UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE XIX CICLO DEL DOTTORATO IN FILOSOFIA
IL MONDO ESTERNO E L!ARTE PITTORICA
STUDIO DI FENOMENOLOGIA DELLA PERCEZIONE
INDIRIZZO MFIL01
DOTTORANDO LUCA TADDIO
COORDINATORE DEL COLLEGIO DEI DOCENTI CHIAR.MO PROF. RICCARDO MARTINELLI (UNIVERSITÀ DI TRIESTE) _______________________
TUTORE / SUPERVISORE
CHIAR.MO PROF. GIORGIO DEROSSI
(UNIVERSITÀ DI TRIESTE)
_______________________
INDICE
PREMESSA p. 0
INTRODUZIONE
1. «I due misteri» 00
2. Il chiasma percettivo-raffigurativo della cosa 00
3. Percezione, raffigurazione e somiglianza 00
4. L’immagine pittorica tra apparenza e realtà 00
5. Wittgenstein e Merleau-Ponty: linguaggio e percezione 00
6. Dubbio, certezza e verità dell’apparire 00
7. La filosofia e il senso delle cose 00
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OTE00
I. DUBITARE DELLE «COSE»
1. Un cubo osservato dalla fenomenologia 00
2. Un cubo osservato da Jean-Paul Sartre 00
3. Un cubo osservato da Edmund Husserl e da Emanuele Severino 00
3.1 Atteggiamento naturale e scientifico 00
3.2 Severino critico dell’atteggiamento fenomenologico 00
3.3 Evidenza, verità e scetticismo 00
4. Maurice Merleau-Ponty 00
4.1 Un cubo osservato da Merleau-Ponty: La struttura del comportamento 00 4.2 Il cubo ne La fenomenologia della percezione 00 4.3 L’ontologia ne Il visibile e l’invisibile: la profondità del cubo. 00
5. Visualizzare un cubo 00
5.1 Percezione e movimento 00
6. Dubitare di dubitare 00
6.1 Un dubbio iperbolico 00
6.2 Da Matrix alle «terre gemelle» 00
6.3 L’insensatezza del dubbio 00
7. Riflessioni conclusive 00
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OTE/ B
IBLIOGRAFIA00
II. NON «VEDERE COME» WITTGENSTEIN
1. Premessa 00
1.1 Wittgenstein: filosofia della psicologia 00
2. Maurice Merleau-Ponty osserva il cubo di Necker 00 2.1 Ludwig Wittgenstein osserva il cubo di Necker 00 3. Percezione vs interpretazione: non c’è contraddizione nell’apparire 00
3.1 Percezione visiva vs interpretazione 00
3.2 Aspetto vs interpretazione 00
3.3 Percezione visiva e ostensione 00
3.4 Vedere, vedere-come e interpretare 00
4. Non tutte le cose sono classificabili come vedere-come 00
5. Vedere contro la nostra volontà 00
5.1 Vedere vs vedere-come 00
6. Vedere-come: anatra-lepre 00
6.1 Vedere X come Y 00
6.2 Identikit: dall’immagine alla realtà 00
6.3 Bistabilità e riconoscimento 00
7. Essere ciechi a un aspetto 00
8. Il vedere-come è un errore dello stimolo 00
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OTE/ B
IBLIOGRAFIA00
III. L’ESPERIENZA IMMEDIATA DELLA COSA
1. Premessa 00
2. Borges: «Le cose» 00
3. Il senso nichilistico della cosa non sta nel «tempo di presenza» 00
4. «Questa» cosa 00
4.1 Ostensione e percezione visiva 00
5. L’immagine scientifica vs esperienza delle cose 00
5.1 Percezione, ambiente e comportamento 00
5.2 Scienza vs esperienza: Theory of laddens 00
6. L’esperienza fenomenica 00
7. Realismo diretto: vedere in senso stretto 00
8. Completamento amodale della cosa: un cubo 00
8.1 Esperienza passata e completamento amodale della cosa 00 8.2 La cosa visibile-invisibile: «logica» del vedere vs logica del pensabile 00
9. La percezione visiva 00
9.1 Linguaggio e percezione visiva 00
9.2 In nome della cosa osservata 00
10. Tornare alle cose stesse 00
10.1 Osservazioni conclusive 00
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OTE/ B
IBLIOGRAFIA00
IV. IL FENOMENO IUXTA PROPRIA PRINCIPIA
1. Premessa 00
2. Profilo storico: la fenomenologia sperimentale 00
2.1 Paolo Bozzi 00
3. Lo schema psico-fisico S-D 00
3.1 Descrizione causale vs descrizione fenomenica della cosa 00
