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Finalità rieducativa della pena ed importanza delle attività trattamentali CAPITOLO I

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CAPITOLO I

Finalità rieducativa della pena ed importanza

delle attività trattamentali

Sommario: 1.1 Panoramica generale sulla funzione rieducativa. – 1.2 Interpretazione della Corte Costituzionale dell’art. 27, 3 comma Costituzione e teoria polifunzionale della pena. – 1.3 Riflessioni attuali sulla rieducazione. – 1.4 Cenni storici sull’evoluzione del carcere. – 1.5 Il trattamento penitenziario. – 1.5.1 I destinatari del trattamento penitenziario.

1.1 Panoramica generale sulla funzione rieducativa.

La finalità cui tende la pena è un problema che ha una rilevanza di ordine costituzionale. La portata costituzionale della questione, per la verità, esula dall’esistenza di una confacente norma costituzionale che vada a prendere una posizione al riguardo: ad es. la Costituzione di Bonn, diversamente da quella italiana, è sprovvista di una norma

ad hoc sul fine cui devono tendere le pene; eppure tale assenza non

ha impedito alla dottrina e alla giurisprudenza tedesca di cogliere la dimensione costituzionalistica del problema.1

Ad ogni modo, nel nostro ordinamento giuridico, la finalità rieducativa della pena ha ricevuto un’esplicita consacrazione all’art 27, 3° comma Costituzione che ne costituisce l’unico riferimento diretto. Nello specifico, tale articolo sancisce che:

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

A livello Europeo (se si fa una comparazione tra le costituzioni dei vari Paesi dell’Unione Europea) e di Convenzione Europea dei

1

Cfr. PALAZZO, Valori costituzionali e diritto penale (un contributo comparatistico allo studio del tema), in L’influenza dei valori costituzionali sui sistemi giuridici contemporanei, a cura di A. Pizzorusso e V. Varano, tomo I, Milano, 1985, Giuffrè Editore, pag. 567 e segg.

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2

Diritti dell’Uomo non esiste una previsione analoga all’art. 27, 3

comma. Normalmente, le costituzioni, danno vita a previsioni in negativo; prescrivendo che le pene non possono essere “disumane”, che “non possono consistere in lavori forzati”, che è “vietato il

ricorso alla tortura”. Invece, l’art. 27, 3° comma è uno dei rari casi

in cui il costituente prende posizione sulla finalità della pena. I nostri padri costituenti non hanno preso in considerazione solo il contenuto dell’esecuzione della pena (vietando certe pratiche), ma hanno imposto di orientare in un certo senso l’esecuzione della pena: cioè verso il recupero del condannato.

Durante gli anni Sessanta del Novecento, vi fu un acceso dibattito sul tema degli scopi della pena e del fine cui essa dovesse tendere; inizia così a farsi strada una concezione di tipo “polifunzionale” della pena, in quanto si ritiene che essa può assolvere molteplici funzioni. Infatti, la pena avrebbe sì una funzione essenzialmente retributiva, ma nel momento applicativo ed esecutivo potrebbe conseguire finalità diverse, satisfattorie, specialpreventive e generalpreventive: tale concezione, che si collega a quella tradizionale, prepara ad ogni modo la strada al riconoscimento del principio rieducativo.2

Sul finire degli anni Sessanta, s’iniziano a percepire forti tendenze verso una piena valorizzazione del principio rieducativo. Le contestazioni del Sessantotto hanno imprescindibili sviluppi anche sul modo di affrontare i problemi concernenti, la funzione della pena e il sistema penale più in generale; poiché vi è una più ampia comprensione dei reali problemi di funzionamento del sistema penale. Fiorisce un nuovo e diffuso interesse politico-culturale per le questioni penitenziarie che giunge a coinvolgere anche l'opinione

2 D'

AMICO, Commentario Costituzione - Art. 27. Leggi d’Italia Gruppo Wolters Kluwer, Studio legale, pag. 8

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3

pubblica e che fa sì che vengano accelerati i lavori parlamentari per una riforma in questo campo.3

All’interno di questo rinnovato clima politico- culturale il principio di rieducazione sembra aver trovato la sua stagione più feconda: “il principio infatti, non solo si vede pienamente riconosciuto quel rango preminente ad esso attribuito dal Legislatore costituzionale, ma viene altresì assunto a principale criterio ispiratore delle proposte di modifica relative al catalogo delle sanzioni”.4

Nell’ambito dell'esecuzione penale, le speranze per “un carcere non più afflittivo ed oppressivo ma tendente al recupero sociale del condannato e alla sua valorizzazione come uomo e cittadino”5 si trasformano in un impegno diretto a far sì che si sviluppino, all'interno dell'istituzione penitenziaria, non solo attività lavorative e culturali, ma anche sistemi che siano in grado di facilitare i contatti con la società libera. Il punto di vista che viene ad essere assunto in questi anni riguarda un modello di rieducazione che coincide con il recupero sociale tout court dei detenuti; nella convinzione che la popolazione carceraria sia per la stragrande maggioranza composta da “emarginati bisognosi di essere aiutati nel processo di reinserimento nella società”.6

Ecco che, allora, tale compito può essere essenzialmente assolto per mezzo delle attività trattamentali che vengono svolte all’interno delle mura carcerarie.

3

FASSONE, La pena detentiva in Italia dall'Ottocento alla riforma penitenziaria, Universale Paperbacks il Mulino, Bologna, 1980, pag. 98 e 99

4

FIANDACA, Commento all’art. 27 co. 3 Costituzione, in Commentario della

Costituzione, (a cura di) Branca e Pizzorusso, Bologna, 1991, pag. 243

5

NEPPI-MODONA, Vecchio e nuovo nell'ordinamento penitenziario, in AA. VV., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, pag. 12

6

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1.2 Interpretazione della Corte Costituzionale dell’art 27, 3

comma Costituzione e teoria polifunzionale della pena.

Spesso, la giurisprudenza costituzionale ha dato un’interpretazione restrittiva del principio rieducativo volta ad arginare, almeno in parte, la sua carica esplosiva. In realtà l’orientamento della Corte Costituzionale, lontano dal dare contributi particolarmente significativi, si limita a riaffermare quanto veniva sostenuto dalla dottrina negli anni addietro. Possiamo affermare, senza indugi, che l’elaborazione sino ad ora raggiunta appare legata a premesse teorico-culturali risalenti nel tempo e maggiormente arretrate rispetto a quello che è l’attuale livello cognitivo conseguito da parte della riflessione scientifica.

Al fine di contenere le diverse funzioni assegnabili alla pena, la Corte ha suggerito una lettura “polifunzionale” della pena:

“è la concezione secondo la quale le sanzioni penali tendono contemporaneamente a scopi afflittivo - retributivi, general- e special- preventivi, nonché di reintegrazione dell’ordine giuridico”.7 Tale “teoria polifunzionale della pena” ha subito però, nel tempo, diverse interpretazioni ed applicazioni da parte della Corte stessa. Inizialmente, la teoria venne definita “sincretistico - additiva”.8 Secondo questa impostazione, rimasta dominante per più di trent’anni, la pena assolve simultaneamente la funzione general-preventiva, special-preventiva e retributiva; in questo sistema articolato trova posto anche la funzione rieducativa che viene circoscritta, però, alla sola fase dell’esecuzione. Ciò sta ad indicare che: i diversi ed eterogenei scopi cui la pena può tendere vengono sommati l’uno all’altro e sono concepiti in modo tale da avere pari

7 F

IANDACA, op. cit. pag. 331

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dignità o pari rango, senza istaurare tra di essi un ordine gerarchico. In questo modo si offre l’occasione al giudice di poter disporre di uno strumento estremamente elastico. La giurisprudenza costituzionale ha accolto per lungo tempo questo modello sincretistico – additivo della polifunzionalità della pena e ciò può essere spiegato grazie al fatto che “tale generico eclettismo offre alla Corte un comodo alibi per privilegiare ora l’una ora l’altra finalità della pena, in un ottica strumentale al soddisfacimento delle esigenze politico – criminali ritenute di volta in volta prevalenti”.9 A tal proposito sono emblematiche alcune importanti sentenze della Corte Costituzionale (tutte di rigetto).

