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L’esistenza di cellule circolanti in grado di differenziarsi in cellule endoteliali mature è stata per lungo tempo ipotizzata per spiegare i processi di riparazione, ri-vascolarizzazione e neo-angiogenesi. Nel 1997 Asahara e collaboratori

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Academic year: 2021

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5. DISCUSSIONE

L’esistenza di cellule circolanti in grado di differenziarsi in cellule endoteliali mature è stata per lungo tempo ipotizzata per spiegare i processi di riparazione, ri-vascolarizzazione e neo-angiogenesi. Nel 1997 Asahara e collaboratori [17] hanno

dimostrato l’esistenza di un subset di cellule circolanti in grado di differenziarsi in cellule endoteliali mature e partecipare alla formazione di nuovi vasi (vasculogenesi): le cellule progenitrici endoteliali (EPC). Le EPC sono cellule progenitrici di derivazione dal midollo osseo emopoietico dell’adulto, in grado di dare origine, in vitro e in vivo, a cellule endoteliali mature e strutture vascolari tubulari. Ad oggi sono ancora controverse le modalità da utilizzare nell’identificazione e nella caratterizzazione delle EPC, sebbene l’utilizzo di due (CD34 e KDR) o di tre marcatori (CD34, KDR e CD133) siano i criteri più condivisi. CD34 e KDR permangono durante tutto il processo di maturazione mentre CD133 permette di identificare stadi diversi delle EPC, poiché tale antigene è presente precocemente nel differenziamento e viene perso solo in fase tardiva con la concomitante espressione di marcatori che caratterizzano le EC. Tra questi ricordiamo CD31, che gioca un ruolo importante nell’interazione adesiva tra cellule endoteliali adiacenti, così come tra i leucociti e le cellule endoteliali, la VE-caderina, molecola fondamentale per l’organizzazione di nuovi vasi, ed il vWF (von Willebrand Factor), proteina multimerica che media l’adesione piastrinica in prossimità del danno endoteliale

[20,21].

Ad oggi la maggior parte delle nostre conoscenze sulla biologia delle EPC deriva da studi condotti in vitro in cui le fasi di attivazione, mobilizzazione, homing e differenziazione sono state studiate in modelli animali o in colture cellulari. Si ritiene che le EPC siano localizzate in una cavità del midollo osseo, denominata “stromal niche” e che il loro

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rilascio verso la zona vascolare della nicchia, dove passano da uno stato quiescente ad uno di attiva proliferazione, sia regolato da una grande varietà di stimoli, tra i quali VEGF e SDF-1 α. Alcuni studi hanno mostrato che i meccanismi di homing sono in qualche modo mediati da selectine e molecole di adesione mentre gli eventi della cascata differenziativa rimangono in gran parte sconosciuti [38].

Se la caratterizzazione fenotipica e funzionale è sempre oggetto di studio, il principale motivo per cui le EPC suscitano grande interesse è dovuto al ruolo che si pensa queste cellule svolgano nel mantenimento dell’omeostasi vascolare attraverso processi di neovascolarizzazione e ri-endotelizzazione di vasi danneggiati. A dimostrazione di ciò, è stata osservata una correlazione inversa tra il numero di EPC circolanti e l’insorgenza di aterosclerosi, il rischio cardiovascolare, le disfunzioni cardiovascolari nonchè la morbidità e mortalità cardiovascolare [7-9]. Il livello di EPC è risultato associato al Framingham Risk

Score (p-value=0,001) che comprende i più comuni indici cumulativi di rischio cardiovascolare: diagnosi di diabete, colesterolo, trigliceridi, pressione arteriosa, fumo e famigliarità per CAD (Figura 1.3). E proprio per quanto riguarda il diabete, non sono solo state osservate diminuzioni nel numero delle EPC ma anche alterazioni funzionali. Infatti è stato dimostrato che le EPC provenienti da pazienti diabetici mostrano un’alterata proliferazione, adesione e incorporazione all’interno delle strutture vascolari [19]. Pertanto,

una riduzione delle EPC potrebbe rappresentare il meccanismo attraverso il quale soggetti affetti da diabete abbiano una ridotta capacità di formare vasi collaterali e riparare ai danni endoteliali.

E’ interessante notare che gran parte delle complicanze nei pazienti diabetici è dovuta ad un’aumentata vulnerabilità cardiovascolare. Tale vulnerabilità risulta in un tasso di mortalità crescente, in cui le patologie cardiovascolari costituiscono il 50-80% delle cause di morte. Data la diffusione di stati asintomatici come la Sindrome Metabolica, per cui il

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rischio di sviluppare diabete o malattie cardiovascolari aumenta, le percentuali riportate sopra sono senza dubbio destinate a crescere.

