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Capitolo 4. L’idea di

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Capitolo 4. L’idea di wilderness nella formazione e nello sviluppo del pensiero americano

L’enfasi posta sul topos dell’ambiente vergine nello sviluppo del pensiero americano implica una serie di dinamiche che hanno diffuso, nel corso dei secoli, capillari credenze, divenute in seguito superstizioni e folklore. L’idea comune degli Stati Uniti come culla dell’economia industriale, coi suoi grattacieli e la sua vita convulsa, quasi ci spinge a credere impossibile che, come tutti i popoli, anche loro abbiano creduto a leggende, maghi e streghe, mostri. In realtà, il rapporto con la

wilderness permea profondamente la cultura americana.

Quando, durante il suo viaggio fra il 1831 e il 1832 nel Michigan, Alexis de Tocqueville (1805-1859) manifestò ai pionieri locali il desiderio di visitare la

wilderness per puro piacere, venne considerato pazzo. Gli abitanti del Michigan erano

pienamente consapevoli del punto in cui finiva la civiltà di cui essi stessi erano parte integrante e del punto in cui iniziava tutto quanto non era sotto il dominio umano. Soavemente, lo scrittore francese riporta che

[…] we had crossed the whole state of New York […]; by now we were touching the limits of civilization [...]. To break through almost impenetrable forests […], to sleep out in damp woods, those are exertions that the American readily contemplates, if it is a question of earning a guinea; for that is the point. But that one should do such things from curiosity is more than his mind can take in. Besides, living in the wilds, he only prizes the work of man1.

Per i pionieri non era ovviamente comprensibile che un uomo come Tocqueville, di professione magistrato, negli Stati Uniti per studiarne il sistema penitenziario, sentisse tale necessità. Il progresso della civiltà e la sua imposizione sulla natura selvaggia erano percepiti come la più grande delle benedizioni; per contrasto e come mera conseguenza, il progetto di Tocqueville veniva rigettato.

Confrontarsi con un argomento come questo significa anche affrontare questioni che vanno al di là della mera esplorazione della natura. Una percezione della

1

A. de Tocqueville, eng. trans. by G. Lawrence, Journey to America, New Haven (Conn.), Yale University Press, 1962, p. 335.

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landa selvaggia come male assoluto contribuisce a dare senso all’esplorazione, che non viene fatta casualmente, ma solo se ve n’è un motivo preciso. Non si tratta solo di conquista militare o dominio politico: anche sul piano meramente simbolico, esplorare una terra come l’America con l’intento di costruire una civiltà significava cercare di imporre determinati valori, che inevitabilmente andavano a sovrapporsi a quelli delle popolazioni stanziali.

4.1 Un approccio negativo

Roderick Nash2 sostiene che la ragione più profonda del rifiuto che gli abitanti del Michigan ebbero nei confronti dell’idea di Tocqueville derivi dal pensiero di William Bradford (1590-1657), uno dei primi governatori della colonia di Plymouth, il quale, dopo essere sbarcato nel Nuovo Mondo, si chiese: “Besides, what could they see but a hideous and desolate wilderness, full of wild beasts and wild men – and what multitudes there might be of them they knew not”3. Questa fu una delle prime rappresentazioni della wilderness americana e divenne ben presto il pensiero dominante. Sarebbero tantissime le citazioni dal medesimo contenuto che testimoniano analoghi giudizi negativi nei confronti della natura incontaminata4.

Il pregiudizio nei confronti della wilderness da parte dei pionieri, frutto di secoli di odio verso di essa nel Vecchio Mondo, è analizzabile su due livelli. Da un punto di vista fisico, la natura si presenta come una minaccia alla sopravvivenza. Le onde di pionieri che giunsero alla conquista dell’America dovettero confrontarsi con ciò che odiavano e che istillava in loro paura. Fu come invertire la marcia della civiltà, un procedere indietro e non avanti. Fu come tornare primitivi, lottare contro ciò contro cui i primitivi avevano lottato con cui l’uomo moderno certamente non desiderava avere a che fare. Addirittura neanche i bisogni primari (nutrimento, riparo dal freddo, riposo) erano assicurati, ma dipendevano dalla resistenza fisica e dalla capacità di

2

R. Nash, Wilderness and the American Mind, cit., pp. 23-24.

3

W. Bradford, Of Plymouth Plantation, in Sculley Bradley et al. (eds), The American Tradition in

Literature, vol. I, New York (NY), W. W. Norton & Company, 1967, p. 19.

4

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acclimatazione all’ambiente; o, per usare le parole di Nash, “it constituted a formidable threat to his very survival”5. Per l’uomo americano che stava per nascere, le terre nello stato di natura si caricarono di leggende intorno a bestie selvagge, mostri di vario tipo, foreste in grado di nascondere ogni sorta di minaccia. L’impossibilità per i pionieri di apprezzare la wilderness derivava dal viverci a strettissimo contatto6. Ma la wilderness non fu frustrante solo per quanto riguarda la capacità di adattamento alle varie ostilità di un ambiente. Rapidamente si instaurò un fortissimo legame simbolico fra la natura selvaggia e tutto quanto era classificabile come “male”; il risultato conseguente fu l’associazione della wilderness con la totale assenza di moralità7

. La battaglia contro il territorio incontaminato non si limitò dunque a sole questioni di sopravvivenza, ma divenne anche un modo di fare qualcosa per il bene e in nome del popolo, della nazione che veniva creandosi, e naturalmente di Dio. La civilizzazione del Nuovo Mondo si lega, dunque, al compito morale di illuminare l’oscurità. Se la natura selvaggia veniva considerata il male, quest’ultimo diminuiva con l’avanzare della civiltà8.