4. «Errore dello stimolo» 00
4.1 Illusione di Müller-Lyer ed Esse est percipi metodologico 00
4.2 Esperienza e misurazione delle cose: apparenza e realtà 00
4.3 Esperienza diretta della cosa e ontologia della lavagna 00
5. Dall’esse est percipi al percept percet couplig 00
5.1 Apparenza e realtà: l’esperimento di Gelb 00
6. Spoling 00
7. «Tale che», Phi 00 7.1 Un cubo «tale che», Phi 00 8. La cosa «incontrata»: apparenza e realtà 00 8.1 Cose incontrate 00
8.2 Si vede quello che non c’è. Non si vede quello che c’è 00
9. L’esperienza: fenomenica, epistemica e psicologica 00 9.1 La realtà incontrata: esterno / interno 00
9.2 Non «incontriamo» il genio maligno 00 N
OTE/ B
IBLIOGRAFIA00 V. UNITÀ E SOMIGLIANZA NELL’OPERA PITTORICA DI MAGRITTE 1. Premessa 00 2. René Magritte 00
2.1 Il pensiero di Magritte: «La condizione umana» 00 3. «I due misteri» 00
3.1 Parole e immagini 00 3.2 Linguaggio e rappresentazione pittorica: «La chiave dei sogni» 00 3.3 Somiglianza e rappresentazione pittorica (l’ordine del come) 00 4. Vedere e pensare un’immagine: completamento amodale 00 5. L’unità fenomenica: dalla «cosa» alla raffigurazione 00 5.1 L’unità fenomenica: Figura-Sfondo 00 5.2 Figura-sfondo: «La cascata» 00 6. I principi di unificazione 00
6.1 I principi di unificazione: «La traversata difficile» 00 7. Vedere e pensare la vicinanza: «I misteri dell’orizzonte» 00 7.2 Impostazione soggettiva e oggettiva: la vicinanza
e «La riconoscenza infinita» 00
8. Somiglianza percettiva 00
8.1 Somiglianza: «La battaglia delle Argonne» 00
8.2 Somiglianza e rivalità tra principi 00
8.3 L’esperienza passata e l’unità della cosa 00
8.4 Rappresentazione pittorica ed esperienza passata 00
8.5 Immagine e somiglianza 00
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OTE/ B
IBLIOGRAFIA00
VI. FARE COSE CON I FENOMENI E IL GIOCO DELLA SOMIGLIANZA
1. Premessa 00
1.1 L’immagine 00
1.2 Le forme del fare 00
1.3 «La scienza segreta» 00
1.4 «Del rigore della scienza» 00
1.5 Percezione e raffigurazione 00
2. Nelson Goodman: la somiglianza 00
3. L’occhio non è colpevole: Arnheim 00
3.1 L’occhio non è colpevole: Gombrich 00
4. Arte e psicologia della percezione: Kennedy e Gibson 00
4.1 Arte e percezione visiva: James J. Gibson 00
5. «Vedo questo» vs «vedo una somiglianza» 00
5.1 Il volto 00
5.2 La «somiglianza interna» 00
5.3 «Questa nuvola è N?» 00
5.4 Winston Churchill 00
5.5 L’espressività del volto 00
5.6 Le caricature 00
6. Fare cose con i fenomeni: a immagine e somiglianza 00
6.1 La somiglianza 00
6.2 Fare cose con i fenomeni: il completamento amodale 00 6.3 La costanza della forma: somiglianza e prospettiva del cubo 00
6.4 Fare cose con i fenomeni: la trasparenza 00
6.5 Fare cose con i fenomeni: la profondità 00
N
OTE/ B
IBLIOGRAFIA00
R
IFERIMENTI BIBLIOGRAFICI00
PREMESSA
«L’arte vola attorno alla verità, ma con una intenzione ben precisa di non bruciarsi»
F. Kafka
Assumere come oggetto di interrogazione un cubo può apparire filosoficamente e scientificamente superfluo, anche se per Voltaire esso rappresenta una chose très nécessaire e nonostante Savinio scriva che il progresso della civiltà si misura dalla vittoria del superfluo sul necessario. L’azzardo teoretico consiste, tuttavia, nell’avere tentato, per quanto possibile, di circoscrivere il problema della percezione del mondo esterno a un unico esempio che, potremmo dire, è a portata di mano per tutti. Le alternative costituite da una riflessione di carattere generale sul concetto di «cosa», oppure da un’estesa indagine storico-critica, ci allontanerebbero dai presupposti metodologici e dagli obiettivi teoretici di questa ricerca.
