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Riforma Orlando: atti investigativi difensivi, giudizio abbreviato e poteri recuperatori del pubblico ministero

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Penale

RIFORMA ORLANDO

Riforma Orlando: atti investigativi difensivi,

giudizio abbreviato e poteri recuperatori del

PM

martedì 15 novembre 2016

di Suraci Leonardo Dottore di ricerca in diritto processuale penale presso l’Università La Sapienza di Roma

Il d.d.l. di riforma del codice di procedura penale incide in maniera significativa sui rapporti tra due istituti che, nel loro combinarsi, connotano di tratti paradigmatici l’intero sistema

processuale. Infatti, il tema del rapporto tra le investigazioni difensive ed il giudizio abbreviato ha fin dall’inizio – ossia, sin dall’entrata in vigore della l. 7 dicembre 2000, n. 397 – presentato significativi profili di problematicità, legati per lo più al combinarsi di due sottoinsiemi del sistema processuale penale sorretti dal principio dispositivo.

L’indagine privata, come è stato già messo ampiamente in evidenza dalla dottrina che si è occupata dei principi generali del sistema investigativo difensivo, presenta il carattere della

“disponibilità”, nel senso che il difensore non è gravato da un dovere investigativo, ma

compie atti d’indagine soltanto in quanto – e nei limiti in cui – li ritenga funzionali alla piena attuazione della propria strategia difensiva.

Essa può, inoltre, presentare il connotato della “frammentarietà”, da intendersi come libertà

del difensore di scegliere gli atti investigativi da compiere e le risultanze da portare a conoscenza dell’antagonista pubblico e, quindi, da sottoporre alla valutazione giudiziale.

Il giudizio abbreviato, a sua volta, è divenuto,a seguito della riforma attuata con la Legge 16 dicembre 1999, n. 479, un modello processuale suscettibile di essere attivato su

iniziativa dell’imputato, secondo uno schema introduttivo nell’ambito del quale il pubblico

ministero è stato privato di qualsiasi funzione ed il giudice, qualora si tratti di una richiesta semplice, di un effettivo spazio di delibazione.

La previsione di una sottostruttura che consente all’imputato di formare direttamente la prova da utilizzare nell’ambito di un modello processuale al quale lo stesso ha il diritto di accedere ha posto al centro dell’attenzione i problemi connessi ad una fattispecie normativa complessa che, in termini assolutamente innovativi, pone l’attività d’investigazione difensiva – ma, soprattutto, le risultanze di essa – al centro del sistema.

Superata, oramai, ogni perplessità circa la piena utilizzabilità delle predette risultanze nell’ambito del rito speciale e consolidatosi anche in giurisprudenza l’orientamento che

ammette il ricorso a siffatti contributi investigativi (cfr., infatti, Cass. pen., sez. III, 21 aprile 2010, n. 33898), la scelta di sottrarre al pubblico ministero la possibilità di assumere iniziative

autonome sul versante probatorio, soprattutto in relazione ai casi in cui la produzione di esse sia contestuale al deposito dell’istanza di ammissione, ha, come è noto, destato perplessità anche sul terreno costituzionale,

La possibilità offerta alla difesa – dell’imputato, in particolare – di influenzare con atti formati unilateralmente la decisione conclusiva del giudizio abbreviato, accompagnata dalla mancanza di strumenti attuativi del diritto alla prova a favore del pubblico ministero – estromesso dalla fase introduttiva del giudizio speciale, egli non ha spazi per interloquire in merito a scelte difensive implicanti la trasformazione funzionale del materiale investigativo – ha indotto

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autorevoli voci dottrinarie ad individuare nel binomio indagini difensive-giudizio

abbreviato una combinazione notevolmente pregiudizievole del valore della parità delle parti,

questa volta incrinato, nel suo equilibrio, a vantaggio della difesa.

Ne è scaturita l’insorgenza di dubbi circa la legittimità costituzionale – è stato evocato, quale parametro, il principio della parità della parti, sancito dall’art. 111, comma 2 Cost. – di una disciplina che non contempla reciprocamente la necessità del consenso di tutte le parti processuali ai fini dell’inserimento dei rispettivi atti d’indagine nel fascicolo utilizzabile dal giudice nell’ambito del rito differenziato.

