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Academic year: 2021

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CONCLUSIONI

Il proposito di questo lavoro è stato quello di esaminare ciò che rimane delle prime opere di autobiografia politica della letteratura latina. Lʼanalisi attenta e profonda anche di quei frammenti che riportano unʼunica parola o una frase lacunosa ha permesso di formulare alcune ipotesi interpretative, per quanto lo stato dei testi in oggetto non consenta, al momento presente, di dare un responso sicuro sulla struttura, i contenuti specifici e lo stile di questo genere.

Come sottolineato da Martine Chassignet nellʼintroduzione del suo volume sui frammenti più antichi dellʼautobiografia politica, «Lʼepoca dei Gracchi vede lo sviluppo di un genere nuovo, apparentato con la storia, e caratteristico dei Romani […]». E aggiunge: «i primi memorialisti furono senza dubbio più numerosi di quanto si pensi». Lʼautrice si rifà a un discorso di Tacito

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, introduttivo alla biografia di Giulio Agricola:

«Sed apud priores ut agere digna memoratu pronum magisque in aperto erat, ita celeberrimus quisque ingenio ad prodendam virtutis memoriam sine gratia aut ambitione bonae tantum conscientiae pretio ducebatur. Ac plerique suam ipsi vitam narrare fiduciam potius morum quam adrogantiam arbitrati sunt, nec id Rutilio et Scauro citra fidem aut obtrectationi fuit: adeo virtutes isdem temporibus optime aestimantur, quibus facillime gignuntur».

«Presso gli antichi tuttavia, poiché era più facile e agevole compiere imprese memorabili, così qualunque personaggio illustre era spinto a fornire un ricordo del suo proprio valore, non per ambizione o per averne un tornaconto, ma solo per il premio di una buona coscienza. I più hanno ritenuto che il narrare la propria vita fosse segno di fiducia nei costumi, piuttosto che una forma di arroganza; e ciò non fece venir meno la fiducia verso Rutilio e Scauro o fu motivo di biasimo: a tal punto le virtù sono considerate ottimamente, nellʼepoca in cui si sviluppano con più facilità».

Le parole di Tacito appaiono oggi decisamente ingenue. Del resto Tacito parte da una

visione “aurea” dellʼetà Repubblicana: età di virtù e di grandi uomini, contrapposta – per la sua

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pensare che i primi autobiografi fossero mossi esclusivamente dalla loro buona coscienza. Appare difficile anche considerare, sempre dalle parole di Tacito, che questi primi autori fossero per forza assai numerosi. Furono verosimilmente più di quelli dei quali abbiamo traccia. Ma – guarda caso – volendo fare delle citazioni, Tacito propone due personaggi, proprio due presi in esame in questo lavoro, Scauro e Rutilio, icone della virtù che si difende dai colpi ingiuriosi di un sistema in evoluzione. Segno che, pur esistendo con tutta probabilità anche altri autobiografi, erano loro ad avere in questo campo la posizione più significativa. Non compare Quinto Lutazio Catulo, terzo autore spesso affiancato ai primi due; in tale assenza si potrebbe ravvisare quanto accennato nel capitolo precedente: non compare semplicemente perché non scrisse unʼautobiografia e Tacito ne era ben consapevole. Non è opportuno però azzardare troppo, anche perché Tacito sta facendo un discorso basato soprattutto sulle qualità morali degli antiqui, non sta certo scrivendo un trattato di letteratura. Limitiamoci a concludere che forse a Catulo si attribuiva la «palma» per altre opere letterarie, non per quel singolo libello sul consolato.

In realtà la ricerca storica e lʼarcheologia restituiscono un ritratto dellʼetà Tardo- repubblicana assai meno favolistico e assai più complesso di quello accennato sommariamente da Tacito. Gli ultimi due secoli della Repubblica sono un susseguirsi di lotte tra fazioni e tra individualità emergenti, fino ad arrivare alla crisi definitiva dellʼordinamento e allʼaffermazione di uno solo, lʼImperatore, lʼUomo-Stato che andrà concentrando su di sé tutti i ruoli politici fino ad ora spartiti fra élite senatoria e classe dominante.

