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Premessa

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Premessa

«Cinema e letteratura, in un viluppo esistenziale prima che culturale, erano indissociabili nella personalità dello scrittore».

Tullio Kezich, “Corriere della Sera”, 21 novembre 1989

Nel bel saggio C’era una volta il cinema, che ripercorre, attraverso la memoria personale, quella collettiva della sua adolescenza, accennando a una consonanza di intendimenti con il conterraneo e amico Gesualdo Bufalino, Sciascia scrive: «per lui, per me, per altri della stessa generazione il cinema era tutto. Tutto»1.

A cominciare dalle elementari, infatti, i ragazzini del suo paese, come di altri, di pari passo con un apprendistato artigiano, che li avrebbe precocemente catapultati nel mondo del lavoro, si istruivano al cinematografo, attraverso «l’alfabeto delle immagini»2: «e della funzione del cinema nel rivelar loro le cose bisogna, per allora, tenere un certo conto» (p. 120). Né declinava l’importanza del nuovo medium durante l’adolescenza, anzi. In Ore di Spagna lo stesso scrittore racconta, con toni ancora vibranti, della ricaduta, sul piano formativo-educativo, che la lezione del cinema aveva sulle giovane menti:

Che cosa fosse per un ragazzo di sedici anni il mito del cinema americano (il mito del cinema francese stava per sorgere) è difficile immaginare per chi non l’ha vissuto. Era, si può dire, tutto. Vi si intravedevano i libri che non si potevano leggere, le idee che non

potevano circolare, i sentimenti che non si dovevano avere...3.

Il cinema, dunque, rappresentava la conoscenza, offriva stimoli alla scoperta dell’altro con cui confrontarsi, e dell’altrove, attraverso cui definirsi; ma il cinema soprattutto incantava:

E venne il cinematografo [...]. Si era, credo, nel 1929. Non ricordo con quale film si inaugurò il cinema: ma ne rivedo, vago e intermittente come nei sogni, dei primi piani con la faccia di Jack Holt.

Ne venne a tutto il paese una passione, una febbre, per cui dal lunedì al venerdì o si parlava del film già visto o si vagheggiava e si facevano congetture su quello da vedere (p. 119).

1

L.SCIASCIA, C’era una volta il cinema, in ID., Fatti diversi di storia civile e letteraria, Palermo, Sellerio, 1989, p. 122. Si farà riferimento a questa edizione, anche per le pagine richiamate in parentesi.

2

L.SCIASCIA, La Sicilia nel cinema, in ID., La corda pazza, Milano, Adelphi, 1991, p. 285.

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2

C’è, in questi brevi stralci, il senso pieno del cinema, compresi il ruolo sociale accomunante, la percezione di epopea degli albori e l’atmosfera onirica che sempre l’avvolge.

Date queste premesse, non stupisce che, in varie forme e modalità, il cinema sia una presenza costante e ricorrente nell’opera di Sciascia, fino alla fine, ispirandogli pagine in cui i ricordi si arricchiscono di riverberi o si disperdono in rarefazioni di dissolvenze incrociate:

L’isola del tesoro: una lettura, aveva detto qualcuno, che era quanto di più si poteva

assomigliare alla felicità. Pensò: stasera lo rileggerò. Ma ne aveva precisa memoria, avendolo tante volte riletto in quella vecchia e brutta edizione che una volta gli avevano regalato. Aveva perso tanti libri, nei suoi trasferimenti da una città all’altra, da una casa all’altra: ma non questo. Edizione Aurora: carta paglierina, che dopo tanti anni pareva aver prosciugato e sbiadito la stampa; e, in copertina, malamente colorato, un fotogramma del film: che era in bianco e nero, piuttosto lezioso e insulso Jim Hawkins, indimenticabile John Silver, Wallace Beery. Indimenticabile come Pancho Villa: e, dopo aver visto l’uno e l’altro film, non si poteva più leggere il libro di Stevenson o quello di Guzman sulla rivoluzione messicana, senza che i personaggi si presentassero col fisico, i gesti e la voce di Wallace Beery. Pensò a quello che il cinema era stato per la sua generazione; e se aveva effetti paragonabili per la nuova, o se li avesse quel cinema rimpiccolito, a lui insopportabile, che offriva la televisione4.

