del passato tendevano però a mantenere la democrazia ateniese come forma di governo superiore a tutte.
Ma Polibio non era d’accordo.
Aveva visto la storia delle città greche e di quelle della Magna Grecia. Molte avevano visto alternarsi i tre regimi.
E studiando quella storia dei popoli greci elaborò una sua teoria.
27 Riteneva che ciascuna delle tre forme, monarchia, oligarchia e democrazia, tendesse nel tempo a degenerare nei propri risvolti peggiori. La monarchia induceva progressivamente i regnanti a gestire lo Stato come se fosse cosa propria e i sudditi come se fossero schiavi, proprio come era successo a Roma all’epoca dei Tarquini, e così degenerava in Tirannide. Allora i popoli, vedendo la degenerazione a cui il re aveva portato lo Stato, si ribellavano e cercavano di stabilire un governo aperto a più persone, così da evitare una gestione eccessivamente personalistica del potere. Sceglievano quindi gli uomini migliori della città e chiedevano loro di esercitare il governo: era l’Aristocrazia, non da intendere con l’accezione sconveniente che il termine ha preso nei secoli, ma appunto come governo dei migliori, che in greco si dice aristoi. L’uomo, però, si sa, è sempre debole e cede alle tentazioni. E come era successo ai Trenta di Atene, gli Aristocratici finivano con l’accumulare ricchezze a scapito del popolo e gestivano il potere
28 includendo i loro amici e parenti a scapito della maggioranza. L’Aristocrazia era diventata un’Oligarchia.
Al popolo toccava di intervenire di nuovo.
Quindi abbatteva gli aristocratici che erano diventati oligarchi e pensava che alla fine era meglio se il potere se lo amministrava da solo decidendo a maggioranza di volta in volta cosa era meglio fare: la democrazia.
Ma secondo Polibio anche la democrazia decade, anche se è il migliore dei governi. Uomini ricchi o carismatici riescono ad entrare nel cuore delle masse e a convincerle ad operare ogni sorta di nefandezze. I populismi prevalgono ed il popolo, tramutato in massa inferocita, sfoggia la peggiore parte di sé in processi popolari sommari e crudeli, proprio come era successo ad Atene poco prima della caduta. Polibio la chiama Oclocrazia.
Per arginare il caos dell’Oclocrazia, quindi, il popolo invoca il governo di un uomo solo, che sia forte e metta ordine. Ecco qua che si torna alla monarchia.
Ed il ciclo ricomincia.
29 L’analisi della successione delle forme di governo di Polibio resta, a millenni di distanza, una delle più lucide, pur tristi, analisi che si siano fatte della gestione della cosa pubblica. Lo storico, però, ci ha lasciato anche un bagliore di luce in mezzo a questo triste dipinto.
Infatti Polibio vede nella Repubblica Romana un modello nuovo e diverso, che ha dato a Roma la possibilità di conquistare il mondo anche e soprattutto per la propria stabilità istituzionale. E questa superiorità di Roma la individuava nel fatto che in essa convivevano in una sola forma di governo tutte e tre le forme tradizionali.
Roma era nata come una monarchia, con il concetto di un potere forte (imperium) affidato al Re. Alla fine della monarchia questo potere assoluto sui cittadini era passato ai due consoli, che quindi lo esercitavano allo stesso modo, con il solo limite di potersi bloccare a vicenda per evitare abusi di potere.
Il potere oligarchico era invece rappresentato dal Senato, che era espressione delle famiglie patrizie, che sarebbe come dire nobili e ricche. In essa sedevano solo i
30 discendenti dei fondatori della città oppure coloro che da questi erano ammessi a sedervi per merito.
Infine il potere democratico era rappresentato dal Popolo Romano che, riunito nei comizi centuriati, eleggeva i magistrati, e, inoltre, aveva il potere di emanare direttamente le leggi attraverso i plebisciti. La stessa parte più povera del popolo, la plebe, aveva i suoi magistrati, i tribuni della plebe, che avevano il potere di veto persino sugli atti dei consoli.
Ciascuna di queste componenti limitava e bilanciava le altre ed in questo sistema di controlli reciproci Polibio vedeva la forma perfetta di governo che, anche quando degenerava, trovava sempre il modo di riequilibrarsi.
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3. Montesquieu e la divisione dei tre poteri.
“Chi lo direbbe?
persino la virtù ha bisogno di limiti!”
Montesquieu
Questo concetto del potere diviso in parti che si limitavano e bilanciavano a vicenda venne però presto accantonato dagli stessi romani. Roma divenne nel giro di due secoli una potenza mondiale che controllava tutte le civiltà del mediterraneo e, per quanto equilibrate fossero, le istituzioni della Città Eterna erano pensate per governare una città e non un impero. Per governare l’impero si affidarono fondamentalmente ad uno
32 strumento molto meno nobile: l’esercito. Ci si affidarono così tanto che ad un certo punto i generali presero il sopravvento e l’esperimento della Repubblica passò in secondo piano e ci rimase per parecchi secoli.
Fu un nobile francese del diciassettesimo secolo a riesumare l’idea.
Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e di Montesquieu, passò fortunatamente alla storia con il solo nome nobiliare di Montesquieu. Fu una delle figure più interessanti e controverse del suo secolo, ma per quanto riguarda la sua fama, essa è dovuta soprattutto al suo scritto “lo spirito delle leggi”.