La prima sentenza in cui la Corte fa riferimento alla teoria polifunzionale della pena è la n.12 del 12 febbraio del 1966, la quale afferma che la pena pecuniaria, che si risolve nel pagamento di una somma di denaro commisurata alla gravità del reato, anche se è inidonea ad assumere una funzione rieducativa è comunque compatibile con l’art 27, 3° comma Cost. Nello specifico ci si era chiesti se la pena pecuniaria avesse una finalità esclusivamente retributiva e non anche rieducativa e, dunque, se ciò contrastasse con il comma 3 art 27 cost. La Corte sottolinea che il 3° comma si compone di due periodi dove:

Il primo: vieta trattamenti inumani; Il secondo: prevede il fine rieducativo.

Secondo il giudice costituzionale tale norma costituisce “un

contesto, dunque, chiaramente unitario, non dissociabile, come si vorrebbe, in una prima e in una seconda parte separate e distinte tra loro, né, tanto meno, riducibile a una di esse soltanto”.10 La disposizione non è suscettibile di essere scissa in due parti

9 F

IANDACA, op. cit. pag. 332

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considerabili separatamente, ma è da intendersi come un’unità a livello sintattico e logico: la pena non può rieducare se è contraria al senso di umanità.11 La Corte Costituzionale evidenzia che è, comunque, insito nella pena il senso afflittivo, ma si vuole che tale ineludibile afflittività non superi un certo limite: quello del rispetto della dignità della persona.

La norma nella sua integrità sta a significare che: “la rieducazione

del condannato, pur nell’importanza che assume in virtù del precetto costituzionale, rimane sempre inserita nel trattamento penale vero e proprio (…). Il principio rieducativo dovendo agire in concorso con le altre funzioni della pena, non può essere inteso in senso elusivo ed assoluto”.12

Con il terzo comma dell’art. 27 Costituzione, secondo la Corte, “si

volle che il principio della rieducazione del condannato, per il suo alto significato sociale e morale, fosse elevato al rango di precetto costituzionale, senza per questo negare l'esistenza e la legittimità della pena, là dove essa non contenga, o contenga minimamente, le condizioni idonee a realizzare tale finalità: e ciò, evidentemente, in considerazione delle altre funzioni della pena, che sono essenziali alla tutela dei cittadini e dell'ordine giuridico”.13

Altra sentenza che merita una certa attenzione, in tale contesto, è la n. 264 del 22 novembre del 1974; in cui la Corte Costituzionale fa ricorso all’idea della polifunzionalità della pena con riferimento alla pena dell’ergastolo. La questione di legittimità costituzionale è stata sollevata perché il giudice a quo si pose un problema in senso ontologico: dal punto di vista costituzionale ha senso condannare una persona alla pena dell’ergastolo, visto che il fine della pena è quello della rieducazione? La Corte risponde “l’ordinanza muove

11Cfr. sent. Corte cost. 12 febbraio 1966, n. 12, op. cit.

12 Cfr. sent. Corte cost. 12 febbraio 1966, n. 12. op. cit. 13

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dal seguente testuale presupposto: la Costituzione, oltre a disporre che le pene siano sempre umane, evidenzia la necessità che le pene abbiano quale funzione e fine il riadattamento alla vita sociale”,

questo è quello che pensa il giudice leggendo l’art. 27 della Costituzione, dice la Corte. Ma, non è così che deve essere letto, e, infatti, continua: “Orbene, funzione (e fine) della pena non è certo il

solo riadattamento dei delinquenti, purtroppo non sempre conseguibile, a prescindere sia dalle teorie retributive secondo cui la pena è dovuta per il male commesso, sia dalle dottrine positiviste, secondo cui esisterebbero criminali sempre pericolosi e assolutamente incorreggibili, non vi è dubbio che dissuasione, prevenzione, difesa sociale, stiano, non meno della sperata emenda, alla radice della pena”.14 I giudici costituzionali, con tale sentenza,

vogliono mettere in risalto il fatto che non è possibile soffermarsi superficialmente su una disposizione costituzionale, ma occorre penetrare all’interno del suo più profondo significato; quindi, anche se i costituenti hanno preferito dire che le pene devono tendere alla rieducazione, ciò non esclude che debbano avere anche altri fini. In una successiva sentenza della Corte Costituzionale, la n.282 del 25 maggio 1989, il richiamo esplicito alla polifunzionalità della pena ritorna, ottemperando anche per questa volta al compito di ridurre la portata espansiva del principio rieducativo. Nel caso di specie la dottrina, consapevole del ruolo apicale che la finalità rieducativa della pena aveva assunto con la Costituzione, lamenta che i giudici costituzionali si siano limitati a porre l’accento sull’accoglimento, da parte della Carta Cost., della teoria polifunzionale e non abbiano, invece, provveduto ad individuare una gerarchizzazione tra le varie finalità, costituzionalmente riconosciute, cui può tendere la pena.

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8

La Corte afferma che “non è necessario delineare una assoluta,

statica gerarchia tra le molteplici finalità della pena. È certo necessario, indispensabile, di volta in volta, per le varie fasi (incriminazione astratta, commisurazione, esecuzione) o per i diversi istituti di volta in volta considerati, individuare a quale delle finalità della pena, ed in che limiti, debba esser data la prevalenza ma non è consentito stabilire a priori, una volta per tutte (neppure a favore della finalità rieducativa) la precitata gerarchia”.15

Il tallone d’Achille di tale impostazione, non è dato dal fatto che la sanzione penale può svolgere più e diverse funzioni, ma dalla definizione “sincretico – additiva” della polifunzionalità. Il modello esaminato, per l’appunto, è attaccabile sia sotto il profilo teorico, sia sotto quello pratico. Dal punto di vista teorico, la semplice somma delle differenti finalità cui tende la pena fa si che i difetti di ognuna siano moltiplicati anziché compensati; dal punto di vista della prassi applicativa, l’eccessiva convergenza di elementi ideologici già inconciliabili rende ardua la possibilità di risolvere “il problema delle antinomie degli scopi nella fase della commisurazione della pena”.16 Per riuscire a superare questi ostacoli, che finiscono, per

altro, per sminuire il rango che il 3° comma art. 27 affida al principio rieducativo, si è cercato di riformulare la teoria della polifunzionalità della pena rintracciando, come referente, un modello diverso e più evoluto rispetto a quello fino ad allora preso in considerazione.

Tale modello risulta essere offerto dalla così detta “teoria

associativo – dialettica”;17 essa prevede che: anziché fare la somma di tutte le varie funzioni della pena (considerandole equivalenti o di pari rango), bisogna dare una prevalenza sempre maggiore alla

15

Cfr. sent. Corte cost. 25 maggio 1989, n. 282, in www.cortecostituzionale.it

16 F

IANDACA, op. cit. pag. 333

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finalità rieducativa. In questo modo si riesce ad ottenere come effetto, quello di una possibile riduzione delle antinomie tra le diverse finalità della pena “in virtù della prevalenza accordata ad una determinata finalità, rispettivamente in rapporto a ciascuna delle tre fasi nelle quali si articola il fenomeno penale” 18: nel primo stadio, quello della minaccia legislativa, la pena non può che svolgere una finalità di prevenzione generale, mentre, negli altri due stadi, quelli della commisurazione e dell’esecuzione, la pena assume una funzione di prevenzione speciale rieducativa.

