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Studio comparativo per l'ottimizzazione dell'analisi quali/quantitativa di peptidi tiolici in Arabidopsis thaliana esposta al cadmio

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Biologia

Corso di Laurea Magistrale in

Biologia Molecolare e Cellulare

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

“Studio comparativo per l’ottimizzazione dell’analisi quali/quantitativa di

peptidi tiolici in Arabidopsis thaliana esposta al cadmio”

ANNO ACCADEMICO 2017/2018

Relatori:

Prof. Luigi Sanità di Toppi Prof. Stephan Clemens Dott.ssa Erika Bellini

Candidato: Simone Cesari

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3

RIASSUNTO

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1

INTRODUZIONE

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1.1 Relazione tra piante e metalli di transizione 7

1.2 Le fitochelatine: struttura e funzioni 13

1.3 La fitochelatina sintasi 15

1.4 I principali metodi di quantificazione dei peptidi tiolici 21

1.4.1 Cromatografia liquida ad alta performance (HPLC) 22

1.4.1.1 Tecniche di derivatizzazione 27

1.4.1.1.1 Derivatizzazione dei tioli con il reagente di Ellman (post-colonna) 28 1.4.1.1.2 Derivatizzazione dei tioli con Monobromobimano (pre-colonna) 29

1.4.1.2 Interpretazione del cromatogramma 30

1.4.2 Spettrometria di massa (MS) 31

1.5 Scopo della tesi 36

2

MATERIALI E METODI

37

2.1 Allestimento delle colture e condizioni di crescita 37

2.2 Estrazione dei peptidi tiolici 40

2.3 Estrazione e saggio di attività enzimatica della PCS 42

2.4 Analisi dei peptidi tiolici 43

2.4.1 Analisi via cromatografia ad alta performance (HPLC) 43

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2.4.1.2 Derivatizzazione pre-colonna (Monobromobimano, mBBr) 46

2.4.2 Analisi via cromatografia liquida accoppiata a spettrometria di massa 48

2.5 Analisi statistica 53

3

RISULTATI

54

3.1 Analisi dei peptidi tiolici in derivatizzazione post-colonna (Reagente di Ellman) 54 3.2 Analisi dei peptidi tiolici in derivatizzazione pre-colonna (monobromobimano) 57 3.3 Analisi via cromatografia liquida accoppiata a spettrometria di massa

(HPLC-ESI-MS-MS) 64

4

DISCUSSIONE

78

5

CONCLUSIONI

84

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5

RIASSUNTO

L’enzima fitochelatina sintasi (PCS) è una gamma-glutamil-cisteina dipeptidil (trans)peptidasi appartenente al “Clan CA” delle cisteina proteasi “papain like”. La PCS è espressa costitutivamente nella grande maggioranza delle piante, in altri organismi eucariotici e in alcuni cianobatteri. Nel clade delle Plantae, particolarmente nelle streptofite, laddove sia stata funzionalmente caratterizzata, la PCS mostra una palese attività transpeptidasica, catalizzando la sintesi delle fitochelatine, peptidi tiolici del tipo (gamma-glutamil-cisteinil)n-glicina (n=2-5). L’attività transpeptidasica della PCS è attivata dalla presenza di alcuni metalli pesanti (elementi caratterizzati dal possedere un peso specifico superiore a 5 g cm-3), quali

cadmio (Cd), mercurio (Hg), piombo (Pb), o dal metalloide arsenico (As). Grazie ai gruppi tiolici dei residui di cisteina che le compongono, le fitochelatine sono in grado di chelare gli ioni dei suddetti metall(oid)i, formando con essi complessi che vengono prontamente compartimentati nel vacuolo, liberando così il citoplasma da tali elementi in forma libera e riducendone i potenziali effetti tossici. Ciò premesso, oltre che nella disintossicazione di metal(loid)i tossici, di recente è stata ipotizzata una possibile funzione primigenia delle fitochelatine nella regolazione omeostatica dei fabbisogni fisiologici di micronutrienti metallici, quali ferro(II)/(III), rame, zinco, ecc., che – al di sotto della loro soglia di tossicità – svolgono funzioni indispensabili per la cellula vegetale. Per verificare o confutare tale ipotesi è necessario utilizzare metodi di analisi molto sensibili ed affidabili, in grado di rilevare efficacemente concentrazioni di fitochelatine anche molto esigue, che potrebbero essere prodotte a seguito di esposizione a livelli fisiologici, talora estremamente bassi, di micronutrienti metallici. A tal fine, in una prima fase di questo lavoro di tesi magistrale, sono state allestite colture in vitro di Arabidopsis thaliana, cresciute sterilmente in terreno liquido

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6

addizionato con una soluzione di solfato di cadmio (CdSO4) in grado di attivare la PCS ed indurla a produrre fitochelatine. Gli estratti ottenuti sono stati poi analizzati per mezzo di un sistema di cromatografia ad alta performance (HPLC), con due diverse tecniche di derivatizzazione (post-colonna la prima e pre-colonna la seconda), e per mezzo di un sistema evoluto di spettrometria di massa (HPLC-ESI-MS-MS). In seguito ad uno studio comparativo effettuato tra i tre sistemi di cui sopra, l’HPLC-ESI-MS-MS ha mostrato di possedere un’elevata sensibilità, affidabilità e specificità verso i peptidi tiolici oggetto d’esame. Tale tecnica, dunque, si è rivelata la migliore candidata per essere impiegata in indagini volte alla quali/quantificazione di fitochelatine prodotte non solo a seguito di esposizione al cadmio, ma anche a micronutrienti metallici presenti intracellularmente in concentrazioni fisiologiche, talora molto basse.

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7

1 INTRODUZIONE

1.1 Relazione tra piante e metalli di transizione

I metalli pesanti sono elementi chimici ubiquitari in tutte le matrici ambientali (suoli, acque, atmosfera), potendo provenire sia da fonti naturali (ad esempio, processi pedogenetici), sia da immissione antropica (come sottoprodotto di processi industriali, di pratiche agricole o prodotti dell'urbanizzazione). Il termine "pesanti" si riferisce, secondo una definizione storicamente accettata e diffusa (Hogan, 2010), a quegli elementi di transizione con densità superiore a 5 g cm-3. A ridosso della linea di demarcazione che, nella tavola periodica, divide

i metalli dai non metalli, risiedono i metalloidi, una classe di elementi che presentano caratteristiche fisico-chimiche intermedie.

Secondo una classificazione alternativa (Duffus, 2002; Nieboer and Richardson, 1980), i metall(oid)i vengono divisi in oxygen seeking, nitrogen/sulphur seeking e intermedi tra le due categorie, a seconda dell'affinità per ligandi contenenti ossigeno, azoto/zolfo o entrambi. I metalli pesanti sono caratterizzati dall'avere un forte potere inquinante con un alto impatto sugli ecosistemi; essi, infatti, non sono biodegradabili e presentano un'alta persistenza nell’ambiente, dove possono accumularsi negli organismi con cui entrano in contatto, in concentrazioni superiori a quelle riscontrate nell’ambiente circostante (Tchounwou et al., 2012). Inoltre possono assumere numerosi stati di ossidazione, che conferiscono loro un'attività redox, e sovente sono anche ottimi catalizzatori di numerose reazioni biologiche (Nagajyoti et al., 2010). I metalli pesanti mostrano la capacità di dare origine a complessi

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grazie alla presenza degli orbitali d per lo più incompleti (Berg and Shi, 1996) e non per ultimo presentano un'alta affinità per i gruppi funzionali tiolici, carbossilici e amminici (importanti costituenti degli amminoacidi).

Nel corso dell'evoluzione, alcuni di questi elementi sono stati selezionati dagli organismi per svolgere funzioni essenziali per la cellula, essendo coinvolti in diversi processi biochimici (basti pensare che gran parte delle proteine, caratterizzate dal punto di vista strutturale, sono metalloproteine) (Finney and O’Halloran, 2003). A questi elementi ci riferiamo complessivamente con i termini di "microelementi” o “micronutrienti". Pertanto, fra i metalli pesanti si distinguono i metalli indispensabili per gli organismi, con potenziale tossicità solo se presenti in concentrazioni superiori ad una certa soglia (quali ferro, rame, molibdeno, manganese, zinco, ecc.), dai metalli (o metalloidi) ritenuti tossici (arsenico, antimonio, cadmio, mercurio, piombo, ecc.) (Tabella 1).

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Tabella 1. Principali metalli pesanti (e metalloidi) tossici o essenziali per le piante, con la relativa forma ionica assorbibile. In rosso e in giallo, rispettivamente: metalli e metalloidi tossici, anche in basse concentrazioni. In verde: micronutrienti metallici essenziali per le piante; essi tuttavia divengono tossici al di sopra di una certa soglia (Sanità di Toppi, 2018).