Il Barone di Montesquieu, infatti, era un grande ammiratore della romanità. Tra i molti scritti, ci restano una sua dissertazione sulla politica dei romani in materia di religione, cosa con cui il Barone andava poco d’accordo, ed un trattato storico chiamato
“Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza”.
33 In questo trattato emerge l’ammirazione di Montesquieu per il popolo romano e per il suo governo, a cui lo scrittore dedica un intero capitolo. In particolare Montesquieu esalta la figura del Censore, magistratura romana che non aveva altro potere che quello di censire il popolo e distribuirlo nelle varie tribù che componevano l’assemblea cittadina. Montesquieu, però, vede in questo lavoro un raggiante esempio di quel concetto di bilanciamento del potere che aveva stupito Polibio. Il popolo povero aveva l’unico strumento dell’assemblea per manifestare la sua volontà al potere politico.
All’origine di Roma l’assemblea era però composta in modo tale che solo i ricchi e i nobili avessero il potere di avere una maggioranza nell’assemblea.
L’attività del Censore di ridistribuire il popolo nelle varie tribù in modo da dargli voce era per Montesquieu la massima espressione del bilanciamento che raggiunse il governo romano in un certo periodo della sua storia.
34 Il governo di Roma gli sembrava ammirabile perché ognuna delle sue parti faceva in modo che ogni abuso delle altre venisse meno.
Questa era una cosa che, a suo avviso, non era mai successa prima né in Grecia, né a Cartagine, né altrove.
In somma, la sua conclusione era che tutti i poteri, anche i migliori, avessero bisogno di essere corretti.
Montesquieu non lo sapeva ancora, ma questo pensiero lo avrebbe portato a diventare uno degli scrittori più celebri della storia.
Diventato un po’ più anziano, il Barone approfondiva l’idea della continua correzione del governo nel suo trattato sullo “spirito delle leggi” ed elaborava la teoria della “separazione dei poteri” che diventerà la base della rivoluzione francese, di quella americana e di tutte le costituzioni del mondo libero.
Il potere doveva essere inteso come diviso in tre parti: il potere legislativo, cioè di emanare nuove leggi, il potere esecutivo, cioè di governare eseguendo le leggi emanate,
35 e il potere giudiziario, di giudicare coloro che queste leggi le trasgrediscono.
Di questi tre poteri, il barone si concentrava però più che altro sui primi due, analizzando la loro interazione nelle varie civiltà ed, in particolare, a Roma. Trovava sempre il governo romano eccellente, con la sua ripartizione tra il potere legislativo, esercitato dal popolo e dalla plebe, e il potere esecutivo, saldamente in mano al Senato e ai Consoli.
In questa divisione Montesquieu vedeva il centro della migliore e più libera gestione della cosa pubblica.
Tuttavia si interessava molto meno del potere giudiziario.
Nella Francia del 1700 in cui viveva, i giudici erano agenti del Re assoluto. Gli obbedivano ciecamente, dato che appartenevano alla nobiltà a lui vicina ed erano da lui nominati. Montesquieu non vedeva una grande minaccia proveniente da questi signori in toga, che nel momento storico in cui vive lui erano davvero “la bocca della legge”, in quanto, come aveva detto un Re francese
36 qualche anno prima: “lo Stato sono io”, e quindi i giudici erano la bocca dello Stato, che era il Re.
Ma intanto un principio importante era stato ormai affermato e la storia del mondo non poteva più dimenticarlo. Anche la migliore forma di governo necessitava di un sistema di limiti e bilanciamenti; anche il più virtuoso degli uomini, se in possesso di un potere senza controllo, si sarebbe trovato ad esercitarlo in modo arbitrario o personalistico. Senza pudore. Attento solo agli interessi propri o del gruppo a cui apparteneva.
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4. La Rivoluzione Americana
“La libertà quando comincia a mettere radici
è una pianta di rapida crescita.”
George Washington
Con buona pace dei francesi, la prima terra a recepire il messaggio del Barone di Montesquieu non fu la vicina Francia, ma la lontana America. La voce del filosofo francese aveva superato il mare con la forza del pensiero più dirompente: il desiderio di libertà.
Era il contesto da cui nascevano che avrebbe permesso agli Stati Uniti d’America di diventare nel giro di duecento anni una potenza mondiale di riferimento per le democrazie di tutto il mondo o, come piace dire agli americani, la nazione leader del “free world”. Si trattava
38 di un contesto coloniale, molto ristretto, di sole 13 colonie tutte inglesi, fondate dalla Corona di Sua maestà la Regina, a cui molte di esse erano intitolate: ad esempio la Virginia si chiamava così in onore di Elisabetta I ed era una colonia inglese dal 1607. Nonostante gli inglesi fossero sul continente da molto tempo, si erano poco espansi verso ovest, avevano mantenuto gli appostamenti solo sulla costa più vicina all’oceano ed erano interessati, più che altro, agli introiti che all’erario potevano arrivare dalla tassazione sul commercio, che era praticamente l’unica risorsa dei coloni, i quali non facevano altro che raccogliere risorse e inviarle in madrepatria.
