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Culture ultime dentro culture ultime. Note dalla Calabria dei paesi Alberto Gangemi

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Academic year: 2021

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ISSN 2284-0753, DOI 10.1285/i22840753n10p185 http://siba-ese.unisalento.it

Culture ultime dentro culture ultime. Note dalla Calabria dei paesi Alberto Gangemi

Outermost cultures inside outermost cultures. Notes from Calabrian villages Calabria

is one of the poorest regions in Europe. Because of its history, marked by a massive emigration, its geographical position and is geological situation, it also became an internal frontier, faraway from the rest of the continent. From the last decade of the XX century it is one of the most important landing place of the Mediterranean sea for migrants, refugees, exiles coming from Africa and Middle East. At the same time Calabria is a land of emigration and abandonment. Most of its villages risk of remaining empity. Using the Cesare Pavese’s novel Il carcere, set in a Calabrian village called Brancaleone during the fascist regime as a fictional example of the contradictory role of the stranger inside an outermost and closed culture, the article focus on two opposite models of interaction between migrants and inhabitants applied in two close and almost empty villages, Rosarno and Riace.

Keywords:Migration, Semiotics, Inclusion, Culture, Anthropology.

L’ultima spiaggia

Molte delle riflessioni che seguono e che ho presentato al Convegno internazionale “Culture Ultime”, organizzato dall’Università del Salento e dall’associazione culturale Sherazade, a Santa Maria di Leuca, sono il frutto di un lavoro di editing e cura di due volumi dell’antropologo Vito Teti.

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all’irrequietezza, alla fuga che affiora non solo dalla storia delle popolazioni meridionali, ma anche dalla cultura materiale, dal folklore, dalla cultura alimentare e dalla letteratura.

Il secondo volume, uscito per Donzelli, con una bellissima prefazione di Claudio Magris, si intitola Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (2017). È un racconto e un’analisi di un mondo che perde pezzi, che sta per chiudere ma che, al contempo, in maniera splendidamente contraddittoria, ospita fenomeni di radicale innovazione. L’Italia interna – ma è così per intere aree della Spagna, del Portogallo, della Grecia – si sta spopolando. Si svuota. Eppure, al suo interno, germogliano forme di resistenza e di resilienza impreviste e imprevedibili.

Le riflessioni che seguono, dicevo, devono molto al lavoro di e con Vito Teti. A partire dal titolo: Culture ultime dentro culture ultime. Note dalla Calabria dei paesi.

La prima parte del titolo, in realtà, avrei voluto cambiarla. Mi sarebbe piaciuto qualcosa di più semplice, come L’ultima spiaggia. Essere all’ultima spiaggia è un’espressione che ha molto a che fare con quello di cui vorrei parlarvi. Rivela una situazione liminare, estrema, che è, in un certo senso, l’oggetto di queste note. Quando si è all’ultima spiaggia, dice il dizionario Treccani, ci si trova in una condizione singolare: in cui si è disperati ma si ha ancora una possibilità, una speranza. Quando ti trovi all’ultima spiaggia, insomma, sei ad uno snodo decisivo. Ho un po’ indagato l’origine di quest’espressione. È stranamente recente e deriva dal titolo di un romanzo (e dal film che ne è stato tratto) di N. Shute, On the beach (1957). Il libro racconta l’attesa di una popolazione australiana ultima superstite di una guerra nucleare che, sulla spiaggia, aspetta l’arrivo della contaminazione atomica. La situazione è dunque quella dell’attesa di un evento. Le cose vanno male. Anzi malissimo. Ma non tutto è deciso.

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ingannare il più possibile l’attesa. Mettersi a proprio agio dentro questa parentesi, e farla durare.

Antefatto: Cesare Pavese in Calabria

Laggiù c’era il mare. Un mare remoto e slavato. Che ancor oggi vaneggia dietro ogni mia malinconia. Là finiva ogni terra, su spiagge brulle e basse, in un’immensità vaga (Pavese 2007, p. 91).

