UNIVERSITÀ DI PISA
DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE
IN STORIA E FORME DELLE ARTI VISIVE, DELLO
SPETTACOLO E DEI NUOVI MEDIA
Classe LM-65: Scienze dello spettacolo e produzione multimediale
TESI DI LAUREA MAGISTRALE
IL PERCORSO
Vicissitudini di una persona particolare che aspira a conquistare il
diritto di vivere la propria vita.
Studio per una sceneggiatura cinematografica
RELATORE
CANDIDATO
Prof. Maurizio Ambrosini
Luca Razzauti
Alla fine di questo mio lavoro, desidero ringraziare le persone che lo hanno reso possibile: familiari, amici cari, conoscenti e tutti coloro che la vita mi ha concesso di incontrare.
Grazie a tutti voi sono cresciuto e sono potuto giungere a questo risultato che è uno dei miei sogni.
INDICE
Introduzione pag. 1
PARTE I
CAPITOLO I
La sceneggiatura filmica
1.1 Che cos’è una sceneggiatura pag. 4
1.2 Breve storia della sceneggiatura pag. 7
1.3 La sceneggiatura secondo alcuni autori italiani pag. 12 CAPITOLO II
Ovosodo: esempio di sceneggiatura ispirata al genere letterario del romanzo di formazione
2.1 Pensare a un modello pag. 18
2.2 Evoluzione del progetto creativo pag. 23
PARTE II CAPITOLO I Trattamento pag. 28 CAPITOLO II Sceneggiatura pag. 102 Conclusioni pag. 207 Bibliografia pag. 211
INTRODUZIONE
Quando, alla fine di questo corso di studio, mi sono trovato a dover scegliere l’argomento per la tesi non ho avuto molti dubbi: raccontare una storia.
Il mio professore, Maurizio Ambrosini, mi ha chiesto se avevo già in mente qualcosa. E sì, effettivamente, già da un po’ di tempo un’idea si affacciava in modo ricorrente alla mia mente: scrivere il mio percorso di vita.
Non perché ritenga di avere avuto esperienze eccezionali, anzi, l’intento di questo racconto voleva essere proprio quello di mostrare come, in alcuni casi, sia faticoso, per una persona come me, poter chiedere di vivere in modo banalmente normale, in mezzo a tutti, cercando, provando, pur con mezzi non sempre adeguati, a fare le cose che tutti possono fare, utilizzando però le proprie caratteristiche, senza doversi snaturare.
Volevo raccontare di come sia difficile, ma non impossibile, soprattutto farsi accettare come persona completa, capace di scelte autonome, quando non puoi disporre della facoltà di dare risposte in tempi brevi e di poter organizzare la tua vita a prescindere dagli altri.
Durante la mia esistenza ho dovuto affrontare molti ostacoli, parecchi li ho superati, altri no.
Alla fine però, grazie al contributo di molti, ritengo di avere raggiunto dei traguardi che in pochi avevano previsto.
Ecco, questo vorrei comunicare a coloro che avranno voglia di leggere il mio racconto: non mollare di fronte alle difficoltà paga, ma non possiamo fare tutto da soli, dobbiamo saper chiedere e accettare aiuto.
La frequenza universitaria mi ha permesso di conoscere e, in qualche caso di approfondire, percorsi di comunicazione e narrazione artistica delle storie.
Sono sempre stato attratto dalle immagini e la conoscenza della realtà per me ha sempre avuto come canale prevalente quello visivo. Per questo ho scelto di avvicinarmi di più al linguaggio cinematografico; nella visione di un film vengo totalmente coinvolto; la storia sullo schermo mi penetra fino a farmi credere di
essere quella storia.
Questo modo di poter narrare una storia mi è apparso fantastico fin da quando ero piccolo; fantastico ma quasi impossibile per me, che non riuscivo a trovare un canale comunicativo efficace.
Ho capito che forse avrei potuto lavorare su quel “quasi“ quando, grazie alla scrittura, ho potuto manifestare l’interezza della mia persona.