L’impostazione contraria all’utilizzo delle risultanze dell’investigazione difensiva nell’ambito del rito speciale secondo una dinamica introduttiva che prescinda dal consenso del pubblico ministero è stata, però, disattesa dalla Corte costituzionale con la sent. 26 giugno 2009, n.

184, sulla base di una ricostruzione della relazione sussistente tra il profilo oggettivo del

contraddittorio e il diritto di difesa secondo la quale il primo costituirebbe soltanto un aspetto di quest’ultima.

“È necessario anzitutto precisare” – ha chiarito la Corte quanto al thema decidendum – “che la censura di incostituzionalità mira ad estromettere in radice dal materiale utilizzabile ai fini decisori nel giudizio abbreviato tutte quante le risultanze delle indagini difensive […] salve le fattispecie impeditive dell’acquisizione della prova in contraddittorio previste dall'art. 111, comma 5, Cost. (“impossibilità di natura oggettiva” e “provata condotta illecita”). Il quesito viene prospettato, invero, in termini generali, indipendentemente dalle modalità con le quali le

investigazioni difensive siano portate alla cognizione del giudice del rito speciale (sono, dunque, comprese nella censura – che ne implicherebbe l’inutilizzabilità – anche quelle la cui documentazione fosse già nel fascicolo presentato dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 416, comma 2, c.p.p.). Il rimettente prescinde, poi e in particolare, dall’eventualità, verificatasi nel giudizio a quo, che la documentazione difensiva venga prodotta “a sorpresa” immediatamente prima della richiesta di giudizio abbreviato” (Corte cost., 26 giugno 2009, n. 184).

Il passaggio assume un rilievo tutt’altro che secondario, dal momento che, apparentemente asservito ad una funzione meramente descrittiva, è volto a puntualizzare che la soluzione offerta dalla Corte, evidentemente intenzionata a chiudere una volta per tutte la partita sul tema, è dotata di una portata generale, così come richiesto dal carattere onnicomprensivo del quesito di costituzionalità.

Quindi, la Consulta è passata ad illustrare il nucleo essenziale della propria impostazione, incentrato sull’esatta individuazione dei connotati relazionali delle diverse traduzioni

del principio del contraddittorio.

Esaminando siffatto versante, essa ha evidenziato che “la constatazione che il principio del contraddittorio nella formazione della prova, enunciato dal primo periodo del quarto comma dell’art. 111 Cost., si traduca in un metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio – così da evocare, secondo quanto affermato […] all’indomani della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, la “dimensione oggettiva” del contraddittorio stesso […] – non è, di per sé, dirimente circa le prospettive di salvaguardia sottese alla garanzia in parola, configurata dal dettato costituzionale come tipica ed esclusiva del processo penale” (sempre Corte cost., 26 giugno 2009, n. 184).

Infatti, “a prescindere da qualsiasi considerazione sulla validità della concezione oggettiva del contraddittorio” – si può leggere nella motivazione della sentenza costituzionale –

“l’enunciazione del quarto comma dell'art. 111 Cost., secondo cui nel processo penale “la formazione della prova è regolata dal principio del contraddittorio”, non comporta che il cosiddetto profilo oggettivo del medesimo non sia correlato con quello soggettivo e non costituisca comunque un aspetto del diritto di difesa, come attesta eloquentemente la

circostanza che il successivo quinto comma, nell’ammettere la deroga al principio, fa riferimento anzitutto al consenso dell’imputato […] Catalogare i diritti sanciti dall’art. 111 Cost. in due classi contrapposte – ora, cioè, tra le “garanzie oggettive”, ora tra quelle “soggettive” – risulta in effetti fuorviante, nella misura in cui pretenda di reinterpretare, in una prospettiva di protezione dell’efficienza del sistema e delle posizioni della parte pubblica, garanzie dell’imputato,

introdotte nello statuto costituzionale della giurisdizione e prima ancora nelle Convenzioni internazionali essenzialmente come diritti umani”.

La pronuncia, come si vede incentrata fondamentalmente su una sorta di reimpostazione dei

rapporti tra concezioni diverse del principio del contraddittorio nella formazione della prova, avrebbe potuto esaurire in siffatto profilo la propria struttura argomentativa,

essendo talmente chiara e ricca di forza persuasiva da renderne autosufficiente l’architettura motivazionale.