4.2 Il Mondo Nuovo come Paradiso Terrestre

Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume si chiama Pison: esso scorre intorno a tutto il paese di Avila, dove c’è l’oro e l’oro di quella terra è fine; qui c’è anche la resina odorosa e la pietra d’onice. Il secondo fiume si chiama Ghicon: esso scorre intorno a tutto il paese d’Etiopia. Il terzo fiume si chiama Tigri: esso scorre ad oriente di Assur. Il quarto fiume è l’Eufrate9

.

5

R. Nash, Wilderness and the American Mind, cit., p. 24.

6 Ibidem, p. 24. 7 Ibidem. 8 Ibidem, pp. 24-25. 9

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Nonostante la Bibbia localizzi chiaramente il paradiso terrestre a oriente, nell’opinione comune europea si sviluppò la convinzione che esso si trovasse a occidente10. I riscontri letterari a riguardo sarebbero interminabili; già nell’Odissea si ritrova l’accenno a una terra in cui vivere la propria vita in maniera felice:

Non c’è mai neve né il crudo inverno né pioggia, ma sempre l’Oceano manda soffi di Zefiro dall’acuto sibilo per dare refrigerio agli uomini11

.

La scoperta del Nuovo Mondo, ovviamente, non poté che rinfocolare tali antiche credenze; i primi esploratori iniziarono dunque a pensare e a sperare che l’America potesse essere il luogo bramato sin dall’antichità dalle popolazioni europee.

Si credeva che, fra le caratteristiche del paradiso terrestre, vi fossero un clima temperato e ricchezze in abbondanza. La realtà che i pionieri si trovarono di fronte fu l’antipodo di tutto ciò. Tuttavia gli esploratori non si abbatterono e si convinsero che la

wilderness fosse soltanto un ostacolo da vincere che li avrebbe condotti al paradiso

terrestre:

What cause have we to bless God, for our preservation from the Devils

wrath, in this which may too reasonably be call’d the Devils World! While we are

in, this present evil world, We are continually surrounded with swarms of those Devils, who make this present world, become so evil. What a wonder of Mercy is it, that no Devil could ever yet make a prey of us! We can set our foot no where but we shall tread in the midst of most Hellish Snakes; and one of those

Rattle-Snakes once thro’ the mouth of a Man, on whom he had Seized, hissed out such a

Truth as this, If God would let me loose upon you, I should find enough in the Best of

you al, to make you all mine. What shall I say? The Wilderness thro’ which we are

passing to the Promised Land, is all over fill’d with, Fiery Flying serpents. But, blessed be God; None of them have hitherto so fastened upon us, as to confound us utterly! All our way to Heaven, lies by the Dens of Lions, and the Mounts of

10

Cfr. L. Baritz, “The Idea of the West”, in The American Historical Review, LXVI, 3, April 1961, pp. 618-640.

11

Omero, “Libro IV”, vv. 566-568, in Odissea, trad. it. di V. Di Benedetto e P. Fabrini, Milano, BUR, 2011, p. 319.

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Leopards; there are incredible Droves of Devils in our way. But have we safely got

on our way thus far? O let us be thankful to our Eternal preserver for it12.

Trovare il paradiso terrestre non era dunque sufficiente: bisognava meritarselo attraverso la conquista e la sottomissione della wilderness. L’uomo si vide dunque giustificato nella sua lotta contro la natura non solo da impulsi egoistici, ma anche da un forte impegno verso la comunità, la nazione e Dio: occorreva fondare la civiltà.

Alla luce della dottrina cristiana, gli europei fecero una veloce associazione fra l’uomo che vaga nei boschi e certe capacità stregonesche. Nelle leggende amerinde si raccontava di uno stregone, Pissacannawa, in grado di bruciare l’acqua, di far danzare gli alberi, di far tornare in vita i serpenti13. Certe storie fantastiche furono di certo stimolate dai viaggi d’esplorazione. Ebbe origine, dunque, una duplice visione della terra; da un lato vi era il territorio selvaggio, dall’altro, il paradiso terrestre14. Spazi opposti e legati, giacché il confronto col primo era preliminare al raggiungimento del secondo.

La legittimità del dominio dell’uomo sulla terra è del resto stabilita nel primo capitolo della Genesi. La citazione che segue mostra che l’uomo puritano si autonomina portatore della parola e della volontà di Dio e quindi si sente in diritto e in dovere di sconfiggere, sorretto dalla buona volontà e dall’aiuto divino, le vaste distese desolate, simbolo della presenza del male sulla terra:

Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra;

soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra.”