Non che potessero fare molto altro, dato che la Madrepatria inglese si riservava l’esclusiva di un sacco di cose, tra cui non certo ultima vi era la produzione industriale, che alle colonie era vietata.
I coloni si erano, per la verità, un po’ stufati di questa condizione già da tempo: per uomini che ormai erano convinti dell’esattezza delle idee illuministe non poteva
39 esistere alcuna legge giusta alla cui redazione loro stessi non avessero partecipato. E non vedevano perché dovessero continuare a pagare le tasse per finanziare un governo che non riconosceva i loro rappresentanti e non li riconosceva come parte del proprio popolo. Il motto no taxation without rapresentation, niente tasse senza rappresentanza, serpeggiava dappertutto e i mercanti illuministi lo propagavano.
Ma la goccia che fece traboccare il vaso arrivò nel 1773, quando il Re affidava in esclusiva alla Compagnia delle Indie, società inglese, il commercio del thè che veniva dalla Cina, in cui gli Americani se la cavavano discretamente, privandoli così di ingenti guadagni.
Un po’ seccati, certi signori, che già da tempo si erano fatti portavoce delle idee di Montesquieu e che per questo si facevano chiamare Sons of Liberty, figli della libertà, decidevano di combinare uno scherzo per stuzzicare il governo Inglese a cui notoriamente piaceva imporre la propria autorità con la forza, anche più del necessario. Lo “scherzetto”, che poi è passato alla storia
40 con il nome di Boston Tea Party, consisteva nel boicottaggio delle merci inglesi in America, che venne proclamato assalendo le navi della Compagnia delle Indie alla fonda nel porto di Boston e gettando in mare il carico di thè che esse contenevano.
Il governo inglese ci cadde con tutte le scarpe.
Tolse ogni libertà alle colonie e incaricò un generale di mettere pace a Boston, senza andare troppo per il sottile.
La rabbia dei coloni venne espressa nel Congresso Continentale, in cui si riunivano i delegati delle Colonie, e la guerra ebbe inizio, prima con rivolte sedate nel sangue, poi con la dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, fino alla vittoria, ottenuta anche grazie all’aiuto di qualche potenza europea, nel 1783.
Ottenuta l’indipendenza, gli zelanti coloni dovevano, però, decidere cosa farne.
La guerra li aveva visti uniti contro il comune oppressore, ma una volta finita riemersero le differenze.
Alcuni Stati erano agricoli, altri industriali e commerciali;
41 alcuni erano fondati da comunità religiose, altri composti da laici e progressisti. Insomma, una parte di loro voleva stare insieme e l’altra no, così si misero d’accordo e inventarono il federalismo, che in poche parole significa che sarebbero restati insieme solo in pochi settori, mentre per la maggior parte ognuno avrebbe fatto per sé. Erano gli Articoli della Confederazione.
Ma ci voleva un governo anche solo per poche cose da fare insieme, e gli Articoli non lo prevedevano.
Così a Filadelfia, nel 1787, si riunirono di nuovo i rappresentanti degli Stati, che gli americani chiamano Framers, e ci riprovarono.
Ne uscì una costituzione snella e asciutta, ma densa di contenuti di cui Montesquieu sarebbe stato fierissimo, se non gli fosse capitato di passare a miglior vita qualche decennio prima.
Innanzitutto i tre poteri erano separati nettamente, al punto tale che per esprimere ciascuno dei poteri gli americani usano la metafora del braccio, che fa parte del corpo, ma è da esso nettamente distinto. Il braccio
42 legislativo era retto da un parlamento, chiamato Congresso e composto di due camere, visto che era uno stato federale, una, House of rapresentatives, per rappresentare il popolo ed una, Senate, per rappresentare gli interessi delle entità statali che componevano la Federazione. In particolare la seconda, il Senato, era pensata per rappresentare quella parte della popolazione un po’ meglio educata e ricca, di cui facevano indiscutibilmente parte anche gli stessi padri costituenti, e non era quindi poi così diversa dal Senato romano.
Il braccio esecutivo, invece, lo affidarono invece a una persona sola, così che fosse in grado di decidere velocemente in caso di necessità, e con ampi poteri su tutto l’esecutivo civile e militare: il Presidente degli Stati Uniti d’America, Capo dello Stato e simbolo della libertà, eletto direttamente dal popolo.
Fino a qui niente di nuovo, Montesquieu e la romanità erano stati chiari e loro avevano ricevuto il messaggio.
Qualche cosa di nuovo arrivava però quando si passava al braccio giudiziario.
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5. Controlli e Contrappesi
“La salvaguardia della libertà prevede la più ampia restrizione e dispersione di ogni concentrazione di potere o la distribuzione di qualunque potere che non possa esser eliminato: un sistema di controlli e contrappesi. “ Milton Friedman
La principale preoccupazione dei padri costituenti americani era che una delle parti del governo prevalesse sulle altre, senza che queste, inermi, potessero fare nulla per fermarla. Avevano sperimentato il pugno di ferro della Corona inglese e, quindi, erano tendenzialmente diffidenti ad affidare ad un singolo soggetto tutto il potere, anche se eletto dal popolo; allo stesso tempo, in
44 alcuni stati, avevano assistito ai disordini che un parlamento troppo rissoso poteva provocare, conducendo sostanzialmente il Paese alla paralisi.
