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FABRIZIO FONDI QUATTRO CAFFE' PER FAVORE

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Academic year: 2022

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FABRIZIO FONDI

QUATTRO CAFFE' PER FAVORE

Si dice che la verità stia nel vino. Può darsi, non voglio mettermi a dissertare su ciò, chi lo ha detto avrà avuto le sue buone ragioni. Per quanto mi riguarda posso affermare con sicurezza che sta nel caffè. E lo affermo con convinzione, perché nessuno conosce meglio di me le virtù terapeutiche e catartiche del caffè.

Nessuno, perché io sto dall’altra parte del bancone, ascolto tutto e vedo tutto, rivivo scene già viste, con finali scontati e prevedibili, assisto ad amicizie che si rinsaldano, che si raccontano segreti fino ad allora tenuti gelosamente riservati, si fanno confidenze. Vedo amori finire e rinascere, riprendere vita davanti ad una tazza fumante di caffè o di un cappuccino fatto a regola d’arte. Il caffè è la mia vita, in tutti i sensi. Intanto perché mi dà da vivere, da decenni, senza avermi ancora stancato neanche un po’. E poi perché mi racconta la vita, mi aiuta a comprenderne l’essenza, ad osservarla in diretta con le braccia appoggiate sul bancone, oppure mentre fingo di pulire qualche oggetto e tendo le orecchie per ascoltare meglio. Non sono un impiccione, cercate di capirmi. A me piace la vita vera, reale, mi piacciono le storie autentiche, magari inverosimili, paradossali, incredibili, ma vere. E quelle che due persone si raccontano davanti ad una tazza di caffè sono splendide. Ti dimostrano che a volte la vita può farsi beffe della fantasia più sfrenata, può andare oltre e sfidare le leggi della scienza e della natura. E io imparo, imparo più che da mille libri, faccio tesoro di quello che sento. In questo caffè ho imparato a vivere. Ho assistito a proposte di matrimonio, alla conclusione di affari importanti, alla spartizione di patrimoni e alla trattazione di divorzi, ho assistito a discussioni su come chiamare il proprio figlio e su dove andare in viaggio di nozze. Ho visto la vita manifestarsi nelle sue sfaccettature più variegate e sfociare nelle soluzioni più strane ed imprevedibili.

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Davanti ad una tazza di caffè, più che davanti ad un bicchiere di alcol, ho ascoltato decine di confessioni e centinaia di bugie. Avrei da raccontarne tante da riempire un mucchio di libri, senza contare quelle che il tempo ha cancellato dalla mia memoria.

Ce n’è una, tra tutte queste storie, che non potrò dimenticare mai, nonostante risalga a quando questo caffè non era ancora mio e facevo il garzone al commendator Malasoma. Se ci ripenso mi sembra di averla vissuta ieri sera, talmente è impressa a fuoco nella mia mente.

Era una serata invernale, fredda e piovosa. Ero rimasto solo nel bar con l’ordine di pulire i tavoli, spazzare per terra e chiudere bene la saracinesca. Il commendatore aveva già svuotato la cassa a chiuso i conti, nella previsione che ormai non sarebbe più entrato nessuno, poi mi aveva lasciato le consegne ed era sparito velocemente. Ero di spalle, intento a pulire il panno incerato di un tavolo quando sentii trillare il campanello collegato alla porta di ingresso. Entrò un uomo piuttosto anziano, dal portamento sicuro e spigliato. Si tolse il cappello, mostrando una capigliatura ancora folta ma bianchissima, compattata da una abbondante quantità di brillantina e pettinata indietro. Poi si tolse i guanti, li infilò nella tasca del cappotto nero ed ordinò un caffè. Poiché non era ancora ora di chiusura non potei negarmi e gli preparai quanto aveva chiesto. Aveva uno sguardo vivace, intelligente, attento, ed era fisicamente ancora molto agile, i suoi movimenti non tradivano il passare del tempo sul suo corpo mentre il volto, al contrario, era segnato da rughe profonde e numerose. Le rughe di chi nella vita ha dovute soffrire e sopportare più del dovuto. Appena posata la tazzina sul piattino ordinò un altro caffè. Richiesta piuttosto singolare, mi dissi, due caffè consecutivi dopo mezzanotte per un uomo che a quest’ora dovrebbe essere a letto da un pezzo. Figurarsi come rimasi quando, dopo qualche minuto, ne ordinò un terzo. Lo guardai negli occhi, per sincerarmi di aver compreso bene quanto mi aveva chiesto, ma lui mi fissò ed annuì seccamente con la testa, sicuro di sé, con le mani incrociate sul bancone ed uno sguardo che smorzava sul nascere