“Si tratta di una conclusione che, in realtà, rappresenta l’esito di un percorso accidentato nel corso del quale la funzione rieducativa è passata dall’avere un posto soltanto eventuale fra le funzioni della pena, in virtù della presunta natura di norma programmatica dell’art 27 3° comma Cost., al costituire un criterio finalistico principale”.19 Alla luce di tali cambiamenti, possiamo affermare che gli ultimi quarant’anni di giurisprudenza costituzionale sono caratterizzati da una lenta e progressiva evoluzione che, partendo da un’originaria concezione polifunzionale della pena in vista di un recepimento prudente del fine rieducativo, “ha progressivamente attinto momenti di più ampia valorizzazione di esso fino a giungere a qualificare la rieducazione del condannato come fine principale ineludibile della pena stessa”.20

Anche se, inizialmente, la funzione rieducativa è stata concepita come funzione principale della pena, in relazione alla sola fase esecutiva,21 successivamente la Corte Costituzionale la intende

18

FIANDACA, op. cit. pag. 333

19

TOSCANO, Le funzioni della pena e le garanzie dei diritti fondamentali, Giuffrè Editore, 2012, pag. 144

20 F

RIGO, La funzione rieducativa della pena nella giurisprudenza costituzionale,

intervento nell’ambito del Convegno ‘Scambio di analisi ed esperienze sul rapporto tra le nostre Costituzioni e i principi penali’, Madrid - Valencia, 13-14 ottobre 2011, in www.cortecostituzionale.it/relazioni internazionali/incontri internazionali.

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come referente essenziale anche per le altre due fasi: minaccia e commisurazione. È opportuno menzionare, allora, nell’ambito di tale progresso ermeneutico, la sentenza n. 204 del 27 giugno 1974 della Corte Costituzionale; riguardante l’istituto della liberazione condizionale. In questa pronuncia la Corte afferma che: “l'istituto

della liberazione condizionale rappresenta un particolare aspetto della fase esecutiva della pena restrittiva della libertà personale e si inserisce nel fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato”. Sulla base

di ciò, la Corte continua dicendo che: “con l'art. 27, terzo comma,

della Costituzione l'istituto (della liberazione condizionale) ha assunto un peso e un valore più incisivo di quello che non avesse in origine; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il Legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle”.22 Emerge qui la maggior importanza che è venuta ad assumere la norma costituzionale in questione: essa, infatti, è diventata una parte caratterizzante il trattamento penitenziario inteso come trattamento rieducativo e ciò impone al Legislatore di tener sempre presente il fine risocializzante della pena. “Ed è questa, all’evidenza, l’enunciazione di un principio, che toglie la rieducazione dall’ambito della mera esecuzione penale, consegnandolo al Legislatore con riferimento ad ogni altro strumento normativo idoneo a perseguire quello stesso fine”.23

Perlopiù, sempre in questa sentenza, la Corte Costituzionale rileva che: scontato un certo quantum di pena, sorge in capo al condannato

22 Cfr. sent. Corte cost., 27 giugno 1974, n. 204, in www.cortecostituzionale.it 23

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un diritto (non una mera aspettativa ma un diritto) a che la sua situazione giuridica sia rivista dall’autorità giudiziaria competente, alla luce delle previsioni di legge, per stabilire se si debba andare avanti con la pena detentiva o se al contrario il quantum di pena scontata abbia assolto positivamente il fine rieducativo. A fronte del sicuro ravvedimento, la pena (carceraria) deve necessariamente cessare.

Nel cammino ermeneutico, tracciato idealmente dalla giurisprudenza costituzionale, che conduce alla valorizzazione del principio di rieducazione si inserisce, con un ruolo sostanziale, la sentenza n. 364 del 24 marzo del 1988, relativa all’errore di diritto. Questa sentenza è famosa per la “declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 5 del codice penale, nella parte in cui non esclude l’ignoranza inevitabile dall’inescu-sabilità dell’ignoranza della legge penale. Qui, per la prima volta, la Corte “salda” il principio di colpevolezza alla finalità rieducativa della pena”.24 La Corte, all’interno del suo ragionamento, esordisce facendo una premessa basilare: cioè che l’art 27 Costituzione non può essere compreso fino in fondo se le parti di cui si compone si leggono in maniera disgiunta, in assenza di collegamenti, per così dire, interni. Il primo e il terzo comma sono strettamente collegati tra loro. “Collegando il primo al terzo comma dell’art.27 Cost., agevolmente

si scorge che, comunque si intenda la funzione rieducativa (…) essa postula almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica”, visto che “non avrebbe senso la “rieducazione” di chi, non essendo almeno “in colpa” (rispetto al fatto), non ha certo “bisogno” di essere “rieducato”. Soltanto quando alla pena venisse assegnata esclusivamente una funzione deterrente (ma ciò è sicuramente da escludersi, nel nostro sistema

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costituzionale, data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona umana) potrebbe configurarsi come legittima una responsabilità penale per fatti non riconducibili (…) alla predetta colpa dell’agente, nella prevedibilità ed evitabilità dell’evento”.25 “La pretesa di rieducare, quale che sia il contenuto che si assegni alla rieducazione, presuppone che all’autore del reato si possa comunque muovere un rimprovero; ed è altrettanto in dubbio che non avrebbe alcun senso l’essere rimproverati, ove si fosse in presenza della causazione di eventi lesivi inevitabili”.26

In quest’ultima sentenza si sono registrate le premesse per svincolare la finalità rieducativa della pena dai limiti del mero trattamento penitenziario; tutto ciò può dirsi, però, compiutamente realizzato con la sentenza n.313 del 2 luglio del 1990. Tant’è vero che “la necessaria coerenza tra testo e interpretazione dell’art. 27, 3° comma – di cui pure non mancano avvisaglie in pronunce precedenti – si rintraccerà compiutamente a partire da tale sentenza”.27

Questa pronuncia è la vera “pietra miliare” della Corte Costituzionale sul finalismo delle pene. Si assiste, con tale decisione, a un’ampia rivalutazione del principio rieducativo, grazie anche ad un contesto storico ricco d’importantissime novità normative; prime tra tutte: l’avvento del “nuovo” codice di procedura penale, entrato in vigore nell’ottobre del 1989, che al suo interno prevede la presenza di disposizioni concernenti istituti fortemente innovativi come il patteggiamento (che, da un punto di vista tecnico, è l’applicazione della pena su richiesta).

25

Cfr. sent. Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, in www.cortecostituzionale.it

26 F

IANDACA, op. cit. pag 254

27

PUGIOTTO, Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi). Relazione al Seminario dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti: "Il senso della pena. A un anno dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU", in Diritto Penale

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Nel caso di specie era stata sollevata una questione di legittimità costituzionale riguardo l’art. 444, 2° comma cod. proc. pen., regolante l’applicazione della pena su richiesta delle parti. Fu dichiarata incostituzionale la disciplina del patteggiamento, laddove non prevedeva che il giudice potesse ritenere inadeguata la pena richiesta dalle parti, rispetto alla finalità special - preventiva (la commisurazione, con il tempo, è divenuta luogo in cui prendere in considerazione l’esigenza special - preventiva). Se il PM e l’imputato propongono al giudice una pena inadeguata alla finalità rieducativa, quest’ultimo è legittimato a respingerla; questo è ciò che in sostanza ha sostenuto la giurisprudenza costituzionale visto che il codice sembrava prendere altre direzioni.

