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Academic year: 2021

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Nazioni e crisi

Gilles Bertrand, Jean-Yves Frétigné, Alessandro Giacone, La France et l’I-talie. Histoire de deux nations soeurs de 1660 à nos jours, Paris, Armand Colin, 2016, pp. 416, euro 26,90.

Il volume tratta degli scambi a tutto campo e in entrambe le direzioni intercor-si tra la Francia e l’Italia, dall’epoca dei viaggiatori del Grand Tour, fino a quel-la degli studenti del programma Erasmus e delle controversie sulle applicazioni del trattato di Schengen. II tre autori parto-no dunque da epoche in cui le identità na-zionali francese e italiana erano ben lungi dell’essere stabilizzate, e in cui uno Sta-to unitario italiano non era ancora in pro-getto. Ripercorrono poi per intero l’epo-ca della costruzione degli Stati nazionali e delle moderne identità civili, fino ai ruoli dei due paesi nell’avvio e poi nella gestio-ne dei piani di uniogestio-ne federativa dell’Eu-ropa, per giungere infine a un’epoca in cui quelle identità appaiono decisamente dilu-ite o sfilacciate di fronte ai caotici rivol-gimenti della globalizzazione. Senza mai dare nulla per scontato, il quadro storico bilaterale presentato da Bertrand, Frétigné e Giacone include su piani interconnes-si relazioni culturali, economiche, mili-tari, finanziarie, politiche, diplomatiche, ideologiche, fino al complesso prodursi

re-ciproco di stereotipi sui propri vicini tran-salpini, sempre molto mutevole secondo le peculiarità storiche di ogni epoca.

Un’attenzione meticolosa viene riserva-ta in particolare al complesso procedere dei rapporti — prima ancora che all’esito degli avvenimenti — che hanno coinvolto Italia e Francia. Rapporti che hanno avu-to un peso soprattutavu-to durante i regimi dei due Napoleoni, i cui intensissimi rapporti con l’Italia sono stati decisivi nel portare prima alla fase di immaginazione, poi alla concreta costruzione dello Stato nazionale italiano, trascinando con sé innumerevo-li contraddizioni e contrasti. Ma altrettan-to viene sotaltrettan-tolineata l’importanza — pur nelle sue sfasature cronologiche e nel suo peso sproporzionato — la corsa alle con-quiste coloniali e territoriali dei due Sta-ti confinanSta-ti, causa di periodici alternarsi di avvicinamenti e bruschi allontanamen-ti rancorosi tra i due paesi, e di accordi in-ternazionali finalizzati talvolta a sostener-si reciprocamente, talaltra a contrastarsostener-si. E dall’ultimo quarto del XIX secolo, fino agli anni del fascismo, il ruolo di poten-za economica e militare di prim’ordine conosciuto alla Francia, a fronte di un ri-conoscimento dell’Italia come potenza di second’ordine, ha condizionato parecchio queste loro contrastate relazioni, come pu-re le immagini fraterne o nemiche dei due paesi vicini, che percorrono le loro classi dirigenti e in misura non di rado divergen-“Italia contemporanea”, aprile 2018, n. 286 ISSN 0392-1077 - ISSNe 2036-4555

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te le rispettive opinioni pubbliche. Un’am-biguità di rapporti che secondo gli autori avrebbe raggiunto il proprio culmine da-gli anni dieci alla seconda guerra mondia-le. Un’ambiguità che ha contrassegnato gli spostamenti di alleanze e interessi nella fase preparatoria della prima guerra mon-diale, ma si è ulteriormente accentuata nel dopoguerra e durante il regime di Musso-lini. Scardinata nella Seconda guerra mon-diale la stabilità di entrambi gli Stati, tut-ti due hanno tentato di uscire dal proprio ruolo di vinti nel conflitto con l’assegnare una straordinaria rilevanza simbolica ci-vile e militare alla Resistenza antitedesca e anticollaborazionista di una parte pur minoritaria delle rispettive società: sforzi che ancora una volta hanno portato al ri-conoscimento di un certo rilievo dello Sta-to francese nei rapporti internazionali, pur nell’epoca di avvio della decolonizzazio-ne, mentre l’Italia ne è uscita con più ac-centuate subalternità alla potenza statuni-tense. La ricostruzione postbellica, riuscita con successo a entrambi i paesi — ma più sorprendente per un’Italia svantaggiata dalla propria penuria di materie prime atte ad alimentare una crescita industriale — li ha poi visti spesso coinvolti con ruoli di protagonisti nel condurre inedite politiche di collaborazione e integrazione tra le eco-nomie e le istituzioni degli Stati dell’Euro-pa occidentale.

Scegliere di approfondire gli influssi tra i due paesi confinanti, nell’arco di quel pe-riodo di tre secoli e mezzo, porta a supe-rare gli schematismi delle storie nazionali, per arrivare a guardare le frontiere come luoghi di continui passaggi e intensi scam-bi, con le situazioni epocali che possono avere incentivato l’osservazione o l’imita-zione dei propri vicini, se non addirittu-ra — in momenti eccezionali — staddirittu-rategie di assimilazione. Ed è davvero notevole la capacità dei tre autori di sviluppare ana-lisi che sappiano travalicare i pregiudizi consolidati nelle due storiografie naziona-li. Ne risulta una sintesi efficace e acuta sui risultati delle due tradizioni storiogra-fiche, ma dove quella francese trae

inevi-tabilmente vantaggio — occorre ammet-terlo — dalle proprie maggiori larghezze di orizzonti e capacità di influenzare il pa-norama scientifico internazionale: una au-torevolezza nell’imporsi ad ampio raggio che la storiografia italiana ha avuto solo tra gli anni Settanta e Ottanta, quando ha promosso l’analisi microstorica: tema pu-re questo a cui i tpu-re autori non mancano di riservare uno spazio appropriato.

Deplorevole è il fatto che di questo li-bro non sia ancora prevista una traduzio-ne italiana. Del resto, a quattro anni dal-la sua prima pubblicazione oltralpe, non si è tradotto nella lingua di Goldoni neppure il più importante studio storico su un feno-meno culturale millenario di portata euro-pea come il Carnevale di Venezia, che uno di questi autori — Gilles Bertrand — ha elaborato: Histoire du Carnaval de Venise. Du XIe siècle à nos jours, alla sua terza edizione in Francia. È un sintomo di evi-denti cortezze di vedute che oggi caratte-rizzano molti editori italiani, ma forse an-che i loro potenziali lettori.

Marco Fincardi Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia del-la strategia deldel-la tensione. 1965-1974, Ro-ma-Bari, Laterza, 2015, pp. 445, euro 28.

Il volume di Dondi, arricchito da alcuni apparati tra cui un Sillabario conclusivo, ricostruisce la storia della strategia del-la tensione, dal convegno dell’Istituto Pol-lio sulla “guerra rivoluzionaria” del mag-gio 1965 alla strage del treno Italicus del 4 agosto 1974, sebbene non manchi un’effi-cace sintesi delle vicende precedenti.

Il quadro che emerge dalla ricostruzio-ne delle dinamiche — al cui centro vi è la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 — non lascia spazio a varianti inter-pretative. Nove anni pesantemente condi-zionati dalla scelta di alcuni settori interni alle istituzioni dello Stato di ricorrere al-lo stragismo indiscriminato al fine di sta-bilizzare — attraverso azioni destabiliz-zanti — l’assetto politico italiano in senso

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filo-atlantista e moderato-conservatore, co-me auspicato da settori non secondari dei vertici politici (la destra democristiana e il Psdi), militari ed economico-finanzia-ri del Paese. Le peculiaeconomico-finanzia-rità italiane (peconomico-finanzia-rimo fra tutti la presenza di un neofascismo ag-guerrito, utilizzato come «manovalanza») si sovrappongono al contesto internaziona-le partorito dalla guerra fredda, conferendo omogeneità a eventi e processi differenti: Portella della Ginestra, il servizio segreto civile (la Divisione affari riservati del mi-nistero dell’Interno, poi Sigsi, nel testo de-finita tuttavia “Ufficio” come nella pubbli-cistica), il servizio segreto militare (Sifar, poi Sid), la rete Stay-behind (Gladio), i nu-merosi quanto presunti “servizi paralle-li”, il governo Tambroni e i fatti del luglio 1960, il Piano Solo, le tentazioni golpiste di vario segno, lo stragismo del 1969-74, la rivolta di Reggio Calabria, il movimen-to della Maggioranza silenziosa, lo squa-drismo di estrema destra e, infine, la loggia massonica P2 sono decodificati come am-biti della medesima vicenda o — per dir-la con Pasolini — dello stesso romanzo, dir-la cui trama si risolve nel tentativo di neutra-lizzare “l’insieme dei processi riformatori, includenti le sgradite coalizioni di centro-sinistra” (p. 24) e di impedire che il Pci — sulla cui lealtà filo-occidentale l’autore non nutre (a ragione) dubbi di sorta — possa giungere al governo e, soprattutto, che gli equilibri sociali del paese mutino a favore dei ceti meno abbienti. I protagonisti di ta-le strategia — che prende ta-le mosse nell’im-mediato dopoguerra — furono, oltre agli anticomunisti nostrani civili e militari (sia fascisti che “democratici”), settori ricondu-cibili ai servizi segreti statunitensi (in par-ticolare la Cia) e agli apparati di sicurezza della Nato, coadiuvati — all’occorrenza — da personale di organizzazioni atlantiste con simpatie destrorse quali l’Oas france-se e l’Aginter Press di Lisbona, da propag-gini di servizi “amici” quali il Bnd tedesco e il Mossad israeliano e, in alcune occasio-ni, da mafia e ’ndrangheta.