E Dio disse: “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte

12

C. Mather, The Wonders of the Invisible World, consultato su

http://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1019&context=etas.

13

R. M. Dorson, American Folklore, Chicago (Ill.), Chicago University Press, 1967, pp. 16-17.

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le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che striscino sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde.” E così avvenne15

.

La wilderness venne dunque interpretata anche in senso biblico. L’uso da parte dei puritani della parola desert per riferirsi a boschi o foreste ci fa capire quanto fosse forte l’influenza del Vecchio Testamento (e, con minore pressione, anche del Nuovo), dove foreste e boschi vengono accomunati al concetto di wilderness.

4.3 L’infrangersi di una speranza

A conferma delle parole di Cotton Mather (1673-1728), nacquero una serie di credenze paurose sugli animali dotati di incredibili poteri che abitavano la wilderness e sulle popolazioni indigene, che l’uomo bianco avvertiva come selvagge e pericolose. Gli europei avevano la loro cultura e le loro credenze, ma quando giunsero in America trovarono una situazione completamente diversa. Il contatto con gli indiani, il pensiero di questi, basato su superstizioni, sul potere dei sogni, sulla capacità di una tartaruga di far nascere un germoglio da cui vengono alla luce uomini e donne, ebbero una qualche influenza sui coloni. Le credenze amerinde si fusero ovviamente a quelle europee16, a dispetto del tentativo dell’uomo bianco di razionalizzare ed esorcizzare il magma oscuro con il quale si trovò a confrontarsi.

La paura che i coloni avevano degli animali è da attribuirsi in buona parte alle conoscenze zoologiche pressoché nulle; la loro immaginazione poté creare le più fantasiose rappresentazioni della realtà, che vennero connotate di malvagità e aggressività. I colonizzatori, prima di sbarcare in America, credevano, fra l’altro, nell’esistenza di Echidna, creatura per metà fanciulla dagli occhi splendenti e per metà serpente prodigioso e crudele; nell’esistenza dell’Idra di Lerna, un mostro con sette teste di serpente; nell’esistenza di Chimera, mostro sputafuoco dalla testa di leone, corpo di serpente e testa di capra sulla schiena. Fu quindi automatico per loro credere che nella

wilderness si celassero creature misteriose e pericolose. D’altronde, nella mitologia

15

Genesi, 1, 28-30, cit., p. 19.

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amerinda si narrava di rettili in grado di ipnotizzare gli animali e persino gli uomini, di serpenti a due teste, di serpenti che, se macellati, rigeneravano il proprio corpo. Addirittura si narrava la storia di un serpente con un corno che aveva abbattuto un grosso albero, oltre che di porcospini in grado di scagliare i propri aculei contro i nemici. Si credeva anche che la terra fosse particolarmente fertile, e che rendesse fecondi gli uomini che non lo erano, se questi mangiavano code di lepre o bevevano le acque dei fiumi17. Al pericolo derivante dall’inevitabile contatto con animali e indiani, si deve aggiungere la potenziale “caduta in tentazione”. Come accennato nel capitolo precedente, durante il periodo in cui la cultura americana era essenzialmente di matrice religiosa, il territorio selvaggio era percepito come luogo in cui l’uomo si smarrisce spiritualmente. Alcuni bianchi iniziarono di fatto a dare ascolto agli indiani che parlavano delle proprie divinità e dei propri demoni18. Si ebbe notizia di capacità mirabolanti da parte degli indiani, come quella di far piovere allo scopo di evitare che le piante morissero, addirittura senza bagnare l’agricoltore. E ciò determinò strani sincretismi.

Paradossalmente, man mano che i pionieri avanzavano in mezzo alle lande selvagge, portando avanti il proprio lavoro di civilizzazione, una parte di essi si allontanò dalla condizione di essere civilizzato a causa del contatto con l’ambiente stesso, come se questo si stesse impadronendo delle loro anime19. Secoli di civilizzazione europea avevano portato a un’idea di felicità che non poteva essere vissuta singolarmente, poiché il singolo non può sentirsi appagato nella sua solitudine, ma deve vivere all’interno della comunità cui appartiene. Dunque la conquista dell’entroterra americano rischiava di spezzare anche quest’assioma per cui la felicità collettiva è sempre più importante di quella personale, in quanto il rischio di godere della libertà personale, e perciò di compiere azioni lesive al bene del gruppo, era a portata di mano. Molti, infatti, abbandonarono le proprie comunità e si unirono alle tribù indiane.

L’opinione comune avvertiva la totale assenza di santità nella terra non coltivata. L’allegoria dell’uomo che, allontanatosi da Dio, si perde nella natura selvaggia, fu d’ispirazione per il bellissimo attacco del Pilgrim’s Progress (1678) di John Bunyan (1628-1688), uno dei testi più importanti della riforma protestante: “As I 17 Ibidem, pp. 12-16. 18 Ibidem, pp. 17-18. 19

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walk’d through the Wilderness of this world, I lighted on a certain place, where was a Denn; I saw a Man cloache with Raggs [...], a Book in his hand [...]. I looked, and saw him open the Book, and Read therein, and as he Read, he wept and tremule [...], he brake out with a lamentable cry; saying, what shall I do?”20. L’autore non visitò mai l’America, ma il suo testo si diffuse nelle colonie, dove venne letto e studiato, entrando così a far parte del patrimonio culturale americano, fino a elevarsi a emblema della fede puritana.