Sebbene le piante necessitino di provvedere all’approvvigionamento di micronutrienti metallici per essenziali funzioni metaboliche, allo stesso tempo devono proteggersi da eccessi di questi elementi e dalla possibile invasione di metall(oid)i tossici. Questi ultimi possono, infatti, penetrare attraverso gli stessi sistemi di uptake radicale che le piante impiegano per l’acquisizione di macro- e micronutrienti (per esempio, il cadmio sfrutta canali e/o carrier transmembrana normalmente deputati all’assorbimento di elementi essenziali quali K, Ca, Mg, Fe, Mn, Cu, Zn, Ni, ecc. (Sanità di Toppi and Gabbrielli, 1999). Un eccesso di metalli essenziali o la presenza di metall(oid)i tossici all’interno della cellula può comportare effetti molto negativi, come l’inibizione dell’attività di svariati enzimi chiave di pathway metabolici, perdita della struttura delle proteine e conseguente perdita della loro funzione, formazione

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di specie reattive dell’ossigeno (ROS)1, (queste ultime responsabili di perniciose

perossidazioni lipidiche e conseguente perdita dell’integrità delle membrane)(Sanità di Toppi and Gabbrielli, 1999). Si può anche avere stress osmotico e conseguente plasmolisi, rigonfiamento tilacoidale con eccessivo accumulo di amido e ipervacuolazione (Sanità di Toppi and Gabbrielli, 1999). Inoltre, un bersaglio primario di questi elementi, soprattutto se presenti in alte concentrazioni, è la cromatina, l’alterazione della quale può avere un effetto mutageno (Bánfalvi, 2011). In alcuni casi possiamo avere inibizione della fotosintesi, danneggiamento delle clorofille, compromissione della respirazione cellulare, alterazione dell’assorbimento e del trasporto dell’acqua e dei movimenti stomatici. Questi effetti possono essere visibili sotto forma di clorosi e a livello istologico possiamo avere danni alle zone di struttura primaria e secondaria (Sanità di Toppi and Gabbrielli, 1999) . In più, alcuni metall(oid)i possono raggiungere con effetti negativi organi riproduttivi quali fiori, frutti e semi (Sanità di Toppi, 2018). Dal canto loro, le piante mettono in atto una serie di misure per tamponare efficacemente i metall(oid)i tossici, o l’eccesso di metalli essenziali, soprattutto quando presenti nell’ambiente simplastico (Sanità di Toppi and Gabbrielli, 1999). Ci riferiamo ad esse, in questo senso, con il termine di “risposta a ventaglio” (Figura 1), per sottolineare l’ampia gamma di differenti strategie esercitate a più livelli (citologico, ultrastrutturale, morfologico, funzionale, ecologico) in modo non soltanto additivo, ma spesso anche sinergico. La risposta complessiva che la pianta attua è il risultato dell’espressione di uno o più “raggi” del ventaglio (Sanità di Toppi et al., 2003).

1 per via diretta, attraverso le note reazioni di Fenton e Haber Weiss, oppure indiretta, influenzando la sintesi e

l’attività di enzimi antiossidanti, la sintesi dei metaboliti antiossidanti, o attivando NADPH ossidasi e/o perossidasi apoplastiche.

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Figura 1. Risposta “a ventaglio” (“fan-shaped” response) messa in atto da larga parte delle piante per contrastare lo stress da metalli pesanti e metalloidi (Sanità di Toppi, 2018)

In generale le piante tendono a scongiurare l’ingresso di elementi indesiderati attraverso misure preventive (avoidance), come l’emissione rizosferica di acidi organici ed essudati radicali ad azione chelante che, accumulandosi nell’intorno della radice, costituiscono una prima barriera che impedisce l’accesso, all’interno di quest’organo, a metalli quali Pb, Cu, Ni, Fe, Zn, Al. Nel momento in cui questo processo non si rivela sufficiente per scongiurare l’accesso in planta del metall(oid)i rizosferici, anche l’ispessimento e la lignificazione delle pareti, soprattutto dei vasi xilematici, costituisce un buon meccanismo di avoidance: in questo caso vari metalli si trovano di fronte ad una barriera fisica, ma possono anche venire immobilizzati dalla presenza di cariche negative libere offerte da talune componenti di parete, che legano chimicamente gli ioni positivi indesiderati (Cd2+, Zn2+, Ni2+, Cu+/2+, Fe2+/3+).

Nonostante queste misure difensive, alcuni metalli possono passare oltre e raggiungere la membrana cellulare ove, però, si trovano sistemi di trasporto attivo primario e secondario più

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o meno specializzati, la cui selettività permette di impedire ai metalli di raggiungere l’ambiente simplastico e, in particolare, il nucleo e gli organuli. Questi sistemi di trasporto transmembrana agiscono non solo a livello di plasmalemma, ma anche di tonoplasto, per una pronta traslocazione dei metall(oid)i nel vacuolo e conseguente efficiente disintossicazione del citoplasma (Sanità di Toppi, 2018). Le risposte appena elencate sono, di per sé, alquanto efficaci, ma un’ottima strategia che la cellula mette in atto contro gli elementi più penetranti è la biosintesi di piccole molecole che offrono siti di legame ad alta affinità per gli ioni metallici, evitando, in questo modo, il legame di questi con altri gruppi funzionali fisiologicamente importanti (Clemens, 2006). Si tratta di oligopeptidi tiolici, quali il glutatione ridotto (GSH) e, soprattutto, le fitochelatine, queste ultime direttamente derivate dal GSH (Grill et al., 1985).

Il glutatione è un tripeptide costituito da γ-glutamil-cisteinil-glicina, ed è solitamente presente in alti livelli nella cellula vegetale (ordine di concentrazione mM). L’insolito legame isopeptidico (tra il glutammato e la cisteina) non è infatti riconosciuto dalle peptidasi citosoliche e questo preserva l’abbondanza di questa molecola nell’ambiente cellulare, necessaria per lo svolgimento delle sue funzioni. Il glutatione, infatti, grazie alle sue proprietà antiossidanti, è molto importante per il mantenimento dello stato redox della cellula, può ridurre chimicamente alcuni metalli (es. cromo) a forme meno tossiche e legarsi reversibilmente (tramite ponti disolfuro misti) a gruppi tiolici di proteine, proteggendole dall’attacco delle ROS (che possono essere generate direttamente o indirettamente dai metalli pesanti). Inoltre, il GSH può già di per sé chelare alcuni metall(oid)i (come Zn, Cd, Pb, Hg, As,…) e diminuirne così la tossicità intracellulare (Rana and Verma, 1996).

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Oltre al glutatione, come sopra accennato, altri oligopeptidi tiolici sono le fitochelatine, attive nella chelazione intracellulare di metalli pesanti (specialmente Cd2+) nelle piante, soprattutto

a livello citosolico e vacuolare (Grill et al., 1985).

1.2 Le fitochelatine: struttura e funzioni

Una maggiore efficienza nel chelare intracellularmente vari metall(oid)i (in particolare quelli del tipo sulphur seeking) è data dalle fitochelatine (PCs), oligopeptidi tiolici prodotti da larga parte delle piante, e di formula generale (γ-glutamil-cisteinil)n-glicina (dove n = 2-5; Figura 2),

scoperte per la prima volta nelle piante da Erwin Grill, nel laboratorio diretto dal Prof. Meinhart H. Zenk a Monaco di Baviera (Grill et al., 1985)2.

Figura 2. Struttura generale di una fitochelatina (PCn); il particolare legame isopeptidico fra il glutammato e la cisteina

caratterizza anche il glutatione. Il circoletto rosso indica in gruppo funzionale tiolico delle cisteina, in grado di formare complessi metallo-PC.

2 È doveroso, però, ricordare che nel 1973 il prof. Pelosi e il suo gruppo di ricerca dell’Università di Pisa

pubblicarono un articolo in cui ipotizzarono un “sistema peptidico inducibile”, che conferiva una certa tolleranza al mercurio in piante di tabacco sottoposte a vapori del metallo pesante. In conseguenza di ciò gli scienziati notarono che le piante intossicate producevano quantità significativamente elevate di acido glutammico, cisteina e glicina, rispetto alle piante di controllo, nelle quali non si registrava nessun aumento. (Anelli et al., 1973)

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La sintesi delle PCs è stimolata dall’esposizione (anche per pochi minuti) a vari metall(oid)i ed è stato dimostrato che queste molecole sono in grado di formare in vivo complessi a basso peso molecolare (Figura 3A) con alcuni di essi, sia forme cationiche, sia anioniche (es. Cd, Cu, Ag e As) sottraendoli dalla libera circolazione citoplasmatica (Maitani et al., 1996). Infatti, i gruppi tiolici presenti a livello delle cisteine permettono la formazione di complessi metallo-PC che vengono compartimentati nel vacuolo, all’interno del quale solitamente i metalli sono legati da acidi organici o altri ligandi, mentre le PCs vengono degradate (Figura 3B).