Nel 1935, il regime fascista condanna Cesare Pavese a un anno di confino. Il motivo, formale, era stato l’aver difeso la sua compagna comunista di allora. La destinazione scelta per il confino fu Brancaleone Calabro, estrema punta della Calabria ionica, al limite dell’Italia e dell’Europa mediterranea. Brancaleone già allora aveva assunto la struttura tipica dei paesi della costa calabrese: una struttura doppia, sdoppiata o raddoppiata: un insediamento antico, di origine bizantina o precedente, in alto, su uno dei due versanti appenninici e un insediamento sulla costa, più recente, rettilineo, parallelo alla linea del mare. Pavese vive un anno nel paese nuovo, ma esplora continuamente, diventandone un profondo conoscitore, le relazioni col paese antico.

La pratica del confino progettata e realizzata dal fascismo nei confronti dei suoi oppositori fu una pratica odiosa, una forma di violenza politica e civile che ancora oggi qualcuno prova a scambiare per una forma di benigna tolleranza del regime, una vacanza offerta agli avversari invece del carcere. Sappiamo che non fu così. Quello che mi interessa notare è l’equivoco linguistico e, insieme, l’errore strategico in cui il fascismo cadde scegliendo di mandare al confino i propri oppositori. In breve: il regime pensava di inviarli su un confine, invece li faceva entrare dentro una frontiera.

Confine e frontiera sono due forme piuttosto diverse di limite.

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Sulla frontiera, invece, il limite cambia natura. Anzi la sua stessa riconoscibilità è in questione. Se il confine è un linea che ti obbliga a disporti al di qua di essa, la frontiera è una fascia dentro cui si accumulano tensioni, meglio, dentro cui le tensioni continuano ad accumularsi fino a che non accade qualcosa. L’attributo primario della frontiera, definita in questo senso, non è, cioè, geografico-spaziale. Quello che individua una frontiera non è la sua posizione relativa rispetto a un centro, la sua distanza o la sua estensione, la sua perifericità. Semmai, la sua natura è semiotica e storica: la frontiera è il dispositivo che produce il limite: lo crea, lo ricostruisce, lo sposta, lo ripiega, lo cancella. Sulla frontiera il sistema prende forma e si struttura. Certo frontiera e confine possono coincidere. E spesso coincidono. Molte frontiere si sono determinate lungo un confine, al di qua o al di là del confine. Ma non è sempre così: esistono confini che hanno perso il loro statuto di frontiera. La trasformazione dell’economia digitale ha reso improduttivi molti spazi di confine, privandoli di pertinenza e ruolo nell’organizzazione del senso tra i territori che uniscono. La trasduzione avviene in luoghi inesistenti o tra un centro e un alto centro, senza passare dal bordo. Potremmo dire, con un azzardo, che le frontiere stanno, per lo più, sparendo. Dal bordo ci passano, semmai, gli ultimi. Ma questo è un punto che vedremo più avanti.

Per inciso, il fatto che Donald Trump, l’attuale presidente americano abbia vinto la campagna elettorale sulla costruzione del muro con il Messico è la prova che, lungo quel confine, per la politica americana, non avviene niente di davvero interessante: è stato necessario ri-marcare il confine, per dargli salienza e interesse. La continuità tra Messico e Stati Uniti è più che consolidata, e si registra in mille domini. L’obiettivo del Muro non è di impedirla (o di scongiurarla): ma di costruire ideologicamente una differenza di diritto che nella realtà non c’è.

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la frontiera che lo preparava era ancora europea. Quella frontiera ha accolto e trasformato una tensione continentale e ha finito con lo spostare il limite stesso dell’Occidente.

Quando il fascismo manda al confino Cesare Pavese (in Calabria) e Carlo Levi (in Basilicata), crede dunque di neutralizzare la loro capacità di resistenza, in realtà li consegna a luoghi liminari, in cui una tensione enorme e drammatica aveva generato un evento catastrofico: la grande ondata emigratoria che dalla seconda metà dell’Ottocento aveva svuotato larga parte delle comunità rurali e dei paesi del Mezzogiorno. Un’uscita di un mondo fuori da sé, come l’ha descritta Vito Teti, che ha trasformato radicalmente la forma di vita dei paesi e dell’universo contadino meridionale. A contatto con una frontiera che aveva generato drammaticamente il proprio evento, il progetto intellettuale di alcuni tra i confinati del regime si espande, trova nuove ragioni e nuove pertinenze. C’è un mondo residuale – letteralmente il resto di una fuga di massa – costruttivamente inclinato che macina, come un mulino di Amleto, vite, miseria e inquietudine e che diventa l’oggetto di una nuova forma di scrittura nel panorama italiano. Carlo Levi con il suo Cristo si è fermato a Eboli l’esempio di questo effetto imprevisto, di questa contaminazione non programmata tra i confinati e i luoghi del confino.

