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Basti pensare ai fatti di Duisburg dell’estate 2007, alla faida di San Luca esportata oltre confine, che ha consentito la rappresentazione del ‘delitto come antropologia’

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INTRODUZIONE

OLTREGLISTEREOTIPI. UNNUOVOMODODIANALIZZAREEGIUDICARE LASTORIAELA REALTÀCALABRESE

In una Europa dominata dalla logica della globalizzazione mercantile e dall’illusione tecnologica, connotati di una modernità che travolge culture, tradizioni e stili di vita, una regione come la Calabria non è considerata soltanto un’area economica arcaica e premoderna, una inevitabile ‘zavorra’ che i paesi ricchi, motori dell’Unione, devono trascinarsi.

Nell’immaginario collettivo, che attinge all’immenso giacimento dei luoghi comuni sul Sud, la Calabria è qualcosa di più: è l’emblema di un Mezzogiorno sottosviluppato anche da un punto di vista civile.

Complice una certa enfasi letteraria, la società calabrese è descritta spesso come luogo di tutti gli eccessi, a volte con rappresentazioni distorte o al limite del caricaturale: una società civile ancora intrisa di tradizioni e credenze arcaiche e irrazionali, divisa qua e là da faide familiari che si trascinano da decenni; una classe dirigente incapace, corrotta e priva del minimo senso civico; un potere mafioso diffuso, arrogante e predatorio che controlla vaste zone del territorio e condiziona la politica. L’immagine prevalente della Calabria che esce da alcune cronache quotidiane, insomma, è quella di una terra bella, ricca di storia e tradizioni, ma devastata dagli interessi particolari, dall’arretratezza culturale, dall’assenza di spirito pubblico, dalla violenza come pratica diffusa.

Gli spunti per giudizi del genere in effetti non mancano. Basti pensare ai fatti di Duisburg dell’estate 2007, alla faida di San Luca esportata oltre confine, che ha consentito la rappresentazione del ‘delitto come antropologia’. Basti pensare alle quotidiane vicende di corruzione e inefficienza di un ceto politico-amministrativo, votato trasversalmente ad intercettare fondi pubblici per interessi privati e pronto a colludere con le zone grigie della criminalità affaristico-mafiosa. Basti pensare alla pesante presenza della ‘ndrangheta’

diventata una delle più pericolose organizzazioni criminali, che si muove ormai sul piano globale sul terreno dei traffici illeciti internazionali, ma che non rinuncia al potere simbolico delle sue origini geografico-culturali.

Sono fatti che forse ‘meritatamente’ pongono la Calabria al centro dell’attenzione in questi termini, ma che inevitabilmente finiscono per occultare le positive realtà delle Università e dei centri di ricerca, di alcune cooperative giovanili che gestiscono produzioni innovative, di

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alcune industrie agroalimentari modernissime, delle piccole case editrici di notevole livello, di alcuni centri storici di città ricche di iniziative culturali. Sono fatti che si sovrappongono mediaticamente alle condizioni esistenziali di una regione che offre una qualità di vita gradevole, malgrado le tante difficoltà, “grazie alle tante intelligenze, ai vantaggi naturali derivanti delle sue condizioni geoclimatiche, alla permanenza dei legami sociali e comunitari, all’amore per i luoghi, alla persistenza di tradizioni culturali che danno il senso della spiritualità che ha attraversato la regione”.

Sono fatti – e questo è forse l’aspetto più devastante – destinati ad alimentare la mancanza di autostima e di conseguenza “a togliere spazio alla fiducia, all’impegno, alla speranza”.

La ricerca parte da queste considerazioni e, nella convinzione che l’autodenigrazione si diffonde tra coloro che hanno perduto la memoria della loro storia e della loro cultura, senza indulgere nella retorica identitaria e nella nostalgia lacrimevole del buon tempo andato, si propone di individuare le cause storiche, economiche e politiche che stanno alla base del degrado della realtà calabrese, per lo più ascrivibili alle responsabilità del ceto politico e della classe dirigente calabrese e nazionale in una fase cruciale della ricostruzione regionale.

L’ottica, suggerita dagli spunti offerti dal nuovo ‘pensiero meridiano’, è quella di un completo ribaltamento di prospettiva, con la propensione a pensare se stessi e a non essere pensati da altri, a rileggere la realtà del Sud dal Sud, dopo decenni di ‘questione meridionale’ trascorsi in un inutile quanto dannoso inseguimento di modelli di sviluppo socio-economico appartenenti ad aree del Nord non solo economicamente più avanzate, ma anche culturalmente diverse.

* * *

L’indagine parte da quella irripetibile stagione di lotte per la terra e la libertà che seguì alla caduta del fascismo e all’armistizio dell’8 settembre 1943, allorchè le masse contadine e anche i ceti urbani più poveri si accorgono che, con la caduta del regime, lo Stato non c’è più e sentono aprirsi davanti a loro uno spazio di libertà sociale oltre che politica.

Anche se in un primo tempo disorganiche e spontanee, quelle lotte si impongono come uno spartiacque nella storia calabrese perché segnano la rottura con un passato di sottomissione o di fuga da condizioni di vita miserevoli. Quel popolo abituato per decenni a reagire alla miseria e allo sfruttamento con l’emigrazione, non a caso definita da Giustino Fortunato la

‘rivoluzione silenziosa dei calabresi’, decide di ribellarsi nella prospettiva di un riscatto che si doveva realizzare nella propria terra.

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Le rivolte contro gli esponenti del fascismo ancora in auge, i conflitti per l’applicazione dei Decreti Gullo, l’episodio significativo e ‘allarmante’ della repubblica di Caulonia, le occupazioni delle terre del latifondo da parte di grandi masse di braccianti e contadini inneggianti ai valori della Repubblica e della Costituzione sono state le tappe di un percorso di coscienza collettiva impensabile in un popolo di braccianti e contadini nullatenenti e semianalfabeti, privi o quasi di cultura politica.

Quei momenti di lotta, come è noto provocarono una dura repressione e culminarono con l’eccidio di Melissa, in cui furono uccisi tre contadini e feriti altri 15.

La strage ebbe una imponente risonanza nazionale. Al pari di Portella della Ginestra, Melissa non solo portava all’attenzione del Paese le misere condizioni dei braccianti del Meridione ma “si elevava a simbolo dei nuovi termini della questione meridionale”.

Quella marcia dei contadini e delle donne in prima fila accanto agli uomini armati della zappa dei padri “rimase referente eroico nei decenni a venire e dimostrò che la sfiducia atavica, il fatalismo e l’individualismo del Meridione erano stati soppiantati da una nuova solidarietà e coscienza collettiva”.

Melissa chiude una stagione significativa della storia della Calabria.

Le modalità delle occupazioni e della gestione dei fondi delle famiglie contadine forse erano espressione di un’ingenua e inedita forma di comunismo, frutto di elementi utopici, religiosi e mistici tipici delle culture tradizionali meridionali. Ma dimostravano anche una nuova e specifica forma di egualitarismo in cui ‘famiglia’ e ‘collettività’ si presentavano come elementi convergenti della società civile. Pur nel suo ingenuo spontaneismo, quella stagione proponeva un modello di società in cui le esigenze di riscatto e di democratizzazione si coniugavano con le tradizioni e i valori della famiglie contadine calabresi, un modello diverso sia dalla arcaica società servile del latifondo che da forme di modernizzazione sociale poco compatibili con la realtà calabrese.

Ma nessuna forza politica seppe cogliere queste indicazioni. Il Pci utilizzò le lotte del movimento contadino come stimolo per una razionalizzazione del sistema produttivo, ma non ne volle valorizzare la portata ‘eversiva’ della particolare forma di organizzazione capitalistica della società meridionale.

Le forze di governo ebbero cura di ‘svuotare’ le lotte con una serie di interventi finalizzati, da un lato, a dividere il movimento contadino e, dall’altro, a proporre il miraggio di una modernizzazione industriale attraverso l’intervento straordinario, frutto “di una ideologia

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emulativa che mirava a far assomigliare tutte le aree ad economia tradizionale a quelle trasformate dalle innovazioni tecniche e produttive e dai mutamenti sociali del capitalismo trionfante”.

Ne è seguita una stagione di “spreco di risorse e identità locali” che ha condannato la Calabria ad un ruolo periferico nella ricostruzione del paese.