Tutto ciò, come sottolineato dall’auto-re, ha dato luogo a uno “Stato

interseca-to” che, nel contesto della guerra fredda e in un clima reso incandescente dagli aspri conflitti sociali e politici, ha perso il con-trollo delle sue componenti operative abi-litate alla “guerra non ortodossa”. Com-ponenti che sono state in grado — dato il loro ruolo — di condizionare anche il ri-strettissimo personale politico (i presiden-ti del Consiglio e i ministri della Difesa) che avrebbe dovuto governarle; come suc-cesso in varie occasioni con Giulio An-dreotti (che, in ogni caso, è colui che più di altri le ha gestite politicamente) o come accaduto, alla fine del 1974, al presiden-te del Consiglio Aldo Moro, il quale co-prì “le deviazioni dei corpi dello Stato, per non minare la credibilità delle istituzioni e dover gestire situazioni ancora più gra-vi” (p. 407).

Nella ricostruzione delle vicende, è pre-ponderante l’uso di fonti processuali (de-posizioni e sentenze), materiali prodotti dalle Commissioni parlamentari (ricostru-zioni e audi(ricostru-zioni), rela(ricostru-zioni peritali e te-stimonianze raccolte da giornalisti. Se tali documenti — in alcuni casi resi disponi-bili solo di recente — hanno il pregio di annodare fili assai sottili e di svelar-ci una trama altrimenti diffisvelar-cile da per-cepire, hanno tuttavia il difetto di essere sostanzialmente organici all’impalcatura del libro. Indagini, verbali di interrogato-rio, sentenze o testimonianze dissonanti, quando non prese in considerazione, sono menzionate en passant oppure giudicate operazioni di “intossicazione” dei servizi, come l’inchiesta delle Br su Piazza Fonta-na, nei confronti della quale viene accre-ditata l’ipotesi che si tratti di una mano-vra del Mossad (pp. 238-39). In un terreno scivoloso come quello della strategia della tensione e dei “misteri d’Italia”, il rischio è che il volume appaia — o meglio, pos-sa essere così interpretato da eventuali de-trattori — come frutto di una visione par-ziale, ossia unidirezionale, della realtà. A tal proposito, avrebbe giovato certamente all’economia dell’opera il ricorso alle fon-ti di polizia conservate nei vari Archivi di Stato e, soprattutto, all’Archivio centrale

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dello Stato, il quale, oltre all’imprescindi-bile materiale sulle stragi depositato (pur-troppo solo a partire dalla seconda me-tà del 2014, cioè quando il libro era in dirittura d’arrivo) in seguito alle direttive Prodi e Renzi, conserva alcuni importanti fondi archivistici assai utili per ricostruire le vicende narrate. Tale documentazione è in grado di restituire inoppugnabilmen-te (poiché prodotta a ridosso degli even-ti, scevra — rispetto a una testimonianza processuale — da preoccupazioni di ordi-ne giudiziario e sufficientemente schietta giacché “interna”) talune coperture istitu-zionali godute dai neofascisti tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

Parimenti, per quanto riguarda la bi-bliografia utilizzata sono prevalentemen-te citati contributi convergenti con il fi-lo conduttore dell’opera, mentre sono stati trascurati alcuni lavori pur importanti che veicolano letture divergenti. Autori qua-li Vladimiro Satta (esperto di apparati di polizia e di strategia della tensione) o Pie-ro Ignazi (tra i principali studiosi del Mo-vimento sociale italiano) non sono nem-meno citati. In compenso, le ricostruzioni sintoniche — alcune delle quali non prive di valore — sono abbondantemente prese in considerazione: Saverio Ferrari è cita-to in 13 differenti pagine, Sergio Flamigni in 15, Andrea Speranzoni in 19, Gianni Flamini in 23, Vincenzo Vinciguerra in 30, Paolo Cucchiarelli in 49, mentre Aldo Giannuli (in veste di storico, di consulente del giudice Guido Salvini e pure di testi-mone) primeggia — sempre in termini di pagine — su tutti con 99 occorrenze.

Ciò nonostante, il volume ha il pre-gio di tirare le somme di una ben preci-sa strategia il cui articolato quanto preme-ditato dispiegamento è oggi difficilmente confutabile, evidenziando — evitando le facili semplificazioni — come “l’oltranzi-smo atlantista non [fosse] un blocco uni-forme, per quanto largamente diffuso” (p. 25) e sottolineando come, grazie a giorna-listi compiacenti quando non direttamen-te inquadrati nei servizi di indirettamen-telligence, la stampa — ed è questo, a mio avviso,

l’a-spetto più prezioso del libro di Dondi — giocò un ruolo non secondario, creando quel senso comune antiprogressista, obiet-tivo primario della “guerra psicologica” dei cold warrior filo-occidentali, ultra-ca-pitalisti e, per intima convinzione o etero-genesi dei fini, anti-democratici.

Eros Francescangeli

Popoli in cammino

Patrizia Salvetti, Oltremare. Memorie femminili tra antiche radici e nuove iden-tità, Roma, Fattore Umano Edizioni, 2016, pp. 219, euro 15.

Il libro nasce dall’incontro tra l’autri-ce, Patrizia Salvetti e tre donne italiane (Cea Del Bo, Flora Lame e Antonia Pa-lazzo) emigrate in Argentina tra la fine de-gli anni Quaranta e de-gli anni Cinquanta. Dal 1946 il governo Peron favorisce l’arri-vo in massa di lal’arri-voratori europei, che do-vrebbero contribuire al decollo economico del Paese e in un primo momento raggiun-gono l’Argentina uomini soli, affascina-ti dalla prospetaffascina-tiva di potersi costruire una nuova vita Oltreoceano. Nel 1953, poi, lo stesso governo argentino perfeziona la po-litica migratoria degli italiani grazie a de-gli accordi con il Comitato Intergovernati-vo per le Migrazioni Estere Intergovernati-volti a faIntergovernati-vorire i ricongiungimenti familiari degli immi-grati: sulle cosiddette “navi delle mogli” le italiane possono raggiungere i mariti pa-gando un biglietto di terza classe molto agevolato di sole ottomila lire.

Cea e Flora sono nate negli anni Ven-ti ed emigrate in età adulta: Cea lascian-do in molascian-do traumatico la famiglia di ori-gine, Flora con il marito e quattro bambini seguendo le scie di una tradizione migra-toria familiare (prima di lei erano andati a vivere in Argentina il padre, diversi fra-telli, la madre). Antonia, nata nel 1948, ar-riva in Argentina quando ha solo quattro anni e quindi trascorre in quel Paese buo-na parte della sua vita. Ubuo-na differenza

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im-portante, quella anagrafica, per capire il diverso vissuto delle tre protagoniste e la loro maggiore o minore integrazione nel Nuovo Mondo. Di loro, infatti, è solo An-tonia a prendere anche la cittadinanza ar-gentina accanto a quella italiana. Anto-nia, d’altra parte, ha in comune con Flora il villaggio di origine, sono tutte e due pu-gliesi di Mola, mentre Cea è originaria di Treviso. L’appartenenza locale, scandita dalle ricette regionali o dalla festa di San Rocco patrono di Mola, incide sulla co-struzione delle identità più di quanto non lo faccia il sentimento nazionale.

Patrizia Salvetti incontra separatamen-te le tre donne duranseparatamen-te un suo soggior-no di studio in Argentina tra marzo e apri-le 2014, dunque gli eapri-lementi comuni che emergono dai racconti non sono frutto di un’interazione tra le intervistate ma ven-gono a galla dal singolo rapporto tra ognu-na di loro e l’autrice. Ci troviamo di fronte a memorie personali, di donne che si rac-contano per la prima volta e che quasi si stupiscono che la loro semplice esperien-za di vita susciti l’interesse di una studiosa dell’Università di Roma. Al tempo stesso però, nota Salvetti, hanno anche la “pro-pensione a non dare un’immagine troppo umile di sé”, non si definiscono mai “emi-grate” o di classe sociale modesta. In Ar-gentina sono andate per un progetto di vita, per cercare di avere prospettive migliori ri-spetto a quelle che potevano presentarsi in Italia. Ma con l’Italia mantengono sempre un legame, soprattutto le due più anziane, conservano abitudini, tengono contatti epi-stolari. Una di loro, Cea, mantiene anche interesse per le vicende politiche italiane di cui da giovane è stata protagonista dando una mano al padre durante la Resistenza.