È un passo de Il cavaliere e la morte, del 1988, il penultimo romanzo, nel quale lo scrittore ha, per così dire, abbassato la guardia, rivelando molto di sé, attraverso il protagonista della storia, un ennesimo detective, sul viale del tramonto, chiamato “il Vice” non certo casualmente.

Il narratore ne racconta le preoccupazioni, i vagheggiamenti, e il riemergere improvviso di «un antico sogno, antica memoria; per quanto antiche gli erano diventate le cose dell’infanzia, dell’adolescenza»5: è L’isola del tesoro, un vecchio libro, di quelli che un tempo si definivano di “Letteratura per l’infanzia”, lo stargate che immette il Vice in altre dimensioni, schiudendogli mondi irreali, mescolati di ricordi, emozioni e fantasie, grazie a quella copertina ormai scolorita sulla quale si intravede il volto intenso dell’attore protagonista del film omonimo del 1934, che si fonde e si duplica con quello del medesimo attore nei panni di un nuovo eroe, Pancho Villa6, in una suggestiva e ripetuta dissolvenza incrociata.

Che Sciascia deleghi al protagonista del racconto la propria riflessione si deduce non tanto da una certa idiosincrasia che il personaggio manifesta verso la «scienza pubblicitaria che alluvionava il mondo»7 tramite la televisione o dall’evocazione di uno dei suoi miti cinematografici, quanto dall’affetto struggente per un universo di immagini, in cui letteratura e cinema costituiscono un insieme inscindibile.

4

L.SCIASCIA, Il cavaliere e la morte, Milano, Adelphi, 1988, pp. 68-69. 5 Ibidem.

6 Il film, che vantava una sceneggiatura di Ben Hecht, è di Jack Conway, ugualmente del 1934 e s’intitola, Viva Villa!. Valse a Wallace Beery una medaglia d’oro come miglior interprete maschile.

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Prossimo al commiato dal cinema, dalla letteratura e dalla vita, lo scrittore consente al suo Vice di lasciare il pensiero libero di fluire, inseguendo associazioni di idee e coniugando ricordi: il piacere puro della lettura, sulla carta stampata, piacere visivo e tattile, che libera la fantasia, a sua volta sempre più configurata sul modello cinematografico e attivata dall’immaginario filmico, e, insieme, il piacere di un cinema che suscita sensazioni impreviste e nuove relazioni tra le cose.

Sciascia, dunque, si interessa al cinema già da quando, ancora bambino, rimane folgorato dall’arrivo del “cinematografo” nella sua Racalmuto; spettatore onnivoro, se ne alimenta con avidità; comincia poi a scriverne, già dal lontano 1958; sogna, fino ai vent’anni, di diventare regista, soggettista o sceneggiatore, e si cimenta con la scrittura cinematografica. Poi l’incantesimo s’infrange e se ne allontana, sentendosi «tradito», poiché il cinema «è diventato altra cosa [...]: è diventato parodisticamente letteratura, parodisticamente pittura, parodisticamente avanguardia di ogni cosa che sa di avanguardia»8 (p. 123). Non va più al cinema «se non per il dovere di vedere i films tratti dai [suoi] libri»9, ma di cinema torna a scrivere, con nostalgico rimpianto per quello ormai scomparso, negli ultimi giorni della sua vita, nel 1989, con un testo critico-memorialistico che trasuda commozione, pur senza abdicare all’ironia, e che, a mio avviso, meriterebbe un posto di rilievo nella sua produzione.