Figura 3. Rappresentazione schematica di un complesso PC-Cd (A) e della biosintesi e azione citoplasmatica delle PCs (B).

In seguito all’isolamento di mutanti di Arabidopsis thaliana sensibili al cadmio (cad1, cad2), divenne finalmente chiaro il ruolo centrale delle nella disintossicazione di questo metallo pesante, in quanto tali mutanti PC-deficienti risultavano ipersensibili al cadmio (Howden et

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al., 1995). La peculiare struttura delle PCs ricorda quella del glutatione (GSH), in particolare, la presenza di un legame isopeptidico suggerì presto una origine non-ribosomale di queste molecole (Sanità di Toppi et al., 2003).

1.3 La fitochelatina sintasi

La somiglianza strutturale delle PCs con il GSH, l’osservazione di una relazione diretta tra la sintesi delle prime e la deplezione del secondo e il fatto che la butionina sulfoximina (BSO), un inibitore della γ-glutamil-cisteina sintetasi (enzima della via biosintetica del GSH), provocasse anche il blocco della sintesi di PCs (Scheller et al., 1987), fecero correttamente postulare un legame biosintetico delle PCs con il metabolismo del GSH. Inoltre si poté assistere alla produzione in vitro di PC2-4 (al pedice è indicato il numero delle ripetizioni delle

unità di γ-glutamil-cisteina presenti all’interno delle molecole rilevate) in presenza di GSH e Cd2+ in un preparato enzimatico omogeneo isolato da Silene vulgaris (Grill et al., 1989).

Furono in seguito isolate varie versioni di un cDNA, facenti parte di una libreria prodotta da radici di Triticum aestivum ed espresse in Saccharomyces cerevisiae, capaci di indurre Cd-tolleranza con conseguente accumulo di questo metallo pesante. L’omologia emersa con un’unica sequenza nota in Schizosaccharomyces pombe, il knockout della quale produceva individui, rispetto ai controlli WT (wild type), estremamente sensibili al cadmio, dimostrò il ruolo di questo gene (successivamente chiamato gene per la PCS) nella disintossicazione del Cd2+ (Clemens, 2006). Ulteriori esperimenti mostrarono come individui WT di S. pombe

producessero PC2 e PC3 quando trattati con Cd2+, mentre individui Δpcs di S. pombe non

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seguito a purificazione di SpPCS ricombinante dimostrarono inequivocabilmente il legame tra l’enzima e la produzione di PCs (Clemens et al., 1999).

La reazione catalizzata dall’enzima fitochelatina sintasi (PCS) consiste nella transpeptidazione di un dimero di γ-glutamil-cisteina da una molecola di GSH verso un’altra, a formare una PC2

(oppure, a stadi successivi, una PCn, a formare una PCn+1) (Figura 4; Sanità di Toppi et al.,

2003).

Figura 4. Rappresentazione schematica della reazione di biosintesi delle PCs ad opera dell’enzima fitochelatina sintasi (PCS).

L’enzima PCS è una gamma-glutamilcisteina-dipeptidil-(trans)peptidasi (EC 2.3.2.15) appartenente al “Clan CA” delle cisteina peptidasi “papain like” (Vivares et al., 2005). È costituito (Figura 5B) da un dominio N-terminale altamente conservato (come è possibile apprezzare dal grado di omologia che emerge dal multiallineamento riportato in Figura 5A), responsabile dell’attività catalitica, garantita da tre residui di cisteina, istidina e aspartato (la cosiddetta “triade catalitica”) ed un dominio C-terminale, estremamente variabile, che

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sembra essere coinvolto sia nella stabilizzazione dell’enzima di fronte a stress termici e/o ossidativi, sia nell’aumentarne l’affinità verso un più ampio range di ligandi metallici.

Figura 5. Multiallineamento della sequenza amminoacidica di PCS di vari organismi: Triticum aestivum, Arabidopsis thaliana, Caenorhabditis elegans e Schizosaccharomyces pombe; nella porzione N-terminale risiede il più alto grado di omologia, rispetto alla porzione C-terminale, scarsamente conservata (A). Rappresentazione schematica dell’enzima AtPCS1 di A. thaliana, con la triade catalitica di cisteina, istidina e aspartato, collocata nel dominio N-Terminale (B), e il numero di complessivo di aminoacidi costituenti, pari nella fattispecie a 485.

L’enzima PCS, dalle prime ricerche che hanno portato alla scoperta dei suoi prodotti (PCs) fino alla sua identificazione e caratterizzazione, è un importante attore nella disintossicazione da metall(oid)i tossici (specialmente Cd e As) dell’ambiente intracellulare delle cellule vegetali (Cobbett and Goldsbrough, 2002).

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In seguito alla clonazione dei geni PCS, i database pubblici si sono arricchiti di nuovi dati provenienti da sistemi biologici anche filogeneticamente molto distanti tra loro. Nuove sequenze con un grado di omologia significativo con quelle già note hanno permesso di delineare una mappa della distribuzione dei geni PCS in natura (Clemens, 2006) (Figura 6). Sorprendentemente, la distribuzione della PCS appare molto estesa e non riguarda solo la stragrande maggioranza delle piante terrestri, ma anche certi gruppi algali (che con le piante terrestri formano il clade delle Plantae) e altri eucarioti, come alcuni appartenenti a Fungi, Animalia, Amoebozoa (Unikonta), SAR (Bacillariophyceae e Phaeophyta), Excavata, e addirittura procarioti, come cianobatteri e alcuni beta- e gamma-proteobatteri (Clemens and Peršoh, 2009). È, inoltre, più recente la scoperta che, contrariamente a quanto sostenuto in passato, una PCS attiva e funzionale è espressa anche nel gruppo parafiletico delle briofite (muschi, epatiche, antocerote) (Petraglia et al., 2014).

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Figura 6. Distribuzione del gene della PCS nei principali cladi eucarioti (Clemens and Persoh, 2009).

Questo enzima è sempre espresso nelle cellule della maggioranza delle piante (si dice, quindi, “costitutivo”), anche in assenza di metall(oid)i: una parziale purificazione dell’enzima da piante cresciute in assenza di tali elementi ha permesso infatti di evidenziare l’espressione costitutiva di una PCS capace di attivarsi dopo pochi minuti in seguito all’aggiunta in vitro di GSH e metalli in opportune concentrazioni e di catalizzare la sintesi di PCs (Chen et al., 1997; Grill et al., 1989).

La presenza costitutiva e sorprendentemente ampia della PCS - anche in organismi geograficamente distanti da fonti di inquinamento - ha fatto sorgere dei dubbi circa la funzione primigenia di questo enzima (Clemens and Peršoh, 2009): una visione delle PCs come

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meri agenti disintossicanti l’ambiente cellulare da metall(oid)i tossici sembra infatti alquanto riduttiva. Tra l’altro, è stato notato (Rascio and Navari-Izzo, 2011) che non esiste una correlazione tra i livelli di PCs e la tolleranza adattativa di piante ad elevate concentrazioni di metalli quali Cd, Pb, e Hg: le cosiddette piante “iperaccumulatrici” di metall(oid)i non sono infatti “superprotette” dalle altissime concentrazioni metall(oid)i tossici (che sono in grado di accumulare nei loro tessuti) grazie ad una “supersintesi” di PCs.

Tra le alternative alla esclusiva funzione disintossicante della PCS che sono state proposte, vi è quella di considerare un suo coinvolgimento nel mantenimento dell’omeostasi dei micronutrienti essenziali. Il sistema omeostatico dei metalli, infatti, deve regolare molto finemente i livelli di ioni metallici all’interno della cellula, controllarne la disponibilità e occuparsi del loro trasporto verso i corretti target (cellule, organelli, proteine, che spesso si trovano distanti dal sito di assorbimento del metallo), evitando che vengano sequestrati da siti competitori che potrebbero incontrare nel loro tragitto (Clemens et al., 2002). Già poco dopo la scoperta delle PCs furono misurati bassi livelli di questi peptidi in colture cellulari di pomodoro cresciute in assenza di metalli in eccesso (Steffens et al., 1986), mentre in S. pombe è stata registrata una certa sensibilità al Cu2+ in individui che non possiedono il gene pcs

funzionante (Clemens et al., 1999).