La Riforma agraria del 1950 ha gettato lo scompiglio nell’economia agraria meridionale colpendola sul piano politico prima ancora che socio-economico; ha spezzato il latifondo, ha distrutto forme arcaiche e feudali di conduzioni della terra, ha favorito uno spostamento della proprietà a vantaggio dei contadini poveri.

Ma la ratio che la ha ispirato - la creazione di imprese familiari di proprietà attraverso la

‘colonizzazione per appoderamento’ - ha determinato un eccessivo frazionamento e polverizzazione dei fondi che non avevano peraltro le risorse necessarie per avviare un ammodernamento produttivo. Fra l’altro, quei contadini usciti dal dominio feudale sono stati immessi in una forma di individualismo proprietario che ha esaltato la distruttiva competizione personale o familiare.

L’intervento straordinario, attuato attraverso l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno e la Legge speciale del 1955, finalizzato a creare nella regione le strutture necessarie per favorire l’autonomo sviluppo dell’imprenditoria locale, ha determinato l’ammodernamento di alcune infrastrutture (strade, opere di bonifica e di sistemazione idraulico-forestale, ferrovie, edilizia pubblica) ma non ha ottenuto gli effetti sperati sul piano produttivo, per l’inadeguatezza degli strumenti adottati.

Gli effetti di questo complessivo programma di sostegno per la Calabria sono risultati presto evidenti.

Negli anni ’50 la Calabria è stata attraversata da un secondo imponente flusso migratorio, soprattutto verso il triangolo industriale, che ha interessato anche le aree agricole sulle quali era intervenuta la Riforma ed ha visto il progressivo abbandono dell’entroterra da parte di numerose famiglie attratte dalle chances che offrivano le città più grandi e le cittadine della costa, interessate da un notevole sviluppo edilizio e dove più cospicui erano i flussi di finanziamenti provenienti dal centro.

Ne è derivato l’impoverimento delle zone interne e dei paesi e il declino di quel piccolo mondo produttivo legato alle economie locali, alle particolari produzioni artigianali, ai vecchi mestieri. Nel contempo si è disgregato il tessuto sociale di queste realtà povere ma

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ancora vive nei loro legami sociali, nelle relazioni di vicinanza, nelle tradizioni e negli affetti.

Anche la classe dirigente regionale ha subito profondi mutamenti.

La vecchia classe padronale legata alla grande e media proprietà fondiaria che ha governato la Calabria per oltre un secolo, con metodi feudali o paternalistici, ha ceduto il passo alla nuova élite politica di formazione democratica, chiamata a gestire e dirigere norme, fondi e strutture connesse all’intervento straordinario nel Mezzogiorno e a fare da mediatrice tra le istituzioni di governo nazionale e le comunità locali.

I nuovi ‘mediatori’ non hanno quasi più nulla in comune con la tradizionale cultura contadina. Sono per lo più esponenti dei nuovi ceti cittadini, avvocati, professionisti, funzionari che rappresentano al meglio il passaggio dal sistema dei notabili a quello dei professionisti della politica. Sono espressione di “una imprenditorialità intermediatrice economica e politica”, per lo più legata al partito di governo, che fa della vita politica una professione, uno strumento di affermazione e di emersione sociale.

L’attività di questo nuovo ceto dirigente, che ha preso in mano le redini dei partiti, delle amministrazioni, degli enti locali, consiste essenzialmente nella gestione dei flussi di finanziamento che dallo Stato e dall’Europa giungono in Calabria, utilizzati per acquisire consenso, per gestire potere e, sempre più spesso, per mero interesse personale.

Le scelte di politica economica degli anni del miracolo economico, oltre che essere improduttive per la Calabria, hanno avuto un notevole impatto sul piano socio-culturale. Le tradizionali forme di vita, di lavoro e di aggregazione sociale calabrese sono state rappresentate come espressioni di una realtà arcaica e arretrata. Il mito della crescita, dell’industrializzazione, della superiorità del mercato si è diffuso nella regione unitamente agli echi dei successi della società industrializzata del Nord, scardinando antiche sicurezze.

Anche nell’immaginario dei braccianti e dei contadini calabresi l’operaio metalmeccanico e la grande fabbrica sono apparsi come l’universo simbolico cui aspirare, l’espressione di una modernità di cui anche la Calabria doveva far parte.

Le tensioni sociali riesplose a distanza di venti anni dagli interventi del Governo per la Calabria, le agitazioni degli edili del ’68 e la rivolta di Reggio del ’70, hanno dimostrato il persistente disagio di una popolazione stretta tra le promesse di una modernità mai arrivata e le misere condizioni di esistenza. Tensioni alle quali ancora una volta si è pensato di rispondere con progetti faraonici che nulla avevano a che vedere con la specifica situazione

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calabrese. Il ‘Pacchetto Colombo’ del 1972, con il miraggio di poderosi insediamenti industriali (quinto centro siderurgico, industrie tessili, il polo chimico, ecc.) e la previsione di 25.000 occupati - esempio mirabile di una politica dissennata di industrializzazione che non ha coltivato le tradizioni produttive e le risorse locali e ha lasciato dietro di sé cimiteri industriali - è stata l’ultima fallimentare testimonianza dell’insipienza di un ceto politico incapace di pensare autonomamente per la Calabria modelli di vita e di lavoro compatibili con la sua storia e la sua conformazione territoriale.

La stagione dell’intervento straordinario e del trasferimento di risorse ha coinciso, forse non a caso, con una profonda trasformazione del fenomeno mafioso calabrese.

Fino agli anni ’50 le famiglie di ‘ndrangheta imponevano ‘reputazione e rispetto’, in determinate aree della regione, attraverso guerre interfamiliari, prevaricazioni e minacce ammantate da pretestuosi ‘valori’ tradizionali, ma non erano decisive per la complessiva economia della regione. Col tempo le stesse famiglie intuiscono che la ricchezza, che nella mafia tradizionale poteva essere la conseguenza della capacità di farsi rispettare, “diventa la base della reputazione e il suo possesso diventa obbligatorio per l’acquisizione di una qualunque posizione di rispetto”. Da qui un interesse diretto verso il flusso di ricchezza che giunge in Calabria attraverso l’intervento straordinario. La ‘ndrangheta interviene negli appalti, nella gestione di opere pubbliche, nelle integrazioni comunitarie per le produzioni agricole, nella gestione dei servizi pubblici. Condiziona la politica e collude con essa, si espande fino ad assumere le odierne caratteristiche di una potente impresa criminale attiva sul piano internazionale dei traffici di droga e armi, nella quale i tratti originari legati alle origini geo-culturali diventano soltanto il contenitore simbolico di una organizzazione che si muove sul piano globale con modalità che trascendono ogni appartenenza culturale.

* * *

Per circa mezzo secolo l’approccio al problema del Mezzogiorno, e della Calabria in particolare, ha risentito dell’obiettivo dello ‘sviluppo’ da raggiungere mediante i modelli produttivistici, efficientistici e utilitaristici del Nord industriale. Si è imposto quindi un

“processo economico e culturale imitativo, che ha bollato come arretrate tutte le culture che non somigliavano a quelle delle realtà modernizzate”. L’idea che anche per la Calabria lo sviluppo dovesse e potesse venire solo da fuori ha attraversato, acriticamente, larghi strati della società civile e produttiva e ambienti culturali, che “in tal modo hanno decretato a priori l’inferiorità storica delle popolazioni meridionali”.

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Negli anni ’90 una svolta nella cultura calabrese ha consentito di ripensare con radicale nettezza la storia e la realtà della regione, sulla scia di correnti di pensiero (Cassano, Bevilacqua, Alcaro, le riviste Meridiana e OraLocale) che hanno indicato una nuova via nel modo di analizzare e giudicare il Sud.

Premessa delle nuove riflessioni è il rifiuto del concetto di sviluppo calibrato sul modello mercantile produttivistico dell’era globale e di quella linea di politica economica fondata sulle leggi speciali e sui tanti rivoli di una spesa pubblica che “ha bagnato senza nutrire” la Calabria.