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Al confino, Cesare Pavese comincia a scoprire il luogo paese, (lui che da un paese piemontese proveniva) come microcosmo complesso, compatto e disgregante, a cui si tende e da cui si scappa. E il paese diventerà la forma di organizzazione principale della sua esperienza. A cominciare dal testo che racconterà quella del confino. Dapprima Pavese ne trarrà un racconto, Terra d’esilio, composto nel 1936 ma uscito solo nel 1951 e un romanzo breve, Il carcere, pubblicato da Einaudi nel 1948. Chi si occupa di Pavese sa quanto questo scritto abbia contribuito alla sua maturazione e quanto, nel più noto La luna e i falò il tema del paese sia centrale:

[…] questo paese, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi molto. Uno gira per mare e per terra, come i giovanotti dei miei tempi andavano sulle feste dei paesi intorno, e ballavano, bevevano, si picchiavano, portavano a casa la bandiera e i pugni rotti… Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo. Da un anno che lo tengo d’occhio e quando posso ci scappo da Genova, mi sfugge di mano. Queste cose si capiscono col tempo e l’esperienza. Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia cos’è il mio paese? (Pavese 2014, p. 6).

Il protagonista de il Carcere è Stefano, un ingegnere piemontese che lo stesso Pavese non nasconde essere il suo alter ego letterario. Stefano arriva a Brancaleone dopo l’esperienza del carcere. Il confino dovrebbe rappresentare un cambiamento della sua condizione, ma da subito, e sin dal titolo, il testo problematizza il cambiamento. Stefano, infatti, scopre il paese calabrese e si misura con la sua vaghezza. Lo statuto della sua condanna è imprecisato; il perimetro del territorio lungo cui può muoversi non definito; l’attitudine del maresciallo nei suoi confronti – “il maresciallo le vuole bene” non cessano di ricordargli i paesani di cui Stefano diventa conoscente – si sostituisce alla noma.

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occupare il suo posto. Il modo ci sarebbe: intorno a lui, i paesani fanno centro, lo spingono a stabilire abitudini, a essere parte della ritualità quotidiana: la vita della locanda, la caccia mattutina, la separazione dell’universo femminile da quello maschile, la ricerca ossessiva dell’appagamento sessuale. C’è anche Elena, una donna più grande e non più sposata, che diventa la sua amante, ma che vorrebbe essere per lui una madre e che lui, alla fine, allontana.

Opposta a questa possibilità di appaesamento, c’è il rifiuto di commisurarsi con il paese. La scelta di restarne al di fuori. Un corpo estraneo. Nel paese antico, un anarchico, corregionale di Stefano, sconta la propria condanna. L’altro confinato tenta di mettersi in contatto con Stefano, gli invia messaggi che Stefano ignora. Lo vorrebbe radicalmente altro, separato: una linea di confine vivente, come se la partecipazione alla vita del paese negasse il peso della condanna, la condanna stessa.

La posizione che Stefano assume integra queste due posture, senza essere riducibile a nessuna di esse. Una posizione terza, in cui egli è al contempo parte e controparte, interno ed esterno. Stefano l’ingegnere e Stefano il carcerato.

Stefano, l’ingegnere – come lo chiamano tutti – che partecipa al sistema dei valori sociali del paese, che prende parte alla festa, al pranzo di Natale, alla colletta per la prostituta fatta venire dalla città, spendendo il suo titolo professionale e scambiandolo con la benevolenza, il rispetto, la condiscendenza degli abitanti.

Ma anche Stefano il carcerato che marca la sua diversità con piccoli gesti devianti e apparentemente innocui: la rinuncia al vino in osteria, la riluttanza nei confronti della prostituta, la rinuncia a disfare la valigia, persino a lavarsi o a scaldare la sua stanza nei mesi invernali. Infine, l’abitudine di fare il bagno tutte le mattine. Un’abitudine singolare per chi conosce quei posti: infantile, immatura, incomprensibile.

Gaetano l’accompagnò verso la spiaggia. Sotto il sole sudaticcio Stefano tentava di proseguire per spogliarsi al più presto, mentre il compagno lo tratteneva per un braccio.