Tra i metalli essenziali è stato osservato, in particolare, che ferro (Fe) e zinco (Zn), in concentrazioni fisiologiche, attivano la PCS dell’epatica Lunularia cruciata (Degola et al., 2014); in Poaceae la sintesi Cd-indotta di PCs è incrementata in condizioni di Fe-deficienza, ad indicare un’attivazione della PCS in qualche modo influenzata dalla Fe-carenza (Astolfi et al., 2012). Recentemente, trattamenti con concentrazioni fisiologiche di Fe sulla carofita Nitella

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una normale ultrastruttura all’osservazione al microscopio elettronico a trasmissione (TEM), laddove i trattamenti con Cd producevano un’attivazione della PCS con sintesi di PCs, ma erano invece accompagnati da pesanti danni ultrastrutturali (Fontanini et al., 2018).

Ultimo, ma non ultimo, per indagare a fondo l’ipotesi di una PCS (e i suoi prodotti, PCs) coinvolta nel complesso sistema di regolazione omeostatica dei micronutrienti essenziali, è assolutamente necessario disporre di strumenti analitici molto sensibili e idonei alla rilevazione di glutatione, PCs ed altri peptidi tiolici derivati per la quantificazione di queste molecole, spesso presenti in traccia.

1.4 I principali metodi di quantificazione dei peptidi tiolici

Per identificare molecole di interesse in una matrice complessa, una delle tecniche da sempre più utilizzate è quella della cromatografia ad alta performance (HPLC), che permette una separazione dei vari analiti in base alle loro caratteristiche chimico-fisiche. Oltre alla “semplice” identificazione, queste tecniche possono permettere la quantificazione delle specie rilevate. Con il passare del tempo si è assistito alla comparsa di metodi sempre più perfezionati, che aumentano la sensibilità e l’affidabilità dei sistemi utilizzati. L’utilizzo della cromatografia liquida accoppiata alla rilevazione tramite spettrometria di massa costituisce un grande potenziamento della tecnica.

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1.4.1 Cromatografia liquida ad alta performance (HPLC)

In generale, con “cromatografia liquida” si intende una tecnica di separazione che prevede l’introduzione di un certo volume di un campione liquido all’interno di una colonna (colonna cromatografica) riempita da una fase stazionaria costituita da particelle solide. I componenti del campione attraversano la colonna trasportati da un liquido (fase mobile) che si muove per gravità e/o a seguito di una modesta pressione imposta da una pompa. La loro separazione avviene secondo particolari interazioni fisico/chimiche che essi stabiliscono con la fase stazionaria e con quella mobile.

I vari prodotti di separazione escono, poi, dalla colonna e vengono rivelati da un sistema di misura che può comprendere uno spettrofotometro (che misura la quantità di luce assorbita dal campione), oppure dispositivi con principi di funzionamento molto vari.

L’HPLC (High Performance Liquid Chromatography) è un tipo di cromatografia liquida, ormai largamente utilizzato, che prevede l’iniezione di un piccolo volume di campione liquido in una colonna che presenta una fase stazionaria composta da un fine particolato (3-5 µm di diametro). Il passaggio del campione all’interno della colonna viene forzato da una fase mobile spinta ad alta pressione da un sistema di pompe. L’eluato in uscita dalla colonna contiene i vari componenti del campione, separati in base al grado di interazione che stabiliscono fra la fase stazionaria e quella mobile e vengono rivelati da un dispositivo (detector) la cui risposta dipende dalla quantità di analita. Il risultato è un cromatogramma, come in Figura 7.

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Figura 7. Schema di un cromatogramma. È possibile notare la “linea di base”, la traccia che indica l’intensità del segnale prodotto dalla sola fase mobile, fornito dal detector in funzione del tempo. Quando il detector rileva degli analiti che vengono eluiti dalla colonna cromatografica, produce un segnale che aumenta proporzionalmente alla quantità di analita rilevato. Questo segnale viene interpretato dal software che restituisce un output ben identificabile nel cromatogramma, ossia un “picco cromatografico” che, in condizioni ottimali, possiede forma gaussiana. Ogni picco corrisponde, in condizioni ottimali, ad un composto separato.

Rispetto ad altre tecniche cromatografiche, l’HPLC presenta un maggior potere di risoluzione, ossia un’elevata capacità di operare una separazione fine: le moderne colonne impiegate nella cromatografia ad alta performance possono essere teoricamente suddivise in sezioni all’interno delle quali gli analiti instaurano un equilibrio tra la fase stazionaria e la fase mobile (differenti specie di analiti si ripartiscono in maniera differente tra le due fasi e questo determina una velocità di migrazione differenziale); tali superfici di separazione sono dette “piatti teorici” e maggiore è il loro numero, migliore è l’efficienza di separazione degli analiti da parte della colonna cromatografica impiegata.

Un sistema HPLC è costituito da cinque componenti fondamentali (Figura 8):

1) Pompa. Il ruolo della pompa è quello di forzare la fase mobile attraverso il sistema, fino ad attraversare la colonna cromatografica e raggiungere il detector, il tutto ad

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una velocità di flusso costante, espressa in ml min-1. Le elevate pressioni di esercizio

che di norma si riscontrano (anche di circa 15 MPa o più) sono dovute all’alta resistenza idraulica prodotta dalla fase stazionaria (contenuta nella colonna), a causa del ridotto diametro delle particelle di cui è composta. Durante la corsa la pompa può gestire una fase mobile di composizione costante (isocratica) oppure può modularne la composizione (mescolando due o più solventi a differenti caratteristiche), senza alterare la velocità di flusso nel sistema (gradiente).

2) Iniettore. Attraverso di esso avviene l’ingresso del campione liquido nel flusso della fase mobile (i volumi iniettati variano da pochi µl ad alcune centinaia di µl); senza una valvola di iniezione, sarebbe impossibile introdurre il campione nel sistema, a causa dell’alta pressione presente nel circuito. L’iniezione può essere manuale o automatizzata, attraverso un autocampionatore, che si rivela necessario nei casi in cui i campioni da analizzare siano molti.

3) Colonna. La colonna cromatografica è il luogo in cui avviene la separazione dei costituenti il campione, attraverso la ripartizione tra le due fasi, secondo varie interazioni fisico-chimiche. La fase stazionaria causa grande resistenza al passaggio della fase mobile, perciò si genera – come sopra accennato - una rilevante pressione. 4) Detector o rivelatore. Si tratta di un dispositivo in grado di rilevare i componenti che

vengono eluiti dalla colonna.

5) Computer. Un elaboratore su cui è installato un software proprietario (di norma fornito dalla casa produttrice del sistema cromatografico) che è in grado di controllare i vari moduli della strumentazione HPLC; in più acquisisce e interpreta i segnali provenienti dal detector e li usa per determinare il tempo di eluizione (tempo di

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ritenzione) di ogni analita (fornendo un dato di tipo qualitativo) e la sua quantità (analisi quantitativa, previa costruzione di una retta di calibrazione).

Figura 8. Schema semplificato di un sistema HPLC che mette in evidenza le sue varie componenti: (da sinistra verso destra) un sistema di pompaggio, un iniettore, la colonna cromatografica, un detector ed un registratore (solitamente un computer che utilizza un software proprietario di elaborazione dati, fornito dalla casa produttrice).

L’HPLC è un ottimo sistema per la separazione di composti non volatili. Come schematizzato in Figura 7, il segnale prodotto da un analita che viene rilevato, è riportato in un grafico (cromatogramma) sotto forma di un picco idealmente simile a una curva gaussiana. Per identificare i componenti separati si può utilizzare il tempo di ritenzione (vale a dire il tempo al quale uno specifico componente esce dalla colonna e viene rilevato dal detector), che in determinate condizioni analitiche è caratteristico e ripetibile per una determinata molecola. La quantificazione si basa sull’area sottostante la curva delineata dal picco corrispondente

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(più raramente, in alternativa all’area del picco viene considerata la sua altezza, riferita alla linea di base).

La separazione può avvenire in condizioni isocratiche, in cui la fase mobile ha una composizione costante nel tempo, oppure in gradiente, dove la composizione della fase mobile cambia nel tempo. Quest’ultima soluzione può essere indispensabile per l’analisi di campioni complessi.

La fase stazionaria che riempie la colonna è costituita da un fine particolato siliceo. Ogni granello che lo compone può essere modificato chimicamente, in modo da determinarne le proprietà chimico-fisiche, adattando queste ultime a un vastissimo spettro di analiti diversi. Ad esempio, le particelle possono essere rivestite da catene alchiliche covalentemente legate ai silanoli della particella silicea, trasformando così un materiale polare come la silice in uno fortemente apolare.