4.3.1 Due racconti esemplari: la wilderness secondo i Puritani

La rappresentazione puritana della wilderness è inoltre ben visibile in due racconti di Nathaniel Hawthorne (1804-1864). In “Young Goodman Brown” (1835), il protagonista, camminando nella foresta al crepuscolo, impegnato in una misteriosa missione, ha una percezione orrenda della wilderness, che proietta le tendenze diaboliche presenti nell’essere umano. L’idea che Goodman Brown ha della foresta, sineddoche del pensiero comune, è subito lampante: “’Too far! too far!’ Exclaimed the goodman […]. ‘My father never went into the woods on such an errand, nor his father before him. We have been a race of honest men and good Christians since the days of the martyrs; and shall I be the first of the name of Brown that ever took his path […]’”21

.

Ambientato a Salem durante il processo alle streghe, il racconto inizia con Goodman Brown, il quale, dopo aver lasciato il villaggio per incamminarsi lungo “[…] a dreary road, darkened by all the gloomiest trees of the forest, which had barely stood aside to let the narrow path creep through, and closed immediately behind”22, si ritrova in mezzo a un sabba in cui è coinvolta tutta la popolazione: lui e la moglie Faith sono i soli abitanti del villaggio a non essere ancora stati iniziati. Goodman Brown si appella al cielo, ma la scena svanisce, lasciando il lettore in preda ai dubbi. L’esperienza ha

20

J. Bunyan, The Pilgrim’s Progress, Oxford, Oxford University Press, 2003, p. 11.

21

N. Hawthorne, “Young Goodman Brown”, in Selected Tales and Sketches, San Francisco (Cal.), Rinehart Editions, 1970, p. 151.

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turbato il personaggio, tanto che, il giorno successivo, alle prime luci dell’alba, Goodman Brown non è sicuro se quanto ha vissuto sia stato reale o solo sognato: Had Goodman Brown fallen asleep in the forest and only dreamed a will-dream of witch-meeting? / Be it so if you will; but, alas! it was a dream of evil omen for young Goodman Brown. A stern, a sad, a darkly meditative, a distrustful, if not a desperate man did he become from the night of the night of that fearful dream23. Il racconto allegorizza il male intrinseco all’essere umano; esso si manifesta esplicitamente nei luoghi non graditi a Dio, in questo caso la foresta: “Whither, then, could these holy men be journeying so deep into the heathen wilderness?”24

.

Il terrore suscitato dalla wilderness è presente, per quanto meno esplicito che nel racconto appena analizzato, anche in “Roger Malvin’s Burial”, racconto del 1832, in cui viene riportata in vita l’atmosfera lugubre delle foreste intricate e misteriose. In punto di morte, Roger Malvin, ferito durante la Guerra di Lovewell (1722-1725), chiede esplicitamente a Reuben Bourne, promesso sposo della figlia Dorcas, di essere lasciato “in the tangled and gloomy forest”25

ad attendere la morte, senza degna sepoltura. I temi principali del racconto sono il senso di colpa e l’espiazione; dopo una serie di inutili resistenze, Reuben acconsente e abbandona Roger al suo destino. Reuben parla dell’accaduto con Dorcas, inducendola a credere che al padre non siano mancate le onoranze funebri. La paura legata alle foreste riemerge, diciotto anni più tardi, quando Reuben e il figlio quindicenne Cyrus si perdono nel bosco; questi viene accidentalmente ucciso dal padre, nello stesso punto in cui, anni addietro, aveva lasciato il suocero agonizzante. Dorcas, accorsa in direzione dello sparo, fiduciosa di vedere Cyrus con un daino ucciso, si ritrova di fronte il marito, il quale le confessa che “This broad rock is the gravestone of your near kindred […]. Your tears will fall at once over your father and your son”26. L’uomo riesce così a liberarsi del peso che per tantissimi anni gli ha oppresso la coscienza. La sensazione provata un attimo prima dell’annuncio dello sparo è quella di un ambiente in grado di dominare le azioni degli esseri umani:

Whenever the rustling of the branches or the creaking of the trunks made a sound, as if the forest were waking form slumber, Reuben […] was musing on the strange influence that had led him away from his predetermined course, and so far

23 Ibidem, pp. 162-163. 24 Ibidem, p. 156. 25

N. Hawthorne, “Roger Malvin’s Burial”, in Selected Tales and Sketches, cit., p. 60.

26

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into the depths of the wilderness. Unable to penetrate to the secret place of his soul where his motives lay hidden, he believed that a supernatural voice had called him onward, and that a supernatural power had obstructed his retreat27.

