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PARALIPOMENI DELLA POESIA OMOEROTICA ITALIANA DEL CINQUECENTO

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Academic year: 2021

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D ANILO R OMEI

PARALIPOMENI

DELLA POESIA OMOEROTICA ITALIANA DEL CINQUECENTO

1

CELIO MAGNO

Banca Dati “Nuovo Rinascimento”

www.nuovorinascimento.org

2019

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Nel corretto e spesso severo petrarchismo del veneziano Celio Magno (1536-1602), divulgato in varie sillogi miscellanee del suo tempo e infine in una raccolta in comune con l’amico Orsatto Giusti- nian,

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spiccano le scorrette ottave Già fu che, stolto: scorrette non per la lingua, che conserva la decorosissima cifra consueta, ma per il mo- tivo del ripudio dell’amore femminile a vantaggio di un amore pueri- le (di un «bel fanciullo»). Non si trovano nella canonica raccolta del 1600, pubblicata due anni prima della morte, ma nel testo compreso nella BIT, la “Biblioteca Italiana” in rete [http://www.bibliotecaita- liana.it/], che a sua volta rinvia all’ATLI, l’Archivio della tradizione lirica. Da Petrarca a Marino, Roma, Lexis Progetti Editoriali, 1997;

non so dire, pertanto, su quali testimoni si fondi la trascrizione e chi l’abbia effettuata, dal momento che l’ATLI è ormai inconsultabile per l’obsolescenza del software in cui è implementato. Il fatto che non compaiano nelle raccolta “canonica” del 1600, che rappresentava in pubblico l’autore, allora segretario del Consiglio dei Dieci della Re- pubblica di Venezia, non stupisce affatto. Credo che le ottave costi- tuiscano un unicum nella produzione nota del Magno, ma non si può escludere che, scavando nei manoscritti, non possa emergere un filo- ne sotterraneo e segreto. Il travestimento pastorale (il fanciullo non è uno Zanin ma un Tirsi) e la convocazione degli amasii conclamati della letteratura antica (Alessi, Adone, Giacinto, Ila, Narciso) mirano alla normalizzazione e all’accettazione.

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Rime di Celio Magno et Orsatto Giustiniano. In Venetia, Presso Andrea Muschio. M. DC.

In 4°, [20], 166, [2], 104, [6] pp.

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Già fu che, stolto, io non credea possente volto di bel fanciullo ardermi il core, mentre amor feminil chiusa la mente, da pria mi tenne in troppo cieco errore;

or che, mercé del ciel, l’anima sente le forze al fin di sì soave ardore, l’altro dispregia, e stupor anzi prende come per donne Amor suo foco accende.

Tal chi prima gustò, di Bacco amico, spremendo l’uve il nettar dolce e grato, de l’acqua diventò schivo e nemico ch’era a mensa bramar pur dianzi usato;

così trovando in cavo tronco antico famelic’orso il mel non più gustato, le ghiande lascia e ’n tutto a sdegno l’have, accorto fatto del licor soave.

Donna, voi, ch’io già tenni angel celeste sceso a farmi qua giù beato a pieno, cedete il vanto pur ch’allor n’aveste al volto del mio Tirsi almo e sereno;

perché quanto or di ben dar mi potreste lo stimerei d’un sol suo guardo meno:

e nel suo amor più tosto aver tormento che nel vostro, torrei, viver contento.

Quanto m’è dolce più che ’l cor mi leghi a la sua chioma inanellata e bionda;

e che sue forze in me tutte dispieghi da quella fronte Amor chiara e gioconda;

e ch’indi spesso i miei cocenti prieghi cortese ascolti, e lor grato risponda.

Quanto m’è più soave, in lui da presso mirando, tutto in lui perder me stesso.

Vince il mio Tirsi al bel purpureo viso, agli occhi vaghi ed al gentil sembiante, Ales, Adon, Giacinto, Ila e Narciso con qualunque altro di beltà si vante.

ancor direi che Giove in paradiso

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di men degno fanciul si gode amante:

ma temo a lui non scenda in novo augello per farne sé più lieto e ’l ciel più bello.

Dolce mio caro aventuroso foco, luce degli occhi miei sola e gradita, che ’l mio cor sollevando in nobil loco mi rinovasti a più felice vita,

e in cambio d’un piacer fallace e poco, gioia mi fai provar vera infinita:

scorgi tu dentro in me quel ch’or desio

dirti, e spiegar non puote il canto mio.

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