Il libro è organizzato in tre parti. In una prima sezione “Dall’Italia all’Argen-tina” Salvetti affronta alcuni interrogati-vi storiograficamente significatiinterrogati-vi: dall’e-migrazione in Argentina alle fonti orali al femminile; dalla scelta migratoria alle tradizioni italiane trapiantate oltreoceano (associazionismo, cucina, feste religiose); dalla nostalgia per l’Italia alla

costruzio-ne di una nuova identità. È la parte in cui il lettore acquisisce gli strumenti utili alla comprensione di quei percorsi di vita, co-glie il senso dell’importanza dei raccon-ti che seguiranno. Nella seconda sezione “Le Storie” Salvetti racconta e analizza le vicende di Cea, Flora e Antonia, men-tre nella terza “Le interviste” riporta il te-sto pressoché integrale, privato di ripeti-zioni e con interventi tesi a renderlo più comprensibile, di ognuna delle interviste. A chiusura della sezione, un’appendice fo-tografica arricchisce di immagini quanto si è letto dando un volto a Flora, Antonia e Cea, mostrandoci un “conventillo”, l’a-bitazione tipica degli emigrati argentini, e scene tratte dalla processione di San Roc-co, una manifestazione messa in piedi per anni dagli emigrati molesi e che ha contri-buito a tener vivo il loro legame con il pa-ese lontano. Il libro ha dunque una struttu-ra studiata con intelligenza che avvicina il lettore ai temi importanti dell’emigrazione e soprattutto dell’emigrazione femminile. La conoscenza delle dinamiche migratorie e il loro effetto sulla costruzione dell’iden-tità personale avviene per gradi, attraverso un percorso di avvicinamento lento. A let-tura conclusa Cea, Flora e Antonia diven-tano figure familiari, se ne comprendono aspettative, delusioni e nostalgie.

Le domande che pone loro Patrizia Svetti, pubblicate nella sezione dedicata al-le interviste integrali, favoriscono questo processo di conoscenza empatica. Nono-stante sia evidente che l’autrice, da studio-sa esperta, ha in mente alcuni nodi storio-grafici importanti (tradizioni antifasciste della famiglia, atteggiamento verso la dit-tatura argentina, esperienza migratoria tra processi di adattamento nel Nuovo mon-do e resistenze culturali) questa accortez-za intellettuale non copre mai il flusso del racconto. È Salvetti che senza perdere di vista il senso del discorso riesce tuttavia a farsi da parte e ad aderire e adattare le sue domande alle singole storie, al vissuto di ciascuna delle tre donne.

Il lettore intuisce il clima di confidenza che si è instaurato tra l’autrice, Cea,

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Flo-ra e Antonia, sente il fascino di ognuno di questi incontri. Al termine del libro, infat-ti, si acquisisce maggiore consapevolez-za sugli effetti concreti dell’emigrazione sull’identità delle persone e in particola-re delle donne, ma si ha anche una sugge-stione in più. Si ha al tempo stesso l’im-pressione, infatti, di aver conosciuto delle amiche che con garbo ci hanno racconta-to la loro vita sospesa tra due mondi geo-graficamente lontani ma in grado di inte-ragire a distanza nell’impegno quotidiano, nelle tradizioni mantenute e nella nostal-gia sempre latente delle italiane emigrate in Argentina.

Anna Balzarro Michele Nani, Migrazioni bassopada-ne. Un secolo di mobilità residenziale nel Ferrarese (1861-1971), Palermo, New Di-gital Press, 2016, pp. 324, euro 25 (dispo-nibile in edizione digitale, scaricabile libe-ramente da: www.newdigitalfrontiers.com/ it/book/migrazioni-bassopadane_86/.

Volume pubblicato nella collana “Mi-grazioni e lavoro”, si tratta di una ricerca di demografia altamente specialistica sul-la mobilità residenziale, ovvero sui traslo-chi di abitazione da un comune a un altro in un ambito provinciale, cercando di leg-gere il quadro storico in cui fenomeno si inserisce. Per produrlo, Nani ha collabora-to a stretcollabora-to confroncollabora-to col gruppo di ricer-ca “Mobilità Gruppi Confini” della Socie-tà italiana di storia del lavoro, che già ha realizzato studi notevoli sulle migrazioni storiche e soprattutto sui recenti flussi mi-gratori da e verso l’Italia. L’autore parte da una imponente raccolta ed elaborazio-ne di dati su un tema poco indagato e in-vece molto rilevante nella vita di individui e famiglie, e nei loro ritmi e scelte di vita: le migrazioni interne. Lo fa con una mi-croanalisi quantitativa particolarmente la-boriosa, tenuto conto sia dell’area relativa-mente ampia che viene indagata, sia della necessità di tradurre poi i dati numerici in tabelle e in mappe che permettano di

evi-denziare l’intensità e le differenze dei fe-nomeni descritti nei diversi ambienti del-la provincia.

Campo d’indagine è una provincia in-teramente pianeggiante, poco urbanizza-ta e caratterizzaurbanizza-ta in misura contenuurbanizza-ta da flussi migratori temporanei o permanenti fuori dai confini nazionali — nei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo ampiamen-te compensati da una straordinaria natali-tà — ma piuttosto da intensissime mobi-lità a corto raggio della popolazione, per un lungo periodo determinate in partico-lare dalle peculiarità del lavoro fisso o sta-gionale dei vari strati del bracciantato. A sud del delta del Po, il Ferrarese è l’area di una ricca economia agricola, caratterizza-ta da un sistema estremamente complesso di controllo delle acque attraverso moder-ne opere di bonifica, già al centro di studi classici sulla storia del bracciantato e sulle origini del fascismo, a partire da Il capi-talismo nelle campagne di Emilio Sereni. Per una parte di soggetti il cui lavoro era regolato da contratti agrari, che di solito prevedevano anche l’accasarsi in una pro-prietà padronale, nel calendario il periodo degli spostamenti cadeva facilmente alla scadenza di quei contratti, il 29 settembre, che era anche la data in cui in genere ve-nivano fissati rinnovi o disdette delle loca-zioni anche nelle abitaloca-zioni urbane. Nelle parlate locali un trasloco era quindi deno-minato abitualmente San Michele. Ma la situazione professionale precaria di buona parte dei lavoratori disobbligati, o scelte di vita come il farsi una famiglia, distribui-vano e variadistribui-vano comunque nel calenda-rio le date degli spostamenti di residenza. Il lungo periodo coperto da questa ricerca permette all’autore di controllare gli spo-stamenti geografici a corto raggio della popolazione, valutando gli effetti dell’uni-ficazione nazionale, della modernizzazio-ne delle campagmodernizzazio-ne, delle politiche rurali-ste del fascismo, poi dei grandi processi di urbanizzazione degli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo. La mole dei da-ti considerada-ti viene essenzialmente da rile-vazioni metodiche in varie fonti, a partire

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dai registri migratori, reperite in tutti gli archivi anagrafici comunali della provin-cia ferrarese, oltre che dalle raccolte stati-stiche nazionali.

I risultati della ricerca rendono conto e permettono di leggere analiticamente dei movimenti peculiari della popolazione che a prima vista potrebbero sorprendere, ma che a uno sguardo accorto rendono inve-ce conto con precisione del ciclo storico del bracciantato di massa: dal grande svi-luppo sociale nei decenni seguiti alla cre-azione di un mercato nazionale della ter-ra e dei moderni consorzi di bonifica, poi alla possibilità di variare stagionalmente l’occupazione stagionale tra agricoltura e industria con la diffusione di zuccherifi-ci e fabbriche di conserve alimentari du-rante la prima metà del XX secolo, fino all’assottigliamento e alla progressiva di-spersione di questa classe sociale, a parti-re dal termine degli anni Quaranta. Tra i censimenti del 1861 e del 1951 la popola-zione ferrarese da 200 migliaia è cresciu-ta a 420, fino agli anni Venti con un in-cremento sensibilmente superiore a quello nazionale e fino a metà del XX secolo an-che a quello regionale emiliano-romagno-lo. Solo in misura esigua dall’inizio del XX tale incremento è influenzato da una maggiore immigrazione, soprattutto dal-la pianura veneta. L’elevato tasso di nata-lità del bracciantato, meglio riscontrabile nelle aree rurali più isolate, ma consistente anche nelle città, ha avuto un’inversione di tendenza negli anni dell’inurbamento mas-siccio, con un regresso vistoso, tanto più evidente nei maggiori centri abitati. Ciò porta all’anomala contrazione demografica negli anni Cinquanta e Sessanta, non ri-scontrabile nei dati regionali e nazionali in simili proporzioni. Un crollo dovuto a ri-levanti esodi da comuni rurali, che in pre-cedenza avevano una consistente densità abitativa, verso Ferrara, verso Bologna e provincia, o Milano e triangolo industria-le, non più compensati da un alto nume-ro di nascite, con uno spopolamento tan-to più evidente nelle campagne. Dunque, questo articolato studio su una provincia

bracciantile permette di ricostruire con maggiore cognizione di causa il rapporto tra le caratteristiche socio-professionali di una popolazione e il mutare dei fenome-ni demografici, e in particolare la mobili-tà. Conoscenze che offrono risultati tan-to meglio interpretabili quantan-to la raccolta analitica dei dati per singoli comuni con-sente di comparare le differenze tra le ten-denze generali della provincia e le località più segnate dalla presenza di gruppi socia-li differenti dal bracciantato avventizio.

Marco Fincardi

Industria e sviluppo

Bruno Settis, Fordismi. Storia politi-ca della produzione di massa, Bologna, il Mulino, 2016, pp. 317, euro 29.

Il fordismo all’inizio non fu capito, “ma forse non è stato capito ancora oggi: ri-mane un problema storico aperto” (p. 23), scrive Settis nell’Introduzione. È diffici-le non concordare con questo giudizio. Nei suoi molteplici usi, infatti, la parola “for-dismo” rimanda a fenomeni estremamen-te diversificati e non sempre coerenestremamen-temen- coerentemen-te definiti. Eppure, si tratta di una parola imprescindibile nel vocabolario concettua-le dello storico dell’età contemporanea: al fordismo non si può non fare riferimen-to quando si prendano in esame i carat-teri peculiari della storia del Novecento, non solo sul versante strettamente econo-mico. Questo volume — ed è il suo primo e più immediato motivo di merito — si propone di diradare la confusione, sottrar-re il termine alla genericità e confrontar-si con la realtà storica del fordismo nel-la prima metà del secolo (negli anni cioè della sua maturazione e sviluppo). Questo significa, innanzitutto, non rimanere im-prigionati nelle molteplici e anche contra-stanti rappresentazioni, e dunque procede-re a smontaprocede-re il mito del fordismo, che si affermò nel mondo industrializzato all’i-nizio degli anni Venti, proprio quando il

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fordismo originario andava incontro a una profonda trasformazione (nel 1920-21 Ford mise fine al five dollar day).