Il diverso modo di pensare la storia della Calabria repubblicana consente di comprendere le cause reali dei mali della regione: la continua crisi di legittimità delle istituzioni statuali, la mancanza di credibilità del sistema di amministrazione della cosa pubblica, il rapporto di estraneità e lontananza che ne è derivato, il senso di dipendenza sul piano economico e politico conseguente ad uno sviluppo imposto dall’esterno e dall’alto.

Risulta evidente da questo approccio la necessità di altre misure per la Calabria, dentro un’altra idea di Mezzogiorno, abolendo le politiche dell’intervento straordinario e rinunciando alla tentazione ricorrente di “costituire istituzioni speciali, con procedure speciali per politiche speciali”.

Ciò che occorre è una nuova prospettiva. Quella del rilancio della dimensione locale, del rispetto dell’ethos, delle tradizioni, delle identità delle comunità e della loro capacità di acquisizione di spazi di autonomia sul terreno economico, in un nuovo rapporto con il globale. In sostanza un tipo di sviluppo, disegnato e gestito da coalizioni locali, misurato sulle specifiche realtà locali, frutto della valorizzazione delle risorse umane e ambientali.

Ciò sarà possibile solo con una vera e propria rivoluzione culturale che rovesci radicalmente gran parte delle convinzioni oggi dominanti sulle cause della arretratezza della Calabria.

I comportamenti, le attitudini, i legami sociali e parentali, la persistenza delle tradizioni culturali, l’amore per i luoghi e per la comunità che vi si riconosce denunciati come le

‘piaghe’ della regione “sono in realtà le sue virtù, le ragioni del suo orgoglio, i punti di forza di una ritrovata identità, i segnavia di un possibile nuovo sentiero per il futuro”.

In questa prospettiva il locale diventa uno spazio creativo e costruttivo in cui l’identità, la memoria e le tradizioni esercitano forze di liberazione da stili di vita insostenibili, imposti da logiche consumistiche e da un’economia liberista sfrenata. Il rischio di scenari di chiusura o di barricate contro “il diverso che ci insidia” svanisce se l’identità delle comunità

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locali è alimentata dallo scambio e dal confronto tra diversità, nella consapevolezza che solo in funzione delle diversità essa si riconosce e si esprime.

La storia e l’identità meridionale potrebbero, inoltre, assumere un ruolo di primo piano in un’Europa che riscoprisse le sue radici mediterranee e pensasse ai paesi del bacino del Mediterraneo come una Mesoregione in cui si incontrano comunità che possono acquisire una dimensione socio-economica compatibile con l’appartenenza geografica e culturale.

In questa ottica la Calabria, per la sua dimensione geografica, ma ancor prima per il suo patrimonio culturale e identitario, può essere un ponte tra due mondi che una certa concezione dell’Occidente vuole contrapposti in un conflitto insanabile.

CAP. I

TERREUOMINIE POLITICAINCALABRIAALLACADUTADELFASCISMO

1. L’eredità della politica agraria del fascismo: latifondo e controllo sociale delle campagne.

All’indomani dell’8 settembre del 1943 la Calabria presentava tutti i gravi problemi di una economia rurale arretrata e di una pesante stratificazione sociale che al momento dell’Unità d’Italia erano già evidenti e che i governi liberali prima e il fascismo dopo, non aveva in alcun modo risolto.

Nel periodo fascista l’economia del Meridione non era tanto differente da quella del secolo precedente. Oltre il 58% della popolazione del Sud lavorava ancora la terra come unico mezzo di sussistenza1.

Nel Sud agricolo dei primi decenni del secolo si potevano distinguere due tipologie di produzione agricola. Una più fertile, e quindi produttivamente redditizia, caratterizzata da un’agricoltura intensiva basata su vigne, oliveti e alberi da frutta. L’altra, invece, costituiva il Sud povero o “nudo”, come giustamente ha osservato Manlio Rossi-Doria, contrassegnata per lo più da terre da pascolo e da colture estensive di cereali.

Le zone alberate e fertili del Meridione, tuttavia, comprendevano circa un decimo del Mezzogiorno agricolo nelle zone pianeggianti e costantemente sovraffollate; basti pensare

1 Sulla struttura e sulla problematica crescita economica dell’agricoltura nel Meridione cfr. M. Rossi-Doria, Riforma agraria e azione meridionalista, Bologna, 1941.

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che le abitavano la metà dell’intera popolazione dell’area.

Una porzione delle terre era in mano ai contadini, ma vi era anche un ragguardevole numero di aziende capitalistiche moderne che si avvalevano di lavoratori agricoli normalmente salariati2.

Complessivamente, il livello della qualità della vita dei contadini che lavoravano queste terre era migliore rispetto a quelli che lavoravano su terreni aridi e poco produttivi;

ciononostante <<quando i raccolti erano buoni e il commercio fiorente, il Sud ‘alberato’

poteva appena mantenere la sua copiosa popolazione. In tempi di crisi, invece, una parte notevole dei contadini era ridotta in miseria>>3.

L’altro Sud, quello “nudo” e poco fertile, comprendeva quasi interamente le zone collinari e di montagna ed era immensamente più grande e più povero.

Le forme di proprietà della terre in queste zone erano diverse. Ai contadini erano lasciati piccoli appezzamenti di terra in zone impervie e rocciose che erano poco o per nulla redditizie.

Non a caso nel periodo che va dall’unificazione nazionale al 1930, l’economia di sussistenza dei contadini meridionali si era resa possibile solo in virtù degli imponenti flussi di emigrazione transoceanica.

Gli altopiani meridionali costituivano il dominio del latifondo.

Questa parola non solo indica sterminate proprietà agrarie, ma ha assunto anche un significato sociale, intendendo con essa tutta una serie di rapporti agrari su scala egemonica.

Nel ‘sistema latifondo’ il contadino non fruiva di un appezzamento di terreno idoneo per sostentare la propria famiglia, ma era un lavoratore agricolo alla continua ricerca di un impiego come bracciante stagionale o come affittuario annualmente di piccole ‘strisce di terra’.

I contratti agrari tra il bracciante e il possidente terriero erano, nel Meridione, tra i peggiori d’Italia; stipulati <<quasi sempre su base individuale, spesso non scritti e contestati aspramente, […] i contratti stabilivano che i contadini non potessero ricevere oltre il 25 per cento dei raccolti. I tassi d’interesse erano molto alti e i contadini che affittavano strisce di latifondo si ritrovavano in debito permanente>>4.

In più, c’è da aggiungere che ogni iniziativa per apportare miglioramenti in campo agricolo

2 Sull’estensione del capitalismo nelle campagne tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo cfr. E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino, 1968.

3 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Torino, 1989, p. 31.

4 Ivi, p. 35, il quale richiama esplicitamente A. Rossi-Doria, Il ministro e i contadini, Roma, 1983, pp. 85-124.

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è lasciata ai proprietari che si accontentano di una rendita parassitaria piuttosto che investire per un concreto miglioramento della produzione. Lasciata a se stessa, priva di iniziative di ammodernamento, l’agricoltura meridionale si sviluppava assai lentamente.

Durante il ventennio fascista la condizione economica meridionale resta ancorata a una situazione di immobilismo i cui effetti si riscontrano nell’andamento della produzione agraria.

E’ stato calcolato, infatti, che <<la produzione agricola a prezzi costanti tra la vigilia della prima guerra mondiale e la vigilia della seconda guerra mondiale nel Mezzogiorno è rimasta stazionaria. Nello stesso periodo nel resto d’Italia essa aumenta più del 20%>>.5

Nonostante la retorica del ritorno a una politica di ‘ruralizzazione’, il fascismo non realizza alcuna politica a favore della piccola proprietà.

Il tentativo del regime di mitizzare la società rurale, in realtà, lascia immutata la struttura di classe del Mezzogiorno perpetuando le annose condizioni di inferiorità economica e di disgregazione sociale del mondo agricolo6.

Cosicché la crescita della piccola e media proprietà, che era stata lenta ma costante nel Mezzogiorno dai primi anni del secolo, dapprima rallenta a seguito della crisi dei mercati nel 1929 e nel corso degli anni Trenta conosce un’inversione di tendenza.

La stessa ‘battaglia del grano’ non porta a un miglioramento delle capacità produttive del Sud agricolo, ma, anzi, finisce per danneggiare le colture tipiche e mediterranee che fino a quel momento avevano conosciuto un discreto livello di produzione e di esportazione.

