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3. Verso i territori sospesi

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3.

Verso

i territori sospesi

Fin qui il percorso culturale, economico, territoriale e sociale che riguarda il passato delle aree oggi chiamate interne. Ci occupiamo a questo punto di indagare con più attenzione la temperie culturale che si sviluppa intorno al tema oggetto di interesse secondo il profilo urbanistico e sociale.

Il precedente capitolo interrompe il suo percorso cronologico alla metà del secolo scorso. Tale cesura non è casuale se si considera che a partire dal secondo dopoguerra a oggi si avvia un processo asso-lutamente inedito nella storia dell’uomo e dei suoi territori. Le tra-sformazioni che lo caratterizzano sono di portata tale da compro-mettere o alterare, talvolta definitivamente, l’assetto paesaggistico, l’equilibrio ambientale, le relazioni sociali ed economiche pro-prie di ogni contesto. Il tutto avviene in tempi molto rapidi, fino ad allora sconosciuti all’uomo e alla sua esperienza civica.

Tali aspetti della modernità e della post-modernità sono al centro da decenni della riflessione e dell’attività di studiosi ed esperti che settorialmente o trasversalmente approfondiscono aspetti critici della nuova società e dei suoi effetti e che incontreremo in questo capitolo.

Per parte nostra ci limiteremo soltanto a considerare gli svilup-pi del pensiero sulle campagne, sui territori rurali, sul loro

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passa-to e sul loro destino futuro, con un occhio di riguardo all’attività degli architetti e degli urbanisti, dei pianificatori e dei paesaggi-sti, dei sociologi e degli antropologi, che si occupano di questi ar-gomenti. In questo excursus manterremo a riferimento la proble-matica delle aree interne, cercando di cogliere quegli aspetti che hanno animato il dibattito culturale sotto diversi aspetti, che pro-prio in questi territori trovano una declinazione particolare.

3.1 Settant’anni che valgono secoli

Sulla strada della parità

Giova però ripercorrere brevemente alcuni dei passaggi che inte-ressano sul piano generale le campagne, oggetto del nostro stu-dio. Dalla cesura indicata nella premessa, quella che fra le due guerre era stata capace di elevare ai fasti del regime facista le masse agricole, donne comprese trasformate da contadine in massaie rurali, inizia un percorso sconvolgente ben descritto da Corrado Barberis nel suo recente La rivincita delle campagne.1

Dei cambiamenti in atto se ne ha immeditamente la percezione tanto che già a partire dagli anni Sessanta, gli istituti di statitisti-ca e l’Insor, che si occupa di sociologia rurale, iniziano a riflettere sulla quantificazione e la qualificazione dei territori rurali in Italia. Si elaborano criteri atti alla classificazione dei comuni; se ne cer-ca un perfezionamento rispetto a quelli formulati in sede europea e attraverso di essi si osservano linee di tendenza che ci parlano di un’Italia che corre verso la città fino a metà degli anni Settanta e che poi progressivamente torna in campagna, con livelli differen-ziali da regione a regione. La nuova ruralizzazione, in particolare, appare come un fenomeno più ricorrente al centro e al nord e può leggersi come un aspetto del benessere contemporaneo.2

L’autore si interroga sulle cause di questo controesodo, sulle ragioni sociali, non certo meno importanti di quelle economiche, per

descri-1 Barberis C., La rivincita delle campagne, Donzelli Editore, Roma, 2009.

2 Il tema della definizione della ruralità rappresenta una prima significativa difficoltà. Il con-testo internazionale si mostra in tal senso plurale e non omogeneo. Ciò, stante un effettiva molteplicità dell’organizzazione e delle condizioni delle campagne europee, rappresenta un elemento di notevole complessità. Per le tre definizioni principali, elaborate dall’OCSE, dall’ISTAT e dall’ INSOR, si rimanda a: Barberis C., Il mondo rurale dalla povertà

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vere un fenomeno che proprio dal punto di vista sociale è di estremo interesse: “oggi ci si accorge che, a ricreare alcuni aspetti

dell’an-tica società fuori del suo contesto di miseria, le cose andrebbero meglio: perché le persone con cui si litigava erano poi quelle con cui si scherzava e si rideva; perché l’occhio che faceva i conti nella tasca del vicino lo proteggeva anche dai ladri e perché la stessa promiscuità dei bambini era pur sempre una forma di socializza-zione. Che soddisfazione per l’ex contadina degli anni Cinquanta o Sessanta comprare finalmente in bottega ciò che le faceva più gola. Ma quale lusso alle soglie del Duemila un proprio orto, un suino… Solo dopo aver goduto l’anonimato si apprezza la partecipazione”.3 Lo studio di Barberis, realizzato nei primi anni Duemila, mostra una campagna in pareggio rispetto alla rivale città. Una parità che nasconde al suo interno molte differenze, come nel caso degli in-vestimenti e della loro direzione di impiego e provenieza, o del tutto analoga come per gli indicatori del reddito e dei consumi; ampiamente raggiunto anche il livellemento in tema di abitazioni e servizi alle dimore.

Un’ omogeneità fra campagna e città che si riscontra anche nella struttura demografica della popolazione e nella composizione dei nuclei familiari. Perfino la percezione politica del sistema bipo-lare italiano non faceva registrare differenze (per lo meno fino alla fine degli anni Duemila).

Cosa ha generato questo progressivo livellamento? Quesito com-plesso, ma sembra interessante la chiave di lettura data da Barberis che riflette sulla composizione di quell’esodo dalle campagne tipico degli anni del boom economico. Questo impetuoso movimento non riconvertì alla vita operaia masse contadine senza speranza ma pro-vocò l’allontanamento dall’agricoltura (non sempre necessariamente dalla campagna) di contadini e mezzadri, che nella fertile dimensione del podere avevano accresciuto le proprie competenze e capacità imprenditoriali. Competenze e capacità riconvertite in decenni di successi industriali, commerciali e di impresa anche nelle campagne ma più spesso in città.

Malgrado le varie dinamiche in atto, ciascuna con la propria forza l’equiparazione fra i livelli dell’abitare in campagna in città sono una realtà. Parallelamente alle condizioni economiche si livellano anche i costumi tradizionali, quelli religiosi per esempio, e l’agricoltura che

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anche in campagna non rappresenta più del 5% del Pil e che va via via trasformandosi da settore economico a ideologia, spesso foraggiata da miopi misure concordate a livello europeo, che attraverso formule finanziarie di sostegno, fanno passare il messaggio che sia più conve-niente non produrre piuttosto che produrre; il passo che trasforma l’agricoltore in un burocrate è effettivamente molto breve se si con-sidera che il materiale cartaceo prodotto in un anno da un’azienda agricola equivale a 3,5 km di distanza fisica fra due punti nello spazio.4

Nel contempo si debbono considerare i gravi esiti dell’abbandono di una larga parte di terre in coltivazione fino a pochi decenni fa; tali fenomeni, che hanno riguardato in prevalenza la collina e la monta-gna, confermano il paradosso caro ad Alfonso Alessandrini che indi-ca il nostro paese come ricco di foreste povere. Un’espressione così significativa ci indica chiaramente come la gran parte della superficie agricola persa negli ultimi trent’anni (più di 3 milioni di ettari) sia in gran parte diventata terra di abbandono. Ciò significa che l’Italia non è tutta cemento malgrado aree fortemente critiche come il contesto Romano, in cui si è scelto di proseguire l’espansione delle periferie anche quando la dinamica demografica passava alla decrescita. Interessante in conclusione notare come la parità sia una condizione che viene raggiunta in assenza di istituzioni esplicitamente volte a promuoverla.5

Ricorrenze sociali fra città e campagna

Valerio Merlo studia le dinamiche demografiche e mostra con evi-denza le radici del processo di incremento della popolazione nei territori definiti dall’Insor come rurali: fenomeno avviatosi già con le rilevazioni censuarie del 1981 e più ancora con quelle del 1991 e del 2001 che attestano da un lato la pesante flessione del-le grandi città e dei comuni capoluogo, dall’altro il consolidamen-to della ripresa demografica rurale con un +4,5% di popolazione in venti anni.6 I valori si avvicinano nei primi anni del nuovo secolo,

4 Uno dei meccanismi economici a sostegno della produzione agricola in ambito europeo è il cosiddetto “disaccoppiamento”. In buona sostanza, gli agricoltori vengono remunerati non più per quello che producono, ma per quello che producevano negli anni considerati come serie storica. Ciò involontariamente, e grazie alle vulenrabilità del mercato e dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli, ha innescato un paradosso che consiste nel fatto che si guadagni di più non producendo.