La Corte Costituzionale per dichiarare parzialmente illegittimo l’art. 444 c.p.p., 2° comma, usa tali parole:“Ma il secondo comma

dell'art. 444 cod. proc. pen., a differenza di quanto dispone il primo comma dell'art. 448 stesso codice, prevedendo che il giudice - pur dopo i controlli di cui s'e' detto - debba attenersi alla pena così come indicata dalle parti, limitandosi ad enunciare nel dispositivo che tale è stata la richiesta, non consente di valutare la congruità della pena ai fini e nei limiti di cui all'art. 27, terzo comma, della Costituzione. Ne consegue che, per tale parte, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale della detta disposizione”.28

La pena “patteggiata” può non risultare congrua alla luce del principio della rieducazione del condannato. In questa sentenza viene evocata specificamente la finalità rieducativa come strumento infallibile del giudice della cognizione penale. In poche parole: “la misura della pena in concreto deve essere congrua rispetto a tale finalità, anche quando sia stata oggetto di un accordo

28

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14

tra le parti”.29 Leggendo la motivazione della suddetta sentenza, ci accorgiamo che una parte considerevole di essa è specificatamente riservata al precetto costituzionale relativo alla rieducazione. Inizialmente, viene esposto dalla Corte il lungo cammino ermeneutico percorso dalla giurisprudenza costituzionale, in tema di finalità rieducativa della pena, passando in rassegna i precedenti giurisprudenziali. Si ricorda che negli anni la Corte “aveva ritenuto

che il finalismo rieducativo (…) riguardasse il trattamento penitenziario che concreta l'esecuzione della pena, e ad esso fosse perciò limitato” di conseguenza (teoria polifunzionale), “finalità essenziali restavano quelle tradizionali della dissuasione, della prevenzione, della difesa sociale, mentre veniva trascurato il novum contenuto nella solenne affermazione della finalità rieducativa; assunta in senso marginale o addirittura eventuale e comunque ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario”.30

Poiché la pena incide sui diritti della persona cui vi è sottoposta, non può negarsi che essa abbia imprescindibilmente anche caratteri afflittivi oltre che di difesa sociale o prevenzione generale; ma se la finalità della pena venisse indirizzata verso quei diversi caratteri, anziché verso il principio rieducativo, ci si imbatterebbe nel rischio di sacrificare il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. Le parole che fuoriescono dalla penna del giudice costituzionale, Ettore Gallo, sono state in grado di valorizzare, come mai prima d’ora, la finalità rieducativa della pena: l’unica “espressamente

consacrata nella Costituzione nel contesto dell'istituto della pena”;

capace di evitare “il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini

generali di politica criminale o di difesa sociale”; in grado di

contribuire “alla legittimazione e alla funzione della pena (…)

29 F

RIGO, op. cit.

30

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15

caratterizzandola nel suo contenuto ontologico”; segue la pena in

tutta la sua vicenda ordinamentale, “da quanto nasce, nell’astratta

previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”; del

resto, “si tratta di un principio che, seppure variamente profilato, e'

ormai da tempo diventato patrimonio della cultura giuridica europea”. 31 L’esigenza costituzionale, che le pene debbano

“tendere” alla rieducazione del condannato, è in ogni caso estranea dal raffigurare una mera tendenza riferita al solo trattamento penitenziario; “ciò che il verbo “tendere” vuole significare è

soltanto la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”.32

Fermo restando il «diritto» all’offerta trattamentale prevista nei confronti dei detenuti, il condannato è da ritenersi libero di aderirvi oppure no.33 “L’accento, quindi, cade sul devono, mentre il tendere – lungi dal rappresentare una mera formula ottativa – è da intendersi quale limite all’ordinamento penitenziario chiamato a garantire e incentivare il processo rieducativo, senza però imporlo alla libera autodeterminazione del detenuto”.34

La Corte conclude dicendo che: “Se la finalità rieducativa venisse

limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (né in fase normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto”; allora occorre ribadire

espressamente che: “il precetto di cui al terzo comma dell’art.27

della Costituzione vale tanto per il Legislatore quanto per i giudici

31

Cfr. sent. Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313, op. cit.

32

Cfr. sent. Corte cost. 2 luglio 1990, n. 313, op. cit.

33 Cfr. sentenza n. 204/1974 e anche la n. 79/2007 della Corte Costituzionale, 34

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16

della cognizione, oltre che per quelli dell’esecuzione e della sorveglianza, nonché per le stesse autorità penitenziarie”.

Ora sarà pur vero che l’interpretazione letterale, tra le varie e differenti tecniche interpretative, è pur sempre un “metodo

primitivo”,35 ma quel dato normativo letterale, cristallizzato all’interno dell’art. 27, 3° comma Costituzione, è l’unico scopo formalmente espresso cui deve tendere la pena; perciò non potrà mai essere sacrificato rispetto ad altre ipotetiche finalità.

A seguito di tale dirompente sentenza si registra una generale tendenza della giurisprudenza costituzionale verso una valorizzazione massima della finalità rieducativa della pena; solo a titolo esemplificativo possiamo citare alcune sentenze da cui emerge tale dato: la n. 422 del 1993, la n. 283 del 1994, la n. 445 del 1997, la n. 354 del 2002, la n. 257 del 2006, la n.129 del 2008 ecc..

Quindi, abbandonata progressivamente l’originaria concezione polifunzionale della pena, in cui tutte le finalità cui poteva tendere erano sostanzialmente equiparate, l’orientamento attuale della Corte Costituzionale va a favore di una vera e propria esaltazione della finalità rieducativa che “non può mai essere integralmente obliterata a vantaggio di altre e diverse funzioni astrattamente perseguibili”.36

1.3 Riflessioni attuali sulla rieducazione.

Il cammino composito della funzione rieducativa della pena non è certamente da ritenersi concluso; altri sforzi dovranno essere

35

Cfr. sent. Corte cost. 15 gennaio 2013, n. 1, in www.cortecostituzionale.it “L’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre, lo è ancor più se oggetto della ricostruzione ermeneutica sono le disposizioni costituzionali, che contengono norme basate su principi fondamentali indispensabili per il regolare funzionamento delle istituzioni della Repubblica democratica”.

36 P

UGIOTTO, Una questio sulla pena dell’ergastolo, in Diritto Penale Contemporaneo, rivista online, 5 marzo 2013, www.penalecontemporaneo.it

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compiuti da dottrina, giurisprudenza e dalla legislazione, non meno impegnativi di quelli già registrati dagli anni Cinquanta in poi. È opportuno, però, fare un rapido bilancio di quelli che sono, fino ad ora, i risultati raggiunti. C’è un dato che va innegabilmente segnalato a favore della centralità che negli anni ha acquisito il principio rieducativo: esso è stato concepito come una sorta di “manifesto” per consistenti riforme del sistema sanzionatorio, che hanno avuto come effetto quello di umanizzare e razionalizzare il trattamento punitivo.37 Il trattamento carcerario deve dare la possibilità ai detenuti di poter essere “rigenerati”; tant’è che si è andata sempre più affermando, nel nostro ordinamento, la presenza di un vero e proprio diritto al reinserimento sociale del reo al termine del periodo detentivo.