Bene ha valutato questo periodo – attraverso la ritrattistica – Paul Zanker, in un saggio ormai datato

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: «Gli artisti greci che ritraevano i membri dellʼaristocrazia romana possedevano da tempo buone conoscenze anatomiche, ma nel campo del ritratto le avevano utilizzate fino ad allora con una certa parsimonia. A distoglierli da questa tradizione fu la mentalità dei loro nuovi committenti romani, e in particolare la crescente rivalità personale tra i vari aristocratici, che assegnava un peso sempre maggiore al singolo con le sue particolari mansioni e le sue peculiarità:

di qui probabilmente la sete di ritratti capaci di fissare quel che di unico e di inconfondibile vi era nel singolo individuo. Ad ogni modo mai nellʼantichità si ebbe una rappresentazione così accurata del carattere individuale come nella Roma del I sec. a.C.»

Quale sia stato il destino della ritrattistica e della propaganda familiare per immagini è

storia nota: nel volgere di pochi decenni la celebrazione di se stessi e dei propri cari diventerà un

fatto poco più che privato; saranno lʼImperatore e la famiglia imperiale a diventare committenti e

protagonisti delle opere più rilevanti.

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Nella produzione letteraria è avvenuto forse qualcosa di analogo.

Lʼautobiografia nasce nel secolo dei Gracchi; contribuì forse lo stesso G. Sempronio Gracco.

Anche qui le attestazioni sono solo frammentarie e insufficienti a restituire un quadro sicuro. A riportare la notizia di un libro scritto da Gaio Gracco sono Cicerone

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e Plutarco

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. Il primo riferisce un aneddoto su un responso che il padre dei Gracchi avrebbe avuto da alcuni aruspici; il fatto sarebbe stato poi narrato da Gaio che scriptum reliquit, lasciò – cioè – uno scritto. La natura di questo scritto non è altrimenti chiara. Il riassunto del racconto è presto fatto: il vecchio Tiberio Gracco trova in casa due serpenti e chiama gli aruspici per avere unʼopinione. Questi gli annunciano che lʼevento potrà avere due esiti diversi: se libererà il maschio sua moglie – Cornelia - morirà entro breve; se libererà la femmina a morire sarà lui stesso. Per risparmiare la vita della giovane figlia dellʼAfricano, Tiberio libererà la femmina e morirà nel giro di pochi giorni.

Il racconto è biografico, più che autobiografico. Comunque siamo probabilmente di fronte al tentativo di raccontare la storia della famiglia dei Gracchi attraverso esempi di virtù e valore.

In un altro passo del De divinatione

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si apprende che tale episodio apparteneva a uno scritto indirizzato a tale M. Pomponio:

«C. Gracchus ad M. Pomponium scripsit duobus anguibus domi comprehensis haruspices a patre convocatos».

«Gaio Gracco scrisse a Marco Pomponio che dal padre furono chiamati gli aruspici dopo che erano stati trovati in casa due serpenti».

Già Peter sottolineò come le espressioni scriptum e scripsit potessero in realtà riferirsi a qualunque tipo di scritto, anche una lettera per esempio

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. Tuttavia rilevò come anche per lʼautobiografia di Marco Emilio Scauro Cicerone parli, nel Brutus

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, di tres ad L. Fufidium Libri scripti de uita sua ipsius.

È dunque ragionevole, volendo fissare nel tempo una data di inizio dellʼautobiografia,

mantenersi sui dati già accertati e concludere che Marco Emilio Scauro fu senzʼaltro il primo del

quale è attestata unʼopera De uita sua. Ma volendo essere precisi, gli scarni frammenti di Scauro

potrebbero far parte di un genere, se non già compiuto e rifinito, almeno in una fase non proprio

embrionale, se racconti di carattere autobiografico esistevano e circolavano da prima. Non si può

non ricordare in questa sede che anche Quinto Fabio Pittore, Cincio Alimento e Marco Porcio

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Catone

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inserirono nelle loro opere passi autobiografici.

Chiaramente si trattò solo di cenni allʼinterno di opere che non avevano un intento autobiografico; e non potendo affermare con certezza che Marco Emilio Scauro fu lʼinventore di un genere del tutto nuovo e a sé stante, viene considerato “lʼinventore” solo perché sue sono le prime attestazioni, ma nelle fonti non compare mai come il padre di un nuovo genere altrimenti sconosciuto. É come se mancasse lʼanello di congiunzione fra lui e la generazione di scrittori immediatamente precedente.