Ripercorrendo la lunga parabola dagli anni Dieci alla Seconda guerra mondiale, Settis si confronta criticamente con quelle ricostruzioni storiografiche (esemplare, in questo senso, L’impero irresistibile di Vic-toria de Grazia) che riconducono i proces-si di sviluppo e modernizzazione dell’oc-cidente industrializzato all’espansione del benessere e alla diffusione della società dei consumi, trascurando il processo di produ-zione e i conflitti che ne derivano (politi-ci, sociali, istituzionali) e fornendo di con-seguenza una ricostruzione teleologica e irenica Ribadisce, al contrario, la rilevan-za dei rapporti sociali che si formano nella produzione e le culture che vi si connetto-no. Sono osservazioni interpretative e in-dicazioni di metodo preziose. Non bisogna tuttavia dimenticare che esse si attaglia-no pienamente agli anni tra le due guer-re, il periodo esaminato nel libro. Dopo il 1945, invece, produzione in serie e merca-to di massa appariranno, per l’Europa oc-cidentale e poi per alcuni segmenti asiati-ci (con periodizzazioni diverse da nazione a nazione), non scindibili, e il fordismo di-verrà a pieno titolo anche un elemento del-l’“impero dei consumi” (C. Maier). Spo-stare lo sguardo dal mercato ai rapporti di produzione, in ogni caso, non significa rinchiudere l’analisi storica entro i confini della fabbrica. Questo libro ne offre un’e-semplare dimostrazione, muovendosi su una pluralità di livelli, distinti ma stretta-mente intrecciati: quello dell’impresa e del lavoro, ma anche quelli del governo dell’e-conomia, della cultura politica e dell’ela-borazione intellettuale. A confrontarsi con il fordismo, d’altra parte, furono non so-lo gli imprenditori, ma anche dirigenti sin-dacali e uomini politici, scienziati sociali e scrittori: nel libro, accanto a Ford, Renault, Citroen e Agnelli, incontriamo tra gli altri Lenin, Trotckij, Rathenau, Gobetti, Musso-lini, Céline, Chaplin, Sun Yat-sen.

Il primo capitolo prende in esame le origini e gli sviluppi negli Stati Uniti

ne-gli anni tra le due guerre: le innovazio-ni introdotte da Taylor e Ford, ma anche le successive evoluzioni e i sistemi alter-nativi, ricondotti ai loro contesti origina-ri e agli obiettivi iniziali. Il tayloorigina-rismo e il fordismo, vale a dire lo scientific manage-ment e la produzione in serie, furono stret-tamente connessi ma non devono essere confusi, perché diverse erano le logiche e le ambizioni dei loro promotori. Comu-ne a entrambi, tuttavia, era l’obiettivo fon-damentale di riportare il controllo del pro-cesso lavorativo nelle mani della direzione di impresa. Tutti e due, inoltre, soprattutto nel loro combinarsi, accompagnarono una mutazione nella composizione della classe operaia e innescarono forti reazioni a li-vello politico.

I metodi tayloristi e fordisti, le soluzio-ni pratiche ma anche la filosofia di fondo che li ispiravano, divennero ben presto un modello e una fonte di ispirazione anche al di fuori della società statunitense. Il se-condo capitolo — facendo lavorare al me-glio le suggestioni proposte dalla global history e dalla storia transnazionale — si sofferma sulla precoce irradiazione dell’a-mericanismo, in particolare in Inghilter-ra, Germania, Francia e Unione sovieti-ca e con signifisovieti-cativi accenni all’Europa orientale e all’Asia, mentre il terzo capi-tolo è interamente dedicato all’Italia, con un lungo approfondimento sulla Fiat e una particolare attenzione all’elaborazione di Gramsci. L’adozione del modello fordista non fu mai una riproduzione passiva, ma sempre una rielaborazione, caratterizzata da rilevati adattamenti ai diversi contesti imprenditoriali, sociali e culturali. Inoltre, nato per rafforzare il potere di comando dell’impresa sulla forza lavoro e, indiret-tamente, come via per una stabilizzazione capitalistica, l’americanismo suscitò inte-resse e fascinazione anche in molti espo-nenti del movimento operaio europeo, in-clusi i dirigenti bolscevichi (note, e qui ripercorse con grande intelligenza, sono le sperimentazioni e le riflessioni che vi-dero Lenin, Trockij e Stalin in prima fila). Si trattò, per queste ragioni, di un

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feno-meno che deve essere declinato al plura-le: non il “fordismo”, dunque, ma i “fordi-smi”, come opportunamente recita anche il titolo del libro.

Maturato in un ambiente liberista, in cui la distanza dallo Stato, la concorren-za e l’apertura dei mercati internazionali erano valori fondanti, il sistema di fabbri-ca di Ford fu poi impiantato in molti pae-si late comers, dove le grandi imprese, al contrario, intrattenevano un rapporto più stretto con la politica e cercavano il riparo del protezionismo. Significativo, in questo senso, è il caso italiano, che si caratteriz-za, osserva Settis, per una forte e preco-ce torsione autoritaria. L’americanismo cominciò a trovare in Italia applicazione estesa sotto la guerra, nel contesto del-la mobilitazione, “nel gioco di specchi tra disciplina militare e disciplina di fabbrica sotto l’egida dell’unità nazionale” (p. 206). Fu poi ben presente nel discorso pubbli-co sulla modernizzazione del dopoguerra: non solo divenne una bandiera per i prota-gonisti più dinamici del fronte imprendito-riale, ma trovò piena ricezione anche in al-cuni settori del movimento socialista (in particolare il gruppo dell’“Ordine nuovo”), anche sull’onda del recupero leninista del taylorismo. Nell’attuazione pratica, pe-rò, l’introduzione dello scientific manage-ment nel dopoguerra fu “in gran parte un atto d’imperio, in primo luogo indirizzato a consolidare rapporti di autorità entrati in crisi” (p. 216). In questo senso, l’insieme di elaborazioni e sperimentazioni condot-te da imprenditori e apparati istituziona-li nel pieno della mobiistituziona-litazione dell’indu-stria in guerra e poi della ristrutturazione postbellica poterono proiettarsi fin dentro il fascismo, dando corpo alle tensioni mo-dernizzanti che (tutt’altro che univocamen-te, come qui si sottolinea) lo animarono. Questioni “classiche”, al centro del dibat-tito storiografico degli anni Settanta e Ot-tanta sul primo dopoguerra e sul fascismo, sono dunque ripercorse, da un lato sfatan-do vecchie convenzioni interpretative (il regime fascista quale monolitica “moder-nizzazione dall’alto” o “cornice ultima di

un flusso di modernizzazione”) e, dall’al-tro, inserendo pienamente la vicenda ita-liana in una complessa rete di influenze e connessioni transnazionali.

Alessio Gagliardi Tiziano Torresi, Sergio Paronetto intel-lettuale cattolico e stratega dello svilup-po, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 495, eu-ro 30,60.

Il lungo ed elaborato lavoro di ricer-ca di Torresi mette in risalto la biografia umana e intellettuale di Sergio Paronet-to, una delle figure chiave per la compren-sione dell’azione politica e programmatica dei cattolici nel secondo dopoguerra. At-tingendo a una vasta documentazione, per-lopiù inedita, composta da diari, lettere, relazioni, appunti, l’autore ne ricostruisce da un lato l’aspetto umano ed esistenzia-le di cattolico tormentato dinanzi al pre-cipitare degli eventi della seconda guer-ra mondiale ma al tempo stesso cosciente nella fede della ragione e dell’intelligen-za umana, e dall’altro il suo prodigarsi in svariate attività che ne fanno un organiz-zatore culturale dedito ad animare, nella sua casa romana di via Reno, trasformatasi in un cenacolo frequentato da futuri illu-stri personaggi della prima repubblica, tra questi, in particolare, il futuro primo mi-nistro e leader della Democrazia cristiana Alcide De Gasperi.

La principale opera di Torresi è sta-ta quella di ampliare le prospettive e le problematiche finora messe a disposizione dalla letteratura storica su Paronetto, cita-to, negli anni addietro, in diverse opere a firma di autori prestigiosi come gli stoci Pietro Scoppola e Renato Moro. La ri-costruzione della sua identità culturale ne fanno, in maniera, indiscutibilmente, uno dei personaggi principali del movimento politico cattolico italiano fra le due guer-re. Attivista e organizzatore del movimen-to dei laureati catmovimen-tolici italiani, all’interno del quale dal 1939, anno della scompar-sa di Righetti, fino al 1945, fu il

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riferimen-to e la guida dei montiniani proponendo una serie di iniziative culturali ed editoria-li animando il gruppo di “Studium” e de-finendo il programma delle settimane di cultura religiosa svoltesi nel monastero di Camaldoli, nonché, nel 1942, tra gli auto-ri del famoso codice che diventerà il faro per l’impegno dei cattolici in politica con la nascente repubblica. Inoltre, divenne di-rigente dell’Iri, lavorando a stretto contat-to con Donacontat-to Menichella, dove svolse il compito di redigere alcune relazioni sul-le attività dell’ente durante il fascismo, ma ne delineò anche i programmi, gli obiet-tivi e la funzione dell’Istituto all’interno dell’economia italiana, dal quale passerà, in gran parte, l’input allo sviluppo e indu-striale negli anni del miracolo.