Sotto la spinta del regime si ha una notevole estensione delle colture di cereali finanche in quelle zone tradizionalmente destinate al pascolo o ad altri tipi di colture.

Di ciò si avvantaggiano soprattutto i grandi latifondisti, che avevano la possibilità di estendere la superficie da coltivare, ma non i contadini poveri e i piccoli proprietari.

La politica agraria del fascismo finirà per danneggiare, in sostanza, tutti quei piccoli produttori del Sud che da tempo si erano cimentati nella produzione delle tipiche colture meridionali, a vantaggio dei grandi proprietari terrieri meridionali e delle aziende agricole capitaliste del Nord7.

5 A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Bologna, 1978, p. 91.

6 F. Martinelli, Società rurale e struttura di classe, Milano, 1976, p. 103.

7 In questo contesto diminuiscono drasticamente le esportazioni italiane di prodotti agricoli tipicamente mediterranei, mentre parallelamente le altre nazioni europee che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, mantengono un ritmo di produzione e di commercializzazione costante o crescente. Dopo la seconda guerra mondiale, l’Italia si troverà in una condizione subordinata rispetto alle sue ‘concorrenti’ europee a causa della scelta di favorire lo sviluppo delle culture cerealicole. A tal riguardo G. Mottura, E. Pugliese, Agricoltura, Mezzogiorno e mercato del lavoro, Bologna, 1975.

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Fra i provvedimenti che dovevano in teoria innovare le capacità produttive del Mezzogiorno, modificando strutture agricole arretrate, vi fu certamente la legge sulla bonifica integrale del 1928.

La finalità di questa legge era quella di inserire strutture fondiarie e proprietà terriere inutilizzate e largamente improduttive all’interno del mercato capitalistico. A tal riguardo

<<il governo aveva il compito della esecuzione delle opere pubbliche e delle opere di bonificamento agrario e di colonizzazione interessanti più fondi del comprensorio, ed inoltre stabiliva la obbligatorietà dei miglioramenti fondiari di interresse particolare dei singoli fondi>>8.

Affinché le opere di bonifica avessero successo era necessario, oltre all’esecuzione di opere di bonifica sul demanio pubblico, che il governo esercitasse un potere coercitivo nei confronti dei privati che risultavano essere refrattari all’ammodernamento delle campagne9. In realtà, come già era successo con i governi precedenti, il fascismo non impose alcun obbligo ai grandi proprietari terrieri, facendo si che la tanto decantata opera di bonifica delle campagne non portasse a risultati concreti se non nell’Agro Pontino.

Il fascismo, dunque, non modificò affatto le strutture produttive del Mezzogiorno. L’assenza quasi totale di una specifica politica di intervento agrario nel Sud accentuò la marginalizzazione di quest’area e un ulteriore deterioramento delle condizioni di vita del mondo agricolo.

Piuttosto l’unica visibile concreta politica fascista di intervento nelle campagne fu la volontà di controllo sociale del mondo contadino.

Il fascismo, infatti, cercava in primo luogo il consenso della piccola e media borghesia, emarginando ulteriormente quel mondo contadino tradizionalmente portatore di eccessive tensioni sociali.

Nel contempo il controllo sociale nelle campagne e la totale mancanza di innovazioni consentivano al governo di favorire il programma di industrializzazione nel Nord del paese, relegando il Meridione a ruolo di ‘rimorchio’ dell’economia italiana.

La Calabria certo non si differenziava rispetto al resto del Mezzogiorno, anzi, per alcuni aspetti, la condizione economica della Regione era al di sotto della media del Sud Italia.

La mancanza di iniziative a sostegno dei contadini e delle classe operaia, aveva prodotto agli inizi degli anni venti una situazione sociale estremamente grave.

8 A. Del Monte, A. Giannola, Il Mezzogiorno nell’economia italiana, Bologna 1978, p. 93.

9 Sull’opera di bonifica in Italia, cfr., Le bonifiche in Italia dal ‘700 ad oggi, a cura di P. Bevilacqua e M. Rossi- Doria, Roma-Bari, 1984.

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Tutto sommato, il fascismo in Calabria riuscì a penetrare tardivamente, in occasione della tornata elettorale del 1924. Ma <<la Calabria aderì al fascismo ‘solo’ per il 75 per cento, proporzione elevatissima, certo, ma che intanto era la più bassa di tutto il comprensorio meridionale>>10.

Non è certo un mistero che i possidenti rurali calabresi guardarono di buon occhio il fascismo sin dalle prime battute. Superate quelle paure dello scontro sociale acuitesi durante il biennio rosso, le associazioni dei proprietari terrieri non ebbero più riserve a manifestare le loro affinità ideologiche col fascismo.

Attraverso “L’agricoltura calabrese”, organo ufficiale dell’associazione, i possidenti rivendicavano il ristabilimento dell’ordine e delle leggi sul diritto di proprietà, il ripristino delle contrattazioni dei fondi rustici, con ogni mezzo necessario, e invocavano una svolta politica delle destre e del fascismo che consentisse il ripristino di quelle consuetudini

‘millenarie’ che regolavano i rapporti tra i possidenti e i braccianti agricoli11.

La presa del potere da parte del fascismo fu vista dai latifondisti come una ‘luce fulgidissima’, capace di ridare forza e vigore al fondamento giuridico della proprietà12. Inoltre, dopo qualche anno dal suo insediamento il governo fascista emanava alcune leggi di divieto o di forte restrizione dei flussi migratori causando, di conseguenza, una notevole accentuazione della disoccupazione

Basti pensare che se <<nel decennio 1921-1930, gli espatri ammontarono a 168 mila contro 75 mila rimpatri, nel decennio successivo i primi si ridussero a 41 mila e i secondi a 23 mila>>13.

A ben vedere dunque, il calo dell’emigrazione, da sempre considerata come una tragedia e al tempo stesso come ultima e disperata risorsa del popolo calabrese, determinò nel periodo compreso tra il ’26 e il ’31 un aumento della popolazione di quasi trecentomila unità.14 Tuttavia se la migrazione transoceanica conosce una battuta d’arresto, parallelamente si amplia in maniera cospicua il flusso migratorio all’interno dei confini nazionali.

Si tratta per lo più di un fenomeno che interessa la piccola e media borghesia; si stima infatti che circa seimila calabresi si dirigeranno verso il Nord e, soprattutto, verso la capitale per

10 A. Placanica, Storia della Calabria, dall’antichità ai giorni nostri, Roma, 1999, p. 359.

11 A tal riguardo cfr. <<L’agricoltura calabrese>>, 12 novembre 1920 e Il risultato delle urne, in <<L’agricoltura calabrese>>, 9 giugno 1921.

12 V. Cappelli, Il fascismo in periferia,. Il caso Calabria, Roma, 1992, pp. 45-46.

13 F. Cordova, Alle origini del Pci in Calabria. 1918-1926, Roma, 1977, p. 29. Ai problemi relativi ai flussi migratori nel periodo pre-fascista, si accenna anche in Socialismo e piccola proprietà, in <<La parola socialista>> (Cosenza), 26 maggio 1920.

14 G. Cingari, Storia della Calabria dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, 1982, p. 275.

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occupare gradualmente mansioni più prestigiose all’interno di uffici pubblici, scuole, banche e caserme15.

All’aumento della popolazione, corrisponde anche un sensibile incremento della mortalità, specie quella infantile che fa della Calabria la regione con il più alto indice di mortalità al cospetto del resto del Mezzogiorno.

In questo contesto la crisi dei mercati statunitensi ed europei del 1929, preannunciata dal fascismo con la manovra recessiva del ’27 e con la rivalutazione della lira a ‘quota novanta’, non solo inibì qualsiasi forma di ripresa, ma piombava grevemente sui redditi agricoli.

Le maggiori perdite si registravano nelle aziende capitalistiche piuttosto che nei grandi latifondi o nelle tenute agricole a conduzione familiare. La Calabria, pertanto, con la sua economia agricola latifondista resisteva meglio agli effetti della sfavorevole congiuntura economica.

Paradossalmente lo stato di arretratezza della regione la riparava, più di altre, agli scossoni della recessione economica.

Tuttavia questa crisi, <<abbattendosi su una popolazione in crescita e per larga parte al limite della sussistenza, ne aggravava la condizione, senza peraltro le opportunità di riconversione e di ristrutturazione presenti nelle aree più forti>>16.