La foresta che sta attraversando gli fa compiere un percorso circolare, e Reuben non è di fatto in grado di decidere il proprio cammino; la natura lo sta guidando verso il punto in cui Roger era morto, allo scopo di fargli espiare la sua colpa, ma, al contempo, anche in direzione della porzione di bosco in cui il figlio sta cacciando. La wilderness presentataci da Hawthorne in questo racconto pare complice dell’omicidio di un innocente di quindici anni, ed è, a tutti gli effetti, agente morale che presiede all’esistenza degli esseri umani, regolandone le scelte e le condotte secondo norme profonde.

4.4 La frontiera

L’effettivo risultato della colonizzazione non fu né un ritorno alle origini, né l’esportazione di modelli europei, ma dette vita a qualcosa di nuovo e diverso, ovvero all'americano stesso:

[…] the Indian trade pioneered the way for civilization. The buffalo trail became the Indian trail, and this became the trader’s “trace”; the trails widened into roads, and the roads into turnpikes, and these in turn were transformed into railroads. The same origin can be shown for the railroads of the South, the Far West, and the Dominion of Canada. The trading posts reached by these trails were on the sites of Indian villages which had been placed in positions suggested by nature; and these trading posts, situated so as to command the water system of the country, have grown into such cities as Albany […] and Kansas City. Thus civilization in America has followed the arteries made by geology […] until at last the slender paths of aboriginal intercourse have been broadened and interwoven into the complex mazes of modern commercial lines […]28.

27

Ibidem, p. 63.

28

J. F. Turner, The Frontier in American History, New York (NY), Holt, Rinehart and Winston, 1962, p. 14.

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Particolarmente importante e necessario alla comprensione del pensiero americano, il concetto di frontiera acquisisce una speciale rilevanza grazie agli studi condotti da Frederick Jackson Turner. Secondo lo studioso, la storia americana è spiegabile proprio tramite la suddetta nozione, nota anche come frontier thesis (“tesi della frontiera”), la quale si erge a emblema della cultura americana.

Turner descrive i tratti peculiari dello spirito americano, partendo dalla sua genesi. Nell’immaginario collettivo, la frontiera appariva, sin dai primordi, come un elemento in grado di scoprire le potenziali evoluzioni dell’individuo in senso profondamente americano. Già nel XVII scolo, il termine frontier aveva assunto nel modo di pensare americano un significato che aveva “superato” quello inglese originario: non più “confine” o “linea di demarcazione”, bensì regione scarsamente e/o recentemente popolata, a diretto contatto con la wilderness o regione non colonizzata29. Turner la concepisce come un insieme di ostacoli il cui graduale superamento si tradusse nel più importante contributo alla formazione del carattere della giovane nazione statunitense30. La frontiera è il fulcro dell’individuazione della storia americana, da intendersi essenzialmente come la storia della colonizzazione dell’Ovest: è un elemento naturale che condiziona l’attività umana e diviene fonte di storia e di valori civili.

La frontiera non è dunque fissa ma ovviamente mobile; si sposta con il progredire della civiltà, compie un passo in avanti a ogni passo di pioniere, aprendo così nuovi panorami culturali e umani, oltre che economici. La frontiera segue il percorso della colonizzazione degli Stati Uniti, che ha inizio sulla costa atlantica e si muove verso quella pacifica; cosicché si capisce immediatamente come la storia americana comincia con la colonizzazione dell’ovest. “In this advance, the frontier is the edge of the wave – the meeting point between savagery and civilization”31, si legge in The

Frontier in American History (1893). Essa segna dunque il confine fra quanto vi è di

civilizzato e quanto ancora rimane da rendere tale, mettendo ben in evidenza la dicotomia ambiente naturale-ambiente civilizzato32.

29 Ibidem, p. 41. 30 Ibidem, pp. 1-38. 31 Ibidem, p. 3. 32

Secondo Turner, è possibile considerare colonizzata una zona se questa ha una densità pari o superiore a 2 abitanti/mi2. Egli non si sofferma su precisi limiti geografici o descrizioni di terre, non essendo interessato a fare un censimento, ma solo a spiegare il concetto. Per rendere l’idea, 2 abitanti/mi2 corrispondono a 0,4 abitanti/km2. Dobbiamo stupirci fino a un certo punto, considerando che nel 1893,

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È possibile estrapolare da The Frontier in American History alcune delle tappe principali che scandiscono l’avanzata della frontiera. La prima, a detta di Turner, ci porta sulla costa che guarda l’Oceano Atlantico, quando l’effettiva colonizzazione non era ancora cominciata. Fra gli albori del Seicento e il 1763, essa raggiunge i monti Appalachi; fra il 1763 e il 1812, spingendosi verso nord, i pionieri esplorarono e colonizzarono l’alta valle dal fiume Ohio, dove fondano la Louisiana33

; fra il 1825 e il 1848 la frontiera si situa a cavallo fra la California e l’Oregon, a cui segue la conquista del territorio fra le Montagne Rocciose e il fiume Mississippi34. L’ultima frontiera, sulla quale lo storico americano non si sofferma, rimaneva ovviamente l’Alaska. Il suo acquisto dalla Russia nel 1867 non venne visto di buon occhio dalla cittadinanza americana, che percepì la regione come ostile e infruttifera; ma vi fu un cambio d’opinione quando, nel 1898, venne scoperta una massiccia presenza d’oro, che spinse molti americani a recarvisi. Lo spostamento verso l’interno del territorio da parte delle successive generazioni dislocò le linee che marcavano la colonizzazione e quelle che marcavano la terra selvaggia, ma preservò la tensione essenziale tra esse. Mano a mano che tale spostamento avveniva, la generazione che lo compì diveniva sempre più americana e meno europea.