È dalla prospettiva rieducativa che si è preso atto della corresponsabilità della società all’origine del reato. Grazie a svariate indagini sociologiche si può capire coscientemente che alla base di molte forme delittuose vi stanno: l’assenza quasi totale di possibilità di partecipazione alla vita sociale, la permanente precarietà dei mezzi basilari di sussistenza, nonché la mancanza di sistemi comunicativi orientati in vista di valori sufficientemente condivisi.38 Proprio per questi motivi la società non può disinteressarsi di ciò che accade al di là delle mura carcerarie ed è compito, in primis, dello Stato cercare di neutralizzare le cause di disagio sociale che portano alla delinquenza. Occorre evidenziare che la rieducazione della pena, in Italia, è divenuta, in tempi più recenti, “patrimonio

della cultura giuridica europea”;39 poiché è stata in grado di introdurre una dimensione del trattamento sanzionatorio

37

FIANDACA, op. cit. pag. 339

38

FERRAROTTI, Alle radici della violenza, (Criminalità comune, terrorismo, violenza quotidiana, alla luce di un’esplosiva analisi sociologica) Rizzoli, 1979, pag. 54

39

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notevolmente innovativa rispetto al contesto storico in cui è stata pensata la nostra Carta Costituzionale.40

Importanti traguardi sono stati raggiunti, altresì, a livello Europeo, dove la finalità rieducativa ha assunto un ruolo di primordine e costituisce, ormai, un’esigenza irrinunciabile. La legislazione Europea, in materia penale, ha adottato pian piano delle misure volte a favorire, dal punto di vista della rieducazione, il reinserimento sociale del reo attraverso una disciplina che consente il trasferimento delle persone condannate nello spazio Europeo.41 Con la Decisione Quadro dell’UE n. 909, del 27 novembre 2008, la persona condannata all’interno di uno Stato membro dell’Unione Europea può essere trasferita nel proprio Paese d’origine o nel quale risiede o dove ha vincoli di natura familiare al fine di eseguire la pena, agevolando la funzione rieducativa e di reinserimento sociale. Le Istituzioni europee ritengono che la rieducazione possa essere raggiunta molto più facilmente se la pena viene scontata nel proprio Paese d’origine.

Bisogna, però, ammettere che negli anni si è assistito anche ad un fallimento dei programmi di risocializzazione, pur trovandoci in assenza di prove scientificamente inconfutabili. Sembrerebbe, quasi, che fino ad ora i progetti trattamentali non siano stati adeguatamente messi alla prova; per cui ci ritroviamo, per la verità, sprovvisti di risultati schiaccianti sul versante della rieducazione. “Così stando le cose, la scelta a favore di un ulteriore potenziamento delle prassi rieducative assume in parte i caratteri di un opzione utopica, in quanto sottende una carica di speranza”,42

ma questa dovrebbe essere la via che le nostre Istituzioni dovrebbero seguire per essere

40

NICOTRA’, Seminario A.I.C. – “il significato della pena”, in Rivista AIC, rivista

online, Roma, 28 maggio 2014, data pubblicazione: 30/05/2014, in www.rivistaaic.it pag. 1

41 N

ICOTRA’, ivi, pag. 5

42

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19

coerenti con il dettato costituzionale. Questo atteggiamento sembra corrispondere in qualche modo alla garanzia solidaristica che si ritrova nella nostra Carta Costituzionale.

Inoltre, è evidente il forte nesso che esiste tra il 3° comma dell’art. 27 e il 2° comma dell’art. 3 Costituzione e quindi tra il diritto al reinserimento sociale e il principio di uguaglianza sostanziale: nel senso che l’ordinamento giuridico ha il dovere di realizzare un programma d’interventi, affinché la pena sia idonea alla rieducazione.43

Un segnale certamente positivo, nell’ottica di un recupero del principio rieducativo, è rinvenibile dall’avvento della c.d. legge Gozzini (n. 663 del 1986) che ha apportato sostanziali modifiche all’ordinamento penitenziario. La buona riuscita di questa riforma ha, in ogni caso, dovuto fare i conti col perdurare di atteggiamenti emotivi e irrazionali della collettività, dovendosi assumere l’onere di una corretta informazione distinguendo tra allarmismi infondati e bisogni effettivi di repressione penale.44 Non basta, tuttavia, pensare a riformare solo il sistema sanzionatorio; occorre agire anche sul piano delle fattispecie incriminatrici.

Se oggi ci interroghiamo sul percorso intrapreso dalle nostre Istituzioni, nel senso della valorizzazione della finalità rieducativa, vediamo che non è possibile tracciare un prospetto totalmente positivo. Ormai, sembra essere scontato che il carcere dovrà sempre più rappresentare un’extrema ratio: l’ultima spiaggia in cui poter approdare, dopo che le altre risposte punitive si sono rivelate inadeguate. “Nonostante i notevoli spazi acquisiti nella prassi da sanzioni non detentive, gli stabilimenti penitenziari italiani

43 NICOTRA’, op. cit. pag. 4 44

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20

continuano ad essere sovraffollati, e per di più affollati da una popolazione reclutata secondo criteri largamente discriminatori”.45

Negli ultimi anni, tra l’altro, si è fatta strada, nel nostro Paese, la questione della compatibilità tra reclusione e rieducazione. Da un lato si assiste ad una lenta riduzione dell’area della pena carceraria “dovuta a forme sia esplicite sia occulte di decarcerizzazione che espungono la devianza di piccolo calibro”;46 dall’altro lato si assiste ad una forte tendenza a ricorrere alla carcerazione preventiva come strumento sanzionatorio anticipato.47 Questi due aspetti pongono fuori dai giochi la finalità rieducativa essendo quest’ultima estremamente lontana dalla carcerazione preventiva e riscontrando grandi ostacoli quando si trova dinnanzi a soggetti profondamente radicati in scelte antisociali (es: soggetti appartenenti alla criminalità organizzata).

La funzione rieducativa della pena, la si può immaginare come una sorta di “fisarmonica” che si allarga e si restringe in base al contesto storico considerato e al dibattito socio-politico: così assisteremo a momenti di vera gloria susseguiti da tracolli e viceversa.

Dinanzi a questa variegata realtà, il primo obiettivo da raggiungere dovrebbe consistere, necessariamente, nel cercare di costruire condizioni di vita rispettose della dignità umana dell’individuo all’interno di tutte le carceri: considerare i detenuti uomini prima ancora che delinquenti. Solamente partendo da fondamenta solide, edificate sull’umanizzazione della pena, è possibile ottenere la rieducazione dei condannati attraverso collegamenti più frequenti con la società libera.

45

DOLCINI, La rieducazione del condannato: un’irrinunciabile utopia? (Riflessioni sul carcere, ricordando Vittorio Grevi). Relazione tenuta al Convegno "Processo penale e valori costituzionali nell'insegnamento di V. Grevi", Pavia, 2-4 dicembre 2011, in Diritto Penale Contemporaneo, rivista online www.penalecontemporaneo.it pag. 12

46 F

IANDACA, op. cit. pag. 342

47

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In conclusione si prospettano alcuni interrogativi di fondo: dobbiamo prendere coscienza che le idee di rieducazione e di trattamento risocializzante sono state superate dalla storia (che ne avrebbe dimostrato l’inutilità e il carattere illusorio), oppure possiamo affermare che quelle idee siano ancora all’altezza di porre un freno – magari insufficiente, ma comunque utile – alla degenerazione delle istituzioni verso forme di inciviltà giuridica?48 A questa domanda l’aurorevolissimo Professor Emilio Dolcini, in una relazione tenuta al Convegno "Processo penale e valori

costituzionali nell'insegnamento di V. Grevi", ha risposto usando le

parole del suo grande maestro Vittorio Grevi il quale, commentando l’art. 1 ordinamento penitenziario, riteneva che il trattamento e la rieducazione sono delle spinte contrarie rispetto all’imbarmarimento dei sistemi penitenziari. “Fin quando rimane ferma l’idea che nel

detenuto, ancorché condannato, debba prevalere la dimensione dell’‘uomo’, come soggetto destinatario – da parte dei competenti organi statali – di un’attività diretta a consentirgli un sia pur graduale recupero verso la società civile, è chiaro come tale idea rappresenti, di per sé, il miglior baluardo dinanzi al rischio di un cedimento a prassi o, peggio ancora, a previsioni normative di contenuto inumano o degradante”.