Il restringimento di profitto di produttori e grandi proprietari terrieri si ripercuoteva inesorabilmente sul ceto agricolo. Per ‘rimediare’ alle onerose perdite finanziarie, i proprietari terrieri inasprirono ulteriormente i contratti con braccianti e coloni e restringendo i salari.

Negli anni della crisi, nelle tre province calabresi, i salari dei braccianti erano diminuiti di circa il 35%17.

In queste condizioni, i contadini calabresi erano costretti, per assicurarsi una retribuzione che gli consentisse quantomeno il proprio sostentamento, ad inasprire il carico di lavoro ben oltre le tradizionali otto ore di lavoro.

In definitiva le crisi economiche e l’inadeguatezza della politica fascista, nonostante il suo populismo e la sua demagogia, frenarono ancora una volta, in maniera inconsapevole, il cammino della Calabria verso la modernizzazione.

15 Per meglio comprendere le dinamiche migratorie calabresi e meridionali durante il ventennio fascista cfr., L.

Gambi, Calabria, Torino, 1965, pp. 258ss., nonché V. Cappelli, op. cit., pp. 42-43, e anche A. Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, 1976, p. 7ss., e gli studi di G. Galasso, Migrazioni e insediamenti nell’Italia meridionale, in AA.VV., Problemi demografici e questione meridionale , Napoli, 1959.

16 G. Cingari, op. cit., p. 275.

17 F. Cordova, op. cit., p. 30 ss.

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Una volta attratti nella sua orbita agrari e media borghesia, eliminate ed allontanate le forme di dissenso, il fascismo si guardò bene dal trovare una soluzione definitiva e decisiva all’annosa ‘questione meridionale’; piuttosto, ristabilì le antiche forme di egemonia sociale che regnavano incontrastate nelle campagne.

Dapprima le mancate bonifiche del territorio e in seguito gli sterili tentativi di offrire alla Calabria forme di cooperazione agricola (come ad esempio l’Opera nazionale combattenti), non tennero in considerazione le peculiarità morfologiche del territorio calabrese, che da sempre aveva favorito forme di individualismo agrario a discapito di modelli cooperativistici. Per questi motivi il modello cooperativo ebbe in Calabria vita assai breve.18 In definitiva, la politica del fascismo in Calabria non si discostò dai governi precedenti;

ancora una volta, poche risposte erano state fornite alle richieste del mondo contadino, mentre le solite ‘baronie rurali’ vedevano intatto e consolidato il loro sistema di potere e di privilegi.

Il ventennio aveva proiettato la Calabria nel grigiore più angosciante.

2. Il risveglio della politica in Calabria dopo l’8 settembre 1943

Il 25 luglio del 1943 è stata, secondo Augusto Placanica, una grande festa popolare per tutta la Calabria.

Seppure si trattasse di una ‘liberazione’ attesa passivamente, il coinvolgimento del popolo calabrese alla notizia della caduta del fascismo fu molto alto19.

Quando gli eserciti alleati dell’VIII Armata attraversarono lo stretto di Messina, il 3 settembre del 1943, prima ancora che il re e Badoglio riparassero a Brindisi, i calabresi videro nella marcia delle truppe angloamericane il segno tangibile della fine del regime20. La Calabria di quegli anni, come riferiva il corrispondente del ‘Times’, era ‘terra di nessuno’, con i tedeschi in ritirata verso il Settentrione e l’Amgot (Allied Military Government) che rapidamente risaliva la penisola21.

La Liberazione in Calabria coincise con la sostituzione di quasi tutti i vecchi podestà con esponenti delle vecchie classi dirigenti di orientamento democratico: ben 263 comuni su 395 sostituirono il capo del loro municipio22.

18 A. Placanica, op. cit., p. 358-359.

19 A tal riguardo cfr. A. Placanica, Storia della Calabria dall’antichità ai giorni nostri, Roma, 1999.

20 Cfr. a questo proposito G. Cingari, Storia della Calabria dall’unità ad oggi, Bari, 1982, p. 305 ss.

21 A. degli Espinosa, Il Regno del Sud, Roma, 1973, p. 49.

22 A. Placanica, op. cit., p. 365.

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La reazione dell’opinione pubblica calabrese nei confronti dei vecchi gerarchi fu sostanzialmente blanda, non si verificarono infatti forme di rivalsa nei confronti dei fascisti se non brevi e sporadici episodi tumultuosi, attenuati e ammorbiditi dagli stessi alleati che in poco tempo si assicurarono le simpatie dei ceti politici moderati.

L’arrivo degli angloamericani sembrò portare, in un primo momento, a un sovvertimento della situazione politica e dei vecchi equilibri preesistenti

Gli alleati avevano sostituito alcuni podestà (93 su 152 nel cosentino, 70 su 89 nel reggino, 100 su 154 nel catanzarese) e nella città di Catanzaro avevano arrestato prefetto, podestà, vicepodestà e direttore delle carceri23.

Ciò nonostante, la politica degli alleati era ben sintetizzata da questa parola d’ordine:

<<mantenere l’amministrazione esistente e moderare con discrezione la defascistizzazione>>24.

In poco tempo le commissioni per l’epurazione, che dovevano sancire l’allontanamento delle vecchie personalità fasciste dai ruoli di potere e dalle pubbliche amministrazioni, si rivelarono sin troppo indulgenti e ben presto si provò a far riconfluire i gerarchi e i podestà meno esposti all’interno dei partiti e delle organizzazioni politiche moderate, all’insegna di una linea politica di continuità istituzionale25.

Di fatto, l’esigenza di un processo di epurazione dalle maggiori cariche rappresentative delle istituzioni si era scontrato <<con difficoltà oggettive nella distinzione, come si diceva, dei pesci piccoli e dei pesci grossi; e, in più, era ben difficile sbrogliare l’intricata matassa parentale e d’interessi che si era fittamente radicata nei centri operativi nati col fascismo>>26.

Il fascismo, che era caduto sotto il peso delle sue responsabilità storiche, manteneva una sorta di continuità grazie alle peculiarità della società calabrese e, soprattutto, alla politica degli angloamericani, che si dichiaravano formalmente al di sopra delle parti, ma consacravano di fatto la realtà socio-politica esistente, basata sul duro sfruttamento della miseria nelle campagne del lavoro contadino, e non si ponevano in alcun modo l’obiettivo di un concreto miglioramento della qualità della vita e di una maggiore equità sociale.

Ma la caduta del fascismo e l’avvio di una lenta ripresa democratica non potevano non

23 N. Gallerano, La disgregazione delle basi di massa del fascismo nel Mezzogiorno e il ruolo delle masse contadine, in AA. VV., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, 1974, p. 469 ss.

24 P. Ginsborg, op. cit., p. 42.

25 Sui problemi relativi a fascismo, antifascismo, post-fascismo e continuità dello Stato, si veda C. Pavone, Alle origini della Repubblica, scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, 1995.

26 G. Cingari, op. cit., p. 312.

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favorire la rinascita della vita politica calabrese, malgrado ‘l’indifferenza’ delle forze alleate di occupazione.

Dopo l’8 settembre la politica irrompe sulla scena calabrese, imprevista e sorprendente per la vivacità e la capacità di diffondere il desiderio di conquistare con la libertà anche radicali cambiamenti sociali. Si potrebbe dire che, negli anni a cavallo tra il 1943 e il 1946, i calabresi mostrano una inaspettata consapevolezza politica e nella regione si assiste a un sensibile spostamento ‘a sinistra’ del popolo calabrese.

La costituzione dei Comitati di Liberazione Nazionali (Cln), provinciali e comunali, che nel Meridione non erano il risultato di una lotta partigiana, ma unicamente il riflesso degli andamenti politici nazionali, portò a una ripresa della lotta e dell’attività politica, sopita per anni in Calabria, come in buona parte del paese, e a un proliferare di giornali collegati ai partiti antifascisti o di chiaro schieramento politico, che dimostra quanto i popoli di Calabria fossero tutt’altro che insensibili o passivi alle dinamiche politiche in questo periodo di transizione.