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qualunque velleità di discussione. Mentre il caffè scendeva dalla macchina dentro la tazzina, cremoso, caldo ed invitante, riflettevo su cosa avrei dovuto dire o fare di fronte ad una situazione tanto strana. Porsi il piattino al vecchio e presi coraggio:

- Mi scusi, signore, devo avvertirla che tra poco il locale chiuderà. E poi volevo dirle che…insomma, tre caffè a quest’ora…insomma…credo che non dovrebbe…

Lui sorrise mentre sollevava lo sportello della zuccheriera. Poi, mentre versava lo zucchero nella tazzina, mi disse:

- Solo questo, ti chiedo. Fermati dieci minuti, devo raccontarti una storia. Solo questo.

Mi guardai attorno, imbarazzato. Il locale era vuoto, i tavoli erano già stati in gran parte sistemati, restava soltanto da spazzare. In fondo, dieci minuti non erano poi molti. Serrai le labbra, poi incrociai il suo sguardo e tutti i miei dubbi vennero spazzati via in un attimo.

- Va bene – gli dissi – dieci minuti. E mi sedetti su uno sgabello di fronte a lui.

Bevve il suo terzo caffè lentamente, quasi fosse una cerimonia sacra. Poi posò la tazzina e cominciò a raccontare.

* * *

E’ il 1945, sono i primi giorni di aprile. La Germania ha ormai perso la guerra, lo sanno i tedeschi per primi. Qualcuno di loro è già fuggito via, intento a rifarsi una verginità che gli permetterà di ricominciare da zero in qualche altra parte del mondo, altri, i più fanatici, non si rassegnano e preferiscono lasciare il loro ricordo indelebile lungo i piccoli paesi che incontrano nella loro ritirata. Sono stato catturato da qualche giorno da una loro pattuglia. Avevamo preparato un piccolo attentato ad una camionetta lungo una stradina che le vedevamo percorrere quotidianamente. Qualcuno dei nostri era contrario, aveva consigliato di lasciar perdere, di lasciare che gli eventi procedessero da soli. Ormai il fiume

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era in piena e stava arrivando, la loro sconfitta era solo una questione di giorni.