5 Barberis C., op.cit., pp. 23-28.

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– Cortina d’Ampezzo oggi - Belluno

– Cortina d’Ampezzo negli anni Cinquanta - Belluno

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quando sulla spinta all’incremento demografico generale, dovuto in particolare al contributo dell’immigrazione, anche le città aumentano il numero di abitanti; ma gli anni dieci invertono immediatamente il segno e complici gli effetti della grave crisi economica la popolazione torna a diminuire un po’ ovunque. L’analisi dei flussi ci dice poi come il saldo positivo delle zone ru-rali non sia causato dalla crescita naturale bensì dalle migrazioni interne; contrariamente alla città infatti, in campagna i saldi na-turali negativi sono compensati da saldi migratori positivi. Il fe-nomeno si presenta come diffuso e ben radicato soprattutto al centro-nord, mentre nel sud e in generale nei territori montani ha ancora sembianze più sfocate. Ciò testimonia che la redistribu-zione spaziale della crescita demografica in atto non favorisce ge-nericamente i piccoli comuni a scapito di quelli più grandi, bensì quelli più verdi. Né d’altro canto sembrano sfuggire da logiche de-pressive i piccoli centri urbani, incapaci di soddisfare certi livelli di qualità ambientale e sociale. Eccezion fatta per il sud, dove le difficoltà dei comuni rurali sono più forti e a una denatalità anche in questa parte di territorio ampiamente consilidata, si sommano le pesanti conseguenze di un deflusso migratorio consistente. Anche in questo ambito le marcate differenze fra nord e sud Italia sono da interpretarsi come esiti di processi per cui, mentre al setten-trione si assisteva alla diversificazione dell’economia rurale grazie al decentramento industriale prima e alla transizione post industriale poi, al mezzogiorno si scontavano i gravi ritardi sul piano dello svi-luppo industriale. Gran parte del territorio rurale del centro-nord appare oggi interessato dal processo di “rururbanizzazione”, con-cetto sempre più largamente usato per descrivere le utilizzazioni neorurali dello spazio rurale a cominciare da quello periurbano, un fenomeno strettamente collegato all’avvento della società postin-dustriale e postmoderna nell’ambito della quale la crisi urbana e il territorio rurale vengono investiti da nuove funzioni (residenziali, turistiche, tecnologiche) che si aggiungono o sostituiscono quella produttiva agricola tradizionale, con esiti non sempre positivi.7

Tali fenomeni, compresa una modesta crescita demografica, ri-guardano al centro-nord anche i comuni della montagna rurale così come definiti dall’Insor e non dall’Istat, esito in particolare del movimento migratorio che compensa gli alti tassi di natalità e di mortalità, i più alti di Italia. In alcune zone alpine del

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to si assiste a una nuova forma di esodo dalla montagna urbana a quella rurale, particolarmente evidente in quelle realtà che hanno determinato il proprio sviluppo su una trasformazione del valore della montagna. Emblematico il caso di Cortina d’Ampezzo, dove al pari dei grandi centri urbani si assiste all’espulsione della popo-lazione residente in conseguenza di processi economici che margi-nalizzano gli insediati e favoriscono i villeggianti di seconde case. In questo quadro all’Italia meridionale spetta il primato di ru-ralità mentre Lombardia e Liguria sono le regioni più urbane. Per quanto si assista sempre più a una generale equivalenza del-le condizioni e dei costumi sociali fra città e campagna, si segna-la come gli ultimi decenni abbiano prodotto difficoltà significative sui tassi di incremento naturale della popolazione, più negativi nel mondo rurale che non nell’urbano. Parliamo comunque di differen-ze molto piccole in un trend generale di crescita modesta o nulla. Per di più poi non vi sono discrepanze sostanziali sulla struttu-ra demogstruttu-rafica delle famiglie; se un tempo l’esodo verso la città lasciava in campagna una società vecchia e in larga parte domi-nata dalla presenza femminile, oggi i livelli di consistenza del-le classi di età maggiori sono confrontabili in campagna come in città. Leggermente maggiore il numero di anziani in campagna (indagini empiriche confermano il fenomeno del ritiro in campa-gna dei pensionati che fanno così del riposo dal lavoro una della cause di mobilità residenziale verso il mondo rurale), a fronte di un non meno consistente numero di giovani rispetto alla città. L’epoca d’oro della famiglia è poi definitivamente tramontata an-che in campagna dove, come in città, si assiste alla contrazione del-la famiglia complessa in favore di queldel-la a composizione nucleare. Fra queste ultime, quelle cioè composte da un solo nucleo familia-re, il modello tradizionale su base matrimoniale con due figli resi-ste alla prova dei tempi rappresentando poco più di un terzo del dato generale; ma avanzano pure le famiglie senza figli, quelle mo-noparentali e quelle unipersonali, sintomo evidente di una diffusa disaffezione verso la famiglia, tanto in città quanto in campagna. E’ definitivamente passato il modello della famiglia numerosa so-prattutto rurale e addirittura la famiglia coltivatrice, dai dati relativi al censimento del 2001, risulta mediamente inferiore in termini di componenti al valore medio, segno di una senilizzazione dell’atti-vità agricola. Solo il ripopolamento periurbano, di zone di campa-gna, che in epoca recente hanno conosciuto una crescente domanda residenziale, riguarda giovani famiglie con figli, come avviene del

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resto anche in altri paesi europei a cominciare dalla Francia. E an-che in Italia si assiste a movimenti analoghi come attestato dalle indagini multiscopo Istat realizzate nei primi anni Duemila.

Rispetto a quest’analisi, fatta di indicatori estesi a scala nazionale, si deve registrare l’influenza sincrona della generale crisi economi-ca, che se da un lato ha forse provocato variazioni poco significati-ve sui costumi familiari fra città e campagna, ha inciso profonda-mente su dinamiche in atto da decenni nei comuni rurali specie in quelli periurbani. La crescente domanda di residenza sviluppatasi in queste zone aveva assunto infatti i caratteri di un fenomeno di studio: in questi comuni circa il 22% del totale degli edifici esistenti è stato realizzato nel ventennio 1980 – 2000. In generale però pro-prio nei comuni rurali è maggiore l’obsolescenza dei fabbricati e la vetustà con oltre il 17% del patrimonio realizzato ante il 1920; un dato anche numericamente maggiore rispetto alle città (1408931 di edifici vecchi quasi un secolo in campagna contro 1390503 in cit-tà). Se ne deve concludere dunque che è sbagliato concentrare tutta l’attenzione sulla conservazione e il recupero del patrimonio archi-tettonico nei centri storici importanti, dimenticando l’esistenza di un patrimonio edilizio rurale pregevole e abbandonato. E se nelle successive fasi storiche novecentesche lo sviluppo edilizio urbano ha fatto la parte del leone, per la campagna questo ha significato espansione degli insediamenti, non sempre fortunata, e più in ge-nerale un miglioramento delle condizioni abitative. Città e campa-gna si somigliano per dotazioni igieniche domestiche, per confort termico, per esiguità di posti macchina e per contrazione di servi-zi. Parimenti emergono contaminazioni tipologiche nella diffusio-ne di tipi edilizi non conformi alla tradiziodiffusio-ne rurale: è il caso del-le vildel-lette a schiera divenute embdel-lema della campagna neoruradel-le.8

Nel saggio di Cristina Salvioni, Dario Sciulli e Carlo Aiello, l’indagi-ne statistica si concentra sugli indicatori socio-economici di relazio-ne fra la camapagna e la città. Prendendo a riferimento la categoria rurale così come individuata dall’Insor, i tre ricercatori mostrano la sostanziale parità dei livelli di consumo e in taluni casi anche di red-dito fra comuni rurali e non nella media del Paese, con significativi divari però nelle singole aree geografiche; il Mezzogiorno in parti-colare manifesta un gap più ampio fra le condizioni di vita rurali e quelle urbane. La sintesi mostra una realtà nazionale in cui i livelli di reddito della campagna salgono nel decennio 1995-2006 e quasi

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proporzionalmente scendono quelli delle famiglie non rurali. Mar-cate le differenze fra i redditi percepiti in relazione al numero di com-ponenti, al grado di istruzione, al genere e alla condizione professio-nale del capofamiglia; se poi si esamina il reddito medio equivalente delle famiglie rurali emergono le velocità diverse del sistema Paese che legano il sud a livelli molto bassi, esito di un appesantimento verso le classi demografiche più alte dovuto all’emigrazione e alla mancanza della diversificazione e della riqualificazione agricola, fe-nomeno invece molto consistente nelle ragioni del nord e in partico-lare in quelle del centro. Altro elemento di differenziazione è la pro-venienza del reddito che incide in negativo laddove i nuclei familiari hanno una esclusiva dipendenza di questa voce dal settore agricolo. In ultimo quindi se da un lato emerge sempre più un livellamento urbano-rurale dall’altro aumenta il divario fra i vari ambiti geografici del Paese, per i diversi fattori: strutturali interni all’organizzazione delle attività e delle famiglie, e esterni dovuti alle difficoltà endemi-che dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia. Oltretutto tale traietto-ria stenta a ritrovare i segni di una ripresa della sua crescita relativa.9