I maggiori partiti si erano, infatti, ricostituiti e dal numero dei tesserati di ciascuno di essi si evince che le ‘forze’ politiche della sinistra e, in genere, progressiste, <<erano superiori a quella della Dc e pressoché pari a quelle delle altre forze politiche messe insieme>>27. Un aspetto da non sottovalutare nella ripresa della vita democratica è dato dall’assenza di un moderno partito liberale, che negli anni precedenti al fascismo era una delle componenti politiche di primo piano in tutto il paese.

Dopo il 1943, la nuova fase di <<democrazia rappresentativa è resa possibile in Italia, oltre che dalla rinuncia dei partiti di sinistra – e in particolare del Pci – a tentare di aggregare la domanda politica rivoluzionaria, dalla costituzione di un partito non propriamente liberale borghese, ma che ne svolge il ruolo essenziale […] per tutti gli anni Quaranta e Cinquanta:

la Democrazia cristiana>>28.

Questo giovane partito (era nato soltanto nel 1942) raccoglie la cultura del cattolicesimo tradizionalista, così come aveva fatto, oltre un ventennio prima, il Partito popolare di Luigi Sturzo, ma, a differenza del suo predecessore, assume sin da subito un ruolo di protagonista nello scacchiere politico29.

27 A. Placanica, op. cit., p. 366.I prefetti dei tre capoluoghi della regione attribuivano ai partiti in quel periodo più di duecentomila iscritti. In modo più specifico in Calabria, tra il 1945 e il 1946, la Democrazia Cristiana aveva 50.777 iscritti, il Partito comunista italiano 36.789, il Partito socialista italiano di unità proletaria 21.338, la Democrazia del lavoro 15.860, il Partito d’Azione 45.992, il Partito democratico liberale 40.121.

28 G. Galli, I partiti politici italiani (1943-2004), Milano, 2004, p. 41.

29 Il numero dei tesserati e l’esito delle consultazioni elettorali del 1946 dimostra che il nuovo partito di ispirazione cristiana raggiunge presto un consenso pari al 35 %, ben oltre il tetto del 20% che aveva attinto il Partito Popolare di

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Alla base di questo successo sta la capacità dei maggiori dirigenti della Dc di far convogliare su di esso i consensi non solo del mondo cattolico tradizionale, quanto anche quelli dei proprietari terrieri e degli industriali, ‘preoccupati’ dall’espansione dei partiti di ispirazione marxista, e di quelli dell’ampia schiera della borghesia liberale ormai ‘orfana’

del partito di riferimento.

Nonostante questa affermazione la Democrazia cristiana, sebbene avesse il più elevato numero di tesserati, non si presentava come una forza di cambiamento pari alle forze di sinistra. Queste erano caratterizzate dall’attività dei quadri prefascisti che si erano opposti al regime e che adesso riproponevano le loro battaglie di libertà all’interno di prospettiva di riscatto sociale, che li faceva apparire agli occhi delle classi più povere come i veri agenti del cambiamento.

A fianco delle forze di sinistra, anche in Calabria cominciava a prendeva corpo una vasta organizzazione sindacale, mai conosciuta in precedenza, e <<affioravano, nel contempo, le prime strutture di collateralismo ai partiti>>30.

La rinnovata partecipazione politica, al di sopra di ogni aspettativa, molto verosimilmente era la reazione ad un ventennio di silenzio e di adesione coatta e passiva al regime fascista.

Ma l’aspetto ‘emotivo’ e liberatorio non era tutto.

In Calabria, in particolare, la ripresa della politica è avvenuta con forme ed obiettivi impensabili per una terra tradizionalmente ‘narrata’ come arcaica e arretrata, priva di consapevolezza civile e politica. Le lotte dei braccianti e dei ceti urbani, l’episodio isolato ma denso di significati della Repubblica rossa di Caulonia e, in modo particolare, le occupazioni delle terre da parte dei contadini dimostrano che i calabresi vissero il periodo immediatamente successivo alla liberazione come un momento storico decisivo per le loro vite future e per la loro società.

Per la prima volta nella storia della regione braccianti, disoccupati e masse urbane, politicizzate e non, si muovono, spesso in modo del tutto spontaneo, per manifestare il profondo disagio dato da un immiserimento protrattosi per decenni.

Questo ‘cuore sociale’ della Calabria, che reagisce ai disagi della propria condizione incrociando le braccia, scendendo in lotta e manifestando, in diverse forme, la propria insofferenza, è protagonista di una svolta epocale. Questo ceto subalterno, abituato a reagire alla miseria e ai soprusi con l’emigrazione, non a caso da Giustino Fortunato definita

Sturzo.

30 G. Cingari, op. cit., p. 310.

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la ‘rivoluzione silenziosa’ dei calabresi, decide di ribellarsi e lottare in Calabria, partendo dalla propria condizione di bracciante e contadino nella prospettiva di un riscatto che si doveva realizzare nella propria terra.

La storia dimostrerà che la classe politica, anche quella progressista, e dirigente calabrese non seppe cogliere il senso e la portata delle lotte degli anni 40, condannando la regione ad un misero futuro di assistenza, clientelismo, corruzione e criminalità predatrice.

3. Le prime occupazioni ‘spontanee’ e le rivolte urbane.

Le miserie della guerra, che si erano aggiunte all’immobilismo delle politiche fasciste che, come abbiamo visto, non aveva per nulla inciso sulle fatiscenti strutture sociali calabresi, hanno avuto un effetto <<moltiplicatore di quei processi negativi che, presenti in Calabria sin dai primi anni trenta, si andavano lentamente accentuando>>31.

Il profondo disagio e il malcontento accumulato dalle classi povere calabresi dopo vent’anni di regime sarebbero esplosi nel primo decennio dell’immediato secondo dopoguerra come prodotto di tutta una serie di dinamiche che si erano accumulate nei decenni precedenti, dando vita a una lunga mobilitazione che coinvolgeva decine e centinaia di migliaia di contadini e che può essere considerata <<il più importante movimento di massa del dopoguerra, sostenuto dalle forze di sinistra raccolte nel Movimento di rinascita>>32.

Le prime avvisaglie del nuovo clima, forse confuse e dai contorni politici non ancora ben definiti ma significative, si manifestarono già nel settembre 1943 con le prime occupazioni spontanee di terre da parte di contadini esasperati dal peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che per la prima volta manifestano la propria voglia di riscatto con azioni di forza.

Le prime mobilitazioni si hanno il 16 settembre del 1943 quando i contadini di Casabona, nel crotonese, occupano, spontaneamente e in modo del tutto disorganizzato, alcuni appezzamenti di terra all’interno delle ampie distese di territorio agricolo del Marchesato crotonese, appartenenti al barone Berlingieri. Subito dopo l’occupazione i contadini picchettavano i terreni, li dividevano in quote e cominciavano ad ararli e seminarli.

Nei giorni successivi insorgevano nello stesso modo i braccianti agricoli di Strongoli, Melissa, S. Nicola dell’Alto, Cirò e altri centri del circondario.

31 E. Ciconte, All’assalto delle terre del latifondo. Comunisti e movimento contadino in Calabria (1943 – 1949), Milano, 1981, p. 11.

32 E. Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Milano, 1996, p. 71.

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Nei primi giorni del dicembre ’43 anche i contadini di Crucoli occupavano la maggior parte dei terreni comunali.

Il numero dei partecipanti a queste prime occupazioni non era molto alto, ma le modalità delle iniziative e l’atteggiamento risoluto e disperato dei ‘ribelli’ destarono vivo allarme nelle classi dominanti e nelle istituzioni, preoccupate che una rivolta che assumeva questi connotati potesse facilmente estendersi in una situazione sociale degradata e di profonda miseria.

E questi timori, in effetti, non erano infondati perché appariva chiaro che quelle prime occupazioni di terre non erano solo un’azione di protesta o forme di ribellione spontanee prodotte dalle condizioni disastrate della regione, ma rappresentavano anche <<una iniziativa profondamente politica>>33.

La risposta dei proprietari terrieri non tardò ad arrivare.