Altri, tra cui il sottoscritto, sono talmente pervasi di odio da non poter accettare una soluzione del genere. Vi leggono vigliaccheria, opportunismo, ed anche un errore politico di fondo, quello di voler lasciare interamente agli americani il merito di aver liberato il paese. “ E poi cosa faremo? - dico. Lasceremo il paese nelle mani del nuovo padrone, senza neppure provare a reclamare un ruolo, uno spazio nella sua storia e nel suo futuro?”. Così la mia posizione prevale e nel giro di qualche ora organizziamo un attentato che avrebbe richiesto invece qualche giorno di preparazione. Ormai ci sentiamo i vincitori, i tedeschi devono avere il morale a terra per quanto sta accadendo, e abbassiamo pericolosamente la guardia. E infatti l’attentato non funziona, quei maledetti dei tedeschi, sempre così ligi al dovere, sempre così zelanti, cominciano ad inseguirci dentro la macchia, alcuni a piedi, altri aggirando il poggio con la camionetta ed appostandosi sull’altro versante, allo scopo di accerchiarci. In quattro balletti finiamo nelle loro mani. Siamo in cinque, io sono il più vecchio del gruppo, ho cinquanta anni. Gli altri quattro sono poco più che ragazzi, con una vita davanti a sé, anche se tre di loro hanno già una famiglia sulle spalle. Ci portano al loro comando e ci trascinano davanti al comandante della divisione. Non potrò mai dimenticare il volto di quell’uomo: era una miscela di odio, rabbia, frustrazione, razzismo. Se mi chiedessero di descrivere lo sguardo della malvagità più pura, più autentica, io indicherei senza dubbio lo sguardo di quel comandante. Non so se dentro quell’uomo ci fosse satana, o il male, o come lo vuoi chiamare. Però so che quello non era un uomo, non poteva esserlo in nessun modo. In un italiano perfetto chiede informazioni su di noi: nomi, cognomi, abitazioni, per chi lavoriamo, quanti siamo, e così via. Rispondiamo a monosillabi, cercando di parlare il meno possibile, così come siamo stati addestrati, e il comandante, che conosce bene i nostri principi, continua a sorridere senza nascondere il suo disprezzo. Per lui la guerra non sta assolutamente volgendo al termine, anzi.

Percepisco chiaramente la sensazione che qualcosa di orrendo sta per scagliarsi

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furiosamente su di noi. Per questo mi stupisco quando dà l’ordine di trascinarci in una stanza lurida, fredda, piena di spifferi che di notte si fanno sentire anche ad aprile. Ci fa portare del cibo e ci fa sapere che per l’indomani mattina ci vuole riposati ed in buona forma. Mi racconto che la fine della guerra comincia a farsi sentire anche dentro i cervelli più ottenebrati e che, a questo punto, anche un trattamento più mite dei prigionieri può contare qualcosa davanti all’inevitabile tribunale che dovrà giudicare questi criminali. Lo ha capito anche quel distillato di odio e ferocia che comanda questa divisione, per fortuna. Mangio quel poco che ci viene concesso, poi mi rannicchio dentro ai miei vestiti consunti e maleodoranti e provo a dormire, per quanto posso. Quando sei esausto la notte non passa mai, ma la mattina arriva prestissimo. Ci vuole una vita per prendere sonno, ci vuole un istante per risvegliarsi, più stanchi di prima, maledicendo questa guerra, chi l’ha voluta, chi non l’ha voluta fermare e chi ha fatto finta di non volerla, desiderandola invece ardentemente. Mi schiaffeggio il viso, chiedendomi cosa mi ha riservato il destino per oggi. Intanto non sono morto, e questa è già una cosa più che buona. Intanto gli americani saranno meno lontani di quanto erano ieri, e questa è la seconda buona notizia. Ce ne saranno anche di cattive? Mi preparo a vederle arrivare, partire in vantaggio di due a zero, di questi tempi, accade solo nel mondo dei sogni.

E infatti non ci vuole molto. I soldati che vengono a prelevarci sono molto nervosi, urlano, tremano visibilmente, ci ordinano di sbrigarci. Sono in cinque, uno per ognuno di noi, e la cosa mi riempie di terrore. Appena fuori dalla stanza scorgo una lunga fila di camionette, alcune sono in moto, pronte a partire, altre sono addirittura già occupate. I crucchi stanno cambiando aria, forse è finita davvero, stento a crederci. Abbasso la testa e continuo a camminare, sento nel mio cuore accendersi un minuscolo bagliore di felicità. E’ finita, Dio ti ringrazio.

