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GIUDICE E MEDICO LEGALE: APPROFONDIRE IL DIALOGO PER INDIVIDUARE VALIDI E, POSSIBILMENTE, UNIFORMI CRITERI DI LIQUIDAZIONE

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GIUDICE E MEDICO LEGALE: APPROFONDIRE IL DIALOGO PER INDIVIDUARE VALIDI E, POSSIBILMENTE,

UNIFORMI CRITERI DI LIQUIDAZIONE

di

Raffaele D’Amora*

Incontri e scontri sulla via dell’equo risarcimento

Ed é un tema attuale e scottante perché, pur nella apparente ovvietà di una equazione (pari danno pari risarcimento), che dovrebbe ritenersi scontata in un ordinamento giuridico evoluto, per qualche arcana ragione in tema di danno alla persona non ha ancora trovato applicazione il fondamentale precetto Ulpianeo dell’unicuique suum.

Tutta la storia del danno biologico, forse ancora in parte da scrivere, ne é palese dimostrazione ed insieme faticoso tentativo, che ancora oggi ci accomuna, di lasciarsi alle spalle una anarchia che suona non come pluralismo di pensiero, ma come intollerabile arbitrio.

Fra le ragioni, forse non proprio misteriose, della incertezza del diritto in questo segmento fondamentale della responsabilità civile, vi é probabilmente il fatto che l’operatore giuridico, stante l’assenza di referenti normativi, ha concentrato la sua attenzione sulla individuazione delle tecniche di quantificazione del danno, che hanno fatto così premio sulle costruzioni sistematiche: l’inversione logica dei due momenti ed il conseguente travaso del primo nel secondo (e non viceversa, come avrebbe dovuto avvenire) ha tradizionalmente funzionato da moltiplicatore di opinioni. La disomogeneità concettuale, particolarmente presente nella magistratura e alla quale meritoriamente il CSM sta tentando di porre rimedio con frequenti incontri di studio, ha fatto sì che: “a parità di danno disparità di indennizzi”.

Mi pare che la proposta del sistema tabellare che emerge da questo convegno si ponga doverosamente nella tendenza opposta, perché essa ha alle sue spalle un dibattito profondo e appassionato sui concetti fondanti il risarcimento del danno alla persona.

Essa si pone, inoltre, sulla scia del più recente indirizzo della Corte di Cassazione, che ha avvertito come i criteri di liquidazione del danno biologico, ancorché desumibili in riferimento al combinato disposto degli artt. 2056 e 1226 c.c., non possono essere meramente intuitivi, ma devono essere ancorati a ragionevoli parametri uniformi per la generalità delle persone fisiche, adattati al caso concreto attraverso una personalizzazione quantitativa o qualitativa (Cass. 13 gennaio 1993, n. 357).

Infatti, accanto all’affermazione di ordine generale secondo la quale, poiché il danno biologico e quello patrimoniale attengono a due diverse sfere di riferimento, il primo riguardando il cosiddetto diritto alla salute ed il secondo la capacità di produrre reddito, il giudice deve procedere a due distinte liquidazioni e può scegliere per ciascuna di esse il criterio che ritiene più idoneo in relazione al caso concreto1, nella parallela ricerca della indicazione di un indirizzo uniforme nella attualizzazione concreta del criterio liquidatorio, la Corte ha prodotto due distinte linee di pensiero.

Ha così affermato che, nel risarcimento del danno biologico, il giudice, cui spetta la scelta discrezionale del criterio di equità da applicare nel caso concreto, può avvalersi della disciplina dell’art. 4 della l. 26 febbraio 1977 n. 39, la quale, pur essendo prevista per la liquidazione del danno patrimoniale in materia di assicurazione della responsabilità civile connessa alla circolazione di veicoli e natanti, offre una seria base di calcolo del cosiddetto valore economico convenzionale dell’uomo nella parte in cui stabilisce che il limite minimo invalicabile è istituito dal reddito non inferiore a tre volte l’ammontare annuo della pensione sociale, e si presta, quindi, ad essere utilizzata come affidabile parametro di riferimento, senza che ciò ne comporti l’applicazione analogica2.

* Magistrato Sezione Civile del Tribunale di Firenze

1Cassazione civile sez. III, 1 dicembre 1994, n. 10269, in Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 12 2 Cassazione civile sez. III, 3 giugno 1994, n. 5380, Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 6

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In senso affatto opposto ha poi negato che nella liquidazione equitativa del danno biologico possa essere utilizzato, come parametro di riferimento, il predetto criterio indicato dall’art. 4 della l. 26 febbraio 1977 n. 39 il quale si riferisce al pregiudizio patrimoniale conseguente alla menomazione della capacità di produzione del reddito personale e non può, pertanto, servire a commisurare il danno conseguente alla menomazione degli attributi e requisiti biologici della persona in sé e per sé considerata. Tale danno, che è indipendente dal ruolo che i predetti attributi e requisiti svolgono o potrebbero svolgere sulla capacità di reddito della persona sarebbe, invece, legato al valore umano perduto e, pertanto, determinabile solo mediante la personalizzazione quantitativa (con aumenti o diminuzioni) o qualitativa (con scelta tipologica diversa) di parametri di riferimento in linea di principio uniformi per la generalità delle persone fisiche3.

Orbene, del tutto opportunamente (sia per ragioni di coerenza sistematica relativa ad una netta distinzione fra danno alla salute e danno patrimoniale, sia perché la seconda via contiene in sé il virus di una possibile maggiore valutazione del danno per soggetti percettori di redditi più elevati: infatti, ove si parli di “limite minimo” implicitamente non si esclude il possibile riferimento ad un “limite massimo”) è stato il secondo indirizzo a prevalere a partire dalla recente sentenza della sez. III della S.C. in data 13 aprile 1995, n. 42554 con la quale si é, sembra definitivamente, ribadita l’inutilizzabilità di ogni criterio afferente alla redditualità del soggetto, sia pure sotto il profilo di quella media nazionale, ritenendosi corretto il criterio equitativo ragionato del valore medio del punto di invalidità, calcolato sulla media dei precedenti giudiziari concernenti le microlesioni (così considerate quelle comprese entro il 10% della riduzione della integrità psicosomatica), con incrementi e diminuzioni dirette ad adattare la liquidazione alle peculiarità della fattispecie.