I frammenti esaminati in questo lavoro, considerati di per se stessi, non danno modo di chiarire nei particolari tutte le fasi di nascita e sviluppo dellʼautobiografia politica a Roma fra II e I secolo a.C. Tuttavia, andando ad esaminare i testi uno per uno, cercando di capire dove possibile il loro significato e il contesto di riferimento e – infine – tenendo presente il delicato momento in cui le opere furono composte, è stato possibile riflettere sullʼinterpretazione data dagli studiosi a questi testi e suggerire nuove idee sulla vita dei personaggi e sul loro rapporto con uno Stato sullʼorlo della guerra civile.

Portata a termine lʼanalisi linguistica dei testi e fatti tutti i tentativi possibili per dare collocazione e contestualizzazione ai frammenti, si possono fare alcune osservazioni di carattere conclusivo.

Marco Emilio Scauro probabilmente curò con grande attenzione la redazione delle sue memorie. Scrisse unʼopera con una struttura abbastanza articolata – in tre libri – ma non si è riusciti a chiarire se abbia utilizzato un linguaggio particolare, uno stile “arcaico” per esempio.

Viene classificato da Diomede come vetus

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ma tale classificazione dipende evidentemente dal fatto che il grammatico scrive molto tempo dopo, spinto dallʼesigenza di chiarire le forme e gli stili corretti per una lingua soggetta al “rischio” di imbarbarimento. Ad ogni modo, lʼopera di Scauro doveva essere ancora reperibile al tempo del grammatico Diomede, e il princeps senatus viene citato a fianco di autori come Ennio, Varrone, Cicerone, Asinio Pollione, Virgilio... Certamente questo non basta di per sé per inserirlo in un «Pantheon» della letteratura latina: Diomede, Carisio e le altre fonti avranno semplicemente citato i personaggi che via via servivano allo scopo.

Tuttavia si può pensare dai testi della tradizione che il lettore – sempre un uomo colto, naturalmente – doveva conoscere lʼautore citato e lʼopera in questione, almeno di nome.

Lo stato dei testi non ha consentito di fare più che qualche ipotesi circa la struttura

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dellʼopera. Certamente i frammenti di Scauro ci restituiscono almeno una notizia sulla sua gioventù: il fatto cioè che lʼeredità ricevuta dai genitori fosse di soli trentacinquemila sesterzi, come noto dal frammento 1 dellʼedizione della Chassignet. Al di là dellʼintento evidentemente propagandistico dellʼaffermazione, la notizia – riportata da Valerio Massimo – fa riferimento al primo libro dellʼautobiografia di Scauro, laddove con ogni probabilità si parlava della giovinezza dellʼautore e magari – unitamente – del suo ingresso nella politica.

Mancano totalmente attestazioni dal secondo libro, quello centrale. Per il terzo libro ne esistono tre: il n°2, Vectigalium se minus fructos, il n°3, Proelium non sivi fieri e il n° 4, Poteratur (sempre nellʼedizione della Chassignet; in questa raccolta sono i frammenti 1, 2 e 6). Non potendo fare alcuna congettura a proposito del frammento 4 (Chassignet) e non avendo dati certi sugli argomenti del secondo libro, si può solo partire dallʼassunto che – ad un certo punto – nel terzo libro lʼautore avrà parlato per qualche ragione dello sfruttamento di una provincia e di una battaglia che doveva esserci ma, probabilmente, non ci fu.

A suo luogo

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si è cercato di fare ipotesi sul contesto di riferimento del frammento 3, senza tuttavia poter raggiungere una conclusione certa. Bisogna sottolineare come la carriera di Scauro fu ricca di argomenti ben inseribili in una autobiografia: nel giro di circa dieci anni ricopre la carica prima di console, poi di censore, quindi di pontefice; dopo un accesso al consolato non facilissimo (perderà le elezioni del 117), nello stesso torno di tempo sarà princeps senatus, otterrà il trionfo su alcune popolazioni Liguri, farà parte della commissione per lʼarbitrato fra Giugurta e Aderbale e indagherà sui senatori corrotti da Giugurta. Questi fatti dovevano logicamente occupare almeno il secondo e il terzo libro dellʼautobiografia, ma tracciare uno schema è sostanzialmente impossibile. Può darsi che Scauro abbia seguito un andamento quasi