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Ma la Consulta si è spinta oltre, consapevole come era della necessità di esaminare la questione sul versante rappresentato dal principio di parità e nell’evidente intento di scongiurare il pericolo di dover affrontare ulteriori questioni sul medesimo tema, magari costruite su profili diversi ovvero in relazione a diversi parametri.

Pertanto, nell’evidente tentativo di non volere lasciare terreni argomentativi inesplorati, ha chiarito che “[l]a fase delle indagini preliminari è […] caratterizzata da un marcato squilibrio di partenza fra le posizioni delle parti, correlato alla funzione istituzionale del pubblico ministero: i poteri e i mezzi investigativi di cui dispone la parte pubblica restano – anche dopo gli interventi operati dalla legge 7 dicembre 2000, n. 397, in tema di disciplina delle investigazioni difensive – largamente superiori a quelli di cui fruisce la difesa”.

Ed allora, ha continuato, “[s]e, dopo una fase così congegnata, viene offerto all’imputato uno strumento che, nel quadro di un’acquisizione globale dei risultati di tale fase, renda utilizzabili ai fini della decisione anche gli atti di indagine della difesa, non può dunque ravvisarsi alcuna compromissione del principio costituzionale in questione”.

“Anzi” - prosegue Corte cost., 26 giugno 2009, n. 184 – “la disciplina delle indagini difensive, introdotta con detta legge n. 397 del 2000 (una delle leggi dichiaratamente attuative della riforma dell’art. 111 Cost.), si è proposta proprio con lo scopo di conseguire un minore squilibrio tra le posizioni della parte pubblica e dell’indagato-imputato, delineando una tendenziale pari valenza delle indagini di entrambi”.

Messa in rilievo la funzione riequilibratrice del sistema formativo della prova nel rito speciale, la Corte non ha mancato di sottolineare come “prospettare che, in questa situazione, il consenso dell’imputato possa operare solo verso i risultati delle indagini del pubblico ministero (definiti come “potenzialmente a carico”) e non anche verso quelli delle proprie (assumendosi illogico, perché ovvio e implicito, un tale consenso), contrasta non solo, come detto, con il chiaro dettato costituzionale, ma con il sistema e con la stessa configurazione del rito speciale. In primo luogo, dovere specifico del pubblico ministero è quello della completezza delle proprie indagini, che, dunque, dovrebbero includere anche la puntuale e rigorosa verifica e tenuta degli elementi a carico nel riscontro con quelli eventualmente a discarico In secondo luogo, non è di per sé accettabile la frammentazione dei risultati dei singoli atti di indagine, una volta che la richiesta di giudizio abbreviato implica accettazione complessiva di tutti e rinuncia del pari complessiva, in relazione a tutti, all’assunzione dialettica in contraddittorio dei dati di rilievo probatorio da essi recati. In questa prospettiva lo stesso imputato, rinunciando al

contraddittorio nell’assunzione anche dei dati a sé favorevoli, rinuncia a consolidarne la valenza probatoria ad un livello più alto e certo, quale è indubbiamente quello appunto del contraddittorio”.

Che la Corte costituzionale abbia tratto spunto da una prospettiva assiologico-sistematica oltremodo chiara non può negarsi, così come non è in discussione la visione “di sistema” in cui la stessa ha inteso collocare una questione che rischiava di mettere in crisi i delicati equilibri di un modello processuale poliedrico e consapevolmente multiforme.

Le investigazioni difensive sono state, in altri termini, esaminate non già come sottoinsieme normativo, bensì alla stregua di elemento che, all’interno del complessivo sistema processuale, assicura che il dispiegarsi delle relative attività segua dinamiche equilibrate sul versante della struttura e dei rapporti tra le parti.

Desta perplessità, dunque, la prospettiva di modifica dell’art. 438 c.p.p. contenuta nel d.d.l. che ci occupa, per effetto della quale la richiesta di giudizio abbreviato

immediatamente preceduta dal deposito dei risultati delle investigazioni difensive –

eventualità che, si badi, si era verificata nel giudizio in cui era stata sollevata la questione di costituzionalità risolta dalla Corte, ove la documentazione difensiva era stata prodotta “a sorpresa” immediatamente prima della richiesta di giudizio abbreviato – rimette in termini – sessanta giorni, si legge nell’art. 15, comma 1 del d.d.l. – il pubblico ministero che ne

faccia richiesta per l’espletamento di indagini suppletive.