Svolto il cantone del casale e la felicità mi muore sul volto come un coniglio colpito da una freccia avvelenata. Lo spettacolo che mi si presenta davanti è il prologo della tragedia. Sento il dolore spuntarmi tra le gengive, negli angoli della

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bocca, sento il sapore metallico del sangue che mi invade il palato. Mi sono morso la lingua per il terrore, e sto sanguinando copiosamente, ma non mi importa e non importa a nessun altro. Dieci persone stanno sedute davanti a me, legate, sotto la custodia di quattro soldati che puntano contro la loro testa i loro fucili. Quattro mogli, tra cui la mia, e sei figli, di cui tre miei. Altro che guerra finita, la mia tragedia non è nemmeno iniziata. Capisco subito che mentre per molti sta per cominciare la festa per me e per i miei compagni di sventura sta invece per cominciare l’inferno. Stanno tutti singhiozzando e si sentono già morti. Mia moglie mi guarda, implora il mio aiuto, il mio intervento, e io mi sento così colpevole e così impotente…Il comandante si è posizionato al centro della scena e ci sta aspettando.

- Buongiorno, signori. Saprete tutti ormai che la guerra sta volgendo al termine. L’abbiamo persa, anche per colpa di voi italiani, opportunisti e traditori come sempre. Ma molti di voi ci ricorderanno per molto tempo, a cominciare da quei vigliacchi che due giorni fa hanno cercato di far saltare in aria una delle nostre camionette. Saprete anche che la rappresaglia è una delle nostre migliori specialità, e oggi lo proverete sulla vostra pelle.

Poi si dirige verso di me con una calma quasi teatrale, si avvicina fin quasi a toccarmi e mi parla sottovoce:

- So che sei stato tu a desiderare questo attentato. E allora tu pagherai per tutti loro, partigiano bastardo.

E’ accecato dall’odio e dalla rabbia e io rappresento la più grande possibilità di sfogo per la sua impotenza di fronte agli eventi che stanno travolgendo il suo paese. Non trovo neppure la forza di gridare. Del resto non farebbe che accrescere il suo godimento. Comincia a sparare alle donne e ai bambini, senza ucciderli. Prima spara loro alle gambe, entrambe le gambe, poi si siede a godersi le urla e lo strazio che ha prodotto. Ogni sparo è una stilettata, una frustata che mi scuoia l’anima. Sento i miei figli piangere, chiedermi aiuto, li vedo cercare il mio sguardo, con gli occhi imploranti, pieni di dolore e di disperazione. Guardo

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la mia vita, il mio passato, le mie gioie fuggire via, un poco alla volta, senza avere la forza e la possibilità di oppormi. Poi l’uomo si accende una sigaretta e si alza in piedi. Dà il via ad un secondo giro, sparando alla due braccia di mia moglie e dei sei ragazzi. Non esiste dizionario al mondo che possa aiutarmi a descrivere ciò che provo. Ogni volta che spara si volta verso di me e sorride. Un sorriso zeppo di malvagità, un ghigno che non riesco a dimenticare e mi perseguita tutte le notti. Poi, tra le grida sguaiate dei feriti, si avvicinò a noi cinque e ci passa in rassegna uno per uno. Io sto proprio in mezzo alla fila. Si avvicina al compagno che sta alla mia destra, lo guarda fintamente interessato, poi gli punta la pistola alla faccia. Sento il suo tremore ed il suo terrore, propagarsi nel mio corpo come una malattia contagiosa. Esibsce nuovamente il suo fetido sorriso, e gli dice:

- Per questo ringrazia il tuo comandante.

Fa esplodere l’arma e il corpo si accascia all’indietro, producendo un tonfo come un sacco pieno di olive. A quel punto cerco di convincermi che sto sognando.

Non può esistere una realtà tanto orribile, mi dico, nessun uomo al mondo sarebbe capace di fare ciò, neppure il peggiore dei nazisti. Ma non mi è possibile, perché l’uomo si avvicina al compagno alla mia sinistra e comincia a guardarlo nello stesso modo. Sento il suo pianto di paura, vedo le lacrime scendergli copiose dagli occhi, e prego Dio che possa morire sul colpo. Al momento dello sparo chiudo gli occhi, poi odo il solito tonfo del corpo e non riesco più a deglutire. Quando riapro gli occhi il comandante è di fronte a me, a non più di trenta centimetri.