Deve solo aggiungersi che l’entità del danno sotto il profilo della lesione del diritto alla salute si coglie anche in relazione al tempo necessario al consolidamento dei postumi riduttivi della integrità e, dunque, alla durata della malattia che comporta, di necessità, la temporanea sospensione (in tutto o in parte) della pregresse facoltà realizzative del soggetto leso nei vari aspetti esistenziali: la indispensabile completezza del risarcimento impone, pertanto, di liquidare altresì una somma per ogni giorno di effettiva inabilità temporanea.

Poiché la gravità della lesione si riverbera ovviamente anche sul grado di riduzione (temporanea) della possibilità di estrinsecazione delle funzioni naturali afferenti al soggetto in tutti i suoi possibili aspetti, appare corretto rapportare alla gravità medesima il risarcimento sotto lo specifico punto in esame: ad esempio, il Tribunale di Firenze ha ritenuto ragionevole che il risarcimento giornaliero venga individuato in una somma che si ponga fra un minimo di £ 40.000 (per microlesioni) ed un massimo di £ 150.000 (per macrolesioni),

La soluzione complessivamente delineata consente di individuare una tabella di parametri uniformi per la generalità delle persone fisiche, realizzata con criteri equitativi ma al tempo stesso oggettivi e coerenti, che tengano conto della effettiva gravità della lesione e della reale incidenza della stessa su quel complesso di valori, potenzialità, capacità realizzative e relazionali che integrano la nozione di salute, così consentendo di raggiungere lo scopo del necessario collegamento e adattamento ponderale del risarcimento alla specifica entità del danno.

Questa pare oggi essere la strada da seguire, in quanto idonea a commisurare le opposte istanze della certezza ed uniformità del risarcimento e della flessibilità del medesimo.

Tuttavia, che nella prassi i problemi siano ancora lontani da definitiva soluzione, lo dimostra la continua dialettica fra costruzione giuridica (che é propria del giudice) e visione medico-legale (che é propria del CTU), dialettica che, talvolta, si risolve in aperta collisione fra ottiche apparentemente contraddittorie.

Ne é esempio la tendenza del C.T.U. a non quantificare la riduzione della capacità produttiva, anche in ipotesi di rilevanti riduzioni della integrità psicosomatica, specie allorché si tratti di soggetto

3Cassazione civile sez. III, 9 dicembre 1994, n. 10539, Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 12

4in Giust. civ. Mass. 1995, 831, pronuncia subito gemellata da Cassazione civile sez. III, 13 maggio 1995, n. 5271, Giust. civ. Mass. 1995, 69

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privo di reddito (tipicamente il minore). Ne é soprattutto esempio il non raro caso in cui il C.T.U.

non proceda in concreto alla determinazione dei più rilevanti, e comunque diversi, coefficienti di riduzione della integrità psicosomatica, ma si limiti a chiamare con questo nome null’altro che la vecchia incapacità lavorativa generica: operazione, dunque, meramente terminologica e gravemente pregiudizievole per le ragioni del soggetto leso.

Sembra, allora, che oggi più che in passato, il dialogo giudice/medico legale si sia fatto difficile: la maggiore complessità dei criteri adottati, la faticosa e convergente elaborazione degli istituti da parte di scienze distinte, la sostanziale diversità degli stessi pur nella identità di formule e terminologia, tutto ciò può ingenerare equivoci e incomprensioni.

Spetta, però, al giudice la chiara e rigorosa enunciazione dei principi giuridici alla luce dei quali deve trovare ristoro il danno alla persona; spetta al medico legale la altrettanto chiara e rigorosa individuazione delle chiavi di accertamento del danno biologico: ciascuno con riferimento ai canoni ermeneutici della disciplina che gli é propria.

Ma forse é proprio qui che nascono i problemi, cioè laddove é dato individuare una zona grigia di demarcazione, una terra di nessuno, che, contrariamente a quanto é solito accadere, né l’uno (il giudice) né l’altro (il medico) tende ad occupare.

Spetta al giudice o al medico-legale sondare fino in fondo l’entità della riduzione della integrità psicosomatica alla luce di tutti i suoi molteplici aspetti, che la rendono nozione assai diversa e più complessa rispetto a quella della mera “validità fisica”? Spetta al giudice o al medico-legale accertare la riduzione della capacità produttiva?

La risposta al primo quesito non può che privilegiare l’indicazione del medico-legale, ma essa é forse un po’ meno scontata di quanto a prima vista non appaia se si conviene che il danno biologico, inteso come danno fisiologico da menomazione della pregressa integrità psicosomatica, attiene alla globalità dell’individuo in ogni sua dimensione e potenzialità di esplicazione della sua personalità.

Si richiede, in altri termini, una indagine complessa che, se parte indubbiamente da postulati e cognizioni proprie della scienza medica, é destinata ad approdare ai lidi diversi della molteplicità degli aspetti della vita dell’uomo nel suo essere sociale, economico, culturale, familiare, psicologico:

in definitiva, al suo essere sia come individuo, sia nel complesso delle relazioni intersoggettive che caratterizzano il vivere moderno.

Che l’accertamento della effettiva incidenza della lesione menomativa su questo multiforme universo sia tutt’altro che agevole é dimostrato dal fatto che non esistono ancora delle tabelle generalmente riconosciute dei coefficienti di riduzione della integrità psicosomatica (barèmes del danno biologico) e ciò legittima una indubbia approssimazione, quando non anche un vero arbitrio, nelle risultanze peritali e, di riflesso, nelle pronunce giurisdizionali.

Questo delle tabelle della riduzione della integrità psicosomatica (ancor più che quello, logicamente successivo, della individuazione di validi e, possibilmente, uniformi criteri di liquidazione) é davvero il primo obbiettivo che é necessario porsi sulla strada della equazione “a parità di danno parità di indennizzi”, ma ciò una volta chiarita una questione che si pone come pregiudiziale nella presente materia.