Così inventarono un sistema c.d. di check and balances, cioè di controlli e contrappesi.
Il Congresso può approvare le leggi, ma il Presidente ha il potere di veto per rispedirle al mittente.
Se la legge però è proprio buona, così tanto da convincere due terzi dei membri del Congresso a votare a favore, allora il Congresso può superare il veto del Presidente e approvare la legge anche senza la sua firma.
A sua volta il Congresso può mettere in stato di accusa il Presidente degli Stati Uniti, c.d. impeachment, quando egli si sia macchiato di tradimento, corruzione o altri crimini.
Un esempio del perfetto funzionamento del sistema, anche “sotto stress”, arrivava oltre un secolo dopo la Costituzione, quando l’America, uscita lacerata dalla guerra di secessione, stava con fatica cercando una via per la ricostruzione. Il problema centrale della guerra di secessione era il dissidio tra stati del Nord, che volevano
45 abolire la schiavitù, e stati del sud, detti confederati, che sulla schiavitù basavano tutta la loro economia e quindi si guardavano bene dall’avversarla. Quando il nord vinse la guerra nel 1865, però, il problema era tutt’altro che risolto. Anche se la Costituzione era stata modificata con tre nuovi emendamenti che garantivano eguale protezione a tutti indipendentemente dalla razza, gli stati del sud erano piuttosto restii ad accettare la novità. La nazione era così spaccata che persino Abramo Lincoln, incontenibile sostenitore dell’eguaglianza, ritenne prudente di presentarsi per la sua rielezione a Presidente per il secondo mandato del 1865 con al fianco un candidato vicepresidente che fosse vicino agli unionisti, Andrew Johnson. Sfortuna volle, però, che, una volta eletto, Lincoln morì nell’aprile dello stesso anno e Johnson si ritrovò Presidente unionista in una nazione in cui l’unione era appena stata sconfitta e fece di tutto per avvantaggiare gli stati del sud.
La situazione diventò incandescente quando Johnson decise di porre il veto al Civil rights Act del 1866, che era
46 stato presentato dallo stesso Partito Democratico a cui apparteneva. La legge approvata dal Congresso aveva l’intenzione di dare esecuzione ai nuovi emendamenti della costituzione, dando pari diritti ai cittadini afroamericani. Il Presidente tenne un discorso per annunciare il veto in cui affermava chiaramente di non avere alcuna intenzione di appoggiare una legislazione che sostanzialmente discriminava i bianchi in favore degli uomini di colore.
Era troppo.
Gli stessi democratici, che già erano in minoranza al congresso per i voti persi a causa dei discorsi razzisti del Presidente, smisero di tentare di salvare la presidenza.
Una volta tornato al Congresso, il Civil Right Act venne riapprovato con oltre i due terzi dei voti e divenne legge.
L’anno successivo, approfittando dell’ennesimo episodio di disprezzo del Presidente per le leggi emanate dal Congresso, i membri del Congresso ottennero la maggioranza nella House of Rappresentatives e approvarono l’impeachment contro il Presidente.
47 Ecco in cosa consiste il sistema dei pesi e contrappesi, ognuno dei due bracci è sempre soggetto al controllo dell’altro, che lo limita.
Lo stesso doveva valere per i Giudici.
La Costituzione prevedeva solo una Corte Suprema degli Stati Uniti d’America, ma autorizzava il Congresso ad istituirne altre di livello inferiore e questi non mancò di adempiere ai suoi compiti.
La nomina dei giudici federali spettava al Presidente degli Stati Uniti d’America, che però li nominava con incarico a vita e non revocabile. Il contrappeso dei poteri di costituzione delle Corti inferiori e nomina dei giudici è il potere della Corte di valutare la conformità alla Costituzione di tutti gli atti del Presidente e del Congresso.
La storia americana è costellata di eventi in cui un giudice nominato da un Presidente è stato poi protagonista di primo piano delle azioni contro di lui.
Allo stesso modo però il settore giudiziario doveva avere una qualche forma di controllo a posteriori. Il Presidente
48 poteva nominare i Giudici, ma non revocarli. I Giudici potevano rivedere tutti gli atti del Congresso e del Presidente e annullarli, se li ritenevano contrari alla Costituzione. Il Congresso, nello stesso modo in cui poteva mettere in stato di accusa in presidente, poteva promuovere un impeachment anche contro i giudici federali, se si macchiavano di crimini.
E questa norma fu utilizzata, per la verità, molto di più di quella che bilanciava il potere presidenziale, perché i giudici erano tanti e, quindi, tendevano ad essere più
“indisciplinati”. La storia americana dal 1789 ad oggi ha visto solo tre presidenti messi in stato di accusa, mentre il numero sale a quindici, se si guarda al braccio giudiziario.
E mentre si dovette attendere oltre un secolo perché fosse posto in stato di accusa un Presidente, il primo giudice ad essere sottoposto ad impeachment fu John Pickering, nemmeno 15 anni dopo l’adozione della Costituzione, accusato di ubriachezza molesta e, accusa interessante, giudizi contrari alla legge. Ad onor del vero si deve dire
49 che il giudice doveva soffrire probabilmente di malattia mentale e tanto bastò ai membri del Congresso.