La riflessione sul «senso della cosa» sarà condotta attraverso la fenomenologia della percezione, nel tentativo di attribuire le giuste dimensioni al cosiddetto
«primato» della percezione: se il mondo è legato all’aspetto visibile delle cose che lo compongono, esse non vanno solo immaginate o concettualizzate ma anche e prima di tutto osservate.
Alla base della ricerca vi è la distinzione, oggi ampiamente discussa, tra scienza ed esperienza, cioè fra il sapere acquisito attraverso le conoscenze scientifiche, e la conoscenza fornitaci dall’esperienza diretta. L’intento primario è di salvaguardare l’esperienza delle cose e l’esistenza del mondo esterno dal dubbio scettico. Si tratta cioè di comprendere se, e in che misura, la matrice originaria della percezione consente di rispondere allo scetticismo, oppure se l’esistenza del mondo esterno debba essere ammessa solo in forza di un presupposto «fideistico».
La trattazione di specifici esempi ha la funzione di costringere l’argomentazione a singoli casi intersoggettivamente accessibili: un cubo, per esempio, può essere osservato o disegnato da chiunque. È questo un esempio analizzato e discusso da molti fenomenologi che hanno colto la problematicità della relazione tra gli aspetti visibili e invisibili della cosa. Nel corso di questa indagine esso sarà utilizzato anche per discutere la tesi scettica sull’apparire della «cosa».
La ricerca sarà pertanto metodologicamente circoscritta appunto a casi specifici
ritenuti filosoficamente significativi rispetto ai problemi legati all’apparire della
cosa, alla possibilità del menzionato dubbio scettico, e alla raffigurazione della cosa stessa. Tali questioni comporteranno un frequente richiamo all’opera di Maurice Merleau-Ponty (per le molte affinità teoriche e metodologiche, sarà necessario analizzare in particolare la seconda parte de La fenomenologia della percezione, dedicata alla «cosa» e alla «percezione del mondo») e in parte a Ludwig Wittgenstein. Le opere di Wittgenstein prese in esame si riferiscono, per gli aspetti concernenti la percezione visiva, alle Osservazioni sulla filosofia della psicologia; riguardo allo scetticismo ci si richiamerà al testo Della certezza: l’ipotesi messa in discussione sarà che quanto lo scettico deve presupporre per poter formulare il dubbio sulla realtà del mondo esterno sia non solo già implicito nel linguaggio (tesi sostenuta appunto da Wittgenstein), ma possa emergere anche dall’analisi descrittiva dell’aspetto percettivo della cosa.
Sarà quindi indispensabile un confronto tra fenomenologia e psicologia della percezione, mediante il quale verranno esaminate le diverse implicazioni teoretiche ed epistemologiche. Specificatamente sarà presa in esame la psicologia della forma (Gestalt), anche nei suoi più recenti sviluppi apportati in particolare dai lavori di Gaetano Kanizsa e Paolo Bozzi. In relazione alla percezione della cosa, tale rielaborazione sarà confrontata con la lettura critica che Merleau-Ponty e Wittgenstein hanno effettuato della psicologia della Gestalt. Sarà inoltre preso in esame l’approccio ecologico alla percezione di James Gibson (allievo del gestaltista Kurt Koffka) e l’applicazione della sua metodologia al problema della raffigurazione.