La contrapposizione in essa tipica fra l’esigenza della individuazione di regole generalizzate, che da un canto consentano una verifica preventiva sulla non arbitrarietà dell’accertamento e dall’altro favoriscano la definizione del danno prima e fuori del processo, e quella di una liquidazione personalizzata e perciò stesso equa, questa contrapposizione diviene assai più drammatica nel passaggio dalla invalidità lavorativa generica alla integrità psicosomatica.

Nel dominio incontrastato della prima era teoricamente ammissibile ipotizzare che la misura della riduzione, in quanto rapportata alla possibilità (ancorché del tutto irreale) di esercitare una qualsivoglia attività lavorativa, potesse giocare il medesimo ruolo per ogni individuo; sul terreno delle integrità psicosomatica, al contrario, una presunzione siffatta perde ogni ragionevolezza dovendosi necessariamente fare i conti con il codice personale del singolo leso.

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La ridotta funzionalità di un arto o dell’organo della vista o di quello dell’udito incidono in modo diverso su quelle manifestazioni della personalità che sono, ad esempio, l’esercizio di una attività sportiva, la lettura o l’ascolto della musica: vi incidono in modo differenziato a seconda di quanto ad esse fosse dedito il leso.

Esiste, dunque, una specificità dell’uomo che non appare riconducibile ad unum e che deve trovare modo di esprimersi sotto il profilo risarcitorio.

Poiché ciò non deve risultare preclusivo rispetto all’obbiettivo primario di cui si é detto, la ricerca di regole generalizzate non può prescindere dalla finzione che il leso appartenga, per così dire, alla categoria dell’uomo medio, quello cioè che, per restare nell’esempio, si dedichi (o possa dedicarsi in futuro) allo sport, alla lettura e alla musica secondo quella misura e quelle modalità che sono proprie della generalità dei cittadini in un determinato momento e contesto storico e sociale.

Poiché, tuttavia, il correttivo é imposto dalla esigenza di un risarcimento equo e, dunque, completo e che come tale tenga conto, in modo flessibile, della specificità del singolo leso, non restano che due strade possibili.

La prima é quella di adeguare la regola generalizzata e tabellata in sede di C.T.U. (eventualmente con il successivo intervento correttivo del giudice) pervenendo ad una modifica della previamente accertata riduzione della integrità psicosomatica secondo i parametri di valore medio.

La seconda - che é strada riservata esclusivamente al giudice - é quella di fare nuovamente ricorso alla nozione di danno alla vita di relazione, che non può essere considerata del tutto espunta dal nostro ordinamento.

In linea di principio, infatti, deve ribadirsi la validità dell’indirizzo interpretativo fatto proprio dalla S.C., secondo la quale il danno costituito dalla compromissione della capacità psicofisica di un soggetto che incida negativamente non sulla capacità di produrre reddito ma sulla esplicazione di attività diverse da quella lavorativa normale come le attività ricreative e quelle sociali rientra tout court nel concetto di danno alla salute, e pertanto, va liquidato soltanto a tale titolo5.

Tuttavia, la stessa Corte ha meglio chiarito che il danno alla vita di relazione, per i profili che non incidono sulla capacità di produrre un reddito, ancorché tenda ad essere assorbito dal danno alla salute, tuttavia non si identifica del tutto con questo, atteso che tale danno assume rilievo giuridico non solo per il pregiudizio che la lesione dell’integrità psicofisica ha arrecato alla possibilità del danneggiato di avvalersi, nei rapporti intersoggettivi con i terzi, delle doti di validità fisica e mentale elargitegli dalla natura, ma anche per i riflessi inferiori della menomazione subita a causa del pregiudizio da questa arrecato alla libertà del danneggiato di autodeterminazione nell’attività extralavorativa, avvalendosi, nella quotidianità, del proprio livello psicofisico, a prescindere dalle utilità derivabili dalla instaurazione di rapporti sociali6.

Dunque, sulle linee di questo indirizzo giurisprudenziale, potrebbe non essere del tutto fuori luogo ritenere che il danno alla vita di relazione possa assolvere altresì alla funzione di correttivo di quelle situazioni che, in relazione alla loro specificità, risulterebbero sacrificate dalla adozione della regola generalizzata, ancorché sembri più corretto sul piano sistematico operare sul piano della quantificazione della riduzione della integrità psicosomatica e, dunque, su quello del danno biologico.

Tale soluzione eviterebbe un ulteriore ampliamento del ricorso alla valutazione equitativa e, dunque, alla discrezionalità del giudice e consentirebbe di superare i problemi connessi alla necessità di una espressa domanda di risarcimento altresì del danno alla vita di relazione, domanda divenuta nella prassi assai rara, stante l’intervenuta desuetudine di tale istituto.

Quanto al secondo dei due quesiti dinanzi posti (“spetta al giudice o la medico-legale accertare la riduzione della capacità produttiva?”), non può tacersi che complessi sono i problemi che si pongono in tema di accertamento della riduzione della capacità produttiva e in ciò forse é la ragione (insieme ad una non dismessa visione del danno biologico in termini patrimoniali) per la quale il tema in

5 Cassazione civile sez. III, 9 febbraio 1991 n. 1341 6Cassazione civile sez. III, 3 dicembre 1991 n. 12958

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oggetto di frequente determina una vera e propria allergia da parte del C.T.U. medico-legale, allergia però non del tutto giustificabile in relazione alla indubbia elasticità del relativo accertamento.

In realtà, una volta definita la capacità produttiva con criteri di relativa concretezza (in relazione al “codice” attitudinale del soggetto) e rammentando che si tratta pur sempre di un danno futuro, non pare che l’accertarne l’eventuale riduzione (specie nei casi di rilevanti menomazione della integrità psicosomatica) costituisca operazione più arbitraria di quella relativa all’accertamento della incapacità lavorativa generica, tradizionalmente effettuata dal C.T.U. e tuttora operativa in materia infortunistica.

Semmai, occorre avvisare che la riforma del processo civile, con l’introduzione un sistema rigido di preclusioni, impedirà al C.T.U. una ricerca autonoma (come spesso avveniva in passato, anche attraverso le dichiarazioni del periziando) di fatti qualificanti che non siano stati correttamente introdotti nel processo: pur dovendosi semplificare un problema processuale complesso e di non facile soluzione, sembra potersi affermare che lo sbarramento alla allegazione di fatti nuovi sia costituito dalla possibilità di modifica delle domande prevista da ultimo per l’udienza di cui all’art.