L’interpretazione della frontiera avanzata da Turner spiega l’origine delle caratteristiche democratiche, innovative, violente del carattere americano; in altre parole, il suo carattere distintivo35. Egli fonde la dimensione temporale della storia americana e lo spazio geografico della terra che in seguito divenne gli Stati Uniti36. I primi coloni che sbarcarono sulla costa orientale nel XVII secolo erano europei, conseguentemente agivano e pensavano come tali. Essi incontrarono sfide ambientali diverse da quelle che conoscevano in Europa. Il fattore più importante fu la presenza di terra arabile non coltivata. Si adattarono al nuovo ambiente in diversi modi: l’insieme di questi adattamenti dette vita all’americanization (“americanizzazione”). Secondo Turner, la formazione dell’aspra identità americana è avvenuta proprio grazie alla

anno di uscita del libro, la densità degli Stati Uniti era di 7 abitanti/km2 (Alaska e territori non colonizzati inclusi).

33

Oggi la Louisiana è un piccolo stato del sud degli Stati Uniti, ma al tempo era una striscia di terra che attraversava gli Stati Uniti da nord a sud e che comprendeva stati da entrambe le rive del fiume Mississippi, oltre a una porzione del Québec.

34

Cfr. i primi sei capitoli di J. F. Turner, The Frontier in American History, cit., pp. 1-204.

35

R. Slotkin, “Nostalgia and Progress: Theodore Roosevelt’s Myth of the Frontier”, in American

Quarterly, XXXIII, 5, 1981, pp. 608–637.

36

W. Coleman, “Science and Symbol in the Turner Frontier Hypothesis”, in American Historical Review, LVVII, 1, 1966, pp. 22–49.

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fusione tra la civiltà della colonizzazione e la ferocia della terra impervia. I limiti territoriali offrono all’individuo l’opportunità di sentirsi al sicuro in uno spazio ben delineato, gettando le basi per lo sviluppo di una propria identità, e, conseguentemente, di rafforzarsi sia in quanto singolo sia come membro appartenente a una comunità, di cui si condividono idee e costumi37. La dinamica di queste condizioni generò un particolare processo, per cui l’ambiente selvaggio si impadronì dell’animo dell’europeo che, a sua volta, si dimostrò bramoso di dominare l’ambiente stesso e gli indiani, considerati l’emblema dell’essenza selvaggia: questi contatti conferirono forza e personalità ai colonizzatori38. In maniera schietta e decisa, Turner afferma che “American democracy was born of no theorist’s dream; it was not carried in the Sarah

Constant to Virginia, nor in the Mayflower to Plymouth. It came out of the American

forest, and it gained new strength each time it touched a new frontier”39.

Nonostante Turner sia morto da ormai più di ottant’anni, l’idea seminale di frontiera è ancora attuale40, forse immortale, comunque fortemente cristallizzata nel pensiero americano. Poche righe sopra abbiamo asserito che l’Alaska rimaneva l’ultima frontiera. Vediamo ora quanto questo sia accettabile solo in parte. Alla fine della prima metà del XIX secolo, i pionieri avevano toccato e conquistato la costa del Pacifico, cosicché le terre emerse non offrivano più la possibilità di progetti esplorativi e conoscitivi. Eppure il movimento della colonizzazione continuò; non verso occidente, più semplicemente al di là dei confini statunitensi, senza una direzione precisa, senza guardare verso ovest o verso gli altri punti cardinali, e noi abitanti del mondo globalizzato ce ne accorgiamo con notevole facilità41. Sono ben note le vicende che, nel secondo dopoguerra, hanno contribuito alla diffusione e all’esportazione delle idee e della cultura statunitensi. È come se, una volta colonizzato lo spazio racchiuso fra le due coste, il mito della frontiera non abbia consentito di porre fine all’avanzata del conquistatore bianco.

Nella visione di Turner, la frontiera è comunque quell’elemento astratto, invisibile e intangibile, che ha trasformato semplici uomini in pionieri, quindi in creatori

37

T. J. Lyon, This Incomparable Land: A Book of American Nature Writing, cit., pp. 18-20.

38

J. F. Turner, The Frontier in American History, cit., pp. 3-4.

39

Ibidem, p. 296.

40

W. Cronon, “Revisiting the Vanishing Frontier: The Legacy of Frederick Jackson Turner”, in The

Western Historical Quarterly, XVIII, 2, April 1987, p. 167.

41

Lo stesso Alaska, non confinante con gli Stati Uniti poiché separato dal Canada, rientra, almeno parzialmente, in questo discorso.

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di civiltà: è, dunque, anche e soprattutto, l’eroina della storia americana, più dei pionieri stessi.