Poi venne Samuel Chase, accusato l’anno successivo, 1804, di sentenze arbitrarie e discriminazione politica, cioè di utilizzare il suo ufficio per sostituirsi al Congresso, sport molto di moda al giorno d’oggi.
Dopo di lui se ne trova più o meno uno ogni trent’anni.
James H. Peck, accusato di abuso di potere, West Hughes Humphreys, anche lui accusato di utilizzare l’ufficio per scopi politici, Mark W. Delahay, ubriachezza, William W.
Belknap, accusato di corruzione, Charles Swayne, abuso di potere, Halsted L. Ritter e Harry E. Claiborne, entrambi accusati di evasione fiscale, Alcee Hastings e Walter Nixon, accusati di aver mentito sotto giuramento, altro sport molto in voga di questi tempi, per finire con i più moderni Samuel B. Kent, accusato di violenza sessuale e Thomas Porteous che aveva deliberatamente mentito al Congresso riguardo alle proprie finanze.
Mentre Montesquieu aveva sostanzialmente sminuito il ruolo del potere giudiziario, gli americani lo individuano
50 come pari agli altri in influenza e si preoccupano, quindi, di limitarlo.
Questa consapevolezza sul ruolo dell’ordine giudiziario viene agli americani dall’eredità lasciata dagli Inglesi:
cioè il cd. sistema giuridico di Common Law.
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6. Common Law e potere giudiziario
“Siamo tutti uguali davanti alla legge ma non davanti a quelli che sono incaricati ad applicarla.”
Stanislaw Jerzy Lec
Mentre l’Europa continentale era alle prese con la guerra contro i saraceni, le crociate e la lotta per le investiture tra impero e papato, l’Inghilterra, che godeva della relativa tranquillità della propria posizione geografica, vedeva accadere qualcosa che solo la lontananza da tutti questi eventi poteva permettere. Il feudalesimo, infatti, ha in Inghilterra una storia tutta particolare che, con una buona dose di semplificazione, si può dire che continui ancora oggi.
52 I feudatari del continente subirono prima il contrasto dell’impero, che era per sua stessa natura poco propenso a dare ampia autonomia ai feudi, che erano e restavano parte di esso, poi delle monarchie nazionali, che di fatto ne minarono definitivamente l’autonomia.
In Inghilterra, invece, complice qualche re poco capace e qualche altro assente per motivi di crociata, i feudatari si fecero presto forti abbastanza da fare la voce grossa e vedere riconosciuta la propria autonomia in seno ai feudi con quella che viene considerata la prima “costituzione”
del mondo, la c.d. Magna Charta del 1215, che garantiva gli interessi dei feudi contro la Corona.
Lo stesso dialogo tra tendenze autonomiste dei feudi e volontà unitaria del Re si rifletteva anche in ambito giudiziario.
Ogni feudo infatti aveva un proprio sistema di leggi, determinato dal feudatario di turno, che i Re non erano abbastanza forti da sradicare del tutto. Questi sistemi legali erano però veri e propri sistemi giuridici che venivano applicati da giudici locali e prevedevano rimedi
53 di legge, anche se piuttosto rudimentali e per i soli interessi di una certa classe feudale. All’inizio i giudici di queste controversie erano i Chierici e il metodo utilizzato era quello dell’Ordalia, cioè del giudizio divino espresso con il giuramento o il duello fino alla morte tra i contendenti. In seguito, però, per togliere potere alla Chiesa, si diffuse la pratica di affidare la decisione a processi con giuria, in cui un gruppo di cittadini giudicava le azioni di un altro.
Il Re dovette accontentarsi di vedersi riconosciuta la possibilità di delegare al proprio primo ministro, il Cancelliere, alcune funzioni giurisdizionali.
Così se qualche cittadino non vedeva riconosciuta una sua pretesa dalla legge del proprio feudo, poteva rivolgersi a qualche persona istruita, di solito un sacerdote, che scrivesse al Re affinché gli facesse giustizia. La lettera era ricevuta dal Cancelliere e dal suo Ufficio, che provvedeva a rispondere con un writ, concedendo un provvedimento che proveniva
54 dall’autorità sovrana della Corona e come tale doveva essere applicato.
Pian piano la voce si sparse e i sudditi iniziarono a capire quali azioni venivano sempre accolte dal Cancelliere e quali no. Qualche volta, se c’era un caso nuovo, il Cancelliere concedeva anche qualche nuova azione, dato che non doveva rispondere a nessuna legge scritta, ma solo all’autorità del Sovrano.
La cosa ovviamente andava poco a genio ai feudatari, che capivano il tentativo del Re di accaparrarsi quella fetta di potere nei loro territori, e così, nel 1258 e poi nel 1285, ottennero prima che nessun nuovo writ venisse emesso senza l’approvazione del loro consiglio dei nobili e poi che non se ne emettessero comunque di nuovi, se non per situazioni analoghe a quelle già disciplinate.
Pensavano di essere furbi, ma si diedero la zappa sui piedi.
Giorno dopo giorno, analogia dopo analogia, i rimedi del Cancelliere, detti di Equity, per contrapporli a quelli di
55 legge previsti dalle norme feudali, aumentarono sempre di più la loro portata.
Il regno inglese così si trovò con due sistemi giuridici paralleli.