183 c.p.c. e dal termine perentorio concedibile ai sensi del comma 5° di tale norma, posto che, tradizionalmente, per modifica della domanda si intende la modificazione dei fatti costitutivi, purché ciò non comporti mutamento del diritto azionato. Ne deriva che, in applicazione di quella che dovrà essere la nuova cultura in tema di prova, i fatti rilevanti per l’accertamento della eventuale riduzione della capacità produttiva (ma identico discorso vale per i fatti rilevanti in relazione alla soggettività della valutazione) dovranno essere allegati entro questa fase iniziale del processo (salva la successiva prova in caso di contestazione). Solo essi potranno essere portati all’attenzione del C.T.U. e solo su di essi potrà fondarsi il giudizio peritale.

Da ultimo, comunque, resta che il riconoscimento del danno patrimoniale, almeno nei casi più gravi e a prescindere dalla svolgimento di attuale attività lavorativa (é il caso del minore), costituisce soluzione vincolata da ragioni di equità ed imposta dalla giurisprudenza della S.C.7, per cui il limite al diritto al risarcimento deve essere posto nella presunzione - ovviamente inoperante nel caso di minore ove vale quella opposta - di mancato svolgimento futuro di attività produttive di reddito8.

Ne consegue che l’eventuale silenzio del C.T.U., se immotivato sulla base della corretta allegazione dei fatti, non potrà che essere colmato dall’intervento del giudice, vuoi sollecitando il riesame della situazione da parte del medico-legale, vuoi pervenendo ad una determinazione di ufficio (non é forse il giudice il peritus peritorum?) della riduzione della capacità produttiva.

Addito salis grano

Se quello del criterio equitativo ragionato del valore medio del punto di invalidità, calcolato sulla media ponderale dei precedenti giudiziari concernenti le microlesioni costituisce, come osservato in precedenza, soluzione certamente accettabile (come giudice del Tribunale di Firenze la adotto da circa otto anni), oltre che avallata autorevolmente dalla più recente giurisprudenza della S.C., non per questo resta precluso all’interprete l’esplorazione di vie nuove, ché é proprio dell’uomo la tensione al superamento dei limiti, pur soddisfacenti, già raggiunti.

Mi proverò allora ad aggiungere alla medicina quel salis granum di cui diceva Plinio nella Naturalis histora, nel tentativo di migliorare gusto ed efficacia del rimedio.

L’operazione di uniformare i criteri risarcitori sulla base di un modello tabellare che prenda lo spunto dalla media di precedenti giudiziari relativi ad invalidità non superiori al 10% che, in quanto tali lasciano ragionevolmente presumere che si sia risarcito il puro danno alla salute e non anche il danno patrimoniale da ridotta capacità produttiva9, non mi pare fino in fondo soddisfacente.

7cfr. Cassazione civile sez. III, 10 giugno 1994, n. 5669, Arch. giur. circol. e sinistri 1994,1150

8Cassazione civile sez. III, 19 marzo 1993, n. 3260, Giust. civ. Mass. 1993, 524, Resp. civ. e prev. 1993, 268 9 così Cass. civile n. 4255/1995 cit.

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Sotto un primo profilo, appare evidente che, a fronte dell’enorme numero di precedenti giudiziari aventi ad oggetto lesioni di modesta entità, il campione utilizzato quale parametro di riferimento avrebbe necessariamente un assai modesto valore rappresentativo della complessiva realtà giudiziaria.

Sotto altro aspetto é proprio nella valutazione delle microinvalidità che é dato assistere alle divergenze più appariscenti fra l’uno e l’altro ufficio giudiziario.

Tuttavia, anche a prescindere dalla conseguente approssimazione delle premesse, la soluzione desta le maggiori perplessità proprio laddove si colloca il suo presupposto teorico cioè nella affermazione che il risarcimento delle microinvalidità condurrebbe tout court all’ambito tipico del danno alla salute.

Al contrario, mi sembra assai discutibile che l’essenza del danno biologico sia dato coglierla nelle piccole invalidità, laddove al contrario essa si disvela proprio nelle macrolesioni ove può nella sua pienezza valutarsi il significato del concetto di salute e l’incidenza sulla qualità della vita della sua perdita o della sua rilevante riduzione. Ritenere il contrario sarebbe come presumere di cogliere l’essenza ed il senso della montagna osservando le sue pendici piuttosto che la sua vetta, o del mare osservando uno stagno piuttosto che un oceano.

L’alternativa che allora mi sembra necessario prospettare é proprio quella inversa, cioè ricercare una attendibile misura media del punto massimo di invalidità (riduzione del 100% della integrità psicosomatica) facendo riferimento alle macrolesioni.

Si tratterebbe di una operazione dai risultati estremamente più attendibili sul piano statistico, in quanto attesa la relativa rarità delle grandi invalidità (almeno nel rapporto con le piccole), un campione anche di sole 100 sentenze (all’interno delle quali sarebbe agevole, data l’entità esigua del materiale, operare la distinzione fra risarcimento per danno alla salute e risarcimento per danno patrimoniale) si porrebbe come effettivamente rappresentativo della realtà giudiziaria e della media ponderale delle liquidazioni.

Inoltre, mentre per le stesse ragioni di limitatezza del fenomeno anche le Compagnie di Assicurazione non avrebbero difficoltà a fornire dati attendibili ed esaustivi, proprio sul terreno delle macrolesioni é possibile rilevare una maggiore uniformità di valutazioni ed, in ogni caso, su di esso sarebbe più agevole, anche tecnicamente, un generale accordo.

Ad esempio (ma é solo una prima impressione), ipotizzare un valore del punto per il grado di riduzione della integrità psicosomatica del 100% pari a £ 10.000.000/15.000.000 e, dunque, un risarcimento complessivo individuabile in una somma oscillante fra £ 1.000.000.000 e £ 1.500.000.000, potrebbe corrispondere ad una valutazione media del complessivo valore dell’uomo che non mi sembra lontana da quella che, almeno tendenzialmente, viene operata in sede giudiziaria nell’attuale momento storico.