Una correzione la quale non soltanto non era imposta dalla Corte – e questo è chiaro – ma che, al contrario, si pone in contrasto con la struttura motivazionale di una

pronuncia costituzionale effettivamente “di sistema”, incline a blindare il meccanismo

introduttivo del rito abbreviato a prescindere dalle evenienze che, sul versante investigativo, possono riguardare la fase pregressa, qualunque esse siano ed a prescindere dalle correlate tempistiche.

La Corte costituzionale, si è già detto, non si è limitata a disattendere il quesito posto alla sua attenzione – avrebbe potuto comodamente farlo, volendo lasciare aperti spazi di confronto

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ulteriormente esplorabili – ma si è preoccupata di definire un sistema relazionale tra istituti che, si badi bene, è, a suo autorevolissimo dire, equilibrato.

O, meglio, equilibrante. O, meglio ancora, tendenzialmente – ma non sufficientemente – equilibrante, visto che – sono, quelle che seguono, le parole della Corte già richiamate poco sopra – la disciplina delle indagini difensive, la quale è una delle leggi dichiaratamente attuative della riforma dell’art. 111 Cost., si è proposta proprio lo scopo di conseguire un minore squilibrio – non quindi, un effettivo equilibrio – tra le posizioni della parte pubblica e dell’indagato-imputato, delineando una tendenziale pari valenza delle indagini di entrambi. Il che è come dire che l’introduzione di meccanismi correttivi del sistema delineato dalla Corte costituzionale potrebbe essere sistematicamente tollerata ma, allorquando essi siano protesi a ridare voce investigativa al pubblico ministero, si trasformano in uno strumento estensivo di una situazione di complessiva dissimmetria che, nonostante tutto, è ancora oggi configurabile. La Corte si dimostra decisa, dunque, nel prospettare una sequenza introduttiva del rito

abbreviato che, per essere (non riequilibrante, si badi bene, ma) soltanto tendenzialmente equilibrante, non può conoscere intromissioni investigative del pubblico ministero: di un pubblico ministero che, in ritardo, percepisce di avere condotto indagini incomplete o, detto in altri e meno delicati termini, di avere violato il principio di completezza investigativa.

Un principio, quest’ultimo, dotato di una dirompente forza orientativa delle scelte investigative del pubblico ministero proprio – lo dice, tra le altre, Corte cost., 9 maggio 2001, n. 115 – in ragione del possibile dispiegarsi del prosieguo del procedimento con le forme del rito differenziato.

Le argomentazioni esposte nella sentenza n. 184 del 2009 consentirebbero di prospettare più di un dubbio di costituzionalità della riforma di cui si discute, rompendosi in maniera improvvida la tendenza al riequilibrio della posizione – marcatamente squilibrata – delle parti che la riforma del 2000 segue ed essendo tutto da dimostrare l’assunto secondo cui un intervento normativo che fraziona l’investigazione pubblica e ne disloca i singoli segmenti secondo il piacimento del pubblico ministero sarebbe idoneo a realizzare valori di rango costituzionale.

Non v’è chi non veda, allora, come la riforma si presenti come una concessione gratuita

ad una parte che, per dirla usando la terminologia della Corte, dispone già di poteri e di mezzi investigativi che restano – anche dopo gli interventi operati dalla l. 7 dicembre 2000,

n. 397, in tema di disciplina delle investigazioni difensive – largamente superiori a quelli di

cui fruisce la difesa nell’ambito di una fase che è caratterizzata da un marcato squilibrio di

partenza fra le posizioni delle parti.

Né può dirsi che la situazione di squilibrio – che è marcato e tale rimane a prescindere dai successivi sviluppi del procedimento – sia ridimensionabile alla luce della facoltà concessa all’imputato di revocare la richiesta di giudizio abbreviato.

L’ipotesi, a dire il vero, non tranquillizza affatto in quanto, al contrario degli auspici del legislatore, amplifica le conseguenze di quella che può a tutti gli effetti definirsi una rottura interna al sistema delle investigazioni difensive, vanificandosi gli equilibri su cui lo stesso si regge anche a prescindere dalla relazione privilegiata che si instaura con il giudizio abbreviato. Infatti, la lesione di una prospettiva certa di utilizzazione delle investigazioni difensive secondo un modello che il difensore programma, attua e presceglie pone in discussione i fondamenti del sistema investigativo difensivo e, ci sia consentito, del modello processuale che si è andato costruendo nel corso del tempo secondo una logica di pesi e contrappesi nei rapporti tra rito ordinario e rito differenziato.