Altro punto centrale della ricerca sarà lo studio di come la fenomenologia
sperimentale sia arrivata a distinguere pensiero e visione, in particolare nel caso
emblematico del «completamento amodale», lungamente esaminato da Kanizsa,
e che consiste nell’osservazione diretta dell’invisibile-visibile: di quel
sovrappiù di visibilità, cioè, che è direttamente osservabile nelle cose. Tutte le
volte, per esempio, che un oggetto è parzialmente coperto da un altro, questo
appare continuare dietro. La fenomenologia sperimentale ha ampiamente
dimostrato come alla base di questo fenomeno non vi siano l’esperienza passata
o il retaggio culturale, ma regole interne all’organizzazione della datità
fenomenica. Wittgenstein, da parte sua, caratterizza il pensiero come attività,
differenziandolo dalla stato percettivo. Il completamento amodale mostra come
la percezione visiva abbia regole autonome, pertanto la messa a fuoco di casi
percettivi particolari, in cui la percezione impone soluzioni diverse dal pensiero
(come le illusioni ottiche di Müller-Lyer o i quadri di Escher), sarà significativa
per le molteplici implicazioni teoretiche che tali casi comportano. Anche se
nella vita quotidiana pensiero e visione collimano in una stretta collaborazione,
ciò non significa che abbiano alla base gli stessi meccanismi o procedure.
Può forse apparire inappropriato l’accostamento di due filosofi così eterogenei come Wittgenstein e Merleau-Ponty, ma, per quante differenze vi siano e rimangano fra di essi, vi può essere un modo teoreticamente fecondo di accostarli, a cominciare dalla proposta di intendere la filosofia come attività descrittiva, quindi non solo concettuale ma anche percettiva. In effetti il costante sforzo di ricondurre il pensiero alla cosa osservata, il processo di continua chiarificazione e sistematico raffronto tra concetto e percetto contraddistinguono il metodo fenomenologico di questa ricerca nel tentativo di attingere il senso extralinguistico delle cose.
La domanda «che cosa è quella data cosa?» (nella fattispecie sarà esaminato il caso del cubo) non pare del tutto scindibile dall’interrogativo epistemologico:
«Come conosciamo una cosa?» e da quello «ontologico»: «Che cosa c’è?».
Tuttavia, come vedremo, alcune distinzioni torneranno utili.
È inevitabile infatti che l’analisi della «cosa» comporti svariate problematiche legate non solo alla teoria della conoscenza ma anche all’ontologia, alla filosofia delle mente e all’intrecciarsi di diverse discipline come teoria dell’informazione, fisica, biologia eccetera. Per ovvie ragioni esse non rientrano nell’oggetto specifico di questa ricerca, dalla quale però dovrebbe risultare che la conoscenza percettiva della «cosa» può fornire loro un ausilio non marginale.
Da un punto di vista propriamente teoretico, dunque, la prima parte della ricerca è orientata ad argomentare a favore di un’idea di percezione diretta, fondata soprattutto sui risultati della fenomenologia sperimentale e descrittiva, e a esaminare, di conseguenza, se sia o meno possibile una «naturalizzazione» della fenomenologia della percezione.
La seconda parte della ricerca applica tale idea e ruolo della percezione al problema della rappresentazione pittorica: in particolare, verrà analizzata la nozione di «somiglianza» (mantenendo sempre un approccio fenomenologico).