Un mercato del lavoro unico

Valerio Merlo riflette sul mercato del lavoro delle aree rurali e sul-la composizione delsul-la struttura sociale; quest’ultima in particosul-lare risulta oggi molto simile a quella del mondo urbano con un’ete-rogeneità paragonabile a quella cittadina. Il mercato del lavoro si mostra sostanzialmente indifferenziato fra città e campagna con una leggera penalizzazione per le donne rurali. Il 41% della popo-lazione rurale nella rilevazione censuaria del 2001 è in condizio-ni di attività contro il 42% di quella urbana. Gli inattivi sono per metà pensionati, quasi il 20% sia in campagna sia in città, con una prevalenza del primo dei due ambiti in cui tra l’altro si assi-ste come detto a un maggior peso delle classi di età più alte.10

L’agricoltura per le aree rurali rappresenta una componente fonda-mentale per le caratteristiche territoriali ma è molto meno incidente dal punto di vista economico e occupazionale. Complessivamente in tutta Italia nel 2001 gli occupati in agricoltura erano appena il 5,5%, poco più di 1 milione di lavoratori. Ovviamente nell’ambito dell’oc-cupazione rurale, quella agricola conserva un’importanza

particola-9 Merlo V., op. cit., pp. 54 - 57.

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Tabella 1: Popolazione montana dei comuni urbani e rurali

Variazione della popolazione montana

1971 1981 1991 2001 ITALIA tutti i comuni 7.755 7.612 7.480 7.350 comuni rurali 4.949 4.808 4.728 4.694 comuni urbani e semiurbani 2.806 2.804 2.752 2.656 NORD OVEST tutti i comuni 2.615 2.570 2.466 2.413 comuni rurali 1.145 1.133 1.121 1.137 comuni urbani e semiurbani 1.470 1.473 1.375 1.276 NORD EST tutti i comuni 1.509 1.503 1.493 1.537 comuni rurali 1.150 1.132 1.126 1.165 comuni urbani e semiurbani 359 371 367 372 CENTRO tutti i comuni 1.071 1.059 1.039 1.032 comuni rurali 712 692 682 682 comuni urbani e semiurbani 359 367 357 350 SUD E ISOLE tutti i comuni 2.559 2.480 2.482 2.369 comuni rurali 1.943 1.850 1.799 1.710 comuni urbani e semiurbani 616 630 683 659

Fonte: Dati dei censimenti della popolazione Istat, raccolti secondo la classificazione altime-trica di territori montani elaborata dall’Istituto

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Tabella 2: Struttura socio-professionale della popolazione urbana e rurale (2011)

Struttura socio-professionale della popolazione

comuni rurali % su abitanti comuni urbani e semiurbani % su abitanti

ABITANTI 22.143.506 100 34.852.238 100 maschi 10.838.427 48,9 16.748.555 48,1 femmine 11.305.079 51,0 18.103.683 51,9 ATTIVI 9.027.030 40,8 14.715.232 42,2 maschi 5.504.678 50,8 8.671.253 51,8 femmine 3.522.352 31,2 6.043.979 33,4 OCCUPATI 7.995671 36,1 12.998.061 37,3 maschi 5.010711 46,2 7.831.260 46,8 femmine 2.984.960 26,4 5.166.801 28,5 IN CERCA DI LAVORO 1.031359 4,7 1.717.171 4,9 maschi 493.967 4,6 839.993 5,0 femmine 537.392 4,7 877.178 4,8 INATTIVI 9.906.881 44,7 15.243.416 43,7 maschi 3.685827 34,0 5.564.870 33,2 femmine 6.221.054 55,0 9.678.546 53,5 CASALINGHE 2.675.055 12,1 4.803.495 13,8 maschi 8.578 0,1 21.673 0,1 femmine 2.666.477 23,6 4.781.822 26,4 PENSIONATI 4.162.910 18,8 5.926.577 17,0 maschi 2.273.957 21,0 3.362.600 20,1 femmine 1.888.953 16,7 2.563.977 14,2

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re. Al di là delle specifiche territoriali che vedono un sud più attivo nell’agricoltura si segnala comunque come l’occupazione extra-agri-cola industriale e terziaria sia diventata assolutamente prevalente anche in territorio rurale. Il settore secondario ha da tempo avviato un radicale processo di destrutturazione della modalità classica di produzione. Questa fase, già iniziata nei primi anni Duemila, si è ancor più aggravata durante la crisi economica; se all’inizio la per-dita di occupazione industriale era testimonianza di un divorzio in corso fra le imprese e la città a esclusivo vantaggio dell’occupazione proveniente dalle campagne, oggi la situazione è ben diversa. Si va cioè estendendo quello che fin dalle origini del fenomeno era già chiaro in Liguria e in Toscana, dove a una perdita di posti di lavo-ro urbano nell’industria non corrispondeva un eguale rimpiazzo di lavoratori rurali. L’incremento di occupazione nel terziario ha pre-valentemente interessato la popolazione urbana ma non ha escluso neppure quella rurale. Qui però incide con particolare forza nega-tiva la grave crisi del comparto commerciale tradizionale, per altro non supplito in termini occupazionali, dall’avvicendamento anche in aree rurali della piccola e media distribuzione (senza considerar-ne i gravi esiti dal punto di vista degli equilibri urbanistici e sociali di tali insediamenti nei contesti rurali). La progressiva sparizione del commercio nelle campagne sta assumendo proporzioni quasi totali e si traduce in un depauperamento che a volte consiste in una vera e propria desertificazione dei piccoli centri abitati con pesan-tissime ricadute sociali; vengono a mancare con i negozi i servizi primari, in particolare per la popolazione più debole.11 Ciò provoca

anche interessanti tentativi di reazione come quello messo a punto dal Comune di Cavallasca nel comasco, che dopo aver perso tutte le sue botteghe commerciali, ha aperto le porte ai mercati ambulanti.12

Se l’industria si è separata dalla città così non è accaduto per la bu-rocrazia, i cui incrementi occupazionali sono, almeno fino al 2006, tutti concentrati nei comuni urbani e soltanto residualmente coin-volgono residenti in comuni rurali. Procede comunque in ogni am-bito la terziarizzazione dell’occupazione e la sua conseguente fem-minilizzazione, visto che il 74,3% degli occupati nel settore sono donne; parimenti in campagna la percentuale scende di poco al 66,7%. Donne provenienti dalla campagna che sono intensamente coinvolte anche nell’attività industriale soprattutto nel centro-nord

11 Merlo V., op.cit., pp. 90 -91. 12 Merlo V., op.cit., p. 91.

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e nell’agricoltura al sud, per il 18%. Sul sistema occupazionale e di riflesso sociale l’altro importante fenomeno è l’impulso progressi-vo alla trasformazione del laprogressi-voro autonomo in laprogressi-voro dipendente. Ciò ha riguardato le campagne in relazione al processo di decen-tramento industriale e di terziarizzazione. Per quel che riguarda i lavoratori autonomi si constata che in campagna è maggiore l’im-portanza relativa dei lavoratori in proprio, mentre in città sono percentualmente più importanti gli imprenditori e i liberi profes-sionisti.13 E se i dati relativi all’imprenditorialità sembrano

avvan-taggiare la città il dato diventa immediatamente confrontabile se a buon diritto sommiamo agli imprenditori rurali anche i coltivatori diretti esempio diffuso di impresa agricola di campagna. La contro-tendenza più significativa fra territori urbani e rurali resta il trend alla autonomizzazione del lavoro; in campagna i rapporti di lavo-ro salariati mantengono ancora una rilevanza significativa a scapi-to del lavoro auscapi-tonomo. Gli incrementi più significativi in questa direzione misurati a livelli precrisi dai censimenti sono provocati principalmente dal settore commerciale, con l’avvento in campagna e in contesti rurali di sistemi di media e grande distribuzione. Sul mondo del lavoro, ai fini delle nostre analisi, sono interessanti le operazioni condotte dall’ ISTAT per l’individuazione dei Sistemi Locali di Lavoro. Essi rappresentano una griglia territoriale i cui confini, indipendentemente dall’articolazione amministrativa del territorio, sono definiti utilizzando i flussi degli spostamenti gior-nalieri (pendolarismo) rilevati in occasione dei Censimenti genera-li della popolazione e delle abitazioni.14 Nell’ultimo censimento del

2011 l’ISTAT mette in campo una nuova metodologia già proposta nel 2007;15 si tenta in questo approccio di poter leggere il dato

rela-tivo ai vari sistemi locali del lavoro in modo da poter cogliere quel-le realtà di ruralità integrata rispetto a sistemi che hanno al centro nodi urbani, o invece di ruralità autonoma. Una tale distinzione mo-stra come la maggioranza dell’occupazione rurale sia assorbita da mercati del lavoro urbani, con dimensioni più modeste in termini di forza lavoro e di territori compresi per quel che riguarda i

siste-13 Merlo V., op.cit., pp. 96 - 97.