Per mettere un po’ di ordine nella complicazione di questo sistema, che peraltro aveva sempre leggi molto incerte, quando non inesistenti, i giudici inglesi, che avevano moltissimo potere, si attennero sempre rigidamente ai precedenti da loro stessi emessi, in modo tale che gli avvocati potessero orientarsi nei giudizi facendo riferimento ai casi passati. E questo principio della vincolatività dei precedenti valeva anche nelle Corti di Equity, in cui i writ emessi erano sempre gli stessi, oppure si procedeva per analogia con casi passati.
Insomma nel sistema inglese è stato chiaro fin dal principio che i giudici la legge non la applicavano, ma la facevano.
Questo concetto si sentiva meno nell’Europa continentale, in cui nasceva in quell’epoca l’università a Bologna e si studiava il diritto romano scritto. Siccome i
56 medievali sentivano che, alla fine, potevano dire ben poco di più di quanto avevano già detto così bene i romani, allora si diffuse il concetto che l’attività del giudice non fosse tanto quella di fare la legge, ma quella di conoscere quella romana e di applicarla quanto meglio possibile.
Questa idea del giudice “dotto delle leggi”, che in latino si dice juris peritus, da cui viene la parola
“giurisprudenza”, ha attraversato i secoli fino a dare il nome alle nostre facoltà di legge, mentre gli inglesi chiamano le loro law schools, per sottolineare che lì non si impara solo il testo della legge, ma anche come questa si è comportata nel tempo con l’opera dei giudici e come potrebbe essere giusto portarla avanti, dato che questo sarà il compito dei giuristi del domani e non certo di un impersonale “legislatore” che cola dall’alto la verità.
Il segreto indicibile è che il “legislatore” non esiste:
esistono uomini che scrivono le leggi e uomini che la applicano, e tutti questi uomini tendono a sbagliare piuttosto spesso.
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7. Il popolo e in nome del popolo
“Io considero il processo con Giuria come l’unica ancora fino ad ora elaborata dagli uomini che possa davvero tenere uno Stato fermo sui principi della propria Costituzione.”
Thomas Jefferson
Un'altra piccola eredità che ha lasciato al mondo la vecchia Inghilterra è il processo con Giuria.
Come già accennato, in quel paese non si riteneva che il processo fosse un appannaggio esclusivo dei “tecnici” del diritto, ma piuttosto un’occasione per lo stesso popolo di giudicare i suoi membri e le sue leggi. Sia nell’ambito civile che nell’ambito penale le controversie erano
58 devolute a una Giuria di cittadini comuni, generalmente nel numero di dodici, che avevano, e hanno tuttora, il compito di valutare le prove e stabilire, secondo le indicazioni legali fornite dal giudice, se i fatti allegati dalle parti sussistessero o meno. Le statuizioni della Giuria sui fatti rivestivano un ruolo assolutamente centrale nel processo cognitivo giudiziale ed infatti non erano appellabili. La giuria viene vista come rappresentante dello stesso Popolo, il cui giudizio, profondamente democratico perché dato da un gruppo di pari dell’imputato o del convenuto, è insindacabile sui fatti.
Restavano, però, in discussione le questioni di diritto, sulle quali la Giuria non ha competenza specifica, che sono giudicate in primo grado dal giudice che assiste la Giuria ed, in caso di errore, revisionate.
Si cercherà di spiegare in seguito come tale tipo di divisione abbia un’enorme influenza sull’andamento dei processi e su tutto il sistema giuridico.
59 Per non contraddire lo spirito di questo libro e rispondere da subito a chi sostiene che questa forma di giudizio “del popolo” sia aliena all’Europa e al diritto romano, si ricorda che, al contrario, i paesi del continente sono stati la culla del processo dinnanzi al giudice popolare o, comunque, privato.
Come tutti gli istituti di democrazia che il mondo conosce, il primo “prototipo” di processo con giuria popolare nacque in Grecia: i criminali della città venivano condannati da un’assemblea popolare che ne acclamava la colpevolezza, udite le prove. Solo che i giurati erano troppi e troppo influenzati dai politici che si annidavano tra loro, così quella massa di centinaia di cittadini finiva con andare un po’ dove la portava il cuore e tra una condanna e l’altra le capitò, per esempio, di condannare il povero Socrate, a cui toccò di suicidarsi con la cicuta.
Gli stessi “creatori” del diritto da cui derivano tutti gli ordinamenti moderni, i romani, erano soliti scindere, nel processo, una fase “in iure” (in diritto), che si svolgeva
60 dinnanzi al Pretore, magistrato togato, ed una fase “apud iudicem” (presso il giudice), che si svolgeva dinnanzi ad un giudice, che altri non era che cittadino comune. Il magistrato togato aveva solo il ruolo di dare una
“formula”, essenzialmente contenente le istruzioni a cui il giudice privato si doveva attenere nel valutare le prove delle parti secondo la legge illustrata dal pretore.
In somma, una cosa molto simile al processo con Giuria di quanto non sia in effetti il processo tutto interiore che opera il giudice “bocca della legge”. In questo, gli attuali ordinamenti di Common Law sono molto più vicini al processo romano rispetto a quelli di diritto civile.