Essa appare anche coerente con gli attuali massimali delle assicurazioni per la responsabilità civile, non dissonante col vigente sistema economico e sociale, vicina alla coscienza collettiva, all’interno della quale può certamente rinvenirsi una concezione ideale dell’equa valutazione dell’uomo nel suo complesso, mentre ad essa resta del tutto estranea la nozione del valore medio del punto così come attualmente la prospettiamo.

Questa opzione si avvarrebbe, nella compilazione delle tabelle, del metodo deduttivo (procedendosi dall’alto verso il basso fino a pervenire, per successive e ragionate riduzioni, al valore del punto in caso di lesione dell’1% della integrità psicosomatica) e non, come attualmente, di quello opposto induttivo (che poi non é mai tale in senso pieno, in quanto, il giudice ha pur sempre in mente un “paletto” superiore che non intende comunque travalicare).

Essa non esclude, ma anzi agevolerebbe un intervento del legislatore che fosse limitato alla quantificazione per via normativa del solo valore complessivo dell’uomo e cioè del risarcimento dovuto per la lesione del 100% della integrità psicosomatica, ovviamente temperato sia da un criterio di rivalutazione automatica, sia dalla previsione della possibilità di una motivata deroga da parte del giudice alla indicazione legale per casi particolari: una soluzione siffatta - che lascerebbe pur sempre

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ampia libertà al giudice anche nel realizzare, con la opportuna collaborazione del medico legale, una scala discendente di valori del punto secondo l’indicato metodo deduttivo ragionato - determinerebbe davvero la fine dell’anarchia e l’inizio di una stagione finalmente caratterizzata dalla certezza del diritto alla parità di risarcimento a parità di danno.

E’ solo una proposta, ma su di essa mi sembra utile una futura meditazione.

Ancora sul danno da morte

Poiché lo sforzo per realizzare il fine della parità di indennizzi a parità di danno non può ignorare il danno massimo costituito dalla soppressione della vita, corre ora l’obbligo di gettare un ponte ideale di continuità col tema che occupò l’ultima giornata del convegno del maggio 1995.

Ci eravamo allora chiesti se, dopo la sentenza 24-27 ottobre 1994 n. 372 della Corte costituzionale, esisteva ancora un danno da morte, quale danno autonomamente risarcibile ed in concreto configurabile nel nostro ordinamento, ovvero se la Consulta lo avesse definitivamente seppellito.

Le risposte alle nostre conclusioni, improntate ad un qualche ottimismo, sono state più rapide e soddisfacenti di quanto non fosse lecito immaginare.

E’ proprio del diritto vivente il continuo mutamento e la costante tensione verso nuove frontiere e a questa vitale dinamica non é rimasta, infatti, estranea la giurisprudenza immediatamente successiva alla pronuncia della Consulta, che ha subito indicato nuove vie attraverso la sua voce più autorevole:

quella della Corte di Cassazione, che ha così interrotto il lungo silenzio (che durava da Cass. n.

6938/1988) nella sua funzione nomofilattica.

La affermazione della sentenza 372/94 della Consulta, secondo la quale il risarcimento del danno c.d. biologico conseguente la morte del congiunto deve essere escluso ove prospettato iure successionis, quando, come nella fattispecie proposta al suo vaglio, non vi sia stato un apprezzabile intervallo di tempo fra lesione e decesso, lasciava spazio alla soluzione contraria per tutti i casi in cui fra lesione e morte vi fosse stato un apprezzabile intervallo di temporale, in quanto danno il cui risarcimento sarebbe entrato come diritto nel patrimonio del leso prima della sua morte e come tale trasmissibile agli eredi.

Ebbene, tale possibile costruzione ha trovato una duplice conferma da parte della S.C., che con una prima pronuncia10 ha sancito la trasmissibilità iure hereditatis del danno morale subito dal defunto nell’intervallo di tempo, purché apprezzabile, intercorso fra la lesione ed il decesso, trattandosi di diritto già entrato nel patrimonio del de cuius.

Una via, come si vede, perfettamente percorribile anche in tema di danno alla salute stante l’identità della costruzione dogmatica ed anzi, subito dopo percorsa dalla S.C. con la consonante sentenza n.11169 del 27 dicembre 1994 (Foro It. 1995, I, 1852), con la quale é stato affermato tout court che costituisce corollario della ormai consolidata lettura dell’art. 2043 c.c. alla luce dell’art. 32 Cost., il fatto che - ove da un illecito altrui sia derivata dapprima una lesione e, poi, dopo una fase intermedia di malattia, la morte dell’infortunato - i suoi eredi trovino nel patrimonio del de cuius, e possano quindi far valere iure successionis, il diritto a pretendere il risarcimento del “danno biologico” sopportato dal medesimo. Si tratta, ha aggiunto la Corte, di una “piana applicazione” alla materia del “danno alla salute, di principi sempre affermati dalla Corte stessa, “fin dalla risalente sentenza delle Sezioni unite n. 3475 del 1925”, con ciò richiamando (forse non casualmente) l’antico precedente e solo esso a fini assai diversi rispetto a quelli conseguiti dalla Consulta.

Alla luce di questa recentissima impostazione, nell’ipotesi di apprezzabile intervallo temporale fra la lesione ed il decesso, accanto al danno morale proprio del parente (salvo il limite di cui all’art.

2059 c.c.) e all’eventuale suo danno alla salute (eventualmente risarcibile sub specie di ulteriore danno morale secondo l’impostazione, pur problematica, della Consulta), sarà possibile individuare

10Cassazione civile sez. III, 6 ottobre 1994, n. 8177 Giust. civ. Mass. 1994,1195; Foro It. 1995, I, 1852

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ancora due possibili tipi di danno risarcibile: quello morale e quello biologico o alla salute sofferti direttamente dalla vittima, entrati nel patrimonio di quest’ultima al momento della lesione e, come tali, trasmissibili agli eredi che ne abbiano fatto domanda iure successionis.