Esistono diverse variazioni tecniche dell’HPLC, ma la più utilizzata è senza dubbio la Reverse Phase Chromatography (RP-HPLC). In questa tecnica viene impiegata una fase stazionaria non-polare (per es. C18, C8, C3, fenile, ecc…) mentre la fase mobile è composta da due solventi: un solvente A (più polare, spesso acqua) ed un solvente B (meno polare di A: ad esempio, può essere una miscela di acqua e un solvente organico miscibile, spesso acetonitrile o metanolo). È una modalità cromatografica molto versatile, in quanto può separare diversi tipi di molecole (non-polari, polari, molecole ioniche o ionizzabili) in campioni anche molto complessi. Può essere indispensabile mettere a punto un gradiente di eluizione, in cui la fase mobile, inizialmente composta prevalentemente da acqua, si arricchisce di solvente organico con il passare del tempo trascorso dal momento dell’iniezione del campione. Il solvente organico aumenta la “forza” della fase mobile che diviene, così, capace di eluire i composti

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che stabiliscono interazioni più forti con la fase stazionaria e per questo sono ritenuti maggiormente dalla colonna.

La temperatura è senz’altro un fattore importante da tenere in considerazione durante l’esecuzione della cromatografia, in quanto può far variare i tempi di ritenzione (che, come è stato detto, costituiscono l’elemento chiave per la rilevazione dei vari analiti). A tal proposito la colonna spesso si trova alloggiata in una speciale camera, la cui temperatura può essere impostata su di uno specifico valore, mantenuto costante per tutta la corsa cromatografica. Infine, per quanto riguarda la rivelazione degli analiti uscenti dalla colonna, esistono vari tipi di detector. I più comuni sono detector a luce ultravioletta-visibile (UV-Vis) a lunghezza d’onda (λ) variabile, e detector a fluorescenza. Quest’ultima tipologia offre una maggiore sensibilità e selettività rispetto alla prima, il che permette di identificare e quantificare composti che si trovano a concentrazioni molto basse in matrici complesse.

1.4.1.1 Tecniche di derivatizzazione

I rivelatori più utilizzati nelle tecniche di cromatografia liquida sono quelli UV-Vis (che sfruttano la regione dello spettro nell’ultravioletto e nel visibile), ma nel caso della rivelazione delle molecole oggetto del nostro studio (oligopeptidi tiolici) bisogna tenere in considerazione che il gruppo funzionale tiolico non costituisce di per sé un cromoforo (Wood and Feldmann, 2012) e quindi non assorbe spontaneamente la luce. In questo senso, per l’analisi di glutatione, PCs e derivati (e della stessa cisteina) è necessario un processo di derivatizzazione, ovvero una reazione che coinvolge un determinato gruppo funzionale dell’analita e lo trasforma in un prodotto (derivativo) con determinate caratteristiche di rivelabilità: esso infatti acquisirà dalla reazione di derivatizzazione un cromoforo che gli consentirà di essere

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visibile al detector. La reazione deve essere specifica e, nel caso delle molecole di nostro interesse, riguardare solo i tioli.

Esistono varie reazioni per la derivatizzazione dei tioli, ma le più utilizzate sono due: derivatizzazione con ditionitrobenzoato (DTNB, o reagente di Ellman) e derivatizzazione con monobromobimano (mBBr). Queste metodologie si dicono “indirette”, nel senso che ad essere rivelato non è l’analita in sé, ma il cromoforo ad esso associato.

1.4.1.1.1 Derivatizzazione dei tioli con il reagente di Ellman (post-colonna)

Il reagente di Ellman è un composto solido e polverulento a temperatura ambiente, inodore, dal colore giallastro. Esso reagisce con i tioli secondo il seguente schema:

Figura 9. Equazione chimica della reazione di derivatizzazione dei tioli con DTNB (reagente di Ellman).

Il tiolo libero dell’analita intercorre in una reazione di scambio di ponte disolfuro con il reagente, formando un nitro-5-tiobenzoato-tiol coniugato (R-S-TNB) e liberando lo ione 2-nitro-5-tiobenzoato (TNB-) che in soluzione, a pH neutro o alcalino, si deprotona nel dianione

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coefficiente di assorbimento molare è 14150 M-1 cm-1). Quindi ad essere misurato non è

l’analita con il suo addotto, ma il dianione NTB2-. Dato che la reazione è stechiometrica, la

quantità di NTB2- liberata è essenzialmente la stessa dell’addotto R-S-NTB che si forma.

1.4.1.1.2 Derivatizzazione dei tioli con Monobromobimano (pre-colonna)

Il monobromobimano (mBBr) fa parte degli alobimani, una classe di reagenti utilizzati per il

tagging fluorescente di molecole che presentano tioli liberi. Di seguito viene riportato il suo

meccanismo di reazione:

Figura 10. Equazione chimica della reazione di derivatizzazione con monobromobimano (mBBr).

Il gruppo tiolico attacca il legame C-Br, formando un derivativo tiol-bimano, con rilascio di acido bromidrico (HBr). Diversamente dal DTNB, il cromoforo è costituito dal bimano in sé, per cui la reazione di derivatizzazione deve avvenire prima della corsa cromatografica, altrimenti non ci sarebbe distinzione tra il tag non legato e quello legato al tiolo. La derivatizzazione pre-colonna, inoltre, altera il comportamento cromatografico dell’analita rispetto all’analita non derivatizzato, a causa della differente struttura e polarità del derivativo tiol-bimano (Wood and Feldmann, 2012).

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30 1.4.1.2 Interpretazione del cromatogramma

Il cromatogramma è l’output fornito dal software impiegato, in cui il segnale ricevuto dal detector viene tracciato in un grafico, in funzione del tempo. Si ottengono dei profili a forma di picco, ognuno dei quali rappresenta l’eluizione di una sostanza dalla colonna e il cui punto massimo corrisponde alla più alta frazione di molecole di quella sostanza che passa attraverso il rivelatore. L’ascissa del punto massimo del picco è il tempo di ritenzione e, a parità di condizioni cromatografiche, rimane costante, tanto da rappresentare un criterio-chiave nell’identificazione di una determinata specie. Il tempo di ritenzione di un determinato analita dipende dal grado di interazione di quest’ultimo con la fase stazionaria e quella mobile, per cui esso tenderà a distribuirsi tra le due fasi fino a raggiungere un equilibrio. Il rapporto tra la concentrazione di analita che interagisce con la fase stazionaria e quella dell’analita libero nella fase mobile viene definito coefficiente di ripartizione (Kr). Un elevato Kr indica

un’interazione più forte dell’analita con la fase stazionaria e quindi una permanenza maggiore nella colonna, mentre un analita con basso Kr tenderà a interagire più debolmente con la fase stazionaria e ad eluire più rapidamente dalla colonna.

Oltre a ciò, l’area del picco (o, più raramente, la sua altezza) è proporzionale alla quantità di materiale rivelato. La qualificazione dei picchi avviene tramite raffronto degli stessi con dei cromatogrammi ottenuti da standard che forniscono tempi di ritenzione di riferimento. La quantificazione avviene tramite una curva di calibrazione ottenuta in seguito a corse cromatografiche con standard a diverse concentrazioni note, il che permette di calcolare la concentrazione in funzione dell’area del picco.

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31 1.4.2 Spettrometria di massa (MS)

La spettrometria di massa è una tecnica analitica potente, usata per identificare prodotti incogniti, per determinazioni quantitative di composti noti e per chiarire le proprietà strutturali e chimiche delle molecole. Tutto questo può essere effettuato con quantità di campione estremamente limitate a concentrazioni molto basse in miscele complesse.

Uno spettrometro di massa è uno strumento utilizzato per misurare il rapporto massa/carica dei prodotti che si formano dalla ionizzazione di una molecola in esame.

La formazione di ioni in fase gassosa è un prerequisito essenziale per i processi di separazione e di rivelazione tipici di uno spettrometro di massa. Fino a non molto tempo fa gli spettrometri di massa operavano soltanto su campioni volatilizzati, ma grazie a sviluppi in questa tecnologia, l’applicabilità della spettrometria di massa è stata estesa fino a includere anche campioni liquidi o inglobati in una matrice solida.

I campioni vengono introdotti in una sorgente di ioni mantenuta sotto vuoto, dove avviene la ionizzazione. Gli ioni prodotti si trovano in fase gassosa, vengono separati da un analizzatore secondo il loro rapporto massa/carica (m/z) e raccolti da un rivelatore. Qui viene generato un segnale elettrico di intensità proporzionale al numero di ioni presenti. Un sistema di elaborazione dati registra questi segnali elettrici in funzione di m/z e li converte in uno spettro di massa.