14 Per maggiori indicazioni sulla definizione della metodologia e sulla classificazione dei Sistemi Locali di Lavoro si rimanda a http://www.istat.it/it/strumenti/territorio-e-cartografia

/sistemi-locali-del-lavoro.

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mi rurali. Sulle elaborazioni effettuate dai dati del Censimento della popolazione del 2001 e sulla loro relazione con i Sistemi Locali del Lavoro si nota come all’interno dei sistemi del lavoro urbani sono i comuni rurali e non quelli urbani o semiurbani a vantare i migliori incrementi occupazionali; ciò manifestava dunque uno spostamento della crescita dallo spazio urbano a quello rurale o rururbano. Tanto più è vero per i settori economici del secondario e del terziario.16

Scomparsa e sostituzione della civiltà rurale

Il processo di livellamento fra città e campagna è anche e soprat-tutto un fenomeno culturale e di costume. Le aree rurali del Paese infatti hanno da tempo intrapreso un cammino di “emancipazio-ne culturale” testimoniato dalla crescente incidenza del numero di laureati e possessori di alti titoli di studio, in particolare fra le donne. La predilezione della popolazione studentesca verso gli in-dirizzi formativi si orienta al conseguimento di titoli tecnici e scien-tifici per la scuola superiore; particolarmente rilevanti i dati degli istituti tecnici agrari e dei licei scientifici.17 Tale tendenza è

con-fermata anche dalle scelte formative successive con laureati rura-li (che rappresentano al Censimento del 2001 il 25,2% del totale nazionale) prevalenti nelle discipline tecniche o scientifiche. Un fenomeno particolarmente significativo in termini di coesione sociale è rappresentato dall’ormai raggiunto completamento del processo di omologazione di costumi della campagna con la città. La religiosità e il progressivo livello di secolarizzazione del mon-do rurale ne sono marcatori particolarmente eloquenti. Esistono studi che attestano storicamente la presenza e la vitalità del sen-timento religioso nelle campagne: negli anni Settanta monsignor Giovanni D’Ascenzi diede seguito a una ricerca dal titolo

“Coltiva-tori e religione”. Nel 2008 un analogo tentativo è stato condotto

da Enrico Capo con la collaborazione di padre Renato Gagliarone e dei Consiglieri ecclesiastici regionali della Coldiretti. Ne emerge una panoramica molto interessante rispetto alla condizione degli agricoltori e alle dinamiche di trasformazione della campagna. Se si osservano i quadri di indagine dell’oggetto di interesse della ri-cerca risulta ancora un buon radicamento delle tradizioni laiche e

16 Merlo V., op.cit., p.101. 17 Merlo V., op.cit., pp.113-114.

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religiose, in cui operano a sostegno nuove forme di comunicazione e tecnologia e un potenziale attrattivo e folkloristico nei confronti di turisti e forestieri. Sempre più rarefatta nei paesi e nei villaggi la presenza stabile del sacerdote, coagulo e catalizzatore dell’aggre-gazione delle piccole comunità nel Novecento. Le analisi condotte si mostrano poi particolarmente efficaci nel considerare lo stato di salute di alcuni costumi tradizionalmente in essere nei constesti ru-rali. In rapida evoluzione soprattutto alcune caratteristiche sociali ancora ben solide ma appunto in trasformazione come la solidari-tà, il controllo sociale, lo spirito comunitario e quello di accoglienza e integrazione soprattutto nei confronti degli immigrati. La metà delle risposte attesta la presenza stimata di un sentimento religio-so radicato mentre l’altra metà parla di religiosità epireligio-sodica.18 Sul

tema dei valori la campagna è ancora il luogo in cui si coltiva l’alto prestigio del lavoro di fatica, ma d’altra parte anche il terreno più fertile per il giudizio sommario e scarsamente approfondito. Il pas-sato e i suoi lasciti sono ancora parte significativa del background rurale che denota particolare vicinanza a manifestazioni esterne, come consuetudini laiche e religiose in occasioni dei momenti pri-vilegiati delle comunità come le feste paesane, ma anche a senti-menti interiori come l’autocontrollo dei giovani prima del matrio-monio, l’attenzione verso gli anziani, la concezioene della famiglia e il legame con la propria parrocchia.19 Significative le risultanze

dell’inchiesta in relazione al cambiamento di mentalità osservato dai Consiglieri ecclesiastici che mostrano una crescente dinamicità mentale dei coltivatori diretti associata a tendenze che generalmen-te prediligono un lavoro opaco e non creativo che assicuri un pove-ro stipendio, piuttosto che assumere la responsabilità dell’attività agricola con prospettive economiche molto positive; si rileva inoltre lo scadimento del rispetto verso le proprietà altrui, pubbliche e pri-vate, con il conseguente peggioramento dei rapporti con gli altri.20

Si assiste in sintesi a un coacervo di fenomeni che se da un lato hanno da confrontarsi con il sempre più sporadico presidio del territorio da parte del clero, dall’altro manifestano una re-ligiosità in transizione che Enrico Capo definisce come “rurur-bana” con atteggimenti interni più maturi e più sofferti a

sca-18 Capo E., Religione a metà del guado, in La rivincita delle campagne, p.131. 19 Capo E., op.cit., p.135.

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– Preparazione della Fiorita per la processione del Corpus Domini a Piazzano negli anni Sessanta - Lucca

– Il passaggio del Gran Premio Città di Camaiore a Montemagno nel 1958 in tempo di elezioni politiche - Lucca

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pito di comportamenti di massa meno radicati e partecipati.21

Interessante notare, come fa Antonio Parisella, quanto il pro-cesso di omologazione passi anche attraverso la rappresentan-za politica. Al di là dei recenti rivolgimenti partitici di sempre più difficile interpretazione si deve tener presente infatti che nella prima repubblica il controllo politico della campagne è stato ap-pannaggio della Democrazia Cristiana. Le elezioni politiche del 2006, uno degli ultimi appuntamenti dominati dal bipolarismo, hanno fatto registrare un sostanziale pareggio fra percentua-le di voti in favore dei due schiaramenti provenienti dalla città o dalla campagna. In quell’episodio in particolare, gli analisti leg-gono interessanti fenomeni sociologici come l’urbanità delle for-mazioni della sinistra più radicale e la ruralià prevalente di movi-menti come la Lega Nord e i residui organizzativi democristiani.22

Fin qui la società rurale e i suoi mutamenti. Ma non bisogna tra-lasciare gli aspetti più da vicino legati alla vitalità economica del-le campagne italiane, che hanno visto negli anni, dal dopoguerra a oggi, una mutazione costante delle quantità di prodotto, dell’of-ferta e dei fatturati degli agricoltori italiani. Dagli anni Ottanta a oggi infatti si assiste a un andamento costante degli indicatori di produttività agricola, con livelli che oscillano intorno allo zero. Se dunque l’offerta della produzione agricola negli ultimi vent’anni è rimasta uguale a se stessa si può notare una sostanziale perdita di valore in termini di mercato della sua produzione e di reddito netto. Il tutto nei confronti di superfici agricole e effettivamente utilizzate in netto e costante decremento e di una discesa vertica-le della manodopera impiegata sia dipendente sia autonoma. Sen-za contare la sempre più marcata senilizSen-zazione del settore che fa emergere il problema della continuità futura di aree agricole alla morte degli attuali conduttori. Emerge in questo senso il fenome-no della destrutturazione aziendale, che fa sì che l’avvicendamento sui terreni agricoli sia disposto non dagli eredi degli agricoltori ma da agronomi supervisori che curano gli interessi agrari di impren-ditori che in questo modo estendono la loro base produttiva. Un’agricoltura dunque in grade cambiamento, che dopo aver perso il suo ruolo funzionale per interi territori e la capacità di orientare le

21 Capo E., op.cit., p.138. 22 Capo E., op.cit., p.140.

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scelte politche deve oggi fare i conti con le sfide di un necessario salto verso l’innalzamento qualitativo e di un contrasto audace e severo nei confronti di alcune controverse trasformazioni tecnologiche come gli organismi geneticamente modificati.