Alla luce di ciò, attualmente il nostro ordinamento giuridico sta attraversando una fase di gestazione parlamentare per una nuova riforma organica del sistema penitenziario quasi completamente incentrata sul principio rieducativo della pena e sull’umanizzazione della stessa. Il riferimento va al disegno di legge presentato dal Ministro della Giustizia Orlando alla Camera dei deputati (approvato dalla stessa il 23 settembre 2015), ora in corso d’esame in commissione (12 luglio 2016).

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1.4 Cenni storici sull’evoluzione del carcere.

L’interesse nei confronti della finalità rieducativa della pena, da un punto di vista storico, si accompagna alla progressiva affermazione, specie in epoca moderna, della pena detentiva come modello dominante di sanzione penale.49

Il carcere è considerato il luogo per eccellenza di esecuzione della pena detentiva a partire dalle riflessioni degli illuministi durante il corso del XVIII secolo; anche se tracce di entità non sociale erano già presenti fin dalle origini dell’uomo. Le carceri nacquero con il sorgere della società civile e svolsero, almeno inizialmente, la funzione di allontanare dalla vita sociale quei soggetti che avevano attentato o potessero attentare la civile convivenza.50 Fin da subito le condizioni di restrizione della libertà personale furono soggette a regimi durissimi, le testimonianze più lontane descrivono sistemi di prigionia indecenti, carceri obbrobriose e presupposti di vita umana disastrosi.

Bisogna aspettare la seconda metà del XVIII secolo per poter assistere a un graduale mutamento dell’istituzione penitenziaria, sopratutto grazie alla sorprendente attività, in Italia, di Cesare Beccaria con il suo “Dei delitti e delle pene” e in Inghilterra con le idee propugnate da John Howard tramite la sua celebre opera “The

state of prison”. Howard, dopo aver accuratamente verificato nel

proprio Paese le condizioni in cui versavano le carceri e dopo aver toccato con mano il polso delle diverse realtà carcerarie presenti nel continente Europeo, denuncia, in un’ampia opera, quelli che sono gli abusi, le atrocità patite nei penitenziari dai reclusi e

49

FIANDACA, op. cit. pag. 285

50

BRUNETTI – ZICCONE, Manuale di diritto penitenziario (principi generali, amministrazione penitenziaria, magistratura di sorveglianza, trattamento, sanzioni, misure di sicurezza), Casa Editrice La Tribuna, Piacenza 2005, pag. 33

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l’irrazionalità del sistema sanzionatorio vigente. Nasce così un movimento ideologico diretto alla trasformazione delle carceri da luoghi di crudeltà in luoghi di rigenerazione.51 Va ricollegata a queste evoluzioni ideologiche, culturali e sociali la nascita del carcere in senso moderno: carcere che non è più circoscritto all’esclusiva costrizione fisica del reo, ma che è in grado di prevedere una linea trattamentale, nei confronti di tutti i condannati, che non si limita all’uso delle abituali pene.

Tradizionalmente si possono individuare tre distinti modelli di carcere, susseguitisi cronologicamente uno dopo l’altro.

Il “nuovo” carcere si sviluppa, per la prima volta, verso la fine del XVIII all’interno del penitenziario di Wallnutt Street, nella città di Filadelfia in Pensylvania, ad opera dei Quaccheri (setta della religione anglicana).52 Qui trova attuazione un regime d’isolamento totale, sia di giorno che di notte, venendosi a creare una sorta di segregazione cellulare continua dove la vita viene regolata minuto per minuto. L’ideologia che sta alla base di questo modello, detto

modello filadelfiano, è la convinzione che il carcere sia di per sé

capace di rieducare: quasi che dalle mura trasudasse l’idea di un uomo in grado di ritornare alla società, rispettoso delle leggi. Secondo la logica illuministica l’isolamento più totale avrebbe indotto il detenuto ad assorbire completamente la disciplina e l’ordine della struttura, nella convinzione che sia l’impersonalità della struttura che l’uniformità del trattamento vadano ad incidere in modo positivo sulla personalità del singolo detenuto.

L’edilizia carceraria subisce delle ripercussioni a seguito di questo mutato clima e diventa il simbolo del modo di concepire la pena detentiva. Significativo è, a tal riguardo, il Panopticon di Jeremy

51 B

RUNETTI – ZICCONE, op. cit. pag. 36

52

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Bentham. Egli aveva ipotizzato la creazione di un edificio a forma circolare, dove ogni cella poteva ospitare un solo detenuto e dei quattro lati che la componevano soltanto uno era aperto; cioè il detenuto non poteva vedere né l’esterno del carcere né gli altri detenuti perché sia il lato esterno sia i tramezzi laterali della cella non avevano aperture, per cui c’era solo un lato scoperto che dava su un cortile interno al carcere, al centro del quale si poneva una torretta da cui le guardie erano in grado di sorvegliare i detenuti 24 ore su 24.53 Il Panopticon non fu, comunque, mai realizzato.

Gli inizi dell’Ottocento sono caratterizzati da un’accesa polemica sulla validità ed efficacia del sistema filadelfiano di segregazione cellulare continua, tant’è vero che esso venne abbandonato quasi ovunque. Nel momento in cui ci si rende conto che l’idea del carcere, che di per sé rieduca è solo un’utopia, avendo costatato che, in realtà, i penitenziari non sono né in grado di rieducare né tantomeno hanno la capacità di trasformare una persona, si passa ad una seconda fase caratterizzata dal modello auburniano. Tale modello, intrapreso nel 1816 nel carcere della città di Auburn, nello Stato di New York “esaltò il lavoro come strumento fondamentale di autodisciplina, di moralità e quindi di trattamento”.54

Il fondamento ideologico che anima questo secondo modello è quello secondo il quale la trasformazione dell’individuo avviene anche grazie alla possibilità, prevista per il detenuto, di avere contatti con gli altri carcerati. Il carcere inizia pian piano a diventare un’esperienza di socialità: si prevede l’isolamento in cella durante la notte, mentre si prescrive il lavoro in comune di giorno ancorché nella regola del silenzio. Nelle carceri dell’Ottocento si afferma il principio di classificazione dei detenuti allo scopo di impedire “la

53

Cfr. BENTHAM, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Foucault e

Perrot, Marsilio, Venezia, 1983.