Il difensore che indaga, acquisisce e offre elementi conoscitivi alla cognizione del giudice attua una precisa scelta strategica che deve reggersi su solidi ed indiscutibili sbocchi processuali, impermeabili rispetto a qualsivoglia iniziativa successiva: la scelta, cioè, di contrastare le

risultanze delle indagini, preliminari o suppletive che siano, mediante la produzione immediata e diretta di elementi ricercati e formati tramite un’autonoma attività investigativa, secondo una soluzione che ha come scopo quello di arricchire direttamente la piattaforma conoscitiva del giudice.

Altrimenti la prospettiva d’impiego di materiale investigativo difensivo si risolve in una mera – ma, allo stesso tempo, subdola perché non programmabile in anticipo sul terreno dell’efficacia – operazione di canalizzazione in favore di un pubblico ministero che, con le sue scelte discrezionali, diviene arbitro di una partita che il difensore intendeva giocare secondo

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equilibri diversi ed in rapporto diretto con il giudice.

La revoca della domanda, infatti, realizza non già una semplice via d’uscita, ma molto di più e di più grave, essendo il prodotto finale dello scompaginamento di una strategia difensiva che, sorreggendosi su un programma di utilizzazione diretta dell’elemento conoscitivo a tal fine costruito, si trova costretta a ripiegare verso forme di utilizzazione indiretta in una sede – quella dibattimentale – diversa da quella prescelta ed aperta agli apporti probatori di tutte le parti. Il che equivale a trasformare l’investigazione difensiva in una sorta di informativa rivolta al pubblico ministero, soggetto legittimato ad utilizzare materiali di provenienza difensiva andando anche oltre e, perché no, contro i programmi dell’autore.

Le osservazioni che precedono non devono essere, però, equivocate, ossia lette secondo una chiave che vuole intravedervi un attacco alla funzione del pubblico ministero nelle dinamiche accertative proprie del processo: non a caso, esse prendono le mosse da un apparato motivazionale tanto autorevolissimo – per provenienza e spessore argomentativo – quanto difficilmente criticabile.

Si vuole, semplicemente, salvaguardare la funzione sistemica delle investigazioni

difensive, un istituto la cui incidenza nell’ambito degli itinerari processuali non può

prescindere dalla struttura di essi, amplificandosi o restringendosi a seconda che il modello sia sorretto dalla regola generale del contraddittorio nella formazione della prova oppure

dall’ipotesi derogatoria del consenso dell’imputato.

In questa seconda evenienza, è necessario che il pubblico ministero, una volta richiesto il rito abbreviato nell’ambito di un sistema in cui l’art. 358 c.p.p. deve continuare ad avere un senso e conservare una precisa funzione strategica, faccia più di un passo indietro, essendo superato lo spazio per inseguire piste investigative e ben sapendo che qualsiasi esigenza di integrazione del materiale probatorio può (rectius: deve!) essere prospettata al giudice, l’unico legittimato a vagliare la necessità delle relative acquisizioni ai sensi dell’art. 441, comma 5 c.p.p.

D’altra parte, è stata la Corte costituzionale a puntualizzare che il pubblico ministero conserva inalterata, anche nell’evenienza costituita dall’immissione di elementi investigativi difensivi, la facoltà di sollecitare l’esercizio del potere, attribuito al giudice dall’art. 441, comma 5 c.p.p., di assumere, eventualmente anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione, non potendosi trascurare di considerare che <<nel nuovo giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria è configurato quale strumento di tutela dei valori costituzionali che devono presiedere l’esercizio della funzione giurisdizionale, sicché proprio a tale potere il giudice dovrebbe fare ricorso per assicurare il rispetto di quei valori>> (Corte cost., ord. 20 giugno 2005, n. 245).

E’, quello della necessità, l’unico parametro seriamente spendibile per incrementare il materiale istruttorio a disposizione del giudice del rito abbreviato, quest’ultimo costituendo, allo stesso modo, l’unico soggetto processuale legittimato a manovrarlo in quanto garante di un suo uso equilibrato.

Qualsiasi invenzione normativa che turbi i delicati meccanismi introduttivi del rito abbreviato rischia di trasformare lo stesso in una trappola perennemente attiva, dalla quale sarebbe saggio stare lontani.

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