Del resto, dal punto di vista dei valori, le trasformazioni agricole hanno contribuito ad allentare quel rapporto di sacralità che univa gli uomini al proprio territorio. Di tali fasi sono efficace testimo-nianza i paesi in via di sviluppo che proprio in questi anni vivono processi da noi affrontati nei decenni scorsi e che hanno portato nei campi prima i contadini, poi i trattori e infine i migranti. Lavoratori stranieri e braccianti che oltre a sostituirsi nei compiti più ingra-ti delle aziende agricole spesso ricoprono mansioni significaingra-tive in senso gestionale e sono portatori di possibilità inespresse (si veda la diffusione degli allevamenti di bufali nel centro e nord Italia).23

Altro fattore su cui riflettere la localizzazione dell’agricoltura rispetto agli ambiti urbani: le recenti statistiche infatti indicano che i comuni capoluogo e la prima cintura di comuni ad essi confinanti esprimono da soli oltre il 20% della superficie agricola utilizzata. Per quanto ge-neralizzato il dato mostra la persistenza di un’attività tradizionale, spesso altamente specializzata e aggiornata nelle tecniche e nelle pos-sibilità produttive e che per localizzazione ha necessità e prerogative totalmente differenti da quelle della medesima attività in zone rurali.24

Merita inoltre una nota il fenomeno dell’autoproduzione e dell’auto-consumo che raggiunge valori assai significativi proprio in relazione alla produzione agricola. L’orto, il frutteto, il giardino in produzione, il piccolo allevamento sono realtà diffuse in tutto il Paese che fanno segnare un incremento non da poco soprattutto al centro e al nord. Il tutto favorito dall’attuale ciclo economico, che fa percepire queste formule (a ragione) come strumenti di miglioramento della qualità della vita e modalità di propensione al risparmio. A un autoconsumo di necessità economica se ne sovrappone un altro di libera opzione alimentare.25 L’inversione del paradigma in termini socio culturali è

23 Corazziari G., Agricoltura: anche per delega e multietnica, in La rivincita delle

campa-gne, p. 177.

24 Merlo V., La riscoperta di un’agricoltura urbana, in La rivincita delle campagne, pp. 185- 186.

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evidente e dichiarata se si confronta con la percezione di benessere dovuta alla discesa della produzione di derrate alimentari nei primi anni Cinquanta. Le indagini, vecchie ormai di quindici anni condot-te dall’ Insor mostrano con evidenza la grande incidenza sul piano socio-familiare, e da valutare anche su quello urbano e territoriale, degli orti e dei giardini di autoproduzione che tra l’altro scompaiono dalle rilevazioni perché assolutamente non inseriti nell’ambito delle indagini. Partecipano al fenomeno più le regioni in cui la struttura insediativa e la sistemazione territoriale mantiene tracce di diffusi-vità e appoderamento; molto meno quelle del sud, dove facilmente le estensioni dei terreni elevano le produzioni a rango di azienda agricola; e fanno parte del dato anche centri di dimensione provin-ciale come Velletri, Scafati e Lanciano, solo per fare degli esempi.26

Il nuovo millennio del paesaggio rurale

Per concludere una panoramica sullo stato di salute della campagne e della loro società non si può non approfondire il tema del paesag-gio, questione significativa e divenuta forse oggi la più caratteriz-zante per i territori rurali. Delle conseguenze disastrose dell’espan-sione edilizia degli anni postbellici si è a lungo parlato in letteratura e nel dibattito in seno a diverse realtà come vedremo. Merita sot-tolineare però che anche agli inizi degli anni Duemila si è assistito a un’impennata dell’attività edificatoria con un intensissimo con-sumo di suolo libero. Ciò a seguito del combinato disposto che ha fatto si che a partire dalla Legge di Stabilità del Governo Amato del 2001, sia stato di fatto cassato il vincolo della Legge Bucalossi per le Pubbliche Amministrazioni Locali relativo agli investimenti dei proventi derivanti dagli oneri di urbanizzazione.27 In questo modo,

complici i minori trasferimenti statali, i Comuni hanno potuto far leva sul settore dell’edilizia per riscuotere maggiori oneri da reinve-stire a questo punto sulla spesa corrente. Questo gioco al massacro del territorio e del paesaggio ha avuto come conseguenza un rinno-vato fermento edilizio e speculativo drammaticamente naufragato con la crisi economica, che ha mostrato da un lato i pesanti danni provocati, dall’altro ha costretto a situazioni finanziarie di emergen-za molte amministrazioni pubbliche locali. Tutto questo ha un peso misurabile sull’attrattività turistica del nostro Paese, che non a caso

26 Barberis C., op. cit., p. 217.

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è scesa sia in merito alle spiagge, sia per quel che riguarda il pae-saggio. Insieme alla Spagna condividiamo il triste primato di con-sumo e produzione di cemento con cave disseminate all’aria aperta, molte in abbandono e da bonificare; mentre Francia e Regno Unito hanno elaborato dispositivi normativi solo di recente hanno trova-to analogia in Italia con i piani paesaggistici e la Legge Regiona-le per il Governo del Territorio della Puglia e della Toscana. Emblematica e paradossale la burrascosa vicenda istituzionale vis-suta dalla Legge Regionale Toscana 65/2014. Il grande contributo innovativo riconosciuto in ambito accademico dalla proposta di legge dell’Assessore Anna Marson, viene impugnato dal Governo centrale per il quale sussistono condizioni di incostituzionalità. È questo il fatto che motiva l’articolo di Vandana Shiva e Ilaria Ago-stini su La Repubblica all’indomani dell’impugnativa del Governo e che da modo di esprimere come la Legge Regionale sia una base fondativa per il superamento di un modello di sviluppo che in par-ticolare la Toscana per la sua storia deve rifiutare e non rincorrere. Ne segue uno scambio di opinioni fra urbanisti sullo stimolo a eco-nomie circolari e al riconoscimento di un nuovo modello organizza-tivo della città e dei territori, basato su un policentrismo inclusivo e partecipativo e sul ruolo ecologico, oltreché produttivo e sociale di occupazioni come l’agricoltura. Il dibattito è vivace. Chi come Sca-glione contesta l’impianto della legge in particolare sul ripristino dei paesaggi e su alcune rigidezze. Chi apprezza il ritorno dell’ur-banistica al concetto di suolo, fondamento e base delle capacità di organizzazione politica, inventiva sociale e di attenzione culturale e rimosso dalle riflessioni disciplinari e anche dalla coscienza civile come afferma Paolo Pileri (che riconosce l’esistenza di uno ius soli culturale che appartiene a ciascuno e che si trasmette nel paesaggio e in tutti gli elementi costitutivi della nostra Nazione così come de-finito dall’articolo 9 della Costituzione della Repubblica). Per tutti l’atto del Governo in risposta alle prerogative legislative della Regio-ne si configura come un attacco al suolo. Tra gli altri contibuti anche quello della professoressa Francesca Leder, insegnante presso l’U-niversità di Ferrara, la cui opera di attivista presso l’OUT_Osserva-torio Urbano Territoriale di Vicenza, individua un aspetto signifi-cativo che consiste nella contrapposizione fra gli interessi collettivi e quelli portati avanti dalle Amministrazioni Comunali: emblema-tico il caso vicentino dell’Alta Velocità ferroviaria Verona-Padova che ha scatenato l’opposizione della popolazione che ora chiede al

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–Proteste contro la LR 65/2014 della Toscana nel bacino marmifero mas-sese - Massa Carrara

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Ministro dei Beni Culturali di revocare al Comune di Vicenza l’affi-damento di gestione del sito UNESCO delle Ville palladiane.28

Consumo di suolo come emergenza per il Paese dunque, che non trova altro che contrappunti negli altri Paesi d’Europa, con casi di tradizionale virtuosismo come quello inglese o di più re-cente sensibilità come quello tedesco, inaugurato alla fine degli anni Novanta dall’allora Ministro dell’Ambiente Angela Merkel.

3.2 Il ritorno alla terra dell’architettura e della

cultura

In un contesto di così rapidi cambiamenti è interessante osservare l’interpretazione e la reazione elaborata nelle varie forme espressive dalla cultura e dell’arte. In tutto l’occidente europeo ma nel nostro Paese in particolare, le diverse esperienze culturali non dimenticano di riferirsi alla campagna e ai centri minori precisandone gli intenti descrittivi, esaltandone il valore simbolico, dibattendo sulle virtù e i limiti della vita rurale.