La biografia di Paronetto tende a chia-rire alcuni aspetti di cui ci erano chiari fi-nora solo le linee generali, senza averne però la chiave interpretativa convincente. Tra questi interessi, che hanno un indiscu-tibile valore per l’apporto in termini di ar-ricchimento al dibattito storiografico, vale la pena sottolinearne soprattutto due, non solo per l’interesse ma per la forte connes-sione e relazione: il ruolo degli intellettua-li cattointellettua-lici durante il regime fascista e la funzione dei tecnici nel delineare le linee di sviluppo del capitalismo italiano. Pro-prio su quest’ultimo aspetto si snoda un punto fondamentale dell’azione di Paronet-to: quella dell’apertura del cattolicesimo italiano alle realtà del capitalismo e del-la modernità, ben indagata e descritta nel testo sia per lo stile che per il numero di fonti consultate. L’aspetto modernizzatore dell’economia attraverso l’intervento dello Stato segnò, nella cultura cattolica, una ve-ra e propria rivoluzione copernicana, sta-bilendo, da una parte, della promozione la giustizia sociale, e dall’altra, la garanzia dell’iniziativa privata. Su questo principio di equilibrio fu costruita la programma-zione economica dell’Italia repubblicana e tra i suoi protagonisti, dopo il lavoro di Torresi, non possiamo che annoverare an-che Paronetto nella lista degli autori.

Francesco Bello

Storie al cinema

Alberto Crespi, Storia d’Italia in 15 film, Bari-Roma, Laterza, 2016, pp. 271, euro 20.

Il volume di Alberto Crespi si apre con domande fondamentali per chi si oc-cupa di Public History e, più in genera-le, di Storia contemporanea: “Un film può essere un documento storico? Può esse-re utilizzato come fonte per studi stori-ci sul periodo o sull’evento che raccon-ta, o sul momento storico nel quale è stato realizzato?”. La risposta è certamente af-fermativa, dato che l’età contemporanea, caratterizzata da continue innovazioni tec-nologiche e dal rapido mutamento dei va-lori tradizionali, obbliga ad assumere il mutamento — e le cause del mutamen-to — come oggetmutamen-to dell’analisi smutamen-torica e a confrontarsi con comportamenti collet-tivi di un’umanità che va massificandosi. La “nuova storia” è dunque caratterizza-ta dalla capacità — o possibilità — qua-si illimitata di utilizzare materiali nuovi, laddove la valorizzazione delle fonti più recenti permette di conoscere molti aspet-ti del quoaspet-tidiano, ciò che riguarda la vi-ta delle masse. Il cinema è in questo senso uno strumento eccezionale e l’Italia, na-ta divisa e imperfetna-ta, con un’unificazio-ne forzata e non ancora del tutto acquisita, numerosi rimossi e misteri irrisolti è sta-ta in grado di realizzare uno dei miglio-ri cinema del mondo. Inoltre, i film rac-contano sempre due epoche: quella in cui sono ambientati, il contesto storico in cui si dipana la trama, e quella in cui vengo-no realizzati. Da questo assunto parte il la-voro di Crespi, che utilizza, in modo per nulla casuale, in apertura di ogni capito-lo, una citazione tratta da pellicole di Lui-gi Magni, che nelle proprie opere ha sapu-to incrociare le ssapu-torie di Roma con quelle della nazione, utilizzando la ricostruzio-ne storica come metafora, a volte sin trop-po evidente, del presente. Storia d’Italia in 15 film si dimostra in grado di

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ragiona-re con spessoragiona-re e lievità sul cinema e sul-la storia del nostro Paese, oltre che sui loro collegamenti, spesso inscindibili, tal-volta sorprendenti. Il percorso che l’auto-re ha deciso di intrapl’auto-rendel’auto-re è cronologico dal punto di vista degli eventi storici trat-tati — dal Risorgimento ai giorni nostri — ma per nulla lineare all’interno della produzione cinematografica italiana, com-piendo un viaggio estremamente articolato tra periodi e generi diversi, operando scel-te originali e, a volscel-te, spiazzanti.

Il film scelto per rappresentare il fasci-smo è, per esempio, Amarcord (1973) di Federico Fellini: il regista e il suo sceneg-giatore, Tonino Guerra, realizzarono un’o-pera nostalgica e tuttavia in grado di evi-tare il rischio di scivolare nella retorica. La nostalgia che pervade la pellicola è ri-servata unicamente alle esperienze per-sonali, all’infanzia e all’adolescenza, non certo al regime, per il quale il giudizio è severo. Il cinema di Fellini è un specchio deformante in cui gli italiani possono ri-conoscersi: Amarcord risulta, dunque, coi suoi ricordi veri o inventati, un preciso ri-tratto della dittatura, oggettivo nel raccon-tare la collettività, quasi uno studio antro-pologico sul ventennio, sulle sue famiglie patriarcali, sulla repressione sessuale, sui manicomi-prigione, su un’intera società che vivacchiava sotto il tallone della dit-tatura (p. 59). È il racconto di un fascismo visto non attraverso prospettive ideologi-che e ricognizioni storiideologi-che, ma narrato — come ebbe a dire lo stesso Fellini — at-traverso la nostra parte stupida, meschina e velleitaria, una parte che non ha parti-to politico e della quale dovremmo vergo-gnarci, ma che, comunque è dentro ciascu-no di ciascu-noi.

Ancora più insolita è la scelta del film utilizzato come traccia per parlare del-la Resistenza: Se sei vivo spara (1967) di Giulio Questi, un western poco noto che racconta la storia con la forza visionaria del genere. Roma città aperta e Paisà, Le quattro giornate di Napoli, La ragazza di Bube e L’Agnese va a morire, sono cer-to — sostiene Crespi — più belli, più

im-portanti e più illuminanti sull’argomento e hanno contribuito a tenerne viva la me-moria (p. 90), ma forse è più interessante rintracciare la Resistenza dove nessuno se l’aspetterebbe, dove ha fatto capolino qua-si camuffandoqua-si, fingendo di essere altro. Se sei vivo spara è per certi versi deliran-te, un’opera pop figlia degli anni Sessan-ta in cui venne realizzaSessan-ta, ma racconSessan-ta la Resistenza come il suo regista l’aveva vis-suta, a vent’anni, da sbandato prima e da partigiano poi. Non a caso, nel film, i ban-diti sono vestiti di nero, come nera era la camicia dei fascisti, mentre gli indiani e gli altri derelitti sono assimilabili ai par-tigiani. La Resistenza viene quindi rilet-ta come un sogno fanciullesco in cui la violenza diventa un gioco sadico e libera-torio e la lotta conto il fascismo diventa un mondo parallelo in cui avvengono cose inaccettabili nella vita reale, una parentesi, l’esperienza estrema di una generazione.

Anche per raccontare il Sessantot-to Crespi ha cercaSessantot-to pellicole che rappre-sentassero quell’epoca in modo indiretto e subliminale o che addirittura la antici-passero. Lo spirito della contestazione è incarnato non da un film, ma una serie televisiva di grandissimo successo negli anni Settanta, Sandokan (1976) di Sergio Sollima. L’opera di Salgari riadattata per la televisione può essere letta come un di-scorso sulla rivoluzione anticapitalista: il Sandokan di Sollima è un leader che fa pensare a Che Guevara, mentre Mompra-cem, isola inespugnabile e circondata da poteri capitalisti, somiglia molto a Cuba (pp. 160-161). Ma il Sessantotto è anche Nell’anno del Signore (1969) di Luigi Ma-gni, che descrive benissimo, ambientan-dolo nella Roma papalina, il distacco tra intellettuali e popolo, fra le utopie dei ri-voluzionari di professione e i bisogni pri-mari delle classi subalterne (p. 165). La struttura ideologica del film è molto chia-ra: ci sono un potere costituito (la Chie-sa), un’opposizione popolare e morale, che è costretta a convivere con tale potere (il ciabattino Cornacchia, che ripara le scar-pe ai cardinali), e, infine, una ribellione

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politica (Montanari e Targhini) che man-ca però di ogni legame con la realtà. Nella lapidaria battuta “Vonno cospira’ e so’ fre-gnoni” c’è un durissimo giudizio sul Ses-santotto: una rivoluzione mancata perché fatta senza l’appoggio del popolo.

In questo testo, Crespi ripercorre un’I-talia a volte diversa da quella della sto-ria ufficiale, diversa da quella raccontata e rappresentata da politici o media coevi; un Paese fatto di istanze diverse e apparente-mente inconciliabili che, tuttavia, esisto-no e convivoesisto-no, e che il cinema italiaesisto-no ha visto meglio di altre forme d’arte e ha sa-puto raccontare e tramandare.

Silvia Cassamagnaghi Ruth Ben-Ghiat, Italian Fascism’s Em-pire Cinema, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 2015, pp. 420, euro 32.