4.4.1 Alcuni riscontri letterari

Per comprendere come il mito della frontiera sia radicato nella visione americana del mondo, si può tornare a “Roger Malvin’s Burial”, il citato racconto di Hawthorne. La storia inizia il 9 maggio del 1725, durante una serie di conflitti fra la Nuova Inghilterra e varie tribù indiane; lo stesso autore, prima di addentrarsi nella narrazione vera e propria, ne descrive il contesto: “One of the few incidents of Indians warfare naturally susceptible of the moonlight of romancer undertaken for the defence of the frontiers in the year 1725 […]”42. Hawthorne non usa termini come “confines” o “boundary”; l’utilizzo di “frontier” (ricorre ben undici volte in ventidue pagine) non denota il confine geografico fra due regioni o il limite fra due proprietà distinte, ma connota l’area in cui vivono i coloni europei e quella in cui questi non vivono in quanto non ancora civilizzata.

Di nuovo, il narratore ci informa che “Many circumstances combined to retard the wounded traveller [Reuben] in his way to the frontiers”43; il ritorno verso la frontiera è qui il ritorno verso la civiltà, mentre il bosco, dove Reuben rimarrà per ulteriori due giorni, è il territorio in cui sono gli indiani selvaggi a muoversi con abilità. Roger prega Reuben di lasciarlo lì dov’è poiché ormai allo stremo e non più in grado di combattere in favore della colonia, affidando a Reuben e alla sua generazione il futuro e il bene della civiltà americana.

Più avanti nel racconto si illustra, in poche righe, il declino economico di Reuben e Dorcas, che nel frattempo si sono sposati e hanno avuto un figlio, Cyrus. I tre decidono dunque di tentare la fortuna altrove, lasciando la terra arata per anni per peregrinare nei recessi delle foreste, in cerca di nuovi mezzi di sussistenza. Trascorrono l’autunno esplorando i boschi in cui costruire la propria abitazione; tornano, per il

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N. Hawthorne, “Roger Malvin’s Burial”, in Selected Tales and Sketches, cit., p. 46.

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freddo inverno, alla loro casa originaria; con l’arrivo del mese di maggio giunge quindi il momento di partire. I tre componenti della famiglia sono adesso pronti ad appropriarsi di alcuni acri di terra selvaggia. Intendono così spostare in avanti la frontiera, civilizzando una piccola parte di boscaglia selvaggia:

He [Cyrus] was peculiarly qualified for, and already began to excel in, the wild accomplishments of frontier life. His foot was flat, his aim true, his apprehension quick, his heart glad and high […]; and when hoary age, after long, long years of that pure life, stole on and found him there, it would find him the father of a race, the patriarch of a people, the founder of a mighty nations yet to be44.

È fondamentale la presenza del figlio, partecipe in prima persona dello sforzo di rendere arabili i terreni incolti, non soltanto per l’apporto pratico all’operazione, bensì per il valore simbolico che la collaborazione di due generazioni diverse assume all’interno del vastissimo progetto americano di espansione della civiltà. Il futuro della comunità a cui i protagonisti di questo racconto appartengono scorre lungo un filo temporale che lega tre generazioni. Il primo legame si situa all’inizio della storia, durante lo scontro armato, quando Roger preferisce essere lasciato nei boschi a morire per non essere di peso a Reuben, più giovane e forte, a cui affida il compito di proteggere la figlia Dorcas e la famiglia che lei e Reuben costruiranno. Così facendo, Roger consegna al futuro cognato il compito di preservare la società di cui fanno parte. Il secondo legame emerge alla fine del racconto, nello stesso bosco cui si è avuto notizia all’inizio. Reuben e il figlio Cyrus adempiono qui al dovere morale di portare avanti la frontiera: il loro intento è costruire la propria abitazione in un luogo che solo quindici anni prima non era che un porzione di terra non civilizzata e, quindi, non sfruttata dagli uomini.

A questo punto, sorge spontanea una domanda: come e in che misura la frontiera ha influenzato Wallace? Prima di procedere alla discussione di questo punto è però necessario fare due premesse.

La prima, di carattere logico, ci impone di non considerare la domanda come riferita al solo autore di The Lure of the Labrador Wild, ma anche ad Hubbard, l’ideatore della spedizione narrata nel libro. Anzi, con ogni probabilità, quanto implicato dalla frontiera aveva radici molto più profonde nella mente di Hubbard che in

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quella di Wallace; ma, essendo la fonte primaria del nostro tentativo di contestualizzazione The Lure of the Labrador Wild, il lavoro riguarderà i due allo stesso modo. Uno spazio marginale, si riserverà, invece, a Elson, il terzo membro della spedizione, il quale, a causa delle sue origini scozzesi da una parte e indiane Cree dall’altra, non può essere stato influenzato dal modo di pensare americano quanto Wallace e Hubbard, in quanto era nato e cresciuto nei boschi, dove si sentiva a suo agio. La seconda premessa è di carattere psicologico: in quanto archetipo, la frontiera fa parte delle strutture psichiche profonde dell’americano tipico. È pertanto un’idea che preesiste agli individui, su cui ha certi effetti senza che questi se ne rendano conto in maniera cosciente.