Anche l’urbanistica e l’architettura, sulla scorta di movimenti e ten-denze maggioritarie nel secondo Novecento, non sono sfuggite a queste linee di tendenza. Tuttavia il contributo di progettisti e in-tellettuali di diversa estrazione individua un percorso di progressiva valorizzazione delle specificità e delle caratteristiche delle realtà minori a partire dallo spazio pubblico minore: “minore” non come indice di minor importanza, bensì come indicatore di un limite di-mensionale al di là del quale non esiste una relazione organica tra edifici, spazi ed individui. A livello fenomenologico, lo spazio pub-blico minore si connota come quello proprio di agglomerati urbani in cui ogni nuovo segno o elemento introdotto è immediatamente percepibile dalla comunità. Come nota Pierluigi Cervellati “per

cu-rare la città bisogna tornare anonimi e specu-rare di riuscire a far-si dare del voi”. Tale logica è quella caratterizzante i centri storici

e soprattutto quelli minori e rurali, risultato di un modello urba-no aurba-nonimo, di una scrittura urbana i cui risultati formali e sociali hanno rappresentato dei capisaldi per la cultura contemporanea. In questi contesti sono ben presenti le riflessioni che

approfondi-28 Shiva V., Agostini I., La tutela dei suoli fertili dal cemento e dallo spreco: lo strano caso

della Legge toscana, in La conversione dell’abitare, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze,

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remo di architetti come Giuseppe Pagano sull’edilizia discreta o quelli del sociologo Giuseppe De Rita su quella spontanea; attua-li anche le considerazioni di Ferdinando Benincasa, che assegna alla varietà e all’apparente disordine dei centri storici la cifra più autentica della personalità espressiva di ogni brano urbano.

Se tuttavia proviamo a compiere il paragone fra spazio urbano mi-nore e realtà di matrice contemporanea, ai primi si assegnano va-lori sociali, economici e fisici portatori di identità assolutamente assenti nei secondi. Per inserirsi nei processi evolutivi degli spazi urbani, che anche e soprattutto nel caso dei centri minori sono gli spazi privilegiati della comunità, torna utile l’analisi di Italo Calvi-no, secondo cui ogni movimento in atto nella società, lento o rapi-do che sia, deforma e riadatta il tessuto urbano, la sua topografia e la sua sociologia; in questo senso dunque è essenziale non perdere di vista l’elemento di continuità e di permanenza che caratterizza i singoli contesti, distinguendone gli uni dagli altri come elementi di identità. E Giancarlo De Carlo, principale conoscitore e studio-so dello spazio urbano del Novecento, ne da testimonianza quando indica la natura e la storia come gli elementi che definiscono i ca-ratteri del luogo. “La natura è il suo stato originale, la storia è la

sua trasformazione e tutte e due attraverso le loro interrelazioni definiscono la realtà con la quale l’atto di costruire si deve misu-rare.” Un rapporto equilibrato fra storia e natura è la cifra

iden-tificativa di ogni luogo: due case, una strada, un paesaggio colti-vato diventano un luogo quando esprimono tale relazione.29

La moltiplicazione di funzioni di svago e di lavoro svolte all’interno delle abitazioni, ha ridotto lo spazio urbano esterno ad un ruolo di mero collettore e distributore in cui la funzione sociale primaria di luo-go di aggregazione interazione e scambio tra gli individui è quasi ine-sistente. È dunque necessario ripensare in maniera integrale le fun-zioni sociali identitarie ed economiche affidate a questo spazio.30

La scoperta dell’architettura rurale e la nascita della

cultura neorealista

L’architettura del ventennio fascista aveva prodotto un’immagine

29 Bascherini E., Da Pagano al Neorealismo, le radici minori dell’architettura moderna, Kimerik editore, Messina, 2013. pp. 4 – 11.

30 Bascherini E., Lo Spazio Pubblico Minore: casi studio di centri storici minori, Edizioni Nuova Prhomos, Città di Castello, 2013, p.49.

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di se ben definita e individuabile. La retorica di regime, con i suoi dettami e le diverse iniziative di carattere territoriale e urbano di-viene una cifra stilistica regolarmente presente nelle città e anche in molti centri minori, seppur con diverse esigenze e maggior con-taminazioni. Nel momento di massima diffusione del razionalismo, modello unico di riferimento per la progettazione architettonica e urbana, e principio informatore delle imponenti opere ingegne-ristiche condotte dal regime, si fa strada una sensibilità del tutto nuova, che elabora per reazione una nuova base fondativa nel pa-trimonico culturale dell’architettura minore. Ne è fautore Giuseppe Pagano, noto esponente dell’architettura italiana del Primo Nove-cento, che già a partire dalla fine degli Anni Venti, entra in pole-mica con gli eccessi di monumentalismo del movimento moderno, criticando gli interventi sui centri storici e gli sventramenti causati dall’inserimento di nuovi organismi di impianto razionalista. Attraverso i suoi scritti su Casabella, Pagano si era fatto ambasciato-re del portato culturale minoambasciato-re; di quell’insieme di azioni spontanee che fin dalla preistoria hanno prodotto un patrimonio culturale im-menso che sarà oggetto della Triennale del 1936 dedicata appunto all’architettura rurale. Nei suoi scritti si invita a ricercare nel patri-monio storico marginale della città e della campagna le tracce di una più diretta relazione fra lo spazio e gli individui, riproponendo così il tema di un’attiva partecipazione alla costruzione del proprio habitat e segnalando le caratteristiche di italianità di alcuni siti architetto-nici e urbanistici. Citando Ruskin e i suoi scritti sulla casa rurale italiana, Pagano ricorda l’apprezzamento dell’artista inglese per la semplicità della forma; un concetto assai più evoluto della mera con-siderazione formale, che denota sostanzialmente la vitalità e l’indi-pendenza della casa rurale da qualsiasi influenza stilistica. “Se esiste

anzi un libro mastro del dare e dell’avere siamo perfettamente con-vinti che questo bilancio sia in attivo per l’architettura rurale”.31

Alla presentazione della Triennale del 1936, insieme a Daniel Pagano scrive un vero e proprio manifesto della sua concezione dell’archi-tettura in cui traspare tutta l’importanza attribuita ai contesti mino-ri. Significativa e attualissima la preoccupazione che egli matura per quest’architettura, in un’epoca in cui si manifestavano tendenze di-laganti alle trasformazioni romantiche, ai vagheggiamenti stilistici, interpretazioni tipologiche autonome e discutibili. A tale proposito

31 De Seta G. (a cura di), Giuseppe Pagano - Architettura e città durante il fascismo, Jaca Book, Milano, 2004.

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proprio Pagano inaugurò una ricerca che si mosse in lungo e lar-go per la campagna italiana alla scoperta di un’altra architettura da contrapporre a quella moderna; essa determinò anche un importan-te contributo alla storia dell’archiimportan-tettura e fu capace di suscitare un dibattito molteplice su quella italiana e minore che sfociò poi nelle ri-flessioni sui “Sassi si Matera” e sul villaggio la Martella di Matera. Bruno Zevi sottolinea il portato e il contributo di Pagano, che indaga la materia dell’architettura minore, totalmente estromessa fino allo-ra dalla storiogallo-rafia, non alla ricerca di personaggi, quanto piuttosto di linguaggi, in un momento in cui le avanguardie appena sopite ave-vano dato origine al Movimento Moderno. La Triennale del ’36 se-gna a tal punto il passo che, secondo Zevi, fino all’appuntamento del 1951 l’atmosfera architettonica risentirà di una nostalgica eco di quei primi contesti rurali, in un tripudio di spontaneo e vernacolare. In realtà Pagano insegnò a cercare i perché dell’architettura e delle sue forme, anzitutto negli stati di necessità derivanti dalla contingenze storico – biografiche e dal contesto e ritenne che l’architettura rura-le fosse il fenomeno più idoneo a mostrare la cogenza di tarura-le connes-sione. Elevando a livello consapevole le regole “stilistiche” implicite dell’architettura spontanea è infatti possibile, secondo il suo giudi-zio, arrivare ad un modo moderno di fare architettura il cui contenu-to sia puramente razionale, essenziale, privo di elementi superflui. Alla Triennale del 1953, Giancarlo De Carlo e Elio Vittorini, intellet-tuali legati da un profondo rapporto di amicizia, curano la sezione tematica dedicata all’urbanistica in cui l’architetto si era posto un duplice obiettivo: introdurre il pubblico non specializzato al concet-to di urbanistica e alle sue profonde implicazioni sociali, e offrire ai professionisti la possibilità di proporsi in maniera chiara e non au-toritaria alla gente. Analoghe finalità nei due cortometraggi realiz-zati dalla collaborazione fra i due e dal titolo La città degli uomini e