Nel 1979, lo storico del cinema italia-no Liitalia-no Micciché osservava come i film prodotti durante il ventennio fascista rap-presentassero ancora lo «scheletro nell’ar-madio» dell’industria cinematografi-ca nazionale. Il volume Italian Fascism’s Empire Cinema, scritto recentemente dalla storica americana Ruth Ben-Ghiath, parte proprio dalla constatazione che, all’interno di questo «cono d’ombra» defeliciano, esi-sta un sotto-genere ulteriormente neglet-to: quello del cinema cosiddetto «imperia-le», ovvero l’insieme di quei film che, tra il 1922 e il 1943, supportarono cultural-mente la politica espansionistica dell’im-pero fascista. L’autrice, professoressa di Italian Studies e Italian History presso la New York University, decide di analizza-re nove film italiani prodotti in questo pe-riodo e ambientati tra l’Africa e la Grecia. Quasi tutti i film studiati sono piuttosto ra-ri, disponibili unicamente in archivi audio-visivi, nonostante siano stati scritti e gi-rati da celebri autori del cinema italiano — da Roberto Rossellini a Mario Came-rini, da Goffredo Alessandrini a Federico Fellini, da Michelangelo Antonioni a Ma-rio Monicelli — la cui partecipazione al

cinema di propaganda imperiale sarà for-zatamente dimenticata già nell’immedia-to dopoguerra.

Attraverso una ricerca compiuta pres-so archivi militari, cinematografici e pri-vati, l’autrice tenta di riportare in vita un genere spesso trascurato dalla storiogra-fia sul cinema fascista, talvolta ridotto al-la più morbida categoria di “cinema co-loniale”, raramente ricondotto a una sua precisa specificità estetico-produttiva. La trattazione del volume è divisa in otto ca-pitoli, conclusi da un epilogo che può es-sere considerato un nono capitolo aggiun-tivo. Nel primo capitolo vengono tracciate le linee teorico-analitiche che saranno poi sviscerate nel resto del libro — dalla rap-presentazione della mascolinità nel cor-pus di film analizzato alla ricorrenza reto-rica della tecnologia cinematografica come conquista imperiale — mentre, dal succes-sivo, s’iniziano ad analizzare i singoli film a partire da un criterio tendenzialmente cronologico. Nello specifico, nel secondo capitolo vengono analizzate le produzio-ne che precedono l’inizio della guerra d’E-tiopia (1935), che si concentrano dunque soprattutto sull’occupazione italiana del-la Libia, mentre dal terzo si trattano i film prodotti tra il 1936 e il 1939, di cui vie-ne studiata anche la riceziovie-ne comparata tra l’Italia e le sue colonie. Nel quarto ca-pitolo, l’autrice confronta invece due film di estremo interesse, come Il grande ap-pello (1936, Mario Camerini) e Luciano Serra, Pilota (1938, Goffredo Alessandri-ni), entrambi ambientati in Etiopia, dimo-strando come attraverso questo genere ci-nematografico l’Italia tenti di affermarsi come una nazione “diasporico-imperiale” e anticipando uno dei temi più rilevanti e originali dell’intero volume, ovvero quello dell’associazione tra il culto fascista dell’a-viazione e l’ambizione espansionistica im-periale.

Nel quinto e nel sesto capitolo ritor-na in modo più approfondito il tema del-la mascolinità, che emerge soprattutto dall’analisi dei cosiddetti “corpi imperia-li”, termine utilizzato sia in riferimento

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al-lo sfruttamento dei corpi attoriali all’in-terno delle coreografie cinematografiche imperiali, sia all’ambiguità delle relazio-ni interraziali messe in scena da alcurelazio-ni di questi film. Nello specifico, in film come Lo squadrone bianco (1936, Augusto Ge-nina), o ancora di più ne La croce del sud (1938, Guido Brignone), l’autrice nota co-me sembri eco-mergere in modo netto quella tensione erotica tra mobilitazione patriot-tica e desiderio individuale che distingue il cinema imperiale fascista dai classici war movie americani o europei del perio-do. Il settimo e l’ottavo capitolo prendono invece spunto dai film ambientati durante la Seconda guerra mondiale, ma che assu-mono in ogni caso una forte caratterizza-zione imperialista. Nel settimo, in partico-lare, concentrandosi sui film di Francesco De Robertis e Roberto Rossellini prodotti dalla Scalera per la Marina militare italia-na, l’autrice analizza l’influenza delle poli-tiche cinematografiche di quegli anni nel-le rappresentazioni di una guerra che sta volgendo tragicamente al termine. In aper-ta continuità con aper-tale approccio culturali-sta, nell’ottavo capitolo si analizzano Un pilota ritorna (1942, Roberto Rossellini) e Bengasi (1942, Goffredo Alessandrini) di-mostrando come, nonostante l’imminen-te fine del conflitto avesse portato il cine-ma imperiale al suo inesorabile tramonto, inglobando il genere all’interno della ma-cro-categoria del cinema di guerra, i film di Rossellini e Alessandrini codifichino comunque una serie di nuovi modelli (dal melodramma al cinema resistenziale) per il cinema politico del dopoguerra. Su que-sta scia, nell’epilogo si discute l’eredità del cinema imperiale, analizzando i remake e le riuscite negli anni Cinquanta di al-cuni dei film analizzati, fino ad arriva-re alla rimessa in discussione dell’elemen-to imperiale nei più recenti film-saggio di Yervant Ganikian e Angela Ricci Lucchi. Attraverso questa esauriente panoramica sul cinema imperiale, dunque, il volume di Ben-Ghiath riesce a contestualizzare sto-ricamente un genere scarsamente consi-derato, restituendo agli storici un

ogget-to di analisi innovativo con cui integrare, in un’ottica esplicitamente interdisciplina-re, le ricerche più tradizionali sul colonia-lismo e sull’imperiacolonia-lismo fascista.

Damiano Garofalo Danielle Hipkins, Italy’s Other Women. Gender and Prostitution in Italian Cine-ma, 1940-1965, Oxford, Bern, Berlin, Pe-ter Lang, 2016, pp. 448, euro 55,60.

Vari sono gli studi che, ormai da alcuni decenni, hanno preso a oggetto il cinema — inteso nella sua duplice dimensione di narrazione e di prodotto dell’industria cul-turale di massa — per mettere in evidenza come esso abbia prepotentemente contri-buito alla modulazione dell’immaginario e dei comportamenti collettivi, soprattut-to a partire dagli anni Quaranta del se-colo scorso. Nel periodo più recente, l’ar-gomento della partecipazione del cinema alla formazione e alla diffusione di pre-cisi modelli di mascolinità e femminili-tà ha costituito un fertile terreno d’incon-tro tra studi cinematografici e storiografici. Proprio in questo ambito si colloca il li-bro di Danielle Hipkins, che ha come suo primo merito quello di avere privilegia-to un tema trascuraprivilegia-to — la rappresentazio-ne della prostituta rappresentazio-nelle pellicole italiarappresentazio-ne del periodo 1940-1965 — per inquadrare il nesso tra cinema, genere ed emancipa-zione femminile sullo sfondo dell’afferma-zione della società dei consumi. Il volume è organizzato in tre parti: la prima muove dal fascismo al secondo dopoguerra (an-ni Quaranta), la seconda ruota attorno agli anni della discussione e dell’attuazione della legge Merlin (anni Cinquanta), la ter-za esamina i primi anni Sessanta. In que-sto quarto di secolo — dato rilevante mes-so in luce dall’autrice — almeno il 10% dei film italiani vede una o più prostitu-te tra i suoi protagonisti. Hipkins esamina una mole considerevole di pellicole (172), con riferimento sia al cinema d’autore che a quello popolare, spaziando dalle trame amare del neorealismo alle messe in

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sce-na agrodolci della commedia all’italiasce-na. Secondo la chiave interpretativa proposta, la prostituta agisce da “normalizzatore” dei ruoli di genere e da proiezione del-le ansie maschili, generate dalla guerra e dall’ingresso delle donne nella scena pub-blica; per questo tale personaggio occupa uno spazio di primo piano nella filmogra-fia del periodo. Anti-modello della corretta femminilità Italian style, le other women additano alle italiane i comportamenti da evitare, ma anche il timore crescente de-gli uomini per il pericolo cui vengono sot-toposti la mascolinità e il modello patriar-cale. Hipkins passa in rassegna le trame dei film e la caratterizzazione dei perso-naggi in un’ottica che muove dall’interno delle narrazioni verso l’esterno delle stes-se, fino a rintracciare lo sguardo, tutto al maschile, dei registi nonché le connessio-ni con il contesto storico-sociale. L’autrice azzarda inoltre l’idea — meno convincente — che al personaggio della prostituta, sep-pure fondamentalmente presentato in sen-so conservativo, debba essere riconosciuto un potere destabilizzante, in virtù di una presunta identità borderline che mettereb-be alla prova i canoni della rispettabilità borghese e cattolica.