- Cosa fai, partigiano bastardo, vuoi perderti lo spettacolo? Non capisci che lo stiamo organizzando in tuo onore? Sei tu il protagonista, la causa principale di ciò che sta succedendo. E tu cosa fai? Chiudi gli occhi e scappi?

No, partigiano bastardo, così proprio non va bene…

E’ in quel preciso momento che penso: “uccidimi, maledetto criminale.

Uccidimi, perché se fai tanto di lasciarmi in vita non avrai scampo su tutto il

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pianeta”. Lui sembra avermi letto nel pensiero, è incredibile come l’odio e la malvagità possano trasformare un essere umano in un animale superdotato, talmente determinato che niente al mondo può fermarlo.

- No, non ti ucciderò. Il tuo premio non è la morte, è la sofferenza fino al termine dei tuoi giorni.

Poi si volta repentinamente verso il compagno che sta alla mia destra, gli dice di ringraziarmi per quanto gli sta per accadere e gli spara in fronte. Alla mia sinistra sento Silvio, l’unico compagno rimasto in vita, che piange e mi chiama.

- Angelo…Angelo…per l’amor di Dio… Angelo…

Piange come un bambino, ma quello spettacolo avrebbe messo in ginocchio chiunque. Io non so cosa dirgli, il dolore mi ha talmente devastato che non riesco neppure e restare in piedi. Voglio incitarlo a tenere duro, perché presto sarebbe finito tutto, almeno per lui, ma sono paralizzato. Il dolore mi ha squassato al punto da impedirmi qualunque cosa. Lo sento tonfare a terra subito dopo lo sparo, ormai ho lo sguardo perso nel vuoto e cerco in tutti i modi di assentarmi da quell’inferno. Ma il comandante me lo impedisce. Torna di fronte a me ed ha ancora sete di sangue, glielo leggo negli occhi. Di nuovo quel sorriso crudele.

- E adesso torniamo alla tua famiglia…

Si avvicina a quei dieci disgraziati con la solita calma. Non oso guardare. Sento tre colpi di pistola e l’urlo straziato delle tre mamme che si vedevano uccidere i figli innocenti a due metri di distanza. Mia moglie, per sua fortuna, è già morta, lo comprendo dalla smorfia seccata dell’uomo, che avrebbe voluto incuterle ancora qualche sofferenza. I mie tre figli sono ancora vivi. Li fa sistemare a sedere, con le spalle appoggiate ad un muretto, in modo che possano guardare me ed io li possa guardare mentre si spengono lentamente. Poi si dirige verso di me e mi parla per l’ultima volta.

- Le donne le ho lasciate in vita. Ho ucciso i loro mariti ed i loro figli, in modo che possano odiarti fino al termine dei loro giorni. Tu vedrai i tuoi figli morire a poco a poco. Se sarai sfortunato, come spero, tra poco arriveranno quei

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bastardi degli americani, ti troveranno ancora in vita e ti salveranno. Se invece la fortuna sarà dalla tua parte allora morirai di freddo o di fame tra qualche giorno, e per te le sofferenze saranno finite. Addio, partigiano bastardo.

Si volta e corre velocemente verso la camionetta a lui riservata, che lo aspetta in moto e che parte prima ancora che lui chiuda lo sportello. Nemmeno gli Unni, nemmeno i Vandali espressero la crudeltà e l’odio che quella gente riuscì a manifestare in una sola giornata. Ho visto i miei figli morire lentamente, agonizzanti, li ho visti chiamare la morte per porre fine alle loro infinite sofferenze, li ho visti guardarmi negli occhi alla ricerca di un conforto, di un incoraggiamento che non riuscivo a dare loro, nonostante i miei sforzi. Ricordo il più piccolo dei tre. Mi guardava fisso negli occhi, vedevo la sua pancia gonfiarsi e sgonfiarsi velocemente, il respiro affannato e pesante, lo sguardo che si fa vitreo, e io che da una parte prego il Signore che lo salvi, dall’altra lo imploro di farlo morire prima possibile. Sono tre fontane di sangue, sbudellati da un macellaio indegno di stare al mondo, sofferenti ma fieri nonostante tutto. Mi chiedo perché il buon Dio ha scelto loro invece di me, piango, chiudo gli occhi, desiderando di essere in qualunque altro posto sulla faccia della terra, ma non lì, non davanti ai miei figli che muoiono dopo aver visto morire mia moglie.