Per nulla simile è, invece, il processo che i romani chiamavano provocatio ad populum, grazie al quale un condannato poteva rivolgersi al popolo romano per ottenere grazia. In questo caso il popolo infatti non giudicava la colpevolezza, che già era chiara, ma salvava un soggetto per motivi diversi dal giudizio sui suoi crimini.
61 Più propriamente come giuria, il concetto di giudizio da parte di un gruppo di privati era in auge durante il Sacro Romano Impero nel Ducato di Swabia nel 1562, dopo l’abbandono dei sistemi ordalici, mentre altre forme di giuria con svariate composizioni erano utilizzate in altre città dell’Impero. La prima notizia di una Giuria analoga a quella inglese, di dodici membri, è rinvenibile solo nel 18° secolo in Renania, ma è interessante il fatto che la Costituzione di Francoforte dell’Impero Tedesco del 1848 garantiva il processo con Giuria per tutti i crimini maggiori.
Una storia simile a quella inglese, invece, avrebbero avuto i paesi scandinavi, come la Norvegia, la Danimarca, la Svezia e l’Islanda, che con alterne vicende sembrerebbero tutte avere storie risalenti di processi con giuria.
Inoltre la maggior parte degli studiosi di storia della Giuria afferma che essa non è nata per volontà esplicita di un’autorità, ma spontaneamente tra i cittadini per il solo sentore che fosse giusto giudicare e condannare
62 qualcuno solo se questa era la volontà dei concittadini, suoi pari.
Questa ricostruzione ci lascia intravedere la profonda connotazione democratica del sistema del processo con giuria, che nasce dal popolo, e nel popolo stesso individua l’organo giudicante. Ed inoltre questo pensiero è stato comune a civiltà molto lontane in diverse parti d’Europa.
In Inghilterra sarebbe stato il Re Enrico II a dare riconoscimento ufficiale ai processi con giuria, che erano già nati spontaneamente per dirimere alcune controversie.
Dal Concilio di Claredon sappiamo che esistevano giurie di dodici uomini con il compito di accusare un reo, che poi però veniva spesso giudicato tramite il processo ordalico, cioè chiedendogli di giurare che non era stato lui (giuramento) oppure di battersi con l’altra parte (duello). Questa usanza proseguì fino a quando nel 1215 il Papa Innocenzo II la proibì.
63 A quel punto in Inghilterra non rimase che affidare alla giuria anche la valutazione delle prove. Così gli inglesi, che della Corona e dell’aristocrazia, e quindi dei giudici, in quel periodo si fidavano pochissimo, iniziavano a preferire sempre di più affidarsi ad un gruppo di loro concittadini.
Da allora non che sia cambiato gran che. Tranne che oggi, quando si pensa al processo con Giuria, si deve pensare più che altro agli Stati Uniti d’America. Per il resto è cambiato solo il nome della giuria che approva le accuse contro il reo, che oggi si chiama Grand Jury, ed è composto da un gruppo più numeroso di dodici persone, mentre la Giuria adibita a funzioni decisorie ha assorbito il giudizio sui fatti sia nei casi penali che civili.
Poi nei secoli si sono aggiunte una serie di cautele volte a
“proteggere” la Giuria, affinché possa udire nel corso del processo solo le prove ammissibili e rilevanti per un completo giudizio. Si cerca, invece di escludere tutte quelle prove che siano pregiudizievoli, cioè generino
64 pregiudizi che non riguardano il caso, o non credibili, come per esempio le testimonianze per sentito dire.
Molti preferiscono ancora essere giudicati da persone
“normali”, piuttosto che da giuristi esperti di legge.
Per gli americani il processo non è appannaggio dei
“tecnici” del diritto, ma piuttosto un’occasione per lo stesso Popolo Americano di giudicare i suoi membri e le sue leggi, sia nell’ambito civile che nell’ambito penale.
La teoria che ha prevalso nel continente, dove il diritto è stato rielaborato dal Codice di Giustiniano, è la concezione della legge come “oro colato” dall’imperatore di turno, dal Papa o dal Re assoluto. La legge esiste solo in quanto posta da un’autorità. Si inizia a parlare già in tempi remoti di diritto positivo, perché positum, cioè stabilito dalla volontà del sovrano, che poi, con un eufemismo, abbiamo iniziato a chiamare “legislatore”.
Di conseguenza il giudice non doveva far altro che conoscere a menadito la legge, di cui lui non doveva essere in nessun modo artefice, ma solo portavoce.
65 Questa concezione non mutò nemmeno con la Rivoluzione francese, che anzi tramutò il potere giudiziario in uno strumento nelle mani del “sovrano”, che ora si chiamava Repubblica.
E anche allora, quando il potere doveva essere tornato finalmente nelle mani del Popolo, non era il Popolo a giudicare, ma, nel migliore dei casi, un “giurisperito”
scelto per la sua dottrina a farlo “in nome del popolo”, e cioè in applicazione della legge, mentre nelle giurie popolari il Popolo giudicava da sé, senza bisogno di intermediari.
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8. Quel disastro chiamato rivoluzione francese.
“Popolo, ricordati che se nella Repubblica la giustizia non regna con impero assoluto
la libertà non è che un vano nome!”
Maximilien de Robespierre
Montesquieu aveva dato il via all’idea della separazione dei poteri, ma sul potere giudiziario si era limitato a dire che esso valeva poco o nulla. I giudici erano solo la bouche de la loi, cioè la bocca della legge.