Sarebbe ovviamente interessante sapere se Wallace e Hubbard abbiano letto

The Frontier in American History di Turner. Il libro fu subito molto apprezzato dagli

intellettuali, poiché offriva utili spiegazioni sulle forti differenze fra l’americano e l’europeo; ma, anche a causa della non foltissima bibliografia reperibile sui due avventurieri, è ovviamente difficile affermare quali fossero le probabilità che Wallace e Hubbard ne fossero a conoscenza. Noi azzardiamo un “no”; per quanto entrambi possedessero una buona cultura generale, stiamo parlando del testo di un accademico di notevole spessore, non di un libro destinato al general reader.

Robert Stewart descrive Hubbard con le seguenti parole: “[…] Era l’emblema dell’America del suo tempo, uomo ‘virile’, ammiratore di Teddy Roosevelt […]. Figlio d’un agricoltore pioniere del Michigan […]. Hubbard s’era innamorato del Labrador. […] Il suo sogno era di tracciare la mappa di quest’area inesplorata […]. Agli inizi del secolo, la figura dell’esploratore era ancora idolatrata”45

. Questa brevissima descrizione, assieme ad alcune parole sul Labrador dello stesso Hubbard, ci permettono di capire sia quanto importante fosse l’esplorazione di questa terra per Hubbard, sia il valore simbolico di un’eventuale riuscita della missione: “’[…] don’t you realize it’s about the only part of the continent that hasn’t been explored? […].’ […] ‘A great unknown land right near home, as wild and primitive today as it has always been! I want to see it. I want to get into a really wild country and have some of the experiences of the old fellows who explored and opened up the country where we are now’”46. Quanto asserito da Hubbard rappresenta l’esaltazione di secoli di conquiste americane. Attraverso

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R. Stewart, Labrador, trad. it. di E. Rogati Torti, Il Labrador, Milano, Mondadori, 1990, p. 80.

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l’esplorazione di una terra ostile come il Labrador, egli vuole rendere omaggio a quella civiltà che permise a lui e a altri milioni di americani di vivere in una casa e avere un lavoro. Non si tratta, dunque, solo di un’esplorazione per mero piacere; non è neanche sufficiente parlare di un uomo mosso dal desiderio di conoscere il Labrador: la volontà di Hubbard era quella di sperimentare sulla propria pelle quanto vissuto dai suoi avi, i pericoli che essi hanno affrontato, vedere coi propri occhi una terra primitiva e selvaggia quanto quelle incontrate dai pionieri, e su cui quest’ultimi erano riusciti a ergere una civiltà.

Le seguenti, invece, sono le parole di Wallace, a testimonianza di quanto importante egli ritenesse compiere un viaggio nella wilderness. L’autore del libro mette nero su bianco come l’esplorazione sia un motivo portante dell’americanismo, parlandone come di un sogno comune tanto alla sua generazione quanto ai suoi antenati:

[…] It had never previously occurred to me to undertake the game of exploration; but, like most American boys, I had had youthful dreams of going into a great wild country, even as my forefathers had gone, and Hubbard’s talk brought back the old juvenile love of adventure. […] I said: ‘Hubbard, I’ll go with you.’ And so the thing was settled – that was how Hubbard’s expedition had its birth (ibidem, pp. 2-3).

L’intento di Wallace e Hubbard era esplorare una terra al di fuori dei confini statunitensi, auspicando così di dare il loro contributo alla vitalità della frontiera; che conoscessero o meno il testo di Turner, che si rendessero conto o meno di quanto il carattere americano, di cui entrambi erano l’incarnazione, dipendesse da ciò che Turner aveva portato alla luce analiticamente, poco importa.

La loro volontà, come quella di una certa parte del popolo americano, era di divenire collaboratori attivi dell’edificazione di siffatta civiltà, con la speranza viva di passare il testimone alle generazioni successive, essendo essi stessi stati discepoli diretti dei loro predecessori. Ogni successo dell’America lo si doveva alla forza d’animo e all’iniziativa del singolo individuo fattosi pioniere che, collaborando con altri pionieri, svolgeva il proprio dovere sia in quanto individuo sia, soprattutto, in quanto tassello di una comunità. In un momento di malumore, Hubbard confida a Wallace quanto segue: “’[…] Over fifty years ago father cleared that land when he was a young man and that part of Michigan was a wilderness. He made a great farm of it, and it has been his home

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ever since’” (ibidem, p. 96). Un’autentica esplicitazione del ruolo che suo padre, in quanto singolo e in quanto membro di una società, aveva avuto nella creazione della società in cui Hubbard e Wallace vivevano.

Concludendo, l’eredità della frontiera può forse essere riassunta in una domanda retorica: se, nel XVII secolo, uomini che credevano in Dio e che temevano creature immaginarie gettarono le basi per l’edificazione di una delle società più coese del mondo intero, che cosa saranno in grado di costruire le generazioni future, le quali si trovano alle spalle un enorme lavoro di assimilazione e conquista?

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