La maggior parte dei proprietari, accortasi del pericolo che l’insurrezione dei braccianti rappresentava, si rivolse ai comandi <<anglo-americani per far cacciare i contadini dalle terre: quelli vi mandarono le truppe di colore (i “marocchini” li chiama tuttora la popolazione locale), che dopo ripetuti tentativi si trovarono alfine nella pratica necessità di desistere. Cacciati di giorno, i contadini ritornavano sulle terre di notte, defatigando i reparti, che non conoscendo gli antichi diritti di cui parlavano tutti i contadini, e la tradizione delle loro ricorrenti lotte contro gli usurpatori, non si rendevano conto del loro accanimento e della loro compattezza, e finirono colo disinteressarsi, rispondendo agli agrari che non era loro compito dirimere le antiche contese, e che le semine dei contadini nelle campagne non turbavano affatto l’ordine pubblico>>34.

La presenza delle truppe alleate, che cercavano di far giungere a una intesa contadini e proprietari attraverso la stipulazione di <<un accordo provvisorio che riconosceva, sia pure a titolo precario, le occupazioni e i diritti dei contadini sui seminati>>35, assume carattere deterrente per il proseguo delle agitazioni, che gradatamente cominciarono a diminuire di intensità.

Accanto alle agitazioni nel mondo rurale cominciavano a diffondersi altri momenti di protesta che coinvolgevano i centri urbani prostrati dalle enormi difficoltà degli ultimi mesi del 1943.

Lo stato di profondo disagio in cui era ridotta la popolazione urbana calabrese è ben

33 P. Bevilacqua, Le campagne del Mezzogiorno tra fascismo e dopoguerra, Torino, 1980, p. 355.

34 P. Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria. 1943/1953, Milano, 1977, p. 19.

35 G. Galasso, <<La riforma agraria in Sila e nei territori jonici contermini>>, Nord e Sud, n. 31, 1957, p. 9.

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descritto dalla ‘La voce del popolo’, che così ricorda quei giorni: “Tutto rincara. Nulla si trova. Non è più la servetta che va al mercato perché essa non esiste. Son tutti i componenti della famiglia che dalle prime luci dell’alba fino al tramonto girano per tutti i punti della città e dei dintorni per procacciare qualcosa. E’ il problema del vivere. Ma sono più i giorni che rimangono a guardarsi l’uno con l’altro, che i giorni in cui siedono a tavola a godere della vista di un piatto fumante”36.

Il forte aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, la mancanza di grano e la conseguente difficoltà di approvvigionamento di pasta e pane, la pressoché completa assenza di infrastrutture e mezzi di trasporto all’interno del territorio regionale, il blocco della già scarsa attività industriale, e il conseguente aumento del tasso di disoccupazione, e il propagarsi del mercato nero costituiscono il brodo di coltura degli episodi di ribellione in vari comuni della Calabria.

In questo contesto si manifestano agitazioni e diverse forme di dissenso. Nel settembre del 1943 a Sellia Marina decine di persone assaltavano i magazzini del Consorzio agrario e sottraevano la merce trovata dentro. Un mese dopo anche a S. Pietro Apostolo e a Magisano agitazioni e tumulti sfociavano nel saccheggio dell’abitazione di un commerciante di S.

Pietro e nella protesta di numerose donne di Magisano che chiedevano le dimissioni del sindaco e la garanzia della distribuzione di pane e di grano37. A Catanzaro nel gennaio del

’44 la popolazione femminile protesta vivamente contro la Prefettura che intendeva sospendere la distribuzione della farina.

La rivolta più significativa di questo periodo si è avuta a Cosenza nel novembre del 1943.

Agli stenti con cui gli abitanti del capoluogo bruzio erano costretti a vivere si aggiungeva una difficile situazione politica generata dalla <<ventiseiesima e ventisettesima divisione tedesca corazzata, che lasciavano alle loro spalle tali e tante distruzioni da rendere difficile la ripresa della vita civile>>38.

Le privazioni a cui i cosentini erano sottoposti vengono in qualche modo colmate dalla presenza del Comitato di Soccorso Rosso Internazionale, che cercava di garantire la ripresa della vita civile della città, e dall’anelito di speranza e libertà avvertito dalla popolazione locale.

L’arrivo degli angloamericani di fatto non modifica i rapporti di potere preesistenti e anche

<<nella nuova situazione, i responsabili politici e amministrativi dei ventennali soprusi

36 Cfr. <<La voce del popolo>>, a. I, n. 4, 5, dicembre 1943.

37 E. Ciconte, op. cit., p. 14.

38 F. Mazza, M. Tolone, Fausto Gullo, Cosenza, 1982, p. 71.

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trovano insperato appoggio e protezione negli Alleati>>39.

In modo particolare la conferma del Prefetto Hendrich, da sempre osteggiato dalle componenti politiche antifasciste di Cosenza, non consentiva la ricomposizione in chiave democratica della società civile e dei maggiori partiti politici.

In un clima oltremodo teso si diffondeva rapidamente la voce che lo stesso Prefetto inviava il grano, necessario per il fabbisogno dei cosentini, alle truppe tedesche in ritirata.

Era la scintilla, attesa dagli antifascisti cosentini, per far scattare la rivolta popolare.

Secondo le testimonianze dei partecipanti alla sommossa le componenti della ‘sinistra’

cittadina riuscivano ad organizzare e pianificare un imponente corteo per le vie della città che sfociava nella piazza in cui era ubicata la sede della Prefettura40.

La folla, guidata da i maggiori rappresentanti dei partiti antifascisti e in modo particolare dal Partito d’Azione particolarmente attivo in città 41, si introduceva nella Prefettura con lo scopo di raggiungere il Prefetto Hendrich.

Dopo l’irruzione all’interno dell’edificio il grado di tensione aumentava in modo palpabile.

Lo stesso Prefetto veniva raggiunto da un militante del Partito comunista, Armando Merletti, che lo colpiva con un quadro raffigurante l’immagine del duce.

Prima che il resto della folla inferocita potesse ulteriormente infierire, Hendrich riusciva a sottrarsi al possibile linciaggio grazie all’aiuto di un israelita appena liberato dal campo di raccolta di Mongrassano.

Dopo un breve momento in cui gli animi sembravano essersi calmati, le agitazioni riprendevano con vigore in quanto si era diffusa la voce dell’arresto dell’esponente di spicco del Pci, Fausto Gullo.

La reazione a questa notizia rinfocolava gli animi dei ribelli che invocavano e, a furor di popolo ottenevano, la nomina dello stesso Gullo a nuovo Prefetto e dell’avvocato comunista Francesco Spezzano a commissario prefettizio.

Mentre la maggior parte dei rivoltosi occupava la totalità degli uffici pubblici di Cosenza, Fausto Gullo ordinava la scarcerazione di tutti i detenuti politici e esortava gli antifascisti a non compiere inutili e dannose azioni di vendetta. Tuttavia gli elementi più pericolosi e vicini al fascismo venivano fermati al fine di evitare ritorsioni.

39 Ivi, p. 72.

40 Sulle testimonianze dei partecipanti alle agitazioni di Cosenza cfr. N. De Andreis, La ribellione di Cosenza, Bergamo, 1977, p. 15 ss, nonché il recente saggio di K. Massara, Dalla città fascista alla comunità democratica.

Politica, economia e vita quotidiana a Cosenza dal 1943 al 1945, Cosenza, 2007, p. 46.

41 Sul ruolo svolto dal Partito d’Azione nel capoluogo bruzio vedi F. Mazza, Il congresso di Cosenza nella storia del Partito d’Azione: 1944, Soveria Mannelli, 1982, e F. Mazza, Nino Wodizka ed il Partito d’Azione a Cosenza, Cosenza, 1982.

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La piega presa dai ‘fatti’ di Cosenza impensieriva e non poco il comando delle truppe alleate intenzionate al ripristino della normalità.

Non appena gli slanci di rivolta andarono sedandosi il Maggiore Angus Watts delle truppe Alleate revocava le nomine di Gullo e Spezzano e notificava l’incarico di Prefetto e commissario prefettizio ai socialisti Pietro Mancini e Francesco Vaccaro, entrambi esponenti di spicco dell’antifascismo cosentino e ben voluti dalla popolazione42.

La nomina dei due esponenti socialisti fu in effetti una mossa abile perché non venne considerata dalla popolazione un torto alle richieste dei rivoltosi, bensì in chiave di continuità con la breve ‘autoproclamazione’ di Gullo e Spezzano, visti i consensi riscossi da Mancini e Vaccaro nell’ambiente democratico cittadino.