«annalistico», con una ripartizione abbastanza equilibrata dei diversi periodi della sua vita. Ma può darsi ugualmente che abbia dedicato – magari – un intero libro al consolato, quasi ad inserire una monografia allʼinterno della sua opera. Queste ipotesi sono ugualmente plausibili e ugualmente non verificabili. A proposito del frammento n°2, colpisce la sua ricorrenza nellʼopera di Scauro e contemporaneamente in quella di Rufo (precisamente nel terzo libro di Scauro e nel quarto di Rufo), considerando la vicenda personale che vide i due contrapposti in un processo per broglio. Se il frammento fosse attribuibile al medesimo episodio, cioè allo scontro che ebbero nel 116, bisognerebbe ipotizzare una trattazione di quel periodo abbastanza «avanzata» nel corso delle autobiografie.

Sempre per quel che riguarda il contenuto, già Bates fece – sebbene per sommi capi –

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unʼipotesi interessante

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: partendo dal presupposto che Valerio Massimo abbia usato lʼautobiografia di Scauro come fonte diretta, Bates mette in risalto la possibilità che Scauro abbia avuto, fra i suoi modelli personali, Catone il Vecchio. Da qui risulta facile pensare che anche Scauro – come già Catone nelle Origines – abbia inserito nella sua autobiografia una certa quantità di orazioni proprie. «Ma non cʼè bisogno» dice Bates «di credere che siano state semplicemente inserite. Furono probabilmente riviste e riscritte per un effetto drammatico». Lʼidea in realtà apparteneva già a Pais

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, il quale a sua volta non lʼaveva sviluppata oltre un livello ipotetico.

In effetti mancano gli elementi oggettivi per trarre una simile conclusione.

Ma in un lavoro che si proponga di investigare la nascita del genere autobiografico, una tale ipotesi è necessaria e sufficiente per dare spinta ad unʼaltra idea: quella che lʼautobiografia politica possa esser nata a Roma – in un momento abbastanza definito – come esito quasi

«naturale», dalle memorie difensive che alcuni personaggi – Scauro e Rufo in primis – dovettero forzatamente elaborare – in un contesto giudiziario – ad un certo punto della loro vita.

Nel caso di Publio Rutilio Rufo ci troviamo davanti a un personaggio che non solo ha rivestito un ruolo politico di primo piano nel suo tempo, ma è anche passato alla tradizione come esperto giurista. Quando Cicerone desidera raccontare il suo incontro con Rutilio – nel passo già citato del Brutus

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- forse non è del tutto casuale che il contesto sia quello di un episodio di cronaca giudiziaria, la difesa – cioè – sostenuta da Servio Sulpicio Galba a favore di alcuni pubblicani accusati per la strage nei boschi della Sila.

Di Rufo, autore di una storia in lingua greca, nei Digesta di Giustiniano sono tramandati anche dei passi di carattere giuridico

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; anche se questo non basta per vedere in lui lʼautore di unʼopera di diritto, possiamo vederlo almeno come uno studioso esperto di legge. Certamente una strada percorribile per studi futuri sarebbe quella di confrontare sul piano storico e filologico tutti i frammenti di Rufo, quelli dellʼautobiografia, delle storie e dei trattati. Lʼesame dei soli passi autobiografici ha dato modo se non altro di fugare i dubbi sul carattere apologetico dello scritto e di proporre qualche idea sul linguaggio e sulla struttura di unʼopera che sfugge per la massima parte allʼinterpretazione.

Due sono i processi che Rufo affrontò nella sua vita. Nel 116 fu imputato in un processo de ambitu intentatogli da Marco Emilio Scauro. I due erano in lizza per il consolato del 115; come noto, Scauro vincerà la corsa elettorale e si ritroverà denunciato per broglio dal suo avversario.