Più precisamente, questa parte rappresenta il tentativo di applicare la menzionata idea di percezione visiva allo studio della rappresentazione pittorica, facendo riferimento alla psicologia dell’arte e alle opere pionieristiche di Rudolf Arnheim, Ernst Gombrich e James J. Gibson. Un cubo, per esempio, può essere osservato sia come oggetto fisico sia come rappresentazione: il problema che sarà affrontato è se la somiglianza – in particolare dopo le critiche apportate da Nelson Goodman – stia alla base della relazione tra l’oggetto fisico e l’immagine. La risposta consisterà in una parziale difesa della nozione di somiglianza, distinguendo e difendendo la somiglianza percettiva da quella
«logica», discussa da Goodman; in accordo con il filosofo americano si
argomenterà, peraltro, contro l’idea che essa sia una condizione necessaria e
sufficiente per la rappresentazione pittorica.
L’architettura di questa ricerca nasce da un’ipotesi di lavoro precisa: dopo aver sostenuto nella prima parte che il fenomeno, cioè l’apparire della cosa, deve essere colto iuxta propria principia (secondo quanto sostenuto in particolare da Paolo Bozzi nella Fenomenologia sperimentale), assunto cioè direttamente in quanto tale – il passo successivo consisterà nel descrivere la rappresentazione pittorica come un’attività che consiste nel giocare con le modalità dell’apparire della cosa, cioè con «regole» intrinseche alla possibilità stessa dell’apparire fenomenico della cosa messe in luce dalla fenomenologia sperimentale.
Il «senso delle cose» è dato prima di tutto attraverso la percezione. I pittori interrogano la dimensione visiva della percezione come i musicisti interrogano la dimensione uditiva. L’arte intrattiene con la percezione un rapporto privilegiato. L’idea di fondo è che vi sia un duplice legame tra percezione e immagine: lo studio delle immagini pittoriche dovrebbe aiutarci a comprendere la percezione visiva delle cose, e la percezione a sua volta dovrebbe costituire il presupposto per comprendere l’arte pittorica. Sarà quindi la nozione di «cosa» a dover essere chiarita preliminarmente.
Se questa tesi dovesse dimostrarsi fondata, rimarrebbe il problema del perché vi siano alcune opere pittoriche (modi di raffigurazione della cosa) riuscite e altre no: ciò di fatto ha determinato la separazione tra le «cose» che appartengono all’arte e altre che non le appartengono. Si vaglierà l’idea che l’arte pittorica, se riuscita, colga le «cose in se stesse»: questa affermazione non può che essere posta tra virgolette, poiché necessiterebbe di troppe precisazioni. Cosa significa
«riuscita»? Esistono criteri per stabilire quando un’opera è riuscita e in quali casi è identificabile come «artistica»?
Non abbiamo certo la pretesa che tutte queste questioni ottengano risposta:
saremmo già soddisfatti di aver indicato un filo rosso capace di unire coerentemente, e secondo una nuova prospettiva, l’«apparire della cosa» all’arte pittorica.
La ricerca indaga quindi come una certa idea e metodologia della percezione
possa essere applicata all’«immagine», tentando di individuare le precondizioni
della rappresentazione pittorica che presiedono alla definizione degli elementi e
della struttura di ciò che possiamo definire «immagine di» qualcosa. Come
detto, si impiegherà un’impostazione in cui la fenomenologia sperimentale è
posta a confronto con la fenomenologia di Merleau-Ponty. In questo modo
dovrebbe essere possibile fornire una descrizione delle condizioni della
rappresentazione pittorica che si attenga ai caratteri fenomenici dell’immagine
così come ci appare, individuandole nelle condizioni stesse della visibilità che
regolano la percezione ordinaria. Si tratta di comprendere queste condizioni sia
come invarianti fenomeniche che come possibilità della visione e della
rappresentazione pittorica. Questa impostazione denuncia dunque
l’insufficienza di un resoconto fondato sul carattere segnico dell’immagine, sul suo «stare per qualcosa», anche quando si fondi sull’esperienza della somiglianza dell’immagine con ciò che essa rappresenta. D’altra parte, la spiegazione delle condizioni dell’immagine si attiene alla distinzione tra
«vedere» e «pensare». Sotto questo aspetto, si dovrà integrare la fenomenologia con l’impiego di nozioni chiave del «secondo» Wittgenstein, quali il vedere- come, la «somiglianza interna» di una rappresentazione o l’analisi di figure bistabili. La determinazione delle condizioni della rappresentazione pittorica si avvale di ragioni interne all’ordine del vedere, per rilevare con precisione la differenza tra vedere, riconoscere e pensare. La distanza tra vedere e pensare è testimoniata da fenomeni come: il completamento amodale, la differenza tra riconoscere un’immagine, immaginarne l’oggetto rappresentato e vederla;
nonché l’inerenza delle qualità espressive, veicolate dall’immagine, a ciò che direttamente in essa si mostra, tanto che una modificazione di ciò che appare comporta una diretta alterazione delle potenzialità emotive ed espressive veicolate.