Cade così, attraverso la duplice pronuncia della S.C. l’obbiezione di fondo, spesso prospettata nei confronti della costruzione del danno mortale come diritto azionabile iure successionis e derivante dalla affermata natura di diritto personalissimo del diritto alla salute (o alla vita): non si tratta di trasmettere un diritto (personalissimo) che in ipotesi non c’è più, ma di trasmettere un diritto al risarcimento del danno, entrato a far parte nel patrimonio della vittima in conseguenza del fatto ingiusto lesivo di quel diritto (ciò che é personale e, dunque, intrasmissibile é il diritto leso ed il suo esercizio, non pure il diritto di credito che la sua lesione determina, in coerenza, per altro, col principio secondo il quale la intrasmissibilità costituisce l’eccezione e non la regola del diritto successorio).

Osserva la Corte (8177/94) che, sotto il profilo della trasmissibilità agli eredi, “non risulta, infatti, che la legge abbia creato a questo proposito regole diverse per i due tipi di danno” ovvero per il danno economico e per quello non patrimoniale, con ciò confermando un indirizzo giurisprudenziale che viene da lontano11.

La autorevole affermazione del principio (che suona estremamente gradita per coloro, come chi scrive, che da tempo ne avevano sostenuto la bandiera) non può nascondere gli ardui problemi che ora si pongono in riferimento alla individuazione di un metro coerente di accertamento del requisito della “non immediatezza” fra lesione ed evento mortale e dei criteri di quantificazione del danno:

sarebbe davvero una lacerazione grave ai principi di civiltà giuridica e di certezza del diritto, se proprio sul terreno del danno massimo non si realizzasse in tempi ragionevolmente brevi una almeno tendenziale identità di criteri risarcitori.

Si impone, dunque, uno sforzo interpretativo al fine di limitare l’incombente pericolo di una nuova e devastante anarchia giurisprudenziale e di esso si é fatto carico il Tribunale di Firenze con la sentenza n. 216/1996 (dalla quale vengono tratte le osservazioni che seguono).

Il primo punto - come rilevato dal Collegio fiorentino - costituisce quello maggiormente dolente perché la sua stessa enunciazione in termini di indefinita vaghezza (“fase intermedia di malattia”,

“apprezzabile lasso di tempo”, morte non “praticamente istantanea”) appare idonea a generare una nuova anarchia interpretativa, specie ove si abbandoni il terreno delle categorie giuridiche e si entri in quello delle valutazioni metagiuridiche (un mese, un giorno, ma anche un solo minuto sono misure del tempo che si prestano a letture soggettive, come tali potenzialmente diverse ed anche antinomiche).

Sul piano giuridico, l’equazione “immediatezza uguale intrasmissibilità” si presta ad essere considerata sotto un duplice profilo: quello della idoneità del diritto risarcitorio a configurarsi nel patrimonio del defunto e, dunque, a trasmettersi iure successionis e quello della concreta individuazione di un danno risarcibile.

La prima prospettiva non sembra creare particolari difficoltà in quanto, seppure non si voglia accogliere la costruzione risalente alle Sezioni unite della Corte Di Cassazione Del Regno n.

3475/1925 (per altro richiamata dalla stessa Consulta nella sentenza 372/1994) secondo la quale fra la morte e la lesione “deve pur sempre intercedere un intervallo di tempo che, pur quanto minimo fino all’attimo, é sufficiente a che, durante il suo corso, il lesionato acquisti il diritto ai danni derivanti dalla lesione”, il carattere della immediatezza del decesso resterebbe comunque escluso sempre che non si tratti di morte c.d. “sul colpo”.

In definitiva, tutte le volte in cui possa dimostrarsi la sopravvivenza del leso, quale che essa sia, rispetto al momento della lesione, si raggiungerebbe la prova di quell’intervallo di tempo necessario e

11dopo le citate Sezioni unite n. 3475 del 1925, si rammenta Cass. 7 aprile 1959, n. 1011, Foro it., Rep. 1959, voce Responsabilità civile n.

307; Cass. 28 febbraio 1964, n. 462, Giust. civ., 1964, I, 981 e, da ultimo, Cass. 2 febbraio 1991, n. 1003, Foro it., Rep. 1991, voce Danni civili n. 126. L’indirizzo é confermato indirettamente anche dalle pronunce in senso solo apparentemente contrario, ove la trasmissibilità iure successionis è esclusa soltanto per il caso in cui la morte sia stata praticamente istantanea: Cass. 30 novembre 1977, n. 5221, id. Rep.

1978, voce cit, n. 58.

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sufficiente affinché il diritto eventualmente entrato nel suo patrimonio sia idoneo a trasmettersi iure successionis: per questa via la rottura della equazione “immediatezza uguale intrasmissibilità”

sarebbe già avvenuta.

Tuttavia, se l’ottica di riferimento é quella della lesione del bene salute (id est: danno biologico), ciò potrebbe non bastare al fine della configurazione del danno risarcibile. Ove la morte fosse estremamente ravvicinata alla lesione, quest’ultima non potrebbe essere riguardata come violazione del bene salute (non essendo apprezzabile in quanto riduzione/perdita della integrità psicofisica del soggetto), ma diverrebbe tout court lesione del bene vita: una lesione, cioè, rispetto alla quale non sono ancora maturi i tempi per affermarne la risarcibilità, almeno se si voglia fare salvi i principi (più ancora che la lettera) della sentenza 372/94 della Corte costituzionale.

Allora, sotto il profilo che attiene alla concreta possibilità di individuazione del danno risarcibile, non basta che il leso sia sopravvissuto all’evento lesivo, ma occorre che egli in concreto abbia vissuto in una situazione di menomazione della pregressa integrità psicosomatica - ancorché tale menomazione sia stata talmente grave da indurre il successivo decesso - e che sia vissuto quel tanto da consentire alla menomazione medesima di acquistare autonoma esistenza: in questo senso, e solo in questo, l’intervallo fra lesione e morte diviene “apprezzabile”.