Il suo rapporto con il cinema è molteplice e complesso. Si è ritenuta necessaria, perciò, un’esplorazione delle modalità in cui si sviluppa, individuando possibili intersezioni con la sua scrittura. Almeno due sono risultate le linee, non prive di ramificazioni, lungo le quali è apparsa particolarmente proficua l’indagine sull’argomento. Innanzitutto, la riflessione sul medium operata dallo scrittore, per lo più di tipo teorico, che occupa per intero tre saggi, imperniati sul cinema come arte, come memoria, come pacifica rivoluzione culturale e fabbrica di moderni miti, e, ancora, sul fenomeno del divismo, sul significato stesso del vedere film, sulle ambigue e varie identità di un attore e, infine, sulla storia del cinema, specie in relazione alla Sicilia. L’altro percorso di indagine (più impegnativo) riguarda la filmografia tratta dalle sue opere e si concentra sull’analisi comparativo-contrastiva dei tre romanzi polizieschi di mafia, Il giorno della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966) e Una storia semplice (1989), in rapporto alle rispettive trasposizioni cinematografiche.

8 A riprova di una sorta di apostasia dal “culto” per il cinema, ci sarebbe un passo tratto da Il consiglio d’Egitto del 1963, dove il narratore riferisce il pensiero dell’avvocato Di Blasi, in cui si potrebbero riconoscere tratti identificativi dello scrittore, che «con disgusto si sorprendeva spesso a pensare per immagini» (L.SCIASCIA, Il consiglio d’Egitto, Torino, Einaudi, 1963, p. 119). Sebastiano Gesù corregge il tiro: probabilmente è il «disgusto dello scrittore che si scopre più che cesellatore di parole evocatore di figurazioni e di immagini». S.GESÙ, Sciascia al/e il cinema, in S. LANDI (a cura di), Leonardo Sciascia, Cinema e Letteratura, Atti del corso di aggiornamento Cinema e Letteratura – Leonardo Sciascia, Pordenone 2-30 marzo 1993, Pordenone, Cinemazero, 1995, p. 35.

9 L.S

CIASCIA,La Sicilia come metafora, intervista di Marcelle Padovani, Milano, Mondadori, 1979, p. 11. Più tardi, pur confermando di non andare più al cinema, almeno dirà di fare un’eccezione per i film di Fellini. L.SCIASCIA, Quel falso

mito di Giuliano, in “Il Corriere della Sera”, 27 ottobre 1987, ora in S.GESÙ (a cura di) Le maschere e i sogni: scritti di

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Numerosi, com’è noto, sono stati i cineasti10 che si sono ispirati ai suoi romanzi, ma Elio Petri, Damiano Damiani ed Emidio Greco hanno creato opere che emergono sulle altre per una serie di fattori: la qualità della scrittura visiva, il senso del ritmo o, viceversa, la misura classica della forma, la capacità di sfruttare al massimo le potenzialità degli attori, il rispetto tutt’altro che prono e passivo per la personalità dello scrittore, la sintonia sul piano etico e civile.

I tre binomi libro-film mi sono sembrati, pertanto, obiettivi da privilegiare, oltre che per un confronto tra “autori”, per la fortunata convergenza di almeno due coordinate costanti nell’opera di Sciascia: il giallo poliziesco, sorretto dalla modalità investigativa connaturata all’approccio conoscitivo dello scrittore11, cui ha informato la sua scrittura – e non solo come romanziere –, e la Sicilia, terra d’origine, amata-odiata all’apparenza, in realtà riconosciuta come approdo dell’anima, malgrado le contraddizioni e le atrocità sempre indagate, accanto agli usi, alle tradizioni, alla mentalità, perfino alla religiosità. Né va dimenticato, in particolare, che con il primo dei tre romanzi, com’è noto, Sciascia ha contribuito in misura determinante a denunciare il fenomeno infestante della mafia, quando ancora era misconosciuto e negato, e a metterne in luce «le sue complicità e implicazioni politiche»12; e nemmeno va dimenticato che, con il primo dei tre film ispirati alla sua opera (A ciascuno il suo, di Elio Petri, del 1967), il pubblico dei lettori si è esteso agli spettatori, incrementando il desiderio di chiarezza e potenziando la provocazione nei confronti delle ipocrisie di chi dissimulava la realtà.