Il diabete mellito rappresenta la patologia metabolica più diffusa nel mondo, la cui prevalenza è destinata ad aumentare vertiginosamente a causa del costante incremento nella popolazione occidentale di obesità ed errate abitudini di vita. I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) indicano che vi siano circa 171 milioni di persone affette dal diabete nel mondo in tutte le fasce di età e che nel 2030 si potrebbe arrivare a 366 milioni di malati passando da una prevalenza del 2.8% ad una del 4.4% [1]. Il diabete mellito comprende una serie di alterazioni del metabolismo che

condividono il fenotipo dell’iperglicemia e che identificano due differenti forme di questa patologia: il diabete mellito di tipo 1 (DM1) e il diabete mellito di tipo 2 (DM2). Il DM1 rappresenta il 5-10% di tutti i casi di diabete ed è causato dalla distruzione immuno-mediata delle cellule β del pancreas, con una riduzione in termini assoluti della secrezione insulinica mentre il DM2, che comprende circa il 90-95% di tutti i tipi di diabete mellito, ha una eziopatogenesi decisamente più complessa, caratterizzata da una iniziale insulino-resistenza compensata da una ipersecrezione pancreatica di insulina, arrivando ad una fase terminale in cui questa aumentata secrezione non riesce più a compensare l’insulino-resistenza, giungendo quindi ad uno stadio di deficit insulinico assoluto con aumento del livello glicemico [2]. Recentemente, Brownlee ha

introdotto l’idea di un meccanismo unificante per la patogenesi delle complicazioni comunemente associate con la patologia diabetica secondo il quale le cellule esposte all’iperglicemia mostrerebbero un aumento della produzione dei composti reattivi dell’ossigeno (ROS) come conseguenza della più alta concentrazione di glucosio intracellulare [86]. L’aumento dello stress ossidativo associato all’instaurarsi di uno stato

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così l’insorgenza di più rapidi processi aterosclerotici che aumentano il rischio di patologie micro e macro-vascolari.

Figura 5.1 Fattori che influenzano il livello e la funzionalità delle EPC

Effettivamente sembra che questi meccanismi si riflettano sulle fasi di attivazione delle EPC che risultano bloccate a causa della diminuzione di fattori quali VEGF ed SDF-1α ma anche dell’attività di eNOS e quindi della biodisponibilità dell’ossido nitrico che a sua volta concorre nell’aumentare ROS e tutte le citochine infiammatori implicate in questo processo (Figura 5.1). Tali osservazioni conducono a due ipotesi secondo le quali la riduzione del numero di EPC in pazienti diabetici potrebbe essere determinata dall’aumento del danno endoteliale che tenderebbe ad impegnare la riserva di EPC e/o dall’incremento del danno a carico delle stesse EPC.

Da queste evidenze nasce l’idea di caratterizzare le EPC in una coorte di soggetti costituita da 18 pazienti con diabete di tipo II di nuova diagnosi, 34 pre-diabetici e 26 normoglicemici, che rappresentano i controlli, di cui 13 con familiarità di primo grado per diabete di tipo II e 13 senza storia familiare di diabete. La quantificazione delle EPC

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effettuata nei laboratori del Dipartimento di Endocrinologia e Metabolismo dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Pisana, ha permesso di identificare le cellule che co-esprimono CD34 e KDR tramite l’analisi al citofluorimetro (FACS).

Il confronto dei livelli di EPC tra i controlli sani all’entrata nello studio verso i soggetti diabetici evidenzia una differenza significativa (83,271 ± 58,208 cellule/ml vs 52,548 ± 27,795 cellule/ml, p-value=0,0343, Figura 4.1), come peraltro già ampiamente descritto in letteratura. Andando a separare i gruppi dei controlli in soggetti sani con familiarità al diabete, soggetti sani senza familiarità al diabete e pre-diabetici è possibile evidenziare come il numero di EPC nei pazienti diabetici sia molto simile a quello dei pazienti sani con familiarità al diabete (52,548 ± 27,795 cellule/ml vs 57,507 ± 25,317 cellule/ml, Figura 4.2) suggerendo il possibile coinvolgimento di fattori genetici nella determinazione di questi livelli. Effettivamente un fenomeno simile era già stato osservato in uno studio del 2008, il cui target erano le malattie cardiovascolari (CAD). I livelli di EPC mostravano una correlazione positiva sia tra i genitori sani ed i loro figli sani, sia tra i genitori malati ed i loro figli sani. Paradossalmente però, il numero di EPC circolanti nei figli di genitori malati risultava più alto rispetto a quello dei figli di genitori sani suggerendo che sebbene i figli di genitori malati risultassero clinicamente sani, essi potessero nascondere una vulnerabilità ai danni vascolari comportanti una maggiore attivazione delle EPC e quindi una riduzione del loro numero [87].

In funzione di queste evidenze ci siamo proposti di andare a studiare dei fattori genetici come i polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) in relazione ai livelli di EPC circolanti, con l’obiettivo di raccogliere eventuali indizi a favore dell’esistenza di un controllo genetico dei livelli di EPC in soggetti diabetici e pre-diabetici.