Ove questo significativo iato fra lesione e morte sia provato, non pare che la durata maggiore o minore dell’intervallo possa assumere rilievo pregnante sia nel senso della esistenza o meno del diritto, sia in quello della sua consistenza. Soccorre in proposito la nozione stessa del danno biologico e la sua costruzione quale danno evento, cioè quale momento interno alla fattispecie dell’illecito e, come tale, costitutivo dell’illecito stesso al pari del comportamento lesivo e del nesso causale, secondo i principi di cui alla sentenza 184/1986 della Consulta. E’ la costruzione secondo la quale la rottura dello schema per cui il danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. si sostanzia esclusivamente nelle conseguenze patrimoniali (e non) dell’illecito, senza che assumano specifico rilievo gli interessi sostanziali a tutela dei quali si configura l’obbligazione risarcitoria, si legittima e si impone in riferimento alle esigenze di tutela “di specifici valori, determinati soprattutto dalla vigente Costituzione, valori personali, prioritari, non tutelabili, neppure in sede di diritto privato, soltanto in funzione dei danni patrimoniali (e non) conseguenti all’illecito”12; in definitiva, con l’esigenza di effettività della tutela dei diritti fondamentali.

Una esigenza, quella di rendere non applicabile alla presente materia il richiamo, altrimenti cogente, all’art.1223 c.c. (danno risarcibile solo in virtù delle sue conseguenze pregiudizievoli), più volte ribadita dalla S.C.13 e resa palese nella affermazione14 della necessità della interpretazione dell’art. 2043 c.c. alla luce dell’art. 32 Cost.15.

Alla luce di tali principi, ormai parte fondante del diritto vivente e ineludibili ove non si voglia rendere meramente verbale la affermazione della tutela dei diritti fondamentali della persona che, per loro natura, non si prestano ad essere riguardati alla stregua dei diritti a mero contenuto patrimoniale, deve escludersi che possa assumere rilevanza (sia sotto il profilo dell’AN che del quantum debeatur) il trascorrere di un intervallo temporale fra lesione e morte superiore a quello strettamente necessario alla configurazione del solo evento costituito dalla lesione del diritto alla salute. In particolare, deve escludersi che sia necessario affinché si determini la lesione del diritto alla salute (ovvero che sia rilevante sotto il profilo della entità del risarcimento) una durata dello stato di malattia tale da consentire il concreto esplicarsi delle conseguenze della menomazione sulla futura qualità della vita del leso.

Una tale prospettiva condurrebbe alla negazione in radice della categoria del danno alla salute quale danno evento (confermata, almeno alla stregua di dichiarazione di principio, anche nella

12Corte costituzionale 184/1986

13da ultimo Cassazione civile, sez. III, 13 aprile 1995, n. 4255 14cfr. Cass. 11169/94 cit.

15in realtà, un principio non respinto dalla stessa Consulta 372/94, che ha confermato la validità della applicazione dell’art. 2043 c.c. per analogia iuris, richiamando le sentenze della Corte di cassazione nn. 357 e 2009 del 1993

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sentenza 372/94 della Consulta) e quale tertium genus di danno risarcibile, per realizzarne una indebita commistione col danno patrimoniale da ridotta capacità produttiva: solo rispetto ad esso, stante la sua natura di danno futuro, appare legittimo commisurare l’entità del danno (oltre che la sua stessa esistenza) alla vita del soggetto leso, negandosi che il danno medesimo possa sopravvivere all’evento morte, ancorché dovuto a cause estranee alla lesione16.

Al contrario, che il solo accertamento della perdita del pregresso grado di integrità psicofisica costituita dal venir meno di componenti biologiche, renda attuale una responsabilità fondata, pur in assenza di conseguenze incidenti nella tipica sfera economica tradizionalmente ritenuta riconducibile alla previsione dell’art. 2043 c.c., sulla interpretazione di tale norma per analogia iuris17 deriva dalla natura cogente e gerarchicamente sovraordinata della norma costituzionale violata dalla realizzazione del fatto illecito e dalla esigenza di tutela dei valori fondamentali da essa protetti18.

In caso di lesione mortale, allora, perché possa ritenersi ammissibile un risarcimento del danno alla salute iure successionis appare necessario, ma anche sufficiente, che l’intervallo temporale fra lesione e decesso sia tale da consentire l’accertamento della perdita del pregresso grado di integrità psicofisica, quale evento dannoso ontologicamente autonomo rispetto a quello costituito dalla perdita della vita e da quest’ultimo non assorbibile almeno sul piano civilistico19: l’ulteriore sopravvivenza rispetto a tale momento non assume rilevanza né sotto il profilo della esistenza del danno risarcibile, né sotto quello della sua entità (salvo ritenere equo, in caso di lunga sopravvivenza, commisurare il danno alla salute anche ad un parametro giornaliero aggiuntivo).

In definitiva, l’apprezzabilità dell’intervallo fra lesione e decesso si coglie non tanto nella sua dimensione quantitativa (meramente temporale), quanto piuttosto in quella qualitativa (idoneità al giudizio sulla perdita delle qualità personali); meglio: si coglie allorché la sua dimensione quantitativa (meramente temporale) sia tale da determinarne la trasformazione qualitativa (intervallo apprezzabile

= intervallo idoneo al giudizio positivo sulla perdita delle qualità personali del leso). In questo senso l’apprezzabilità dell’intervallo fra lesione e morte si risolve da dato meramente temporale in categoria concettuale, per la sua idoneità alla formulazione di un giudizio di valore.

Per questa via sembra che possa chiarirsi l’equazione “immediatezza uguale intrasmissibilità” e superarsi l’ostacolo da essa posto alla tutela risarcitoria alla stregua di criteri il meno possibile arbitrari e soggettivi.

Si tratta di una via che, se ritenuta praticabile, potrà molto giovarsi dell’apporto del C.T.U.

medico legale, al quale potrà demandarsi l’accertamento della natura delle lesioni subite, della evoluzione dello stato patologico del soggetto fino al momento del decesso, delle terapie praticate e del loro esito sulle condizioni psicofisiche del paziente, nonché il giudizio in ordine alla possibilità (con valutazione ex ante) di sopravvivenza del leso.