Saremo così forse in grado di indicare una precondizione della rappresentazione
pittorica: avere un mondo in comune nel quale, esercitando la visione, si
scoprono le invarianti che definiscono la possibilità dei fenomeni. L’immagine
è legata alla visibilità sia per l’aspetto della produzione che per quello della
fruizione, e la possibilità stessa di produrre e vedere delle immagini partecipa
delle regole della visibilità. La definizione delle condizioni della
rappresentazione pittorica è conseguente: il pittore «gioca», sperimenta e scopre
così «mondi» fenomenici la cui possibilità è già contenuta intrinsecamente nella
percezione visiva della datità fenomenica. Il pittore utilizza le medesime
invarianti che regolano la percezione ordinaria e dunque sviluppa possibilità
visive che conservano sempre il carattere intersoggettivo e ostensibile di un
qualsiasi dato fenomenico ordinario della percezione, pur all’interno del nuovo
gioco dell’immagine.
INTRODUZIONE
«Se moquer de la philosophie, c’est vraiment philosopher»
B. Pascal
1. «I due misteri»
Il pittore belga René Magritte (1898-1967) intitola I due misteri un dipinto del 1966 dove una pipa in una stanza è sospesa nell’aria, e a poca distanza un quadro su un cavalletto raffigura un’altra pipa: nell’immagine si scorge la scritta Ceci n’est pas une pipe. L’apparire delle cose, la parola che le nomina, il linguaggio e l’immagine sono aspetti dell’opera di Magritte. Nel 1937 Magritte fu invitato a tenere una conferenza per illustrare il senso dei suoi quadri e della sua arte. Dipinse una pipa e scrisse: «Questa non è una pipa», spiegando che l’immagine della pipa non è una pipa, perché molto semplicemente non si fuma.
1Il significato delle cose è determinato dall’uso che ne facciamo e l’abitudine al loro utilizzo non permette di vederle per come sono. Magritte mostra le cose nella loro piena visibilità, come appaiono al di là di ogni possibile relazione d’uso: per questo sovverte l’ordine della composizione, per impedirci di assimilarle al loro significato abituale. Nelle sue tele egli raffigura oggetti familiari come la pipa, il cielo, le persone, dei sonagli, la mela etc., ma è l’unità del nuovo ordine tra le cose presenti nel quadro a creare uno choc nella visione. Magritte iscrive il visibile in un universo mentale che comprende tutto ciò che è noto e tutto ciò che è conoscibile: dell’amentale «non possiamo dire nulla se non che esiste».
2I suoi quadri evocano il mistero delle cose: «Un esempio: un paesaggio notturno con un cielo rischiarato dal Sole. L’unione del giorno e della notte può evocare il mistero». «L’importante della mia pittura risiede in ciò che essa mostra», e non nello stile. Il senso comincia a emergere dallo choc provocato dalla piena visibilità della cosa, esso può essere mostrato ma non spiegato: «Il Senso è l’Impossibile per il pensiero possibile».