Il filosofo aveva vissuto in una Francia monarchica, figlia della cultura dell’assolutismo ereditata dal Re Sole Luigi XIV. I giudici erano diretta emanazione del luminescente sovrano e ne rispettavano la Suprema Volontà, che,
67 infatti, si scrive con la maiuscola perché era Legge dello Stato.
La rivoluzione francese arrivò circa cinquant’anni dopo la sua morte e si basava interamente sugli ideali illuministi di abolizione dell’assolutismo, bilanciamento e separazione dei poteri. Insomma una vittoria postuma di Montesquieu, o almeno questo era il piano.
Qualcosa, però, dovette andare storto durante l’esecuzione e la rivoluzione diventò un bagno di sangue continuo e poco sensato. Gli stessi capi della rivoluzione capirono presto che il caos generato dal sovvertimento della società doveva essere contenuto e pensarono bene di farlo nel modo che conoscevano, cioè usando le
“bocche della legge”.
Il 9 ottobre 1789 Joseph-Ignace Guillotin, medico chirurgo e membro dell’Assemblea Nazionale, propose all’organo legislativo della Rivoluzione l’adozione di un mezzo più umano per eseguire le condanne a morte. La Ghigliottina prende appunto il nome dal povero medico che, con le migliori intenzioni, ne propose l’adozione.
68 Non sapeva, però, che sarebbe diventata il simbolo stesso della rivoluzione.
I primi a cadere vittima del “mezzo umano” di dare la morte adottato dal giustizialismo rivoluzionario furono il re e la regina di Francia.
Ma non era che l’inizio.
I tumulti si moltiplicavano in tutta la nazione e molti cittadini francesi, che all’inizio condividevano gli ideali illuministi, non volevano certo vedere il loro re decapitato. La Francia era stata una monarchia per secoli e a tale forma di governo molti francesi erano ancora affezionati.
La Vandea ad esempio era una regione monarchica e di profonda fede Cattolica, ma il governo rivoluzionario e illuminista voleva un controllo assoluto su tutta la nazione, imponendo regole uguali per tutti al grido di
“uguaglianza”.
In questo caso, però, l’uguaglianza formale non serviva a far stare meglio le persone, serviva a discriminare coloro che non si adattavano al modello di cittadino fornito dal
69 governo centrale rivoluzionario. La vera eguaglianza, quella sostanziale, avrebbe lasciato liberi i cittadini di vivere la loro diversità, assicurando a tutti la stessa possibilità di partecipare alla vita della neonata Repubblica.
Ma non fu questo il caso della Vandea.
Le politiche antireligiose della neonata repubblica finirono per indurre i cittadini di quella regione ad un’insurrezione.
Proprio in questo momento si rivelava il vero volto della rivoluzione: l’assolutismo che si voleva combattere nella monarchia aveva cambiato forma, ma non sostanza. La Francia restava il paese dell’assolutismo, della dittatura della maggioranza sulla minoranza. La risposta all’insurrezione non fu la concessione di uno spazio di libertà maggiore, ma la ghigliottina, così da conformare tutti ai voleri della Repubblica.
Ovviamente strumenti di questa risposta furono l’esercito e i giudici “bocca della legge”, che attuavano le sentenze “in nome del popolo”, ma contro di esso.
70 Le stime non sono molto chiare, ma sembra plausibile affermare che oltre 100.000 esseri umani persero la vita in quella dura repressione.
Nello stesso periodo, intanto, il Tribunale Rivoluzionario si occupava di fare piazza pulita degli “oppositori politici” della Repubblica, che era stata fatta per dare voce a tutti.
Il metallo della ghigliottina del Tribunale Rivoluzionario fischiò circa 10.000 volte.
Il principio affermato era che la “Repubblica” poteva uccidere un po’ chi voleva in nome della libertà, non mancarono all’appello nemmeno gli stessi padri della rivoluzione Maximilien Robiespierre e Georges Jacques Danton, che persero la testa, letteralmente, nel 1794.
Insomma la rivoluzione cambiò tutto dell’ Ancien Regime, ma non la concezione del potere giudiziario, che restava solo uno strumento nelle mani degli altri due poteri.
A liberarci di questa eredità, noi “figli” della rivoluzione francese, non siamo ancora riusciti del tutto, anche se ormai, almeno in Italia, non si trova più nemmeno un
71 manuale di diritto che non riconosca che il giudice è ben più di una “bocca della legge”.
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9. Le Bugie di Napoleone
“Chi ha voglia di rovinare gli uomini deve solo permettere loro tutto.”
Napoleone Bonaparte
Al caos della rivoluzione riuscì a mettere fine solo un nuovo sovrano assoluto, che si proclamò prima Primo Console e poi Imperatore: Napoleone Bonaparte, uomo a cui la libertà piaceva poco o niente.
Napoleone era corso, ma la Corsica fino a pochi anni prima della sua nascita era genovese, il che vale a dire che il piccolo uomo che mise a ferro e fuoco l’Europa era italiano.
Non varrebbe la pena di dirlo per puro spirito patriottico, ma vale invece le pena di farlo per lasciar intendere quanto Napoleone, da bravo militare e non francese qual