Le pellicole prescelte, inoltre, rappresentano esempi molto differenti tra di loro di lettura critica dei suoi romanzi, traducendosi in un contributo significativo alla sua fortuna e allo studio della sua poetica. Sta appunto qui la motivazione più forte di questa ricerca. Lo studio comparatistico, infatti, permette di avvalersi del cinema come valido strumento di indagine critico-letteraria del testo, alla scoperta di percorsi di significato possibili che da questo scaturiscono,

10 Varie le motivazioni per avvicinarsi all’opera di Sciascia da parte dei registi cinematografici: corrispondenze del sentire (voglia di verità, di giustizia, affinità elettive), la presenza di «una struttura forte (il giallo), un contenuto (la mafia, il complotto, il dilemma etico),figure di investigatori democratici, una legittimazione letteraria» (L. TORNABUONI, Dal testo all’immagine, in “La stampa”, 21 novembre 1989), insomma «un formidabile campionario di soggetti da epicizzare con la corposità figurativa, immediatamente realistica, di un’arte della visione». Cfr. F.GIOVIALE,

Sciascia e il cinema, in Z.PECORARO,E.SCRIVANO (a cura di), Omaggio a Sciascia, Atti del convegno Agrigento,

6-7-8 aprile 1990, Agrigento, Sarcuto, 1991, p. 106-7-8.

11 Attraverso lo sguardo che esplora e la scrittura che oggettiva si arriva, secondo Sciascia, alla conoscibilità del mondo e tale particolare valenza della visione come veicolo di conoscenza è presente in tutti e tre i romanzi (sarà oggetto di riflessione nel percorso parallelo sul cinema, laddove la visione costituisce un elemento connaturato imprescindibile). A causa di questa convinzione, lo scrittore ha mostrato nella gran parte della sua produzione, anche saggistica, «l’orgoglio di non fidarsi di nessuna testimonianza, di nessuna versione per quanto accreditata, per poter o avanzare con cautela un nuovo dubbio o smascherare con sdegno una vecchia impostura storiografica» (C.A. MADRIGNANI, I pugnalatori (recensione), in “Belfagor”, luglio 1977). La sua ricerca gnoseologica, che gli è valsa la famosa definizione di Gesualdo Bufalino, “Poliziotto di Dio”, lo ha indotto, cioè, a spingere lo sguardo oltre le apparenze, oltre le mistificazioni messe in atto dal potere in ogni sua forma e manifestazione, sostenuto da una perenne aspirazione alla verità, pur nella crescente disillusione che esista una verità definitiva, e che quella spacciata come tale non nasca solo dalla presunzione o sia una semplificazione che non tiene conto delle sue molte facce. Sulle implicazioni della problematica del vedere in Sciascia ha scritto anche Claude Ambroise, al cui prezioso saggio si rimanda: C.AMBROISE, Un primo sguardo sulla

problematica del vedere in Leonardo Sciascia, in S.GESÙ (a cura di), Leonardo Sciascia, Catania, Maimone, 1992, pp.

23-31.

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perché le immagini filmiche, restituendo intatto o modificando il messaggio dell’autore, ne interpretano e ne filtrano la riflessione. Nel caso della scrittura di Sciascia, poi, così densa di significati impliciti, circondata da un’aura di problematicità, così ricca di rimandi e «come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti»13, un percorso di tal genere può risultare vantaggioso, dal momento che i registi prescelti, pur collocandosi tutti sul terreno dell’impegno civile, stabiliscono diverse sintonie con lo scrittore e, in particolare Petri e Greco, declinano forme correlate di allotropie nei rispettivi labirinti del poliziesco, popolando le loro opere di analoghe inquietudini.

Il primo dei tre romanzi esaminati, Il giorno della civetta, autorizza, inoltre, una verifica più puntuale dell’impatto che il cinema ha prodotto sull’autore e delle implicazioni sul suo immaginario, sulla sua enciclopedia e in special modo su quelle tecniche di scrittura che appaiono forgiate su modelli filmici, così da costituire un unicum, anche nell’ottica di un effetto rebound dal cinema alla letteratura e, in parte, di una circolarità che parte dall’immagine dello schermo per approdare al testo e viceversa.