Per ottenere lo spettro di massa di un singolo composto presente in una miscela, i vari componenti devono essere separati prima dell’analisi spettrometrica per evitare identificazioni ambigue (due composti presenti contemporaneamente nella sorgente danno luogo a segnali sovrapposti, difficili da distinguere). Inizialmente fu impiegata la gas cromatografia (GC) come tecnica di separazione per le miscele complesse; essa permette

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l’introduzione nello spettrometro di campioni che si trovano già in fase di vapore in tempi successivi, così da separare i vari componenti della miscela e analizzarli separatamente. Più recentemente sono stati accoppiati agli spettrometri di massa sistemi di cromatografia liquida e altri sistemi di separazione.

Esistono vari tipi di sorgenti ioniche, ma le più comunemente utilizzate sono quelle a ionizzazione elettronica (EI), dove la generazione degli ioni avviene mediante il bombardamento di molecole gassose con un fascio di elettroni ad alta energia. In questo modo viene prodotta una miscela di ioni positivi, ioni negativi e specie neutre. Gli elettroni che bombardano le molecole gassose hanno un’energia di 70 eV, molto superiore a quella dei legami che tengono insieme una molecola. Quindi, quando questi elettroni interagiscono con una molecola, non solo si ha la sua ionizzazione, ma alcuni legami si rompono e si formano così anche dei frammenti, dando luogo a ioni, diversi dal semplice ione molecolare, che appaiono sullo spettro di massa della sostanza in esame.

Benché nella sorgente ionica vengano prodotti contemporaneamente sia ioni positivi sia negativi, viene scelta solo una polarità e lo spettro ottenuto consisterà di soli ioni positivi o di soli ioni negativi. Le molecole non ionizzate e i frammenti neutri vengono espulsi grazie alle pompe che mantengono il vuoto nell’apparecchio. Gli spettri di massa di ioni positivi sono quelli più comunemente misurati con la tecnica EI, dato che l’abbondanza di ioni negativi generati da questa tecnica è decisamente minore rispetto a quella degli ioni positivi. Questi ultimi sono convogliati nell’analizzatore attraverso una differenza di potenziale, focalizzando il fascio ionico mediante opportuni potenziali applicati a un sistema di lenti situate tra la sorgente e l’analizzatore. Gli ioni negativi e gli elettroni vengono attratti su di un opportuno elettrodo collettore, carico positivamente.

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L’analizzatore separa gli ioni sulla base del rapporto m/z attraverso filtri o metodi di dispersione. La rivelazione degli ioni, dopo la loro separazione, avviene trasformando l’energia prodotta dalla collisione degli stessi sulla superficie del rivelatore in modo da provocare l’emissione dal rivelatore di altri ioni, elettroni o fotoni che vengono poi misurati mediante opportuni rivelatori di luce o di carica. La grande quantità di informazioni che vengono generate viene elaborata da un computer sul quale è installato un software in grado di interpretare i segnali ricevuti per costruire spettri di massa, restituire la misura dei segnali dei vari ioni, identificare i composti mediante ricerca di spettri in banche dati, nonché rendere possibile l’analisi quantitativa dei dati ottenuti.

Uno spettro di massa consiste in un diagramma di abbondanza ionica in funzione del rapporto

m/z. Gli spettri di massa vengono spesso rappresentati in forma di semplici istogrammi. Gli

ioni e la loro intensità relativa, attraverso un attento esame e un’interpretazione più o meno complessa, permettono di stabilire peso molecolare e struttura del composto studiato. Dato che il processo di ionizzazione provoca normalmente la frammentazione della molecola originale, sullo spettro compaiono anche ioni aventi rapporto m/z diverso da quello corrispondente al peso molecolare del campione. Gli ioni-frammento sono fondamentali per stabilire la struttura molecolare.

La ionizzazione con elettroni accelerati da un potenziale di 70 eV è un metodo ad alta energia (ionizzazione forte) e può portare ad una estesa frammentazione che lascia poco o niente dello ione molecolare. In assenza di quest’ultimo, il peso molecolare e la struttura non sono facilmente determinabili. Per questo sono state sviluppate tecniche di ionizzazione a più bassa energia (ionizzazione morbida). Diversamente da quanto accade con la ionizzazione elettronica, queste tecniche producono ioni attraverso un processo di trasferimento

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protonico: le molecole del campione vengono esposte ad un forte eccesso di gas reagente ionizzato. Il trasferimento di un protone ad una molecola M del campione da parte di un gas ionizzato, quale ad esempio il metano nella forma CH5+, produce uno ione positivo [M+H]+.

Questa metodologia di ionizzazione risulta molto più blanda rispetto alla ionizzazione elettronica e comprende varie tecniche, tra cui la ionizzazione per elettronebulizzazione (electrospray, o ESI), in cui gli ioni si formano da soluzioni che vengono finemente nebulizzate attraverso un ago tenuto ad alto potenziale elettrico. Gli ioni dell’analita nelle goccioline cariche vengono volatilizzati in seguito alla rimozione del solvente per evaporazione. Questo avviene a pressione atmosferica entro un campo elettrico generato tra l’ago e una lente di estrazione degli ioni. Detti metodi di ionizzazione possono produrre diversi tipi di ioni, a seconda dei parametri utilizzati e del tipo di campione. La formazione di ioni molecolari positivi M+•e pseudo-molecolari [M+H]+ è accompagnata dalla formazione di addotti con

metalli alcalini, come [M+Na]+ e ioni multiprotonati [M+nH]n+. L’estensione della

frammentazione dipende dalle condizioni sperimentali e dal tipo di sostanza in esame. L’electrospray è una tecnica particolarmente compatibile con tecniche di separazione in fase liquida ed è un metodo di larghissimo impiego nell’analisi biologica.

Da quanto detto si evince come lo spettrometro di massa costituisca un rivelatore particolarmente versatile, sensibile e potente per tecniche di separazione quali, appunto, la cromatografia liquida (LC). Nella combinazione di queste due tecnologie, i dati consistono in una serie di spettri di massa che vengono acquisiti in sequenza uno dopo l’altro. L’abbondanza dei vari ioni in ogni spettro può essere sommata e questa somma riportata successivamente in diagramma per dare un cromatogramma di corrente ionica totale (TIC), il cui aspetto è del tutto analogo all’output di un sistema cromatografico convenzionale, come ad esempio un cromatografo equipaggiato con un detector UV-Vis. Inoltre è possibile visualizzare ciascuno

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degli spettri registrati e visualizzare l’abbondanza di un singolo rapporto m/z come profilo di intensità di corrente in funzione del tempo (Figura 11).

Figura 11. Modi alternativi di visualizzare i dati in un sistema accoppiato di cromatografia-spettrometria di massa.

Nei casi in cui vengano esaminati composti noti, non è sempre necessario ottenere spettri di massa completi. Infatti, laddove lo scopo dell’analisi consista nella valutazione quantitativa di sostanze presenti in concentrazioni molto basse all’interno di miscele complesse, dopo aver identificato le molecole di interesse si può aumentare la sensibilità analitica selezionando soltanto gli ioni rappresentativi delle molecole suddette e lo spettrometro di massa verrà predisposto per rivelare solo i suddetti ioni e la loro abbondanza relativa. In molti casi la tecnica di ionizzazione viene scelta in maniera tale da favorire la formazione di un solo tipo di ioni, così da rendere massima la sensibilità, mantenendo tutta la corrente ionica su un singolo rapporto m/z.

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1.5 Scopo della tesi

Gli interrogativi posti circa il possibile ruolo della fitochelatina sintasi e delle fitochelatine nella regolazione omeostatica dei micronutrienti essenziali richiedono metodi di indagine sensibili, specifici ed affidabili. Prioritaria alla progettazione di esperimenti volti ad ampliare la conoscenza molecolare e funzionale dell’enzima PCS ed i suoi prodotti è, dunque, la messa a punto di protocolli analitici efficaci.

Per addivenire a ciò, in una prima fase del lavoro sono state allestite colture in vitro di

Arabidopsis thaliana, un modello ben conosciuto e studiato in biologia vegetale. Dopo un

periodo di crescita su substrato solido, gli individui da campionare sono stati trasferiti in terreno liquido, dove hanno subito trattamenti con una soluzione di solfato di cadmio (CdSO4) alla fine di attivare la PCS ed indurla a produrre PCs. Gli estratti vegetali ottenuti sono stati poi analizzati in un sistema HPLC mediante due diverse tecniche di derivatizzazione (post-colonna la prima e pre-(post-colonna la seconda), e in un sistema di spettrometria di massa (HPLC-ESI-MS-MS), al fine di mettere a punto un procedimento analitico fine e sensibile per la determinazione quali-quantitativa dei peptidi tiolici in matrici vegetali. Sempre in HPLC-ESI-MS-MS è stato inoltre messo a punto un metodo per la rivelazione delle fitochelatine in una terza matrice ottenuta in seguito all’estrazione della PCS da campioni non trattati di A.