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— Voi pigliate l’abitudine del mare: come farete quest’inverno? – Disse. (Pavese 2007, p. 27)

L’inverno passerà. E prima che arrivi ancora l’estate, Stefano lascerà Brancaleone sul treno con il quale era arrivato. Le ultime due righe del romanzo, rivelano la profonda comprensione che Pavese aveva sviluppato nei confronti del paese e del suo funzionamento. Scrive Pavese: “Stefano ebbe l’illusione, mentre il treno giungeva, che turbinassero nel vortice come foglie spazzate i visi e i nomi di quelli che non erano là” (ivi, p. 87).

Contraddizioni

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Eppure, di tutti i suoi tratti distintivi, quello che più colpisce lo sguardo di chi arriva in Calabria – per la prima volta o per l’ennesimo ritorno fugace – è il vuoto. Come ricorda Teti in apertura del suo Quel che resta, in un decennio la Calabria ha perso circa 180 mila abitanti su una popolazione residente di appena 1.976.631 persone. In controtendenza con i dati, lievemente positivi del Mezzogiorno d’Italia, il bilancio migratorio della regione è negativo: le persone che si sono trasferite fuori dalla regione superano i residenti di 2,5 unità ogni mille abitanti. Secondo la Relazione della Commissione Europea, questa riduzione della popolazione calabrese non ha riguardato il territorio regionale in modo omogeneo. Sono, infatti, prevalentemente le aree montane e le zone collinari a incidere negativamente sul saldo. Aree marginali nelle quali, secondo l’analisi proposta dal POR 2007-2013 FESR, rientrano 108 comuni calabresi (senza contare le numerosissime e piccole frazioni) con una popolazione inferiore ai 1.500 abitanti e una diminuzione di popolazione superiore al 5% nel periodo 1991-2001. Questa condizione, che accomuna larga parta delle aree interne italiane ed europee, è l’esito di una vicenda lunghissima, di una storia, direbbe Braudel, di lunga durata, alla quale hanno contribuito fenomeni di portata continentale e planetaria, tra cui la rivoluzione industriale e l’erosione della civiltà contadina, e fattori specifici, in modo particolare la fragilità idrogeologica e la devastante serie di eventi sismici che, in poco più di tre secoli, hanno minato la capacità delle popolazioni di pensarsi e progettarsi; di costruire in modo duraturo; di inventare forme realistiche di sviluppo.

Ne sono derivate un’immagine di ultimità, una lontananza – simbolica più che geografica – un diffuso abito mentale di precarietà che ha impedito, anche in tempi recenti, quando l’ondata migratoria si era arrestata, un’efficace gestione dello svuotamento e dell’organizzazione dell’assenza di chi era partito.

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le relazioni, di costruire i discorsi, di comporre elementi naturali e artefatti umani. Di recente, un collettivo di fotografi ha realizzato un progetto molto interessante sulla Calabria. È un collettivo di sguardi misti: fotografi calabresi e fotografi che vengono da fuori regione. Il nome del progetto è La Terza Isola (forse in omaggio all’immagine di Pedrag Matvejevic ́). Quello che rende particolarmente perspicue le immagini realizzate dai diversi autori è la precisione con cui mostrano la perenne precarietà e il gusto per le contraddizioni delle popolazioni calabresi.

Il lavoro di Vito Teti e di tanti intellettuali e ricercatori che hanno deciso di restare in Calabria e di studiarla con metodo, rigore e affetto, ci indica che quello che succede nella regione non è peculiare, specifico, privo di analogie con altri luoghi del Paese. Al contrario, i dati e le analisi dicono che negli ultimi anni, la Calabria si è trasformata in un laboratorio in cui si sperimentano, con radicalità, alcuni dei processi che accomunano – o accomuneranno – le nostre sponde con quelle del resto del Mediterraneo. E che provano l’interdipendenza tra le loro culture e le loro comunità. Con un rovesciamento del luogo comune, la Calabria appare come uno dei posti in cui si preparano i cambiamenti, e le cose accadono prima e con maggiore violenza.

La naturale contraddittorietà delle sue vicende è il motore di questo laboratorio. In particolare, ciò che lo rende interessante è la forma di relazione che unisce fenomeni contraddittori: non c’è tra loro un rapporto di negazione, di opposizione esclusiva; piuttosto, essi sono tenuti insieme nell’esperienza quotidiana, nella vita delle comunità, nelle pratiche politiche e nei comportamenti istituzionali concreti.