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Abbiamo selezionato 12 SNP in 12 geni codificanti fattori implicati nelle fasi di attivazione delle EPC e nei processi infiammatori: IL-1A (Ala114Ser, rs17561), IL-1B (-511 C>T, rs16944), IL-1R1 (Ala124Gly, rs2228139), IL-2 (-384 G>T, rs2069762), IL-2RB (Asp391Glu, rs228942), IL-4 (-33 C>T, rs2070874), IL-6 (-597 G>A, rs1800797), IL-6R (Asp358Ala, rs8192284/rs2228145), TNF-α (-308 G>A, rs1800629), TNF-RSF1B (Met196Arg, rs1061622), VEGF-A (-94 G>C, rs2010963) ed ICAM-1 (Lys469Glu, rs5498).

Per i polimorfismi nei geni IL-1A, IL-1B, IL-1R1, IL-2, IL-2RB, IL-6, IL-6R, TNF-RSF1B e VEGFA tale analisi non ha mostrato associazioni statisticamente significative con il numero di EPC circolanti (Tabella 4.1).

I livelli di EPC circolanti tra soggetti con genotipo C/C vs T/T per il polimorfismo -33 C/T (rs2070874) dell’IL-4 è risultato significativamente diverso (p-value=0,0388), mentre è al limite della significatività la differenza tra eterozigoti C/T vs T/T (p-value=0,0625). Tuttavia, questo dato potrebbe dipendere dal fatto che il genotipo T/T è stato riscontrato in un unico soggetto. Potrebbe essere interessante approfondire lo studio di questo polimorfismo, aumentando il numero di soggetti in esame e, dato che l’IL-4 è considerata una citochina ad azione anti-infiammatoria, verificare se i livelli di IL-4 risultano effettivamente più bassi nei soggetti diabetici e alterati in relazione ad un particolare genotipo.

Per quanto riguarda il TNF-α il suo ruolo nella disfunzione vascolare era stato già ampiamente descritto da Zhang nel 2009 [64]. Questo fattore infatti riduce la disponibilità

di NO sia inibendo l’attività di eNOS, sia aumentandone la rimozione promuovendo la produzione di ROS, il cui livello basale è significativamente elevato nei soggetti diabetici

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e svolge un ruolo chiave nell’indurre apoptosi a livello endoteliale attraverso l’attivazione della caspasi-3. Il TNF-α incrementa l’espressione delle molecole di adesione intracellulari (ICAM-1 e VCAM-1), stimola la produzione di alcune citochine infiammatorie e oltre che del VEGF. Evidenze cliniche hanno dimostrato come i livelli sierici di TNF-α siano correlati negativamente con il numero di cellule staminali CD34+ e di EPC presenti nel sangue periferico in seguito ad infarto miocardico [68]. In realtà nel nostro studio i

livelli di TNF-α non sono risultati più elevanti nei soggetti diabetici o pre-diabetici rispetto ai controlli (p-value=0,2334, Figura 4.14) e non è risultato alterato neppure il livello di TNF-α in relazione al genotipo del polimorfismo studiato (p-value=0,4498, Figura 4.12) però è risultata significativa con un p-value pari a 0,0039, l’associazione tra il polimorfismo -308 G/A e le EPC (Figura 4.5). Tale risultato è stato confermato anche a seguito della aggiunta degli ulteriori 62 pazienti inseriti successivamente nello studio, portando il p ad un valore pari a 0,0236 (nell’analisi statistica in cui i due genotipi A/A e A/G sono accorpati) (Figura 4.9). La significatività dell’associazione tra il polimorfismo

rs1800629 del TNF-α ed il livello delle EPC permette di ipotizzare una potenziale

predisposizione genetica alle complicanze micro e macro-vascolari del diabete. La genotipizzazione di tale polimorfismo potrebbe permettere di predire la possibile progressione aterosclerotica rallentandola e addirittura prevenendola con un approccio terapeutico mirato a ridurre tutti i fattori di rischio che andrebbero ad aggravare lo stato patologico.

L’associazione tra il polimorfismo rs5498 di ICAM-1 ed il livello di EPC nei 78 soggetti dello studio pilota si è dimostrato significativo (A/A+A/G vs G/G p-value=0,0320, Figura 4.7) però tale risultato non è stato poi convalidato dall’analisi successiva sulla popolazione ampliata (Figura 4.9 e 4.10). Inoltre tale polimorfismo non comporta

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cambiamenti nei livelli di ICAM-1 in relazione al genotipo del polimorfismo (Figura 4.13) ma certamente è interessante sottolineare che il livello di questa molecola di adesione nei diabetici è significativamente maggiore sia nei confronti dei pre-diabetici sia in quelli dei controlli (rispettivamente 424,402 ± 117,881 cellule/ml, 326,336 ± 143,495 cellule/ml e 244,862 ± 124,333 cellule/ml, p-value=0,0002, Figura 4.15). In relazione a queste osservazioni, lo studio di altri polimorfismi di ICAM-1 potrebbe essere necessario per giungere ad associazioni significative tra la componente genetica ed i livelli delle EPC. In conclusione, identificare dei marker genetici implicati nel controllo dei livelli di EPC potrebbe permettere di predire la suscettibilità al danno cardiovascolare ed impedire la transizione ad uno stato patologico grave.

Figura

Figura 5.1 Fattori che influenzano il livello e la funzionalità delle EPC

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