54

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promiscuità di soggetti diversamente pericolosi, da cui si origina il contagio criminale”.55 Ed è proprio attraverso l’opera di differenziazione dei detenuti che s’inizia a dare un più ampio rilievo alla personalità dei singoli detenuti. Questo modello apre la strada verso un “trattamento individualizzato che costituisce uno dei capisaldi della politica penitenziaria moderna”.56

Verso la fine del XIX secolo viene, definitivamente, meno la fiducia incondizionata nella capacità del carcere di rieducare. Si giunge così ad una terza fase nella quale il carcere diventa l’extrema ratio, un luogo da evitare soprattutto per certe pene (quelle di lieve entità). Si afferma pian piano l’idea che il carcere non è un luogo che rieduca, anzi, appare addirittura come un male estremo. La vera rivoluzione ideologica sta nel fatto che “il carcere, in questa prospettiva, non è tanto l’istituzione che rieduca, quanto l’istituzione dove si rieduca: il luogo dove si emendano gli spiriti, e non il mezzo che li trasforma”.57

In questo stadio emerge, per la prima volta, l’idea del gradualismo trattamentale: si passa da un trattamento di massa dei detenuti ad un trattamento individualizzato, espressione di un’evoluzione del concetto di detenuto inteso per la prima volta come persona che deve ricevere un trattamento specifico plasmato alle sue esigenze e alle sue cause di disadattamento sociale. Questa fase è caratterizzata dal modello irlandese58 e abbraccia l’idea della progressività del trattamento, secondo la quale, al progressivo modificarsi di atteggiamenti interiori corrisponde una modifica qualitativa del regime disciplinare. Infatti, con questo metodo si stabilisce che in

55 P

ADOVANI L’utopia punitiva (il problema delle alternative alla detenzione nella sua dimensione storica), Giuffrè Editore, Milano 1981, pag. 29

56

PADOVANI, ivi, pag. 30

57

PADOVANI, ivi, pag. 33

58 B

RUNETTI – ZICCONE, op. cit. pag. 37. Modello sorto in Irlanda per opera di Sir Walter Crofton, ispettore generale delle prigioni irlandesi.

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un primo momento del trattamento, la persona condannata alla pena detentiva deve entrare in carcere e scontare una parte della pena, senza possibilità di lavoro; poi se mostrerà di incamminarsi nel percorso rieducativo, e quindi di seguire il trattamento carcerario in modo positivo, potrà ottenere dei benefici come la possibilità di lavorare all’esterno o all’interno del carcere, la possibilità di uscire in permesso premio, la possibilità di accedere alla misura alternativa della semi-libertà in cui parte del giorno è trascorsa fuori dal carcere per lavorare; infine, in un terzo momento se il percorso rieducativo si sta svolgendo in modo proficuo si potrà addirittura ottenere una liberazione anticipata attraverso l’affidamento in prova al servizio sociale o con la liberazione condizionale.

In questa terza fase si consente di anticipare l’uscita dal carcere, dato che quest’ultimo viene ritenuto sempre più un luogo dove la rieducazione non può intervenire. Questo spiega perché, per le pene detentive brevi, si cerca proprio di evitare il carcere; in quanto, da un lato, agevola il contatto con gli altri detenuti, favorendo quindi un ambiente criminogeno e fungendo da elemento moltiplicatore di comportamenti devianti, dall’altro lato, la pena detentiva breve ha tempistiche così ristrette che qualsiasi progetto di risocializzazione e di rieducazione non avrebbe spazio per essere sviluppato.

Per quanto riguarda la flessibilità del trattamento, essa testimonia una conseguenza diretta dell’individualizzazione penitenziaria: “se questa esprime l’esigenza che i mezzi dell’educazione carceraria siano commisurati a ciascun condannato, il suo fondamento deve consistere in un’osservazione permanente della personalità”.59

Quest’ultimo modello carcerario è quello che viene seguito nel nostro ordinamento giuridico: infatti se leggiamo la legge di ordinamento penitenziario, la n. 354 del 1975, vediamo come la

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logica trattamentale stia alla base di quasi tutti gli istituti del regime disciplinare; diciamo quasi tutti perché possiamo intravedere ancora oggi pochi istituti dove questa logica trattamentale non la si ritrova: il riferimento va all’art. 41bis della suddetta legge.

Tuttavia, l’Italia si è ancorata a questo modello non senza ritardi storici. Tra il 1850 e il 1860 si sviluppò l’indirizzo così detto

correzionalista, secondo cui la pena tendeva a correggere

moralmente il colpevole riadattandolo alla vita sociale, che diede vita al principio della funzione educativa della pena. Gli svariati dubbi sorti con la scuola correzionalista vennero ad essere fugati con la scuola positiva del diritto penale, capeggiata da Lombroso e Ferri, la quale gettò le premesse per l’evoluzione della scienza penitenziaria. Tramite questo processo evolutivo delle forme di trattamento si è giunti a quello che è all’attuale modello riabilitativo, “che individua nell’inadeguatezza psicologica e nella carente socializzazione le caratteristiche essenziali dei soggetti devianti, e prospetta, per rimediare a queste deficienze, un trattamento tecnico gestito da specialisti”.60

1.5 Il trattamento penitenziario.

Con la legge n. 354 del 26 luglio 1975, intitolata «Norme

sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà» e con il successivo DPR n. 431

del 29 aprile del 1976 con il quale è stato approvato, l’ormai abrogato, regolamento di esecuzione della legge penitenziaria, il Legislatore italiano ha realizzato un progetto di riforma, in materia penitenziaria, che è stato in grado di dare attuazione al mandato costituzionale ex art. 27, 3° comma Costituzione ed è stato, al

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contempo, capace di recepire i principi proposti dalla normativa internazionale sui diritti umani.61 In particolare, ci si riferisce alle indicazioni contenute nelle risoluzioni adottate dall’ONU e dal Consiglio d’Europa verso la seconda metà del Novecento. Prime tra tutte dobbiamo menzionare l’insieme delle Regole minime per il

trattamento dei detenuti, di cui alla risoluzione ONU del 30 agosto

del 1955, che verte sulla materia trattamentale e sulla condizione detentiva globalmente considerata e la Carta dell’ONU sui principi di protezione delle persone sottoposte ad ogni forma di detenzione o imprigionamento, contenuta nella risoluzione ONU 43/173 del 9 dicembre del 1988. Infine, meritano attenzione le regole

penitenziarie europee, contenute nell’allegato alla raccomandazione

approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12 febbraio 1987, che costituiscono la versione aggiornata delle regole

minime per il trattamento dei detenuti adottate nel 1973.

Così facendo, la legge sull’ordinamento penitenziario, ha mutato radicalmente le linee guida che stavano alla base del trattamento dei detenuti. L’intera disciplina del trattamento penitenziario, è stata pensata dal Legislatore del ’75, in modo tale da porre come baricentro la figura del detenuto quale protagonista attivo del trattamento in istituto e come fine ultimo dell’esecuzione penitenziaria dal punto di vista della rieducazione. “Lo status di detenuto o di internato non solo non fa venir meno la posizione di soggetto titolare di diritti, ma ne attribuisce di nuovi”;62 il detenuto, prima di tutto, va considerato come persona.

Il titolo primo della legge del ’75 è dedicato al trattamento penitenziario; la collocazione sistematica prevista per tale disciplina non è affatto casuale, ma è frutto di una scelta oculata operata da

61 B

RUNETTI – ZICCONE, op. cit. pag. 209

62

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parte del Legislatore che ha deciso di dare una primaria ed assoluta attenzione al trattamento previsto per i detenuti.

L’art. 1 è rubricato “Trattamento e rieducazione”; esso sancisce che:

“ Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l'ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome. Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”

L’impegno assunto, da parte del Legislatore, di attuazione dei principi costituzionali, a proposito della fase esecutiva della pena, viene cristallizzato all’interno di tale articolo. L’art 27, 3°comma Cost., d’altronde, delimita il perimetro d’azione delle scelte che verranno compiute dal Legislatore penale e penitenziario; per cui, la finalità della rieducazione si presta ad essere l’obiettivo principe da perseguire tramite tutta una serie di attività, operazioni ed interventi destinati per coloro la cui libertà personale è stata ristretta, in quanto stanno espiando una pena.