Tale identità, in particolare, è alla ba-se della rasba-segna relativa agli anni del fa-scismo, durante i quali la meretrice condi-vide alcuni tratti della donna rispettabile, a livello sia biografico che estetico. Con la guerra, secondo Hipkins, l’identità del-la prostituta coldel-lassa in queldel-la deldel-la don-na sofferente. Nel periodo dell’occupazione alleata e dell’affermazione del neoreali-smo, la caratterizzazione slitta verso la de-pravazione: la prostituta, che viene a coin-cidere con la donna che si offre ai militari angloamericani, si trasforma in “un ogget-to di disgusogget-to” (p. 73). Tra le pellicole esa-minate vi sono Il bandito (Lattuada, 1946), Paisà (Rossellini, 1946), Un americano in vacanza (Zampa, 1945), Tombolo paradi-so nero (Ferroni, 1947), Senza Pietà (Lat-tuada, 1948). Emerge un tipico paradig-ma espiativo, all’interno del quale la morte o il recupero della purezza da parte della

donna corrotta divengono strumenti di ri-pristino di un ordine sociale precostitui-to. L’autrice correla la sovra-determinazio-ne di certi stereotipi di gesovra-determinazio-nere alla mancata elaborazione del senso di colpa e di im-potenza originato dal passato fascista. La compromissione della mascolinità generata dalla disfatta bellica e dalle relazioni ses-suali con gli Alleati — specialmente quel-le interrazziali — è infine sublimata nella proiezione della colpa sulle donne amora-li, delle quali si postula l’irriducibile alteri-tà rispetto alle “brave italiane”.

Con gli anni Cinquanta si giunge al fi-lone “bordellistico”, inaugurato da film co-me La tratta delle bianche (Coco-mencini, 1952) e Donne proibite (Amato, 1953). La centralità attribuita alla meretrice è innan-zitutto il sintomo del decennale dibattito riguardante la chiusura delle case di tol-leranza. Si fa così strada una caratterizza-zione più complessa, in grado di ingloba-re contenuti di denuncia sociale. Tuttavia è forte la sovrapposizione tra l’identità della prostituta e quella della donna che deside-ra lavodeside-rare. Ricorre inoltre il motivo del-le model-lestie dei datori di lavoro e della se-lezione del personale femminile in base all’aspetto fisico, proposti a conferma della pericolosità dei luoghi di impiego per l’in-tegrità e l’incolumità femminile. Il cinema proietta in tal modo un’ansia di tipo nuo-vo, scaturita dall’idea che la donna possa essere economicamente indipendente dal padre e dal marito, e la prostituta torna ad assumere un ruolo di stabilizzazione del modello patriarcale. Iniziano intanto ad affiorare le prospettive femminili, sebbe-ne filtrate attraverso lo sguardo maschile.

Nella terza parte del libro prende corpo la nostalgia per le case di tolleranza, sim-bolo di un “paradiso perduto”, connotato da una chiara delimitazione delle identi-tà sessuali e dei comportamenti consentiti nella sfera domestica. Il ricorso alla com-media permette una maggiore libertà d’e-spressione e di tematizzazione, quantun-que il personaggio della prostituta risulti ancora stereotipato. Emerge inoltre il cli-ché dell’uomo che sogna una vita da

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man-tenuto, altra icona cinematografica della crisi della mascolinità, significativamen-te proposta al confine con l’omosessualità.

Il libro di Hipkins offre un repertorio estremamente utile, tanto per gli studi ci-nematografici che per quelli storiografi-ci, dimostrando come le rappresentazioni filmiche della prostituzione siano capaci di mettere in luce le contraddizioni insi-te nella cultura di massa italiana in usci-ta dalla guerra. L’intenzione di soddisfa-re una prospettiva di storia culturale pasoddisfa-re meno compiuta. Avrebbe giovato, in tal senso, una contestualizzazione delle singo-le opere all’interno delsingo-le politiche di pro-duzione cinematografica, nonché un esame della distribuzione, della critica, della cen-sura e del maggiore o minore successo di pubblico cui i film andarono incontro.

Chiara Fantozzi

Storia per immagini

Alessandra Giovannini Luca, Davi-de Tabor, Una memoria per immagini. Guerra e Resistenza nelle fotografie di Et-tore Serafino, Milano, FrancoAngeli, 2017, pp. 197, euro 24.

Molto si è detto e scritto sulle fotogra-fie della Resistenza e numerosi sono i te-sti che hanno pubblicato immagini del pe-riodo resistenziale. Troppo spesso, però, l’approccio all’immagine fotografica rima-ne impressionistico, a dispetto dell’esisten-za di riflessioni teoriche e strumenti meto-dologici sempre più sofisticati; compiuto per lo più sotto il segno del sentimenta-le sfogliare un album di ricordi o del pu-ro apparato illustrativo la cui interpreta-zione viene lasciata al singolo lettore. La lezione impartita da Adolfo Mignemi con la sua Storia fotografica della Resisten-za, pubblicata da Bollati Boringhieri oltre vent’anni fa, sembra essere in gran parte andata persa.

A Giovannini Luca e Tabor va dunque, anzitutto, riconosciuto il merito di non

es-sere caduti in questa trappola. La diver-sa formazione dei due autori, nella critica d’arte Alessandra Giovannini Luca, nel-la storia contemporanea Davide Tabor, ha portato, infatti, a un intreccio metodologi-co che viene minuziosamente applicato al corpus analizzato.

Questo è costituito da quasi duemila scatti prodotti tra il 1938 e il 1947 da Et-tore Serafino, alpino del Regio esercito sul fronte greco-albanese poi comandante partigiano nella val Chisone, e raccolti in tre album (più un album costituito a me-tà degli anni duemila con le immagini già presenti nelle tre raccolte precedenti).

Il testo si inserisce in un più ampio progetto di ricerca, promosso dall’Istitu-to piemontese per la sdall’Istitu-toria della Resisten-za e della società contemporanea “Giorgio Agosti” e finanziato dalla chiesa valde-se, di cui Serafino era esponente, che ha compreso, tra l’altro, anche la schedatu-ra e la digitalizzazione, con conseguente messa online, delle immagini (www.me-tarchivi.it/browser/catalogo_web.asp?id_ archivio=1&sub=\Fotografico\Serafino-Ettore, consultato il 12 novembre 2017). Purtroppo, sia detto per inciso, le fotogra-fie online sono accompagnate esclusiva-mente dalla schedatura immagine per im-magine, oltre a due sintetiche schede per il fondo e il produttore: scelta che, se met-te a disposizione di qualsivoglia umet-tenmet-te un ricchissimo materiale (ma solo in copia di-gitale in quanto gli originali sono rima-sti di proprietà della famiglia) è scarsa-mente utile per un ricercatore che voglia orientarsi tra i documenti per vagliarne la pertinenza rispetto alle proprie ipotesi di ricerca.

Nel volume, comunque, traspare il la-voro approfondito e articolato su più livelli con cui autrice e autore hanno affrontato i materiali. La loro dimestichezza con i do-cumenti e la passione nel maneggiarli so-no evidenti e consentoso-no loro di muover-si agilmente tra le diverse famuover-si della vita delle fotografie: non solo il momento della produzione, quindi, ma anche l’immedia-ta circolazione, che viene

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minuziosamen-te indagata in quella che è forse la parminuziosamen-te più interessante della ricerca, la fruizio-ne a guerra conclusa e la ri-significaziofruizio-ne prodotta dallo stesso Serafino mediante la composizione degli album. Ne è un buon esempio la decisa rilettura delle immagi-ni proposta nel quarto album, Serafino ri-costruisce completamente, a distanza di decenni e non più nell’immediato, il rac-conto delle vicende belliche e resistenzia-li di cui è stato protagonista: qui mancano le immagini del dopoguerra e, in partico-lare, significativamente, ci spiegano autri-ce e autore, “risulta totalmente assente il tema del lutto”.

Il libro segue con grande attenzione la progressiva ri-contestualizzazione delle immagini e il modo in cui questo processo produce una stratificazione di significati; con la consapevolezza che i successivi in-terventi, in parte indipendenti dal proget-to comunicativo dell’auproget-tore degli scatti ma appropriati da altri attori, “abbiano rappre-sentato le diverse ruote di un unico ingra-naggio dal cui funzionamento è dipesa la creazione della memoria visuale della Re-sistenza” (p. 12).

Il volume si pone dichiaratamente il fi-ne ambizioso di ricostruire come si sia formato l’immaginario visivo resistenziale ma lo raggiunge solo in parte. Se, infatti, il corpus consente di evidenziarne e chia-rirne alcuni meccanismi, rimane troppo li-mitato per approdare a un’interpretazione che vada al di là del caso specifico. Tanto più che sulla totalità delle immagini inse-rite negli album, solo una minoranza affe-risce al periodo resistenziale: oltre mille-quattrocento immagini riguardano, infatti, gli anni di guerra “regolare”. Sarebbe sta-ta opportuna, inoltre, una più ampia conte-stualizzazione che mettesse a confronto le immagini di Serafino con altre rappresen-tazioni coeve della Resistenza e che ne in-serisse la vicenda nel contesto storico-po-litico.

Il lavoro, del resto, apre molti interro-gativi ed è certamente uno dei suoi pregi suscitare un’ampia serie di questioni, an-che sul piano metodologico. Ci si chiede,

anzitutto, se le riflessioni effettuate a par-tire dalle proposte emerse da studi su im-magini prodotte a fini artistici, che forma-no il grosso della bibliografia citata nella premessa sull’impostazione metodologica, possano essere trasferite tout court, senza approfondimenti e adeguamenti, ad ambi-ti comunicaambi-tivi diversi. Se è indubbio che l’analisi di un documento iconografico ri-chiede l’intreccio tra metodologie diver-se, non si può trascurare di evidenziare, al di là delle similitudini, anche le differenze tra gli oggetti analizzati.