Il resto della storia non ha molta importanza. Gli americani arrivarono all’alba del giorno dopo. Sono stato ventiquattro ore davanti ai miei figli morti, impotente, ad invocare la morte ogni minuto di quella interminabile giornata. Mi hanno raccontato che quando mi hanno liberato dalle catene hanno dovuto trasportarmi di peso in infermeria. Ero talmente traumatizzato da non poter parlare, camminare, probabilmente neanche sentire. Sono passati mesi prima che potessi tornare ad una vita normale, se così si può chiamare la mia vita dopo quel giorno…

* * *

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Guardo in faccia quel vecchio e capisco d’improvviso il perché delle numerose rughe sul suo volto ed attorno agli occhi. Sono le rughe di un uomo che ha passato intere giornate a piangere, intere notti nella disperazione e nel dolore più cupo. Di un uomo che è condannato a vivere, che è incapace di morire nonostante tutto. Mi chiedo quante volte possa aver tentato il suicidio un uomo con una tale storia alle spalle. E mi chiedo perché abbia raccontato questa storia proprio a me, un ragazzo che non lo ha mai visto. Sono forse, a mia insaputa, il parente di qualche suo compagno di lotta? Mi scopro, con grande sorpresa, curioso di sapere cosa è successo dopo. Esito un attimo, poi trovo il coraggio di domandarglielo.

- L’unica cosa che mi ha tenuto in vita è stata la vendetta. L’ho cercato ovunque. Non dico così per dire: l’ho cercato veramente ovunque. Ormai non potevo vivere per nessun’altra cosa al mondo se non per vendicarmi. Tutti i miei risparmi, le mie fatiche, il mio lavoro, sono stati destinati alla ricerca di quel maiale.

Trattiene a stento le lacrime, sono passati venti anni, ma quella storia gli brucia ancora addosso come calce viva, e la frustrazione la rende ancora più penosa.

Perché, immagino, quell’uomo non è più sbucato fuori.

- Non l’ha trovato, vero?

Il mento accenna un leggero tremolio, lui si mette la mano davanti agli occhi, poi risponde:

- No, non l’ho più trovato. Sparito nel nulla, forse inghiottito dall’inferno dal quale era venuto. Ho spulciato archivi, biblioteche, ho interrogato centinaia di persone, ho usato investigatori privati, ho seguito per filo e per segno il processo di Norimberga, ho controllato attraverso tutti i canali possibili i flussi di espatrio dei nazisti verso Argentina e Brasile. Se ti dico che non ho lasciato nulla, nulla di intentato puoi credermi. Quell’uomo se l’è cavata ed ha continuato altrove la sua vita.

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Ordina un altro caffè. Io lo guardo leggermente contrariato, ma cedo subito. Lui sorride.

- Suvvia, è uno dei pochissimi piaceri che mi sono rimasti, non me lo rovinare…

Quando glielo porgo sul tavolo circonda la tazzina con le mani, come a custodire un tesoro prezioso. Chiude gli occhi, credo che stia ripercorrendo con la mente qualche altro avvenimento da raccontarmi. Poi, d’improvviso:

- Ti è mai successo di imbatterti in un segno del destino? Stai attento, non sto parlando di semplici coincidenze. Parlo di segnali unici, che riconosci subito per la loro importanza. Capisci che segnano un bivio, davanti al quale la tua vita può prendere due strade completamente diverse. Sono eventi importanti, decisivi. Ti è mai capitato?

Scuoto la testa, in segno negativo. Non ho la minima idea di cosa abbia in mente.

- Qualche mese fa mi hanno diagnosticato un tumore. Mi hanno detto che non è curabile e che, se sono fortunato, mi restano dieci – dodici mesi di vita.