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L’art. 1, della legge sull’ordinamento penitenziario, può essere concepito come una sorta di “stendardo” della filosofia politica complessiva cui prende ispirazione l’intero testo della legge del ’75, ed alla quale i diversi operatori sia giuridici sia amministrativi sono tenuti ad adeguarsi.63

Da una rapida lettura della disposizione, ciò che colpisce è l’uso frequente che fa il Legislatore del termine “trattamento” declinandolo di volta in volta in diverse accezioni. Da un punto di vista lessicale si devono, perciò, sottolineare delle evidenti differenze tra l’uso della formula adoperata al 1°comma: <<trattamento penitenziario>> - o più brevemente, con analogo significato, quella utilizzata al 2° e al 5° comma: <<trattamento>> - e la formula adoperata al 6°comma che parla di <<trattamento

rieducativo>>. Si tratta di una distinzione non occasionale in cui si

può ravvisare la piena consapevolezza, da parte del Legislatore, “circa la diversa valenza che l’attività di trattamento deve assumere a seconda che sia, o non sia, diretta verso la finalità rieducativa”.64 La locuzione <<trattamento penitenziario>> è una formula di ampio respiro capace di ricomprendere al suo interno quell’insieme di norme “che regolano e assistono la privazione della libertà per l’esecuzione di una sanzione penale”;65 più semplicemente, è

quell’insieme di attività e di regole che sono predisposte nell’istituto

63

GREVI, Ordinamento penitenziario: commento articolo per articolo / Vittorio

Grevi, Glauco Giostra, Franco Della Casa ; con la collaborazione di Alessandro Bernasconi ... [et al.], Terza edizione a cura di Franco Della Casa. CAEDAM, 2006, pag. 10

64

GREVI, ivi. pag 7

Cfr. DI GENNARO, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione:

commento alla legge 26 luglio 1975 n.354 e successive modificazioni, con riferimento al regolamento di esecuzione e alla giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione/ Giuseppe Di Gennaro, Renato Breda, Giuseppe la Greca, Milano, Giuffrè, 1997, pag 48

65

CANEPA- MERLO, Manuale di diritto penitenziario: le norme, gli organi, le modalità dell’esecuzione delle sanzioni penali/ Mario Canepa, Sergio Merlo. Terza edizione, 1993, Giuffrè Editore, pag. 97

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a favore dei detenuti seguendo la logica della legalità.66 Rientrano, quindi, all’interno del trattamento penitenziario le norme dirette a tutelare i diritti dei detenuti, i principi di gestione degli istituti penitenziari, le regole che attengono alle somministrazioni ed alle prestazioni dovute a chi è privato della libertà.67 Tale espressione riguarda qualunque tipo di detenuti, indipendentemente dal loro status giuridico: i condannati, gli internati, gli imputati in custodia, visto che è orientata a definire i contorni delle regole e delle modalità penitenziarie che reggono la vita dei reclusi, garantendo il rispetto della legalità.

La locuzione <<trattamento rieducativo>> prevede un ambito di applicazione più ristretto rispetto a quello appena visto, infatti, essa viene impiegata con esclusivo riferimento ai condannati (o agli internati) “in quanto istituzionalmente destinatari di interventi diretti alla loro rieducazione, intesa come reinserimento sociale”.68 Tale trattamento sarà, invece, riservato ad indicare tutte le operazioni specifiche che l’amministrazione penitenziaria è chiamata a compiere al fine di ottenere la risocializzazione della persona.69 Tra queste due formule, allora, si può individuare uno stretto rapporto di genus a species. Il trattamento rieducativo rappresenta una parte del trattamento penitenziario; si può affermare, allora, che, nel quadro generale e nei principi di gestione che regolano le modalità di privazione della libertà personale del reo, s’innesta il dovere da parte dell’ordinamento giuridico di attuare l’esecuzione

66 Compendio di diritto penitenziario: organizzazione e servizi degli istituti

penitenziari; analisi ragionata degli istituti, domande più ricorrenti in sede d'esame, Napoli, Edizioni giuridiche Simone, 2006, pag. 145

67

BRUNETTI – ZICCONE, op. cit. pag. 224

68 G

REVI, op. cit. pag. 7

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delle pene o delle misure di sicurezza in modo da assicurare il rispetto del principio di cui all’art. 27, 3° comma Costituzione.70 Parallelamente, questo rapporto di genere a specie, lo si ritrova all’interno del Art. 1 del regolamento di esecuzione, il quale prevede al 1° comma che il trattamento consiste nell'offerta di interventi che sono diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali dei detenuti imputati; mentre, al 2° comma sancisce che trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a favorire un percorso di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, e anche delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale.

Il trattamento penitenziario, viene concepito come “un’offerta” di interventi: ciò vuol dire che l’adesione, da parte dei detenuti, alle attività trattamentali è libera (questo vale anche se si parla dei condannati). Si presuppone un’adesione totalmente volontaria visto l’assenza di qualsiasi segno impositivo, anche perché non sono ammessi metodi o tecniche capaci d’incidere con violenza sulla psiche del detenuto, di cui va tutelata, in ogni caso, l’integrità personale sia fisica che morale. I detenuti condannati non sono più obbligati, come un tempo, ad assoggettarsi alle attività trattamentali, ma dall’art. 1 della legge penitenziaria del 1975 e dall’art. 1 del regolamento di esecuzione del 2000 si evince un non equivoco dovere, da parte degli organi dell’amministrazione penitenziaria, di attivarsi per assicurare l’offerta trattamentale avente quale scopo la risocializzazione dei detenuti.

Da ciò discende un vero e proprio “diritto al trattamento in capo ad ogni singolo detenuto; un diritto, che per sua natura, presenta il carattere della irrinunciabilità” 71 da parte dei suoi titolari.

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Sebbene l’art. 1 ord. penit. abbia un indubbio tono enunciativo, non può essere ridotto alla stregua di una mera “proclamazione di stampo retorico”;72

esso anzi mira a proiettare e tradurre i principi costituzionali dettati in materia, nell’ambito della disciplina penitenziaria, sforzandosi di plasmarli in relazione a quelle che sono le esigenze basilari della materia penitenziaria.

Analizzando il 1° comma dell’articolo in questione, si può notare fin da subito che la forza delle parole adoperate permette di andare sicuramente oltre il senso di umanità (come canone minimo di protezione dell’individuo durante la fase di esecuzione della pena) richiamato nella prima parte del 3° comma dell’art. 27 Cost.

A tale conclusione ci si è giunti, grazie al ruolo di primordine che è stato attribuito, da parte del Legislatore del 1975, all’espressione

dignità della persona. Quest’ultimo, così facendo, ha reso palese

l’intento di porre il detenuto, quale persona, come cuore propulsore del sistema penitenziario. Ed è dall’accento posto su questa esigenza, quale proiezione sul piano penitenziario del principio sancito all’art. 13 4° comma Costituzione (“E` punita ogni violenza

fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”) che si fonda “il principio dell’autodeterminazione del

condannato, da cui deriva il divieto di impiego di strumenti coercitivi per finalità di trattamento”.73

Il trattamento penitenziario deve essere, inoltre, improntato ad assoluta imparzialità, garantendo pari condizioni di vita per tutti i detenuti. Il riferimento deve leggersi, ovviamente, rispetto all’art. 3 della nostra Carta Costituzionale che proclama il principio di

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GREVI, op. cit. pag. 7 e 8. La necessaria tutela dei diritti e della personalità dei soggetti reclusi è stata messa in particolare evidenza nella sentenza della Corte Costituzionale 2000/526, in materia di perquisizioni personali ex art 34 O.P. in www.cortecostituzionale.it

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REVI, ivi, pag. 10

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