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2 MATERIALI E METODI

2.1 Allestimento delle colture e condizioni di crescita

L’organismo oggetto di studio è stato Arabidopsis thaliana (L.) Heynh (ecotipo Columbia-0; Figura 12), appartenente alla famiglia delle Brassicaceae; esso è un organismo modello in genetica e biologia molecolare e cellulare delle piante e il suo genoma è stato completamente sequenziato (The Arabidopsis Genome Initiative, 2000).

Figura 12. Esemplari di A. thaliana.

Le piante impiegate in questa tesi sono state cresciute presso l’Unità di Botanica (Dipartimento di Biologia, Università di Pisa) e all’UCD Rosemount Environmental Research Station - University College Dublin, Irlanda.

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Semi di A. thaliana sono stati sterilizzati con 70% (v/v) etanolo per 1 minuto, 10% (v/v) ipoclorito di sodio (NaClO) per 13 minuti e 7-8 lavaggi con acqua MilliQ sterile, al fine di eliminare ogni traccia di NaClO. Successivamente i semi sterili sono stati posizionati su di un terreno axenico in piastre quadrate (circa 40 unità per piastra; Figura 13) composto da 3,16 g/l Gamborg’s B-5 Basal Salt Mixture con vitamine, 3% (w/v) saccarosio, pH 5.8, 0,4% (w/v) Plant Agar.

Figura 13. Piastra contenente piantine di A. thaliana di 21 giorni cresciute in terreno B-5 solido, pronte ad essere trasferite in terreno liquido B-5 20 µM Cd2+ per 72 ore.

Dopo un periodo di incubazione a 4 °C per 2 giorni (per sincronizzare la germinazione dei semi), le piastre sono state poste in una cella di crescita a 16:8 ore di luce/buio a 24 ± 1 °C, 120 µmol m-2 s-1 PPFD (photosynthetic photon flux density), 60% umidità relativa. Dopo 21

giorni, gli individui sono stati trasferiti in tubi Falcon da 15 ml (un individuo per contenitore; Figura 14) contenenti 1 ml di terreno liquido B-5 ed una soluzione di solfato di cadmio (CdSO4)

ad una concentrazione finale di 10 µM Cd2+ (20 M Cd2+ nel caso degli esperimenti di cui al

punto 2.4.1.1). Il Cd2+ è noto in letteratura per essere il più potente attivatore della PCS finora

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garantiscono una produzione di PCs più che sufficiente per l’esecuzione delle analisi prefisse da questa tesi.

Figura 14. Una piantina di A. thaliana appena trasferita in un tubo Falcon da 15 ml contenente 1 ml di terreno liquido B-5 e 20 µM Cd2+.

Dopo 28 giorni (72 ore per gli esperimenti di cui al punto 2.4.1.1) in cella di crescita (alle stesse condizioni di luce, temperatura e umidità sopradescritte) i campioni trattati e di controllo sono stati raccolti, lavati abbondantemente con acqua deionizzata e asciugati su carta assorbente. Ogni germoglio è stato separato dalle radici con l’ausilio di un bisturi in ceramica e ciascuna delle due parti è stata inserita in un tubo Eppendorf da 2 ml precedentemente pesato (tara). Sia il germoglio che la radice è stato pesato indipendentemente (sono stati preparati campioni di circa 100 mg di peso fresco - FW - ciascuno), congelato velocemente in azoto liquido e conservato al buio alla temperatura di -80 °C, in attesa di successive analisi.

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2.2 Estrazione dei peptidi tiolici

L’estrazione dei peptidi tiolici effettuata presso l’Unità di Botanica del Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa, è stata effettuata seguendo la procedura descritta da (Fontanini et al., 2018), apportando alcune modifiche. Sono stati utilizzati campioni di 100 mg FW precedentemente pesati e conservati a -80 °C in Eppendorf da 2ml. Ciascun campione è stato frantumato in azoto liquido, fino ad ottenere una fine polvere, con un mulino a sfere (MM200, Retsch, Haan, Germany), inserendo due sferette di agata (Ø 5 mm) nella Eppendorf per facilitare la rottura meccanica delle cellule, ad una frequenza di 30 Hz per 1 minuto. L’utilizzo del mulino a sfere garantisce una maggiore riproducibilità del processo di estrazione rispetto all’utilizzo di mortaio e pestello. Sono stati aggiunti, per ogni 100 mg FW, 300 µl di un buffer di estrazione, composto da 5% (v/v) acido solfosalicilico (SSA), 6,3 mM acido dietilentriamminopentaacetico (DTPA) e 2 mM tris(2-carbossietil)fosfina (TCEP). Inoltre, per i campioni destinati alle analisi in spettrometria di massa ci si è avvalsi dell’utilizzo di standard interni, i quali sono stati aggiunti al buffer di estrazione in quantità tale da ottenere una concentrazione finale di 200 ng/ml. Gli standard interni utilizzati sono stati GSH e PC2 marcati

con 13C e 15N sull’amminoacido glicina, al fine di ottenere molecole con caratteristiche quanto

più simili agli analiti endogeni, ma peso molecolare differente, tale da poter essere discriminate dagli stessi mediante la spettrometria di massa.

Il materiale vegetale finemente frantumato è stato sospeso nel buffer di estrazione tramite 30 secondi di vortex-mixer e omogeneizzato una seconda volta utilizzando il mulino a sfere (1 minuto; frequenza 30 Hz). I campioni, poi, sono stati posti in ghiaccio per 15 minuti

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mescolando con l’ausilio del vortex-mixer ogni 5 minuti. Dopodiché i campioni sono stati centrifugati a 10000  g (Hermle, Z 300 K, Wehingen, Germany) a 4 °C per 20 minuti. Il sovranatante è stato quindi filtrato attraverso dei filtri Minisart RC4 0,45 µm (Sartorius, Goettingen, Germany) in nuove Eppendorf da 1,5 ml, e i volumi residui sono stati conservati alla temperatura di -80 °C in attesa delle successive analisi.

Un altro metodo di estrazione dei peptidi tiolici è stato messo a punto presso il Lehrstuhl Pflanzenphysiologie (Fakultät für Biologie, Chemie und Geowissenschaften, Universität Bayreuth, Germany) – dove ho svolto per circa sei mesi parte della tesi - seguendo il protocollo descritto da Minocha et al. (2008), apportando alcune modifiche. Sono stati impiegati campioni di 100 mg FW (sempre germoglio e radice, separati tra loro), precedentemente conservati a -80 °C in Eppendorf da 2 ml. Ciascun campione è stato frantumato in azoto liquido, fino ad ottenere una fine polvere, in Eppendorf da 2 ml contenenti due sferette di acciaio (Ø 3 mm) per facilitare la rottura meccanica delle cellule, mediante un mulino a sfere (MM200 Retsch, Haan, Germany) alla frequenza di 30 Hz per 1 minuto. Per 100 mg FW sono stati aggiunti 300 µl di buffer di estrazione, contenente 0,1% (v/v) acido trifluoroacetico (TFA), 6,3 mM DTPA e 40 µM N-acetilcisteina (NAC) come standard interno, secondo quanto riportato in Kühnlenz et al. (2014). Successivamente il materiale vegetale è stato risospeso mediante l’utilizzo di un vortex-mixer e lasciato in ghiaccio per 15 minuti, riagitando le Eppendorf ogni 5 minuti. In seguito a centrifugazione (5424R Eppendorf, Hamburg, Germany) a 16100 x g, 4 °C, per 15 minuti, il sovranatante è stato raccolto in nuove Eppendorf da 1,5 ml e conservato a -20 °C in attesa delle successive analisi.

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2.3 Estrazione e saggio di attività enzimatica della PCS

L’attività enzimatica costituisce un aspetto importante per la caratterizzazione funzionale della PCS (Grill et al., 1989; Vatamaniuk et al., 1999) e sono molti gli studi che eseguono questo saggio, che prevede una parziale purificazione dell’enzima e successivo trattamento con Cd2+ per un certo lasso di tempo. L’attività enzimatica viene valutata in base alla

produzione di PCs nell’arco di tempo considerato. È perciò importante disporre di un sistema idoneo alla quantificazione dei peptidi tiolici in una matrice differente da quella testata per gli estratti vegetali precedentemente trattati.