Quando il medico mi ha detto “se sei fortunato” mi sono messo a ridere.

Fortunato…Avrei voluto rispondergli che, se fossi stato veramente fortunato, mi avrebbe assalito venti anni fa e mi avrebbe riportato a mia moglie ed ai miei figli. Invece ha atteso venti anni per manifestarsi, questo bastardo.

- Mi dispiace, io non sapevo…

- Tranquillo, non ti crucciare. Insomma, il mio medico insiste per farmi visitare da un famoso professore di Milano. Non ti garantisco niente, mi dice, ma devi provarci. E’ uno bravo, all’avanguardia, forse può darti una mano.

Così, controvoglia, lascio che prenda un appuntamento per me e oggi pomeriggio mi sono recato presso il suo studio.

- E cosa le ha detto?

- Niente, mi ha detto. Non mi sono fatto visitare. Non ne ho più bisogno.

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Aggrotto la fronte e lo guardo. Non riesco a capire. Vedo che mi sorride ancora, spero che voglia spiegarmi.

- Mi siedo sulla poltrona e attendo il mio turno. Non so come passare il tempo e comincio a sfogliare una rivista di economia che sta sul tavolo. Non so niente di economia, se non che è una gran fregatura, ma sai com’è, devo solo ingannare il tempo. Sfoglio le pagine distrattamente, senza troppo interesse. Ad un certo punto trovo un servizio sulla borghesia tedesca emergente e sulla situazione industriale della Germania. E’ come il miele per una mosca, capisci.

Quando si parla di Germania drizzo sempre le antenne. Comincio a leggere più attentamente l’articolo, poi volto pagina e mi sembra che un pugnale mi abbia colpito in pieno alla gola. Ci sono sei fotografie di sei industriali emergenti.

Guardo di nuovo la terza, sperando di essermi sbagliato, ma so già che non è così. Le mani cominciano a tremarmi, al punto che mi alzo alla svelta e chiedo di un bagno. Corro dentro portandomi dietro la rivista. Mi sciacquo il viso con forza, mi guardo allo specchio, poi poso nuovamente gli occhi su quella fotografia. E il passato irrompe nel mio cervello come un fiume in piena, i fotogrammi si susseguono uno dietro l’altro, impietosi e orribili. Gli occhi dei miei figli, il sorriso di quella canaglia, il corpo esanime di mia moglie, i tonfi dei cadaveri che cadono a terra, la pancia di mio figlio che si gonfia e si sgonfia…E comincio a piangere, disperato addolorato come se fosse accaduto il giorno prima. Quando mi riprendo comincio a comprendere a fondo il messaggio che il destino ha voluto mandarmi. Sono andato da quel medico controvoglia, con una flebile speranza di guarire. Invece ho trovato l’unica cosa che potrebbe guarire, almeno in parte, le mie ferite profonde come crepacci. Perché lui può aver adottato qualunque nome, può aver camuffato, incendiato, modificato tutti gli archivi del mondo, può essersi inventato tutte le storie che crede, può aver corrotto, comprato, insabbiato. Può aver fatto di tutto. Ma io so chi è. Io lo so, e non l’ho dimenticato. La chirurgia estetica ha raggiunto livelli incredibili,

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oggigiorno. Ma lo sguardo di un assassino…sfido qualunque chirurgo al mondo.

Non lo dimenticherei neanche se avessi la sfortuna di campare mille anni.

Sorride di nuovo, ma stavolta non è un sorriso amaro. E’ un sorriso fiero e consapevole, è il sorriso, lo scoprirò più tardi, di un guerriero che sta per dissotterrare l’ascia di guerra e riprendere la caccia al nemico.