32. Il chiasma percettivo-raffigurativo della cosa
Come Magritte, il nostro intento è quello di far vedere le cose: non per
contemplarle attraverso il rigore di concetti costruiti ad arte, ma per osservarle
con la pazienza del pittore che, dipingendo, le vede nascere sulla tela. Il senso delle cose è dato prima di tutto attraverso la percezione. I pittori interrogano la dimensione visiva della percezione come i musicisti interrogano la dimensione uditiva. L’arte intrattiene con la percezione un rapporto privilegiato. L’idea di fondo di questo libro è che vi sia un duplice legame tra percezione e immagine:
lo studio delle immagini pittoriche dovrebbe aiutarci a comprendere la percezione visiva delle cose, e la percezione a sua volta dovrebbe costituire il presupposto per comprendere l’arte pittorica. La nozione di «cosa» andrà chiarita preliminarmente, poiché rappresenta il chiasma tra percezione e raffigurazione.
Il tentativo è di delineare tale chiarimento, seguendo Maurice Merleau-Ponty, attraverso la fenomenologia della percezione. L’idea stessa di percezione comporta una determinata comprensione della rappresentazione pittorica.
Merleau-Ponty nota come in Cézanne, Gris, Braque, Picasso si ritrovino, con modalità diverse, limoni, mandolini, grappoli d’uva, pacchetti di tabacco che non scorrono sotto il nostro sguardo come «cose note», ma «anzi lo costringono a fermarsi, lo interrogano, gli comunicano stranamente la loro sostanza segreta, il modo stesso della loro materialità, e per così dire, “sanguinano” davanti a noi.
In questo modo la pittura ci riporta alla visione delle cose stesse. Inversamente, e come per uno scambio di favori, un filosofo della percezione che voglia riapprendere a vedere il mondo, restituirà alla pittura e in generale alle arti il loro vero ruolo».
4La pittura presenta e afferma cose; ciò avviene attraverso un sapere tecnico
implicito all’attività artistica: è lo sguardo dell’artista che deve essere colto nel
profondo legame con essa. Il pittore porta alla luce le cose sulla tela, quasi
mettesse le mani dentro la percezione, quasi giocasse con le regole intrinseche
alla percezione visiva. L’occhio e la mano del pittore si incontrano nella cosa da
fare sulla tela partecipando a quel complesso di regole che costituiscono
l’attività artistica, ma l’opera, per Merleau-Ponty, richiede la partecipazione
dell’intero corpo: è solo prestando il proprio corpo al mondo che il pittore
trasforma il mondo in pittura.
5Ma l’opera deve poter essere valutata anche
indipendentemente dall’artefice, le sue intenzioni creative appartengono a un
determinato contesto e rimangono nell’opera come traccia, come l’impronta sul
terreno è indice di un passaggio. Nelle opere d’arte vi è un valore non
riscontrabile nelle cose presenti in natura, è il lavoro sulla cosa a determinarlo,
tanto da suggerirci che «quell’opera da fare esigeva quella vita». Eppure quella
vita non spiega l’opera.
6L’apprezzamento del lavoro artistico è condivisibile
poiché si nutre del potenziale percettivo-espressivo della cosa, le cui regole di
datità non sono soggettive. Il lavoro sulla cosa è contemporaneamente un
lavoro sull’apparire. Il valore è immanente all’opera ma, come vedremo, non il
suo senso. Le opere dei pittori sono, secondo Merleau-Ponty, esempi di un
«gesto estremo» che caratterizza il lavoro dell’artista teso a catturare la cosa in se stessa.
3. Percezione, raffigurazione e somiglianza
Gli oggetti dipinti da Magritte stupiscono, la perizia tecnica e l’ambiguità delle tele di Escher affascinano, le illusioni ottico-geometriche lasciano increduli. Lo studio della percezione abbraccia una gamma eterogenea di cose reali o virtuali, statiche o in movimento, in un gioco sottile di presenza-assenza che compone il mondo sotto osservazione. Tanto gli oggetti materiali quanto le illusioni costituiscono lo spettro visibile, sede d’incontro di cose, di spazi pieni e vuoti, di ombre, di sfumature etc., dove i colori hanno espressione e «il nero è lugubre ancor prima di essere nero».
7Accantonare le illusioni ottiche come «anomalie»
della percezione sarebbe un errore. Il loro studio può anzi insegnarci qualcosa sul funzionamento «normale» della visione.
8Esempio di cubo impossibile. M. C. Escher, Belvedere, 1958. Particolare