Assolto, a sua volta intenterà un processo contro Rufo

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. Il 92 è invece lʼanno del processo de

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repetundis, processo che arriva alla fine di una carriera di tutto rispetto e che, come noto, potrebbe essere il segno concreto di una rivalsa da parte dei pubblicani, irritati per la gestione irreprensibile della provincia dʼAsia

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. Per quel che riguarda invece Scauro, oltre al citato processo de ambitu, forse il numero totale di cause che dovette affrontare non lo sapremo mai. Certo è che fu accusato anchʼegli de repetundis da M. Giunio Bruto e forse anche nel 91, da Q. Servilio Cepione.

Anche un tribuno della plebe, Q. Vario Hybrida, lo accuserà in base alla lex Varia de maiestate.

Sempre ruotando attorno alla questione dei processi ricordiamo il contenuto del frammento 2 (numerazione della Chassignet) di Scauro, analogo al frammento 4 di Rufo:

Vectigalium se minus fructos: si potrebbe pensare essenzialmente al contesto di un processo de repetundis piuttosto che de ambitu, il che giustificherebbe una trattazione in un capitolo avanzato dellʼopera. Ma la vicenda che vede maggiormente in contatto Scauro e Rufo è quella del processo de ambitu. Certamente la ricorrenza identica delle due frasi in opere così vicine per età, argomento e modalità di composizione, costituisce una forte suggestione: sfortunatamente, dallʼanalisi compiuta in questa sede, si deve concludere che il frammento in questione non riporta alcuna particolarità linguistica; il fatto perciò che ricorra per due volte in autori così vicini non è – di per sé – indizio della derivazione da un medesimo discorso.

Se non è possibile ricostruire la struttura delle autobiografie, non è possibile neanche stabilire in che misura Scauro e Rufo possano aver attinto alle loro eventuali memorie difensive e tantomeno è possibile capire se – in caso di una difesa che contenesse un excursus sulla propria vita – Rufo se ne sia servito per il primo, per il secondo o per entrambi i processi. Si può ipotizzare che, avendo dovuto Scauro per primo comporre una difesa per i fatti del 116, Rufo abbia seguito uno schema analogo; ma si tratta solo di congetture. Certamente il precedente costituito da Catone e dalle Origines dà già unʼimportante direzione a studi futuri, che potrebbero – come già ricordato – comparare i frammenti delle autobiografie con quelli delle orazioni, almeno nel caso di Scauro.

Altre considerazioni potrebbero venire dal confronto puntuale con le orazioni difensive

più o meno coeve di cui disponiamo, dando per forza la precedenza a Cicerone. Nelle difese

ciceroniane lʼelemento autobiografico e di cronaca familiare è molto presente e ricorrente, anche

se naturalmente non è mai fine a se stesso, ma sempre indirizzato verso la confutazione delle

accuse. Del resto il suggerimento proposto da questo lavoro non è che Scauro e Rufo abbiano

pronunciato – o fatto pronunciare – le proprie autobiografie come arringhe difensive, ma

esattamente il contrario: che alcuni temi nodali proposti per respingere le accuse processuali

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siano poi andati a costituire il nucleo attorno a cui tessere i libri de vita sua.

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1 Agr. I, 2-3.

2 Augusto e il potere delle immagini, Torino, 1989, pp. 12-13.

3 De divinatione I, 36.

4 Vita di Ti. Gracco 8, 9.

5 II, 29.

6 PETER2, p. CLXXIX. 7 29, (112).

8 Analisi già fatta da R.L.BATES, op. cit. supra cap. I, nota 89, p. 364.

9 Vedi ivi Capitolo I.

10 Supra, pp. 12 e sgg.

11 R.L.BATES, op. cit. supra cap. I, nota 89, pp. 143-144 e 364.

12 E. PAIS, op. cit. supra cap. I, nota 68, pp. 91 e sgg.

13 C

IC

.

, Brut. 85-87, vedi supra pp. 120 e sgg.

14 M.CHASSIGNET, op. cit. supra cap. I, nota 2, p. XIV nota 44. Non ci sono gli estremi per ritenere che Rufo abbia scritto anche opere di giurisprudenza. Tuttavia fu autore di responsa, editti e discorsi, a rigor di logica collegabili alle sue magistrature.

15 CIC., Brut., 113.

16 Questa interpretazione è stata ripresa da M.Chassignet sulla base delle fonti storiche e su alcuni studi moderni: cfr. M.CHASSIGNET, op. cit. supra cap. I, nota 2, p. XII, nota 19.

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