In più punti si sente anche l’esigenza di una maggiore chiarezza terminologica: in particolare, avrebbe richiesto un approfon-dimento l’uso del termine “ricezione” che troppo spesso pare confondersi con quello di “fruizione” o “circolazione”. A questo proposito, sarebbe stato assai interessante chiarire su quali basi si fondi l’affermazio-ne per cui la seconda fase di condivisio-ne pubblica delle immagini tra diversi at-tori, dopo la conclusione della guerra, “si allargò, ma non mutò né il loro sguardo né il loro bisogno di ricordare la Resisten-za soprattutto attraverso i compagni cadu-ti in battaglia” (p. 179). Nonostante, infat-ti, gli studi sulla ricezione stiano facendo dei passi avanti, è innegabile che questo rimanga l’anello debole nelle analisi ico-nografiche.

Per quanto riguarda l’edizione delle im-magini, sarebbe stato appropriato chiari-re se le didascalie che le accompagnano (esclusa ovviamente l’indicazione dei da-ti archivisda-tici) siano originali o siano sta-te compossta-te dagli autori. Il bianco e nero piatto e omogeneo delle riproduzioni, inol-tre, non lascia cogliere alcuna informazio-ne sulla materialità dei fototipi.

Il libro si chiude sull’affermazione che le fotografie di Serafino sono il perfetto terreno per indagare come memoria collet-tiva e individuale non siano mai elemen-ti separaelemen-ti ma che esistano “meccanismi di scambio e di reciproco condizionamen-to tra il piano soggettivo e quello sociale”. Se la prima parte è sicuramente esaminata in modo convincente nel volume, c’è

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anco-ra del lavoro da fare per quanto riguarda la seconda parte dell’affermazione.

Monica Di Barbora Monica Di Barbora (a cura di), Gli ar-chivi fotografici dell’Unità: Milano, Roma e le redazioni locali, Milano-Udine, Fon-dazione Isec-Mimesis, 2016, pp. 224, eu-ro 17.

Il tema degli archivi fotografici è ul-timamente molto dibattuto non solo da-gli addetti ai lavori ma anche da artisti, curatori, scrittori. Per esempio, la più re-cente edizione del Festival di Fotografia Europea — Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro — ha proposto proprio gli archivi come tema centrale delle esposi-zioni e degli incontri, mettendo in luce un’attenzione generale sempre più eviden-te. Dimostrazione che non si tratta di un interesse limitato ai soli addetti ai lavo-ri (gli archivisti) ma esteso ad altlavo-ri ambiti e attori. Si pensi anche a molte esposizio-ni (da poco si è chiusa a Camera di Tori-no, una mostra di Erik Kessels).

Gli archivi fotografici, in particolare, aggiungono ad altre fonti documentali un contenuto iconografico cui spesso si attin-ge, purtroppo, senza troppa considerazio-ne per il fototipo e il contesto che li hanno creati, e che invece hanno una storia e un significato complessivo più ricchi: la sin-gola immagine, oltre ad avere un signifi-cato più profondo della semplice trasfor-mazione appunto in immagini delle parole della didascalia, fornisce una informazio-ne maggiore se considerata informazio-nel contesto archivistico sia esso fotografico e/o docu-mentale che la ospita.

All’interno di questo vastissimo univer-so degli archivi fotografici, quello degli archivi fotografici dei giornali si presenta come un tema particolare e delicato. Il vo-lume che qui si segnala, curato da Moni-ca di Barbora, raccoglie gli atti di due se-minari organizzati da Fondazione Isec e dedicati alla stampa militante e in parti-colare appunto agli archivi fotografici del

giornale. Gli interventi sono raggruppati in tre sezioni ideali.

La prima parte è dedicata al tema de-gli archivi fotografici dei giornali, la lo-ro gestione quotidiana, gli aspetti giuridici con interessanti saggi di Adolfo Mignemi e Carlo Eligio Mezzetti. La seconda è in-vece incentrata sull’attività della redazio-ne milaredazio-nese de l’Unità con i racconti di Domenico Carulli, Uliano Lucas e Ore-ste Pivetta affiancati da quelli sul lavoro negli archivi di Fondazione Isec narrato da Maddalena Cerletti, Alberto De Cri-stofaro e Primo Ferrari. Nella terza par-te sono infine analizzapar-te le vicende degli archivi fotografici delle altre redazioni at-traverso le parole dei responsabili degli enti conservatori: Gian Piero Del Monte e Laura Gasparini (Fototeca Panizzi Reg-gio Emilia), Simona Granelli (Fondazione Gramsci Bologna), Claudio Salin (Fonda-zione Gramsci Torino). È presente anche una ricostruzione della carriera di Cesa-re Giorgetti e Rodolfo Pais a firma rispet-tivamente di Adolfo Mignemi e Ilaria Ge-novese.

Questa terza sezione risulta molto uti-le per chi voglia cercare di capire come si struttura oggi l’archivio fotografico dell’U-nità: suddiviso fisicamente in più nuclei ma ora ricostruito idealmente con questa ricerca che, sebbene sia un primo passo, rappresenta un riferimento bibliografico importante.

Manca all’appello, e lo dichiarano con rammarico la curatrice e Adolfo Mignemi, l’archivio della redazione romana, nucleo centrale del giornale, purtroppo inacces-sibile. Chiude il volume Marco Albertaro con la riflessione sulla nascita del giorna-le e sul peso politico che esso ha avuto so-prattutto se comparato a un presente in cui nessun partito ha più un proprio giornale. Impreziosiscono ulteriormente il volume le interviste di Monica di Barbora ai fotogra-fi Angelo Palma e Tatiano Maiore che ren-dono vivo e molto più comprensibile il la-voro professionale e la componente umana che stanno dietro alla formazione di que-sti archivi.

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Naturalmente, trattandosi di archi-vi fotografici, non potevano mancare le immagini che percorrono l’intero volume raccontando la storia del Paese, del quoti-diano, del modo di fare grafica e giornali-smo. Un valore primario, e non aggiunto, che permette di ribadire la necessità di po-litiche di conservazione e salvaguardia di questi importanti archivi.

Barbara Bergaglio

Schegge di guerra

Federico Mazzini, Una guerra di mera-viglie? Realtà e immaginario tecnologico nelle riviste illustrate della Prima guerra mondiale, Napoli-Salerno, Orthotes, 2017, pp. 69, euro 16.

Lo scorso 26 ottobre, nell’ambito del-le iniziative per il Festival della scienza di Genova, è stata inaugurata nel capoluogo ligure la mostra Una guerra di meraviglie? Realtà e immaginario tecnologico nelle ri-viste illustrate della Prima guerra mondia-le, a cura di Federico Mazzini e organiz-zata dal Centro interuniversitario di Storia culturale di Padova.

Il catalogo della mostra, sempre a cu-ra di Mazzini, ripercorre i tcu-ratti salienti dell’evento, centrato sull’immaginario tec-nologico della Grande guerra narrato at-traverso le riviste popolari di divulgazione tecnico-scientifica. Secondo Mazzini, du-rante il conflitto, queste riviste mirarono a salvare, nel mezzo della carneficina, l’idea di progresso della civiltà positivistica. Per farlo, si servirono di due strategie narrati-ve fondamentali: la maggiore letalità del-le armi come mezzo per abbreviare il con-flitto (p. 5) e la guerra come luogo esotico, dove congegni contrapposti generavano ogni sorta di meraviglia, iscrivendosi ap-pieno nell’interpretazione di George Mos-se del processo di “trivializzazione” del-la Grande guerra (p. 6). Tale processo non fu mosso tanto dalla volontà di produr-re divulgazione tecnico-scientifica,

quan-to dall’obiettivo commerciale di vendere il maggior numero di copie, essendo la tri-vializzazione più appetibile per il grande pubblico. Da questo derivò una strategia retorica si concentrava sugli aspetti tecno-logici della guerra, svuotando il conflitto del suo lato più truce e presentandola co-me un duello tra macchine (p. 7).

Altro aspetto interessante, è che le ri-viste agivano come veicolo di alfabetiz-zazione tecnologica, mischiando elementi di fantascienza e scienza in un tratto tipi-co della “volgarizzazione” scientifica di questo periodo. Mazzini offre anche qual-che spunto comparativo, sottolineando le differenze nell’esperienza del “network” di riviste del mondo anglo-americano, a cui fece da contraltare la maggiore chiusu-ra fchiusu-rancese e italiana, quest’ultima volta a evidenziare anche le realizzazioni del “ge-nio latino” (p. 8).

Il catalogo si snoda poi attraverso quat-tro percorsi, quelli della guerra a terra, nell’aria, in mare e il futuro. Il primo ini-zia dalla trincea, passando al lento muta-mento dottrinario della guerra, che Mazzi-ni riconduce alla persistenza della dottrina dell’attacco frontale basato sull’élan, un concetto che l’autore fa risalire all’influen-za del pensiero di Henri Bergson, ma in realtà prodotto delle dottrine militari na-poleoniche, che dominavano il pensiero militare del periodo. Seguono le schede dedicate al fuoco automatico, con la mi-tragliatrice grande protagonista, che muta il panorama della guerra, costringendo gli uomini al riparo portando allo scavo delle trincee. Da questo la ricerca di una rispo-sta tecnologica al problema dello rispo-stallo, sia attraverso nuovi ritrovati sia con tecno-logie immaginate, spesso frutto di inven-tori amainven-toriali, ma che trovarono grande spazio nelle riviste, mentre l’artiglieria, re-ale e immaginata, proponeva visioni apo-calittiche con armi (anche a gas) in grado di annientare intere città. Anche il carro armato assurse a protagonista della divul-gazione, immaginando “corazzate di ter-ra” dalle dimensioni mostruose e dall’este-tica futurisdall’este-tica, in teoria capaci di rompere

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