L’impegno dei due socialisti dava <<un deciso impulso […] a tutte le branche della vita civile tanto da porre a soluzione, con notevole anticipo rispetto alle altre due province calabresi, molti fra i più urgenti problemi civici: primi fra tutti quello del vettovagliamento primario e quello della ricostruzione delle principali vie di comunicazione urbane ed extraurbane>>43.

Le vicende del novembre cosentino dimostrano la rinnovata forza di quel movimento antifascista che fino a quel momento era stato per lo più costretto ad operare in clandestinità.

Ma più in generale le agitazioni urbane e nel mondo rurale avutesi nel 1943 dimostrano che in Calabria sta nascendo qualcosa di nuovo destinato a incidere sulla società civile calabrese di quegli anni e sulla sua ‘coscienza identitaria’.

Quelle lotte contadine e urbane si impongono come spartiacque storico nella storia calabrese. Segnano la rottura con un passato di sottomissione rassegnata o di fuga da condizioni di vita miserevoli e la nascita di un fermento spontaneo di sollevazione che col tempo prenderà coscienza delle proprie potenzialità.

Forse è enfatico ritenere che dalle ceneri del fascismo era nata in quei momenti <<una forza imponente di una collettività che ubbidiva ad un comune sentimento e al comune e cosciente proposito di spezzare le catene da cui era avvinta, e marciare verso la vittoriosa affermazione dei suoi diritti>>44.

E’ innegabile, però, che quei moti urbani e contadini, scoppiati in un momento in cui tutti i

42 Sulla vita e l’azione politica di Pietro Mancini cfr. E. Zicarelli, Pietro Mancini ed il Socialismo in Calabria, Fasano-Cosenza, 1974, nonché G. Masi, Momenti dell’itinerario politico di Pietro Mancini (1904-1944), in Tobia Cornacchioli (a cura di) Pietro Mancini e il Socialismo in Calabria, Cosenza, 1991.

43 F. Mazza, M. Tolone, op. cit., p. 75.

44 F. Gullo, Contadini, emigrazione e riforme, Cosenza, 1978, p. 108.

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poteri pubblici erano in uno stato di evidente disgregazione, non diedero luogo a nessuna, pur giustamente temibile, esplosione di delinquenza comune, né ancor più temibili conflitti e vendette di carattere personale: << Il movimento non smise mai di manifestarsi come vigorosa espressione di una volontà collettiva, tesa all’affermazione di rivendicazioni sociali, cui il lungo spietato sfruttamento patito aveva impresso un fermo carattere di urgente necessità>>45.

Il carattere spontaneo delle lotte del 1943 conferma la mancanza di una organizzazione politica ramificata nei diversi strati agricoli e la pressoché totale assenza di affinità politiche con le avanguardie politiche della sinistra avutesi durante il ventennio fascista.

Solo nel corso del 1944 il movimento contadino esce dai vecchi moduli di agitazione e protesta spontanea e individuale e si dà contenuti e forme organizzative nuove, costruendo, cioè, <<un legame diretto fra l’azione dei comunisti al governo e la nascita dei primi nuclei di organizzazione contadina, grazie alle lucide scelte e disposizioni ministeriali di Fausto Gullo>>46.

4. Gli sbocchi istituzionali delle lotte contadine: i Decreti Gullo del 1944.

Le iniziative di protesta sociale che si erano protratte per tutto il 1943 e gli inizi del ’44 non tardarono a dare un primo importante esito con l’emanazione, nell’autunno del 1944, dei decreti sulle terre incolte e mal coltivate, noti come ‘Decreti Gullo’.

E’ durante il secondo governo di unità nazionale che si collocava l’azione politica e legislativa del calabrese comunista Fausto Gullo47.

Gullo, che nel 1944 è ministro dell’agricoltura, conosceva bene le peculiarità e i limiti del movimento contadino meridionale, specie quello calabrese rappresentato da quelle <<figure miste di braccianti-coloni e braccianti-affittuari, che da quasi un secolo erano state al centro sia delle lotte agrarie del Sud che delle analisi meridionaliste>>48.

Punto nodale dell’oppressione economica e sociale del mondo rurale calabrese e meridionale erano quei patti agrari di carattere feudale rimasti praticamente identici

45 Ibidem.

46 M. Alcaro, A. Paparazzo, Lotte contadine in Calabria (1943-1950), Cosenza, 1976, p. 30.

47 Sull’opera e sull’attività politica svolta da Fausto Gullo esiste un imponente bibliografia. Si veda ad esempio V.

Barresi, Il ministro dei contadini. La vita di Fausto Gullo come storia del rapporto fra intellettuali e classi rurali , Milano, 1983, G. Masi (a cura di), Mezzogiorno e stato nell’opera di Fausto Gullo, Montalto Uffugo (CS), 1998, F.

Mazza, M. Tolone, op, cit., 1982, M. De Nicolo, Lo Stato nuovo: Fausto Gullo, il Pci e l’assemblea costituente, Cosenza, 1996, C Amirante, V. Atripaldi (a cura di), Fausto Gullo tra costituente e governo, Napoli, 1997, A.

Rossi-Doria, Il Ministro e i contadini: decreti Gullo e lotte nel Mezzogiorno. 1944-1949, Roma, 1983, A. Natta, Il contributo di Fausto Gullo alla lotta per la rinascita del Mezzogiorno e per il rinnovamento democratico dell’Italia, Cosenza, 1974,

48 A. Rossi – Doria, op, cit., p. 28.

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dall’epoca post-unitaria.

Proprio la profonda trasformazione dei patti agrari rappresentava il nodo cruciale dell’azione legislativa del ministro calabrese tesa a modificare la rendita fondiaria ma, in special modo, le tradizionali forme di egemonia economica e sociale che caratterizzavano il rapporto tra proprietario e bracciante.

Questo disegno politico, idealizzato e perseguito con la CGIL e con Di Vittorio, voleva fornire al variegato mondo della protesta rurale meridionale spunti per la nascita di durature organizzazioni contadine capaci di superare la fase del ribellismo spontaneo e di porsi come agenti principali di un rinnovamento dei rapporti di classe.

Gullo auspica che <<non vi debba essere patto agrario che non sia, nello stesso tempo, patto collettivo: ogni contrattazione individuale deve cessare; soltanto così è possibile ottenere non soltanto una giustizia molto distribuita, ma soprattutto una più reale e sostanziale giustizia. E ciò deve ottenersi non solo nelle regioni dove in qualche modo questa tendenza si è affermata, ma soprattutto in quelle ove il patto collettivo addirittura si sconosce>>49. I Decreti sono stati in tutto sei e sono stati emessi tra il 1944 e il 1945 e, a ben vedere, avevano tutte le caratteristiche di una legislazione straordinaria. Erano soprattutto i primi tre decreti a essere destinati a lasciare un segno tangibile sulla questione agraria del Meridione.

Il primo, emanato nel luglio 1944, disponeva un nuovo prezzo del grano e concedeva al contadino un sussidio di coltivazione ricavabile non solo dal grano e dall’orzo di sua proprietà, ma anche per la quota e per ‘il fitto in natura’ dovuta al proprietario50.

Il secondo decreto del 19 ottobre 1944 che disciplinava i ‘contratti di mezzadria impropria, colonia parziaria e compartecipazione’ s’imponeva il compito di regolare al meglio la partecipazione del lavoro bracciantile ai concreti risultati economici dell’impresa agricola.

Concretamente le disposizioni di questo decreto stabilivano che il proprietario che concedeva il ‘nudo terreno’ e i mezzadri dovevano ripartirsi gli utili “nella misura di un quinto a favore del concedente e di quattro quinti a favore del colono”.

Fino a quel momento la totalità dei contratti di mezzadria del Meridione prevedeva, nel migliore dei casi, un terzo o un quarto della rendita agricola al padrone, ma, spesso e volentieri, il colono doveva versare al proprietario la metà del raccolto.

Questa norma chiaramente assumeva un’importanza cruciale in quanto rivoluzionava i

‘tradizionali’ patti agrari a cui erano sottoposti i braccianti del Sud.

49 F. Gullo, Sulla riforma agraria, in <<PCI>>, La questione agraria al V congresso, Roma, 1946, p. 35.

50 P. Cinanni, Lotte per la terra e comunisti in Calabria. 1943/1953, Milano, 1977, p. 25.

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