Una lezione di urbanistica. In polemica con il Movimento Moderno,

responsabile per De Carlo di aver condotto l’urbanistica su un piano di distanza rispetto ai contesti sociali, l’architetto insieme all’amico scrittore Vittorini, mettono in risalto l’importanza di un’autonoma appropriazione del luogo da parte dell’individuo. Nel secondo dei due cortometraggi, si realizza una vera e propria parodia del funziona-lismo della pianificazione urbanistica, descritta come il prodotto di un esercizio contabile e di un processo statistico e meccanicistico. Si capisce dunque per contrasto, il riferimento alla campagna e al

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– Studi sui volumi delle abitazioni salentine da Architettura Rurale Italiana - Quaderni della Triennale di Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel

– La casa rurale e la fattoria toscana da Architettura Rurale Italiana - Quaderni della Triennale di Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel – Studi sulla casa rurale del Basso Brenta da Architettura Rurale Italiana - Quaderni della Triennale di Giuseppe Pagano e Guarniero Daniel

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– Villaggio La Martella - frazione di Matera

– Scena del cortometraggio Una lezione di urbanistica di Giancarlo De Carlo e Elio Vittorini (1954)

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suo vocabolario linguistico di architettura e urbanistica più o meno spontanea. Il processo assume i connotati di una tendenza cultu-rale; e anche Italo Calvino partecipa al movimento quando ricono-scerà esplicitamente che il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di

ragno del 1947, fu scritto come una sorta di omologo rurale e ligure

della celebrazione della resistenza metropolitana e della città di Mi-lano in particolare, fatta da Vittorini in Uomini e no del 1945. Il periodo storico, anche quando il gruppo di intellettuali si costitui-sce come Società degli Amici di Bocca di Magra, risente della tempe-rie culturale; nei dibattiti interni è interessante notare come lo svi-luppo dei concetti risenta della concezione marxista unilaterale per cui la città era il miracolo, nel miracolo ancora più grande del terri-torio. Quest’ultimo approdo, giustifica e legittima dunque la ricer-ca e l’attenzione al patrimonio rurale e al rapporto città-ricer-campagna. Un intreccio culturale che divenne la cifra dominante di una nuova sensibilità sociale e artistica e che prenderà il nome o meglio diven-tera la categoria nota come neorealismo, più conosciuto nel cinema, nella letteratra e nella pittura piuttosto che nell’architettura.

La ricerca sui contesti rurali prende forme originali anche in let-teratura a partire dai Paesi Tuoi di Cesare Pavese del 1941, che dal confronto con le opere americane di Whitman, Sinclair e Melville, introduce una nuova modalità di osservare la pro-vincia agricola italiana, ben lontana dalle retoriche di regime. Il neorealismo nei confronti dei contesti urbani e territoriali, si configura in effetti come un movimento culturale caratterizzato da una vasta pluralità di visioni; tutti i personaggi esprimono sulla città o sulla campagna una chiave di lettura. Nel caso di Pratolini per esempio emerge chiaramente come la città possa essere il luo-go della rifondazione della socialità e della solidarietà umana. Il cinema, come vedremo, rappresenta un’altra fortunata forma espressiva del neorealismo e istituisce un rapporto con l’archi-tettura sia sul piano del linguaggio nella scoperta della ricchezza del quotidiano, sia dal punto di vista strutturale fra la prevalenza narrativa del primo piano nel cinema e la forza visiva del detta-glio in architettura. L’architettura, informata al linguaggio neore-alista, predilige nell’atto comunicativo un riferimento al già noto, il ricorso al clima della borgata, dell’ambiente contadino e artigianale, del disordine proprio dell’architettura spontanea.

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– Giovanni Michelucci, Chiesa dei S.S . Pietro e Girolamo a Pontelungo -

Pistoia

– Ludovico Quaroni Complesso Residenziale Tiburtino - Roma

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Cervinia, di Albini, che in questo caso anticipa il concetto oggi diffuso di tecnica come insieme di procedimenti in uso in un luogo desunti dalla tradizione costruttiva di lunga durata, in questo caso assumendo come riferimento da indagare e in cui ricercare elementi e riferimenti, la baita valdostana.

È Paolo Portoghesi, che nell’articolo apparso sul numero 65 di

Continuità del 1957, rintraccia per primo il neorealismo come

un proseguo dell’esperienza introdotta precedentemente da Pagano sull’architettura minore.

Il percorso di ricerca stilistica e espressiva che ricostruisce il cele-bre architetto è molto chiaro: la distruzione di ogni specie, che fu il prodotto della seconda guerra mondiale, costrinse gli architetti a confrontarsi con un problema mai affrontato, che imponeva loro di prendere immediatamente contatto con la realtà del Paese e con un committente del tutto nuovo, composto da una gran quantità di diseredati che desiderava una casa che fosse rifugio e intimità. Si imponeva la necessità di creare ambienti adeguati ad abitudini ben lontane dalle elaborazioni d’avanguardia e delle quali oltretutto si conosceva ben poco. A molti allora parve inevitabile che un terre-no di incontro in questo senso si potesse trovare solo attingendo a quel patrimonio di forme e di metodi che con approssimazione potremmo definire come cultura artigiana, la cui attualità era sta-ta messa in luce da Pagano. A ciò si unisce un tema storicamente nuovo costituito dalla grande massa di persone che dalla campagna si riversa in città, novità urbanistica e sociale cui i progettisti dove-vano dare una risposta misurata. I due riferimenti di quella fase, che divennero momento fondamentale del fare urbanistica e archi-tettura guardando la cultura popolare furono il borgo La Martella a Matera e il Quartiere Tiburtino di Roma. Il primo, come osserva-to da Tafuri, prende a riferimenosserva-to i luoghi della purezza popolare e contadina di cui intende riprodurre la spontaneità, la vitalità e l’u-manità. L’altro invece diventa l’occasione per De Carlo, di arrivare al centro della polemica con il Movimento Moderno, che in virtù delle critiche mosse all’opera è secondo De Carlo il responsabile dell’appiattimento delle differenze sociali, storiche e geografiche, mentre invece il neorealismo parte proprio dalle loro differenze. Anche la Toscana non è da meno con l’importante episodio della Chiesa di Pontelungo presso Pistoia di Giovanni Michelucci, che at-traverso la particolare e sobria composizione architettonica, intro-duce il paesaggio come la parte più forte dell’identità del territorio.

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Concorrono a richiamare l’architettura tradizionale minore l’uso della pietra faccia vista, o pietra d’Alberese, la cui tessitura riporta alla mente le trame murarie di nuclei antichi. Di immediata let-tura le citazioni che riprendono il contesto locale negli impie-ghi materici, nel trattamento di alcuni elementi come la gronda e nella riproposizione aggiornata di altri come le mandolate.32

In senso storico, come scrisse Gregotti, gli anni Cinquanta dell’ar-chitettura italiana concretizzano una svolta importante per l’archi-tettura moderna nazionale, che aspira alla realtà come storia, come tradizione nazional-popolare umile (cioè depurata di elementi re-torici e celebrativi) e insieme nobile (perché depositaria di un pas-sato culturale e sociale fortemente radicato nell’identità della citta-dinanza) e come connessione con la preesistenza ambientale. E in fondo, seppur in altri contesti di ricerca professionale e di ca-ratteristiche di committenza oltreché di funzioni, non si può con-siderare troppo distante la traiettoria creativa di architetti come Carlo Scarpa, in cui, al pari delle tendenze neorealiste, la poetica della memoria costituisce una delle tracce più eminenti del suo cre-do compositivo. Un nuovo risorgimento architettonico dunque, i cui principi rimandavano alle radici minori dell’architettura moderna.

Campagna e civiltà rurale: un set, una sceneggiatura

e una tela

Un paradigma architettonico in gran parte occultato dalla frenesia edificatoria e caotica degli anni Cinquanta, Sessanta e poi Ottan-ta e successivamente dall’avanzare di nuove correnti.