La contraddizione non è cioè problematizzata, ma susssiste, rimanendo irrisolta. Gli opposti si danno e permangono in quanto opposti, continuando a riproporsi. La mancanza di composizione o di superamento delle contraddizioni è la cifra del laboratorio calabrese.

La nuova frontiera

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ritardo, a un certo punto sono arrivati gli ultimi. Intendiamoci, la Calabria è sempre stata una regione di passaggi, di arrivi, di invasioni, ibridazioni, accoglienze. Persino una terra di immigrazione (si pensi alla vicenda storica della comunità degli albanesi di Calabria). Per la prima volta, però, chi arriva lo fa in una regione svuotata che continua a svuotarsi. Cioè in una regione con un problema di sopravvivenza demografica, di tenuta del tessuto sociale, e, più generalmente, di tenuta identitaria. Come restare regione, comunità se la comunità sparisce? L’arrivo dei migranti, negli ultimi 20 anni, con una intensificazione sul finire degli anni ’90 e poi, in questi ultimi anni di crisi politica e sociale del bacino mediterraneo, deve essere letta dentro questa cornice. Pensare l’integrazione di chi arriva dentro il microcosmo calabrese non significa, dunque, estendere il perimetro della partecipazione, modulare la vita pubblica dei paesi per includere gli esclusi. Non è, cioè, soltanto un problema di politica sociale.

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Rosarno

Rosarno, Piana di Gioia Tauro. Una delle poche fasce fertili della regione. Coltivata ad agrumi ed ulivi. A cinque chilometri il porto mercantile più grande del Mediterraneo, gigantesca cattedrale incapace di dire messa e di generare sviluppo. Un inceneritore che smaltisce i rifiuti di mezza Italia, li trasforma in polveri sottili che con la pioggia e il vento raggiungono tutti i paesi limitrofi. Il 12 gennaio 2010 a Rosarno, nella piana di Gioia Tauro centinaia di braccianti africani, ivoriani per lo più, migranti stagionali che lavorano negli aranceti della zona, invadono le strade del paese e lo mettono a ferro e a fuoco. La protesta scatta per molte –e buone– ragioni. Gli africani vivono in due stabilimenti industriali abbandonati (l’ex Opera Sila, e la Rocchetta) senza servizi igienici, senza acqua corrente e senza elettricità. A centinaia in spazi fatiscenti. Lavorano anche 16 ore al giorno, per una manciata di euro. Come schiavi, presi la mattina sulla strada dai caporali, portati nei fondi, pagati a cassetta. Un racket che si svolge con il benestare delle cosche mafiose che controllano Rosarno e San Ferdinando. Vengono per la stagione della raccolta, per lo più dai paesi al sud del Sahara e vengono tutti gli anni da molti anni. Finita la raccolta delle arance, si spostano in Puglia e in Campania per i pomodori. Dopo 50 anni, un nuovo bracciantato dalla pelle scura si spezza la schiena nelle campagne del Mezzogiorno, privo, come allora, di diritti, tutele e dignità. La notte dell’11 gennaio a questa condizione esistenziale già dolorosa e insopportabile, alcuni giovani rosarnesi hanno aggiunto una violenza ulteriore e odiosa. Armati di fucili ad aria compressa si lanciano alla caccia degli africani. Li vanno a cercare dove l’ipocrisia e l’assenza dello Stato ha lasciato che vivessero, come bestie. E come a bestie, una volta trovati, i tre sparano. Ne feriscono due in modo grave. La colpa degli africani è di aver protestato, nei mesi prima per la loro situazione e contro il racket delle arance di cui sono vittima. La protesta è un gesto inusuale e coraggioso. A Rosarno vuol dire schierarsi contro la ‘ndrangheta, scrollarsi di dosso la cattiva e radicata abitudine alla sopportazione.