L’estrazione dell’enzima PCS e il saggio della sua attività in vitro sono stati effettuati seguendo essenzialmente la procedura descritta da Petraglia et al. (2014). Sono stati utilizzati campioni di A. thaliana (250 mg FW) cresciuti per 21 giorni in terreno B-5 solido e non trattati con Cd, successivamente raccolti e conservati a -80 °C in Eppendorf da 2ml. Ciascun campione è stato omogeneizzato utilizzando un mulino a sfere (MM200, Retsch, Haan, Germany), inserendo due sferette di agata (Ø 5 mm) nella Eppendorf per facilitare la rottura meccanica delle cellule, ad una frequenza di 30 Hz per 1 minuto. A ciascun campione sono stati aggiunti 700 l di buffer di estrazione, contenente 20 mM HEPES-NaOH pH 7,5, 10 mM -mercaptoetanolo, glicerolo 20% (v/v), 100 mg/ml di polivinilpirrolidone (PVP), 100 M CdSO4, e successivamente

omogeneizzato una seconda volta nel mulino a sfere per 30 secondi ad una frequenza di 30 Hz. I campioni così omogeneizzati sono stati centrifugati due volte ad una velocità di 13000 

g per 10 minuti (a 4 °C). Successivamente, sono stati prelevati 400 l di sovranatante ed

aggiunti 100 l di buffer di reazione, contenente 250 mM HEPES-NaOH pH 8,25 mM GSH, glicerolo 10% (v/v), 100 M CdSO4. In seguito ad un’incubazione di 90 minuti a 35 °C la

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reazione è stata interrotta mediante l’aggiunta di 125 l di acido tricloroacetico (TCA) al 20% (v/v) ed è stata valutata l’attività della PCS. In particolare, i campioni sono stati analizzati in HPLC-ESI-MS-MS per determinare e quantificare la produzione in vitro di PCs ad opera dell’enzima.

2.4 Analisi dei peptidi tiolici

Gli estratti ottenuti sono stati analizzati per il contenuto in γ-glutamil-cisteina, GSH, PCs (PC2,

PC3, PC4) tramite metodi di HPLC e cromatografia liquida accoppiata a spettrometria di massa

(HPLC-ESI-MS-MS), al fine di valutare la tecnica più idonea alle analisi prefissate.

2.4.1 Analisi via cromatografia ad alta performance (HPLC)

2.4.1.1 Derivatizzazione post-colonna (reagente di Ellman)

Il Reagente di Ellman o acido 2,2’-dinitro-5,5’-ditiodibenzoico (DTNB) è stato disciolto allo 0,012% (w/v) in un tampone composto da 90% H2O distillata e 10% acetonitrile (ACN), 8,72

g/l idrogenofosfato di potassio (K2HPO4), 1,36 g/l diidrogenofosfato di potassio (KH2PO4), 1,12

g/l etilendiamminotetraacetato di disodio (Na2EDTA), precedentemente preparato e

conservato a 4 °C. Data la fotosensibilità del DTNB, durante la sua dissoluzione occorre evitare l’esposizione a fonti luminose. La soluzione così ottenuta è stata filtrata con dei filtri in acetato di cellulosa (0,2 µm).

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La curva di calibrazione è stata redatta utilizzando soluzioni standard di GSH, PC2-4. Per ciascun

analita è stata preparata una soluzione stock di 150 µg/µl in acqua deionizzata, suddivisa in aliquote, che sono state conservate a -20 °C in attesa di essere utilizzate. Giornalmente, è stata preparata una soluzione operativa (“working solution”) mescolando appropriate porzioni di ciascuno stock al fine di ottenere una concentrazione di 1,5 µg/µlper ciascun composto, da cui sono state ottenute per diluizioni seriali sei soluzioni di standard (2,5; 7,5; 15; 30; 45; 60 ng/µl). Per ogni analita standard è stato tracciato il valore dell’area, risultante dall’integrazione del corrispondente picco cromatografico, in funzione della concentrazione di iniezione corrispondente, e per regressione lineare è stata ricavata l’equazione della curva di calibrazione, utilizzata per la quantificazione dei tioli estratti dai campioni vegetali.

La separazione dei peptidi tiolici è avvenuta per mezzo di un sistema HPLC (510 Waters, Milford, MA, USA) equipaggiato con una colonna Macherey-Nagel-C18 [250x4,0 mm, 5,0 µm dimensione particelle silicee] (Macherey-Nagel, Düren, Germany) mantenuta ad una temperatura di 25 °C. È stato utilizzato un volume di iniezione di 20 µl ed un gradiente binario di un solvente A (0,05% (v/v) TFA in H2O) ed un solvente B (0.05% (v/v) TFA in ACN) ad una

velocità di flusso di 1 ml/min, della durata complessiva di 49 minuti, i cui ultimi 10 minuti necessari per la ri-equilibratura della colonna (Figura 15).

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Figura 15. Programma del gradiente binario utilizzato in HPLC (a) ed evoluzione della composizione della fase mobile (b).

La reazione di derivatizzazione è avvenuta all’interno di un loop di 1 ml, immerso in un bagno termostatato a 37 °C, dove sono stati convogliati sia gli eluati uscenti dalla colonna cromatografica che il reagente di Ellman, quest’ultimo mediante l’utilizzo di una pompa isocratica (200 Perkin Elmer, Waltham, MA, USA).

La rilevazione dei tioli derivatizzati è avvenuta per mezzo di un photodiode array (PDA) detector (996 Waters, Milford, MA, USA) alla lunghezza d’onda di 412 nm. Per l’integrazione dei dati è stato utilizzato il software Waters Millennium 32 Chromatography Manager (Waters, Milford, MA, USA).

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2.4.1.2 Derivatizzazione pre-colonna (Monobromobimano, mBBr)

La derivatizzazione pre-colonna degli estratti è stata effettuata utilizzando delle Eppendorf di colore scuro e opache alla luce, a causa della fotosensibilità del marcatore fluorescente. Sono stati aggiunti 31,25 µl di estratto a 77 µl di acido idrossietilpiperazinpropansolfonico (EPPS) 200 mM (6,3 mM DTPA, pH 8,2) e 3,125 µl di TCEP 20 mM (dissolto in 200 mM EPPS, pH 8.2; preparato fresco il giorno di utilizzo). La soluzione è stata incubata a 45 °C per 10 minuti, al termine dei quali sono stati aggiunti 2,5 µl di mBBr 50 mM (dissolto in ACN) e di nuovo incubata a 45 °C per 30 minuti. La reazione di marcatura è stata interrotta aggiungendo 12,5 µl di acido metansolfonico (MSA) 1 M. I campioni sono stati, poi, centrifugati (5424R Eppendorf, Hamburg, Germany) a 16100 x g per 10 minuti a 4 °C ed il sovranatante è stato recuperato. I campioni così ottenuti sono stati conservati a -20 °C in attesa delle successive analisi.

Per la costruzione della curva di calibrazione è stata preparata una soluzione stock 8 mM per ogni standard (GSH, PC2-4), diluendone appropriate quantità in acqua deionizzata e

conservando aliquote di ogni stock a -20 °C. Quantità ad hoc di ciascuno stock sono poi state mescolate a formare delle soluzioni operative (“working solution”), diluite opportunamente in una quantità variabile di acqua e 80 µl di buffer di estrazione (in modo che lo standard interno NAC, già contenuto nel buffer di estrazione, rimanesse costante nelle varie diluizioni) a formare 8 soluzioni, di 100 µl ciascuna, a differenti concentrazioni di GSH o di PC2-4: 0; 1; 2;

5; 10; 20; 50 e 100 µM. Sono stati poi prelevati 31,25 µl da ciascuna soluzione e derivatizzati (secondo il protocollo sopra riportato), fino ad ottenere gli 8 punti della curva di taratura alla concentrazione di 0; 0,25; 0,5; 1,25; 2,5; 5; 12,5 e 25 µM. Per ogni composto il valore dell’area risultante dall’integrazione del corrispondente picco cromatografico è stato normalizzato rispetto al corrispettivo valore della NAC. Il valore del rapporto così ottenuto è stato tracciato

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in funzione della concentrazione di iniezione corrispondente e per regressione lineare è stata ricavata l’equazione della curva di calibrazione, utilizzata per la quantificazione dei tioli estratti dai campioni vegetali. La normalizzazione dell’area dei picchi rispetto all’area del picco dello standard interno è un accorgimento teso a correggere le perdite dell’analita durante il processo di manipolazione ed estrazione del campione o ad un effetto della matrice sulla rivelazione dell’analita (postulando che il comportamento dello standard interno nella matrice sia paragonabile a quello dei composti di interesse).

La separazione dei tioli è avvenuta per mezzo di un sistema HPLC X-LC™ 3059AS (JASCO, Germany GmbH) equipaggiato con una colonna EC 250/4 NucleoSil 100-5 C18 (250x4,0 mm, 5,0 µm dimensione particelle silicee) a temperatura ambiente e dotata di precolonna. Il volume di iniezione è di 8,0 µl. È stato impiegato un gradiente binario (Figura 16) di un solvente A (0,1% TFA in H2O) ed un solvente B (95% (v/v) ACN + 0.1% (v/v) TFA) ad una velocità

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