L’ultima considerazione deve necessariamente riferirsi all’attualità delle opere selezionate, sia per i contenuti che per la forma: i romanzi polizieschi di Sciascia sono contestualizzati in un passato che sembra presente, trattando di una mafia, avvolgente e sotterranea, potente e temibile, assai somigliante a quella dei nostri giorni. Se si pensa che Il giorno della civetta è stato scritto esattamente cinquant’anni fa (un dato che sgomenta), non si può non condividere l’opinione espressa dalla giallista Nicoletta Vallorani, che così commenta: «Ottimisticamente, Sciascia era dotato di un prodigioso intuito di scrittore: o forse, più pessimisticamente, non ci siamo mossi più di tanto rispetto agli anni cui Il giorno della civetta si riferisce»14. Come molti grandi scrittori era davvero un po’ profeta anche Sciascia, anche se odiava ammetterlo, e, infatti, anche la Sicilia che racconta potrebbe ancora incarnare un’efficace metafora della società, nella quale ci riconosciamo: la lettura dei suoi racconti dovrebbe scuotere la coscienza civile e non solo registrare l’offuscamento. La sua scrittura, poi, così affilata e ironica, così aliena da barocchismi, risulta ancora attualissima e conquista con immediatezza, anche perché le strategie narrative sono così ben amalgamate alla diegesi che solo un’attenta lettura analitica ne può carpire i segreti.

Dal canto loro, i tre registi, Petri, Damiani e Greco, hanno creato, in momenti diversi della storia italiana (la pellicola di Greco è posteriore di oltre vent’anni rispetto alle altre due), film rispondenti a esigenze diverse. Petri e Damiani si sono fatti, a loro modo, portavoce di una denuncia civile che urgeva negli anni ’60, mentre Greco, imprimendo alle immagini la forza espressiva della sua battaglia, condotta senza clamori e ostentazioni, ha dato prova di muoversi su frequenze “naturalmente” vicine a quelle di Sciascia, in un’epoca in cui i furori ideologici si erano già spenti e l’individualismo si radicava nella società civile.

13

L.SCIASCIA, Nero su nero, Milano, Adelphi, 1991, p. 211.

14

N.VALLORANI, Il giorno della civetta, non “solo” un poliziesco, in M.D’ALESSANDRA,S.SALIS ( a cura di), Nero su

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Concludendo, i campi di indagine menzionati (poliziesco, Sicilia, ed effetto rebound, laddove comprovabile) sono stati tutti attraversati durante la ricerca.

La prima parte del lavoro affronta, infatti, lo studio degli scritti di Sciascia sul cinema, da cui emergono sia la penetrazione del medium nella formazione e nel sentire dello scrittore, sia le radici e lo sviluppo di un rapporto profondo e complesso. Il resto dell’indagine, invece, si concentra sulla trilogia di polizieschi di mafia e sulle relative trasposizioni filmiche, istituendo precisi parallelismi tra le due diverse dimensioni della narratività, con approfondimenti sulla genesi, sui tratti distintivi e, dove possibile, sugli obiettivi dell’opera di volta in volta esaminata, riconoscendo, per esempio, il percorso di disgregazione del modello classico di poliziesco, o le differenti declinazioni dell’ironia: guardando, insomma, all’opera di partenza come a «una forma suscettibile di assumere – nel tempo, nello spazio, nello stato d’animo o condizione dei singoli che ne fruiscono – significazioni diverse, diversa vita; e i personaggi come persone realmente esistite o esistenti, le cui azioni e pensieri si possono interpretare al di qua o al di là dell’interpretazione che sembrò voler conferire colui che li creò»15.

15 L.S

CIASCIA, Ore di Spagna, cit., p. 30. Sciascia sta parlando del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, ma il giudizio espresso ci è sembrato appropriato anche per i suoi romanzi.

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