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ingerenza, è tra i primi a capire l’importanza del gesto degli africani: dal riconoscimento dei loro diritti e della loro stessa esistenza passa il nuovo argine al potere mafioso a Rosarno. Per questo, interpretando la volontà delle cosche, i tre giovani rosarnesi hanno sparato: convinti di censurare un messaggio di liberazione e civiltà, hanno voluto fare una cortesia alla ‘ndrangheta, per ristabilire in modo chiaro i rapporti di forza. Quando, il 12 gennaio, la rabbia degli africani esplode, la popolazione locale, sentendosi minacciata e aggredita, risponde in modo gretto e altrettanto violento. Partono le rappresaglie e interviene il governo: il ministro dell’Interno predispone un piano di trasferimento coatto, ovvero di deportazione legalizzata degli africani. In due giorni, l’ex-Opera Sila e la Rocchetta sono svuotate. La polizia e i carabinieri ristabiliscono l’ordine con la forza. Ma di quale ordine si tratta? In realtà, quello che avviene in quei giorni a Rosarno è una saldatura, quasi una convergenza, tra il sentimento popolare, il comportamento delle istituzioni e la lettura mafiosa della vicenda coincidono su una posizione comune. È, a un tempo, il punto più basso raggiunto nella Piana di Gioia Tauro sul fronte della lotta alla mafia e, in Italia, su quello dell’immigrazione e dell’accoglienza.

Oggi, a quasi otto anni da quei fatti, i migranti africani nella piana di Gioia Tauro continuano ad aggirarsi con le loro biciclette e a piedi lungo le strade dissestate e male illuminate della Statale 111. Un grande campo di accoglienza, in cui operano associazioni di volontariato, tra cui Libera, è allestito a pochi chilometri dall’Opera Sila, nel comune di San Ferdinando. La politica e le istituzioni che dopo i giorni della rivolta avevano permesso che i migranti fossero di fatto deportati come voluto dall’allora ministro dell’Interno, non hanno saputo né voluto immaginare spazi e occasioni di ospitalità migliori per loro. Un’assenza di progettualità che, come ha scritto di recente Vito Teti, nel suo Quel che resta:

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Riace

A un’ora di macchina da Rosarno, c’è Riace. Il comune, famoso per l’associazione ai due Bronzi ritrovati nel tratto di mare di fronte alla sua spiaggia, è da tempo noto per un secondo motivo: è stato il primo caso di resettlement sperimentato in Italia: i rifugiati lasciano i campi profughi per essere ospitati nel paese, dove si stabiliranno in maniera stabile. Un esperimento visionario, cominciato più di dieci anni fa, come risposta politica, culturale e civile allo sbarco, sulle coste dello Jonio reggino di centinaia di richiedenti asilo (curdi, in grande maggioranza). Il sindaco che propose di ospitarli dentro le case del centro storico disabitato era, ed è ancora, Mimmo Lucano. A lui e alla comunità che l’ha sostenuto si deve l’invenzione di una forma di vita inedita che, nella pratica, si è trasformata in modello, applicato altrove in Italia e in Europa. I nuovi arrivati non sono “ospiti”: portano con sé un saper fare (artigianale, contadino, …) e tradizioni che il Comune aiuta a mettere in pratica ed esprimere, ibridandoli con i saperi e le pratiche del luogo, e trasformandoli in economia locale e ricchezza per chi arriva e chi resta. La storia di Riace, centro a rischio sparizione, non è più quella di un paese in abbandono che attende l’arrivo degli immigrati per ripopolarsi, ma quella di un paese dove molti vuoti sono stati già riempiti dagli arrivi. Culture ultime e migranti che rifioriscono e si ripensano dentro culture ultime più antiche.

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diventano oggetto di una riappropriazione, L’arrivo dei curdi e poi di tutti gli altri migranti è stata l’occasione per riportare a galla, ri-semantizzandolo, un sistema sommerso di tracce, resti, spazi disabitati del paese. Anche le cose “inutili, invecchiate, decadute, derelitte”, direbbe Francesco Orlando, possono infatti generare radicamento, identità. C’è un luogo, o forse dovremmo dire c’è stato, in cui l’interruzione violenta del viaggio di migranti, esuli e profughi ha dato vita ad una forma di appaesamento anche attraverso gli oggetti quotidiani portati con sé dai luoghi di provenienza.