Ma in altre espressioni artistiche la fortuna di quella tendenza cul-turale diventerà cifra dominante dell’ Italia nel mondo. Il cinema è il linguaggio privilegiato e il veicolo più immediato per la diffusio-ne del nuovo stile. Già dagli anni Quaranta le pellicole di De Sica, Visconti, Rossellini e altri raccontano la storia umile di attori non professionisti prediligendo come set la campagna o la periferia. L’immagine di un paese in difficoltà e desolato, l’assenza di un ri-ferimento politico esplicito e la presentazione di argomenti come il sesso non sottrassero i film di quell’epoca dalle dure prese di posi-zione del regime prima e della sinistra e della chiesa cattolica poi. E a testimonianza della forza espressiva del messaggio neorealista del cinema, accanto ai sopra citati registi emergono in negli anni

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– I basilischi di Lina Wertmuller (1963) – La Ciociara di Vittorio De Sica (1960)

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autori e direttori come Augusto Genina che in Cielo sulla

palu-de racconta la Ciociaria con una sensibilità più interna al mondo

mezzadrile e alla cultura contadina del basso Lazio.33

Fino agli anni Novanta si avvertiranno quegli echi di profondità, quando il cinema, dopo essersi occupato di storie di emigrazione e emarginazione racconterà la devastazione sociale del paesaggio rurale e la superficialità di quel mondo nel film Ladro di bambini. Qualche decennio più tardi, fra il finire degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta, il racconto della vita rurale interessa nuovamen-te il cinema prima con I Setnuovamen-te franuovamen-telli Cervi di Gianni Puccini e poi in

Novecento di Bernardo Bertolucci e ne L’albero degli zoccoli

Erman-no Olmi, che ambientaErman-no la vicenda narrativa nei mondi contadini dell’Italia settentrionale all’alba del fascismo e a fine Ottocento. Di pochi anni prima anche I basilischi di Lina Wertmuller, che rac-conta la staticità del Mezzogiorno agricolo rac-contaminato dai primi segni incompresi di progresso economico e modernità.

E anche oggi diverse pellicole d’autore si avvicinano alla campagna e alla montagna con attenzione e rispetto come nel caso dell’espe-rienza sarda di Salvatore Mereu e Enrico Pau. Un’onda lunga che passa attraverso Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli, che racconta le vicende di una comunità di donne che sceglie di vivere in un casale rurale per comodità e condivisione di interessi.34

Negli stessi anni Ottanta Francesco Rosi in Tre fratelli descrive con grande umanità e attenzione, con la sensibilità dell’antropologo culturale la vicenda di una famiglia pugliese che vive appieno la transizione di tanta parte del mondo rurale. La campagna trat-teggiata in modo sapiente e garbato che diventa il set di dram-matiche vicende storiche come ne La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani o in Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca. Non solo il Neorealismo i suoi sviluppi guardano al mondo rurale; anche la fortunata commedia all’italiana contribuisce alla rappresen-tazione incisiva e garbata dalla società campagnola. È il caso di Luigi Comencini, che in Pane amore e fantasia e nel successivo Pane amore

e gelosia raggiunge accenti sinceri e commoventi quando fa emergere

la percezione del mondo contadino attraverso le parole dei loro stessi componenti con le celebri risposte del contadino e del sacerdote. Un passaggio significativo ruota attorno alle figure di Peppo-ne e Don Camillo icoPeppo-ne della commedia ciPeppo-nematografica degli

33 Barberis C., op.cit., p. 351. 34 Barberis C., op.cit., p. 348.

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anni Cinquanta, attraverso i quali la società della Pianura Padana si caratterizza per l’autenticità dei rapporti umani e delle relazioni reciproche in un momento storico di intensi e decisivi cambiamenti. Episodio glorioso del contatto fra cinema e letteratura il film

La Ciociara in cui Vittorio De Sica fa impersonare a Sofia

Lo-ren una popolana dei monti Ausoni, ambiente in cui alla pover-tà dei contadini si unisce la supertistizione e l’arte di arrangiar-si della povera gente, in un paesaggio aspro e inarrangiar-sieme dolce. Contemporamente Francesco Rosi offre uno spaccato sociale della Sicilia delle lotte per il riscatto e la rinascita civile e sociale dei contadini in Salvatore Giuliano. “Sta machena non curre?” è l’emblematica rappresentazione della voglia di modernità del mondo rurale, che Dino Risi descrive in Il sorpasso.

Ma anche la pittura partecipa intensamente, riprendendo le fila di un percorso iniziato sul finire dell’Ottocento, con gli echi divisionisti e di realismo sociale dell’ abruzzese Teofilo Patini, divenuto celebre per la sua Trilogia. Già Renato Guttuso, in pieno regime fascista, celebra la Sicilia dei popoli rurali in famose opere come Fucilazione

in Campagna, La strage di Portella della Ginestra, Fuga dall’Etna

e L’occupazione delle Terre in Sicilia. E su quella linea tematica si pone pure Armando Pizzinato nel ripercorrere l’epopea contadina della Resistenza e nelle scene di vita rurali. Atmosfere elegiache si rintracciano nelle opere di Domenico Purificato e Giuseppe Migneco; interessanti e dense di significati simbolici i risultati di Aldo Borgon-zoni e Michele Cascella. Audace il percorso di Fernando Farulli, che accusa il vulnus all’equilibrio millenario della natura causato dall’avanzare della fabbrica in campagna.

Deve essere ricordato in questo ambito Carlo Levi, che esprime anche in pittura il suo incontro con la civiltà contadina della Lucania interna, defraudata dall’emigrazione e scolpita nella fatica senza speranza dei “cafoni”.35

Il naive, l’arte ingenua, ricorre alla campagna nelle opere di Gino Covili e Antonio Ligabue.

E da qui, da questo mondo rappresentato, parte l’esperienza espres-siva e anche etica di molti artisti, che hanno scelto di vivere in cam-pagna, spesso allontanandosi dal prestigio e dagli onori di una critica che più volte ha derubricato i loro temi e il loro linguaggio come arte

(35)

– Giuseppe Migneco, Raccoglitori di limoni (1976) –Renato Guttuso, L’ occupazione delle terre (1949) –Teofilo Patini, Vanga e latte (1884)

(36)

– Fernando Farulli, A Sud di Populonia (1987) – Saro Mirabella, Braccianti (1971)

(37)

sociale, come nel caso di Giuseppe Mazzullo e Saro Mirabella.36

Il racconto lettereraio neorialista

Le già citate tendenze neorealiste appartengono fortemente anche alla letteratura che vanta una diffusa produzione i cui prodromi possono farsi risalire agli inizi degli anni Trenta. Le violenze del regime, le dif-ficili condizioni della popolazione, il disastro della guerra e le grandi trasformazioni della società italiana sono gli argomenti privilegiati di romanzieri e scrittori come Alberto Moravia, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Beppe Fenoglio, Elio Vittorini e Ignazio Silone.

Ma in particolare Cesare Pavese svilupperà come motivo dominante della sua poetica, il rapporto città-campagna; nel già citato Paesi

tuoi, ne La luna e i falò e più in generale in tutta la sua produzione

si può individuare il particolare interesse per l’uomo personaggio e i suoi luoghi, i suoi ambienti con una particolare predilezione per le campagne descritte all’inizio del processo di esodo verso la città. Nell’agosto del 1960, a dieci anni dalla tragica morte dello scritto-re Piemontese, Mario Pogliotti scrisse la canzone Un paese vuol

dire interpretata da diversi esponenti della musica leggera italiana

fra i quali Milly e Gigliola Cinquetti e ricordata ancora oggi.

Si deve anche citare la particolarissima esperienza di Pier Paolo Pasolini; la difficile condizione umana delle campagne e delle pe-riferie ricorrono spesso nella poliedrica attività letteraria, cinema-tografica e politica del personaggio. Nel 1959 Pasolini, al volante di una Fiat Millecento, realizza una delle più interessanti inchieste sull’Italia di quel periodo. In automobile percorse tutta la costa del Paese da Ventimiglia a Trieste e il reportage che ne risultò, uscì in più puntate sulla rivista Successo col titolo La Lunga strada di

sab-bia. In esso c’è l’Italia del boom economico ancora incerta, sincera

eppure già corrotta in molti aspetti. Nelle migliaia di chilometri percorsi ci sono i locali alla moda e senz’anima della riviera roma-gnola (o meglio con un’anima venduta al progresso), la miseria di alcune periferie sociali e culturali dove si rincorre ancora il tozzo di pane per sopravvivere ma soprattutto, c’è molto incanto.

L’Italia vista da Pasolini nel 1959 è un susseguirsi di emozio-ni, come quando superata Roma, provenendo dalla Liguria, gli si dipana davanti l’affascinante Sud. In quell’Italia, Taranto è an-cora un città antica e meravigliosa, il suo mare cristallino e la Puglia un paradiso di persone vere. L’Ilva è solo un fantasma, i

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