Alla luce dei concreti elementi di giudizio acquisiti, sarà anche legittimo valutare in termini di intervallo apprezzabile, cioè idoneo al giudizio positivo sulla perdita delle qualità personali del leso, anche quello di un solo giorno fra lesione e decesso (come affermato dal Tribunale di Firenze nella citata sentenza).

Una volta che sia possibile chiarire le modalità di accertamento della esistenza di un danno alla salute sofferto dal defunto e trasmissibile ai suoi eredi per diritto successorio (parità nei criteri di individuazione del danno), si apre il secondo e delicato problema relativo alla quantificazione del danno stesso (parità di indennizzi).

Si é già osservato come e perché quest’ultima (insieme all’accertamento della esistenza stessa del danno) non possa risentire della durata dello spazio temporale intercorrente fra lesione e decesso (una volta che esso possa considerarsi “apprezzabile” secondo i criteri sopra esposti).

16Cass. 14 aprile 1989, n. 1809, Foro it., Rep. 1989, voce Danni civili, n. 133 17art.12, comma 2°, disp. prel. c.c.

18cfr. Cassazione civile sez. III, 13 gennaio 1993, n. 357, Foro it. 1993, I,1897 19Cass. 8177/94 cit.

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In particolare, l’entità dell’intervallo non potrebbe essere direttamente proporzionale alla gravità del danno, nel senso di ritenere maggiore il danno alla salute quanto più sia sopravvissuto il leso.

Ciò contrasterebbe con il principio di ragionevolezza in quanto appare evidente che, al contrario, una lesione del bene salute che consenta al leso una lunga malattia prima della morte dovrebbe tendenzialmente considerarsi meno grave di quella che induca ad una rapida morte consentendo solo una minima sopravvivenza.

Ma anche ritenere l’entità dell’intervallo inversamente proporzionale alla consistenza del danno condurrebbe ad una antinomia, quella di non porre soluzione di continuità fra il momento di massima gravità del danno biologico e quello del suo azzeramento totale (quando cioè per il suo eccessivo riavvicinarsi al momento della lesione perde la sua autonomia quale violazione del diritto alla salute per diventare soppressione del diritto alla vita in ipotesi non risarcibile). Quello stesso momento si porrebbe come il discrimine fra due esatti contrari: il massimo danno possibile ed il suo opposto, cioè l’inesistenza del danno, il che ugualmente appare fuori di ogni ragionevolezza.

Giova ancora una volta il richiamo ai principi ed in particolare alla affermazione20 secondo la quale “la lesione al bene giuridico salute si concreta nel momento stesso in cui si realizza, in interezza, il fatto costitutivo dell’illecito” il che é proprio della costruzione di tale danno come danno evento, interno al fatto illecito. Il danno alla salute risulta compiutamente realizzato e provato una volta che si stata data contezza dell’evento biologico, quale lesione menomativa (id est: perdita) della struttura complessa, fisica e psichica, dell’organismo umano.

Certo non si vuole negare che nella nozione di danno biologico esista anche una componente destinata per sua natura a riverberarsi sulla qualità della vita e, dunque, riferibile alla durata della stessa, ma tale componente, se disancorata dai suoi possibili effetti consequenziali di tipo patrimoniale e non patrimoniale, appare immanente alla perdita delle componenti biologiche del soggetto e costitutiva dello stesso danno evento: in questo senso si tratta di un danno compiuto, perfettamente realizzato in tutte le sue componenti fin dal momento della sua ontologica esistenza e non un danno futuro. Come tale potrà e dovrà essere risarcito.

Le considerazioni che precedono, dirette a dimostrare la tendenziale identicità quantitativa del danno alla salute in caso di lesioni mortali, aprono la via alla identificazione del medesimo nel 100%

del danno biologico, inteso come riduzione in pari misura della pregressa integrità psicosomatica o fisiopsichica dello soggetto.

Diversamente da quanto accadeva in riferimento alla generica incapacità lavorativa, il danno biologico costituisce nozione che rinvia non già al mero significato lavorativo della menomazione, ma al complessivo valore morfologico-funzionale della stessa.

Se nella sua quantificazione, come é ormai affermazione costante, deve tenersi conto non solo dell’aspetto fisiologico della lesione, ma anche della incidenza della stessa nel più vasto ambito della personalità dell’individuo, che si collega alla somma delle funzioni naturali afferenti al soggetto nell’ambiente in cui la vita si esplica ed aventi rilevanza non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica21, non sembra potersi dubitare che ove la lesione, poi manifestatasi come mortale, venga considerata secondo questo approccio più vasto e omnicomprensivo, che si ricollega a funzioni fondamentali del soggetto nella sua più complessa dimensione, essa incida sulla totalità delle stesse.

Sia secondo una prospettiva ex ante (prima che si verifichi l’evento morte), sia secondo una prospettiva ex post (dopo il verificarsi dell’evento morte), una lesione che abbia determinato una perdita di componenti biologiche del soggetto, tale da indurne il decesso dopo un “apprezzabile”

intervallo di tempo, appare inevitabilmente idonea da incidere, sopprimendola del tutto, sulla molteplicità degli aspetti della esistenza dell’uomo nel complesso delle relazioni intersoggettive che caratterizzano il concetto di vita.

20Corte costituzionale 184/1986

21per tutte cfr. Cass. n. 6135 del 26/11/1984 e successivamente Cass. 24.1.1990 n. 411; Cass. 30.1.1990 n. 645; Cass. 10.3.1990 n. 1983 ecc.

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Le lesioni mortali tendono ad avere in sé, fin dal momento in cui vengono cagionate, questa immanente potenzialità di azzerare il valore uomo del leso.

Non é dato sapere se il tentativo di chiarificazione operato dal Tribunale di Firenze con la sentenza n. 213/1996 avrà seguito e seguaci, ma non é fuori di luogo ipotizzare che ancora una volta non sarà piana la via per raggiungere una omogeneità interpretativa e la parità risarcitoria pur a fronte del più grave evento lesivo che possa colpire l’essere umano.

Una dimostrazione, ove mai ve ne fosse bisogno, che quello del risarcimento del danno alla persona é stato e tuttora resta un terreno di frontiera, del quale non é ancora possibile scorgere il confine.

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