Restare: oltre la presenza e l’assenza

Facciamo il punto. La domanda che ci si deve porre per leggere una situazione di svuotamento e abbandono come quello che vive una regione “ultima” come la Calabria è: come dare un posto a chi arriva e continuare a rendere presente chi è partito? È una domanda che si pongono i “rimasti”. Vito Teti, nel suo Pietre di Pane ha mostrato quanto sia importante occuparsi di chi resta, elaborando un’antropologia complementare a quella dell’emigrazione e dell’assenza, che – con un’invenzione linguista efficacissima – ha chiamato antropologia della restanza. Il punto essenziale di questa posizione teorica è che nei luoghi di emigrazione e di abbandono le forme della presenza si configurano sempre come forme della restanza. L’essere presenti nei paesi dell’interno da cui tutti o molti partono e sono partiti significa, cioè, essere sempre, costitutivamente presenti e assenti. Come l’emigrante, l’esule, il profugo che partecipano del luogo di partenza e di quello di arrivo, così chi decide di restare non cessa di integrare il posto degli assenti, dei partiti, all’interno delle proprie strategie esistenziali. Come sappiamo da Pavese, le cose si complicano quando nel paese arriva uno straniero. L’arrivo dei nuovi migranti nella terra di emigrazione mette in tensione la specularità di partenza e restanza.

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di valori che renda commensurabile chi arriva con chi resta. Su questo punto è sempre Teti, nel suo Terra Inquieta, ad aver notato quanto l’esperienza secolare dell’emigrazione abbia giocato un ruolo decisivo nella percezione e nella gestione dei nuovi migranti in arrivo nei paesi:

I migranti, rigettati, respinti come revenant, fatti scivolare nel campo semantico del “pericoloso” e dell’”ostile”, cominciavano a sperimentare la nostra incapacità di fare i conti con la diversità, la fragilità delle nostre certezze. Sono non vivi e non morti. Le carrette, nuove grandi bare che camminano sull’acqua, vengono ammassate sull’isola di Lampedusa o sui moli delle coste calabresi formano dei cimiteri postmoderni.[…]. Il vampiro è metafora dell’esule e dello straniero che cerca accoglienza e perturba, che viene tollerato o allontanato, raramente compreso e accolto (ivi, p. 219).

Non vivi e non morti. Gli africani di Rosarno sono degli occupanti senza posto che percorrono la struttura del paese (economica, urbanistica, religiosa…) senza potervi partecipare. Presenti e assenti allo stesso tempo. Il paese ha messo a punto una strategia di esclusione dei partecipanti che produce marginalità e marca le differenze e definisce spazi separati (il ghetto, la tendopoli). Alla base di questa strategia c’è l’impossibilità di integrare o superare l’opposizione assente vs presente. Una chiusura semantica al lavoro nei discorsi, nelle pratiche, nelle scelte politiche e istituzionali.

A Riace si è invece scelto di far partecipare gli esclusi dando ai nuovi occupanti il posto degli assenti. Quello che agli africani di Rosarno è impedito e che Stefano non ha saputo realizzare, a Riace è diventata una norma e una regola di condotta comunitaria.

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Ecco che, allora, il paese a rischio svuotamento si apre ad una possibilità imprevista, impensata. Il restare degli abitanti di Riace non partiti, incontra il restare dei migranti appena arrivati. La restanza acquista un senso inedito, perché non è più il mero effetto della fuga dei più, la condizione imposta a chi resta dai flussi migratori. Al contrario, è l’opzione di chi arriva e può restare, partecipare, trovare il proprio posto. Su un comune terreno esperienziale, all’interno di una logica estensiva ed inclusiva, nasce la possibilità di ripensare il paese e di co-progettarne il presente e il futuro.

Si dice che gli stranieri hanno salvato Riace. E forse è vero. Ma a Rosarno la loro stessa esistenza è stata minacciata. Lungo la frontiera calabrese, a pochi chilometri di distanza, due dispositivi di inclusione ed esclusione sono contemporaneamente all’opera, e preparano diversi futuri (non solo per chi, dal Mediterraneo e lungo le sue sponde, arriva, ma anche per chi resta). Provare a capirne il funzionamento è il primo passo per scegliere quello giusto.

Riferimenti bibliografici

Matvejević, P., 1991 Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano Pavese, C., (1948) 2007, Il carcere, Einaudi, Torino

Pavese, C., (1950) 2014, La luna e i falò, Einaudi, Torino.

Teti, V., 2011, Pietre di pane. Un’antropologia del restare, Quodlibet, Macerata

Teti, V., 2015, Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale, Rubbettino, Soveria Mannelli

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