- Sai, il destino è veramente bizzarro. Magari ti dà cento in trenta anni e si riprende tutto in trenta secondi. O magari fa il contrario. Ma molto più spesso di quanto non si creda, il cerchio del destino si chiude e si completa. E quasi tutti, al termine del loro cammino, hanno raccolto tanto quanto hanno seminato, nel bene e nel male. Ho sempre creduto a questo concetto, anche quando, fino a ieri, i fatti sembravano darmi torto…

Adesso ride di gusto, il vecchio, contagiando anche me. Poi si alza e lascia un po’ di soldi sul banco.

- Ti ho fatto perdere anche troppo tempo, adesso devo andare, e anche tu. Stanotte mi aspetta un lungo viaggio. I tuoi quattro caffè mi saranno utili, senz’altro. E domattina, quando ti farai il primo caffè della giornata, dedica un pensiero a questa storia. E’ una storia di vita, una storia vera. Se saprai usarla bene ti insegnerà moltissimo. Ricordati che, in Italia, ormai, solo noi due conosciamo la verità su quel giorno…

Uscì velocemente come era entrato, lasciandomi di sasso. Quella notte stentai a dormire. Nella mia mente si affastellavano le immagini di quella storia e di quel vecchio. Aveva parlato di un lungo viaggio, me lo immaginavo seduto in auto, intento a viaggiare tutta la notte, immerso nei suoi pensieri e nei suoi ricordi così terribili da essere sufficienti, da soli, a tenere sveglio chiunque.

* * *

Due giorni dopo ero di turno di mattina. Erano le sei e trenta e la città cominciava a svegliarsi lentamente, il bar era ancora semivuoto. Sui tavoli sono già disponibili i principali quotidiani. Qualcosa, una forza misteriosa, mi spinge ad aprire il Corriere della Sera ed a sfogliarlo. Non so neanche io cosa sto

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cercando. Scruto con interesse ed attenzione alla ricerca di un segnale. Ripasso le pagine una seconda volta, con maggiore attenzione, sento che sto trascurando qualcosa. Poi, finalmente, scorgo un trafiletto in ottava pagina. Poche righe in neretto, che probabilmente non leggerà nessuno, intitolate “Muore industriale tedesco”.

“Dieter Frogel, 58 anni, famoso industriale tedesco emergente, proprietario di alcune fabbriche di impiantistica ed elettronica, è rimasto ucciso ieri mattina a Bonn in un incidente stradale che ha coinvolto anche un italiano, Angelo Campinoti, 70 anni, alla guida della sua Fiat 850. L’impatto tra l’auto del Campinoti e quella di Frogel è stato frontale e non ha lasciato scampo a nessuno dei due.

L’industriale tedesco era appena ripartito allo scattare del verde del semaforo quando l’auto del Campinoti gli si è schiantata addosso ad altissima velocità. I due conducenti sono morti sul colpo.

Frogel era noto come un industriale “illuminato”, simpatizzante per la sinistra socialdemocratica, di idee aperte e progressiste e per questo spesso inviso alla confindustria tedesca, che ha comunque proclamato tra i suoi associati una giornata di lutto nazionale.”

Poso il giornale, lo ripiego con cura e mi guardo attorno. Il mondo prosegue nella sua vita quotidiana, ignaro di quanto è successo ieri mattina e di quanto è successo venti anni fa. Ma io so che c’è un filo sottile, invisibile ma solidissimo, che tutto unisce e tutto tiene insieme. Io solo so che, con grande ritardo e molto parzialmente, un uomo ha avuto giustizia e per questo è morto felice dopo decenni di disperazione. Provo una sensazione di sollievo, di leggerezza. Sento l’urgenza di un caffè. Lo guardo scendere dalla macchina nella tazzina caldo, corposo, denso. Metto la tazzina sul piattino, verso lo zucchero e comincio a girare.

Poi alzo la tazzina e brindo a lui.

Questo racconto è opera della fantasia. Nomi, personaggi, luoghi, avvenimenti sono il prodotto dell'immaginazione dell'autore e, se reali, sono utilizzati in modo assolutamente fittizio. Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è del tutto casuale.

Proprietà e riproduzione riservate fabriziofondi.weebly.com

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