È stato bello scoprire che i miei pensieri-immagine potevano essere tradotti in parole scritte e, grazie al legame strettissimo che c’è tra immagini e parole, queste ultime potevano, a loro volta, essere riconvertite in immagini.
Quindi giunto a trent’anni, con un po’ di esperienze vissute, con la voglia che avevo di raccontarle, mi sono detto: perché non usare una tecnica di scrittura che possa prevedere ulteriori sviluppi espressivi per il mio racconto?
Quello che mi rendeva titubante, devo essere sincero, era il timore di scadere nella banalità. Era una sensazione di inadeguatezza data dal confronto della mia semplice storia con quelle importanti di eroi antichi e moderni.
Mi ha aiutato molto a uscire da questa incertezza (che un po’ rimane sempre) la riflessione sul film di Virzì Ovosodo, incentrato, come molti altri suoi lavori, su di
un personaggio antieroico per eccellenza che però, nonostante tutto, esce dalla storia con una sua umanità piena di dignità.
A questo punto la decisione era presa, così, anche grazie al consiglio del mio professore, ho pensato di scrivere un racconto/trattamento, dal quale poi ho provato a trarre una breve sceneggiatura.
Naturalmente per giungere a questo mi sono dovuto documentare sull’argomento
sceneggiatura.
Dopo avere ricercato e letto la letteratura sull’argomento mi è sembrato logico iniziare il discorso con una prima parte del lavoro riguardante un breve studio sulla sceneggiatura, sia per l’aspetto teorico, sia per quello pratico, così come ci si presenta attraverso la testimonianza di grandi maestri, soprattutto italiani. (Parte I - Cap. I)
Nel secondo capitolo di questa prima parte, invece, ho tentato di analizzare in particolare il lavoro di scrittura che Virzì e Bruni hanno prodotto per la realizzazione di Ovosodo, a partire dal trattamento, Nato da un cane, per giungere fino alla sceneggiatura vera e propria del film, supervisionata da Scarpelli.
Per realizzare il mio lavoro, ho preso molto da questi testi, sia per la costruzione della storia, ispirata al romanzo di formazione, sia per la costruzione dei dialoghi e dell’impostazione grafica della scrittura della pagina di sceneggiatura.
PARTE I
CAPITOLO 1
La sceneggiatura filmica
1.1 Che cos’è una sceneggiatura
La sceneggiatura è l’insieme degli scritti che si producono per la messa in scena di un film: idee non necessariamente ordinate, appunti di discussioni tenutesi tra vari componenti della troupe, ambientazioni, dialoghi e tutto ciò che lo sceneggiatore ritiene utile per la realizzazione della stesura filmica.
L’oggetto sceneggiatura spesso è considerato come un testo dallo statuto instabile, altre volte invece come un tipo di testo scritto rispondente a regole precise.
Blier ad esempio la chiama con apparente sufficienza «la sceneggiatura di ieri», «ben sapendo» aggiunge Vanoye «che esiste ancora oggi».1
Blier è un autore che nega la sceneggiatura, la chiama testo: «(…). Si può scrivere qualunque cosa e chiamarla sceneggiatura. Ma io non ho mai scritto sceneggiature. Ho scritto dei testi che ho girato».2 Secondo Francis Vanoye «… la sceneggiatura non è soltanto una storia, una struttura drammatica, … essa è già anche una messa in scena».3
È un lavoro che può essere modificato continuamente, anche durante la lavorazione del film. Molti autori, per stendere una sceneggiatura utilizzano
1
F. Vanoye, La Sceneggiatura, Forme, dispositivi, modelli. Torino, Lindau, 2011, pp. 9 - 10.
precise tecniche di scrittura, che alcuni hanno codificato con indicazioni di svolgimento e di termini precisi con cui vengono indicate le varie fasi del lavoro. Ci sono sceneggiature che precedono o affiancano la lavorazione del film.
I manuali di sceneggiatura provano a schematizzare una serie di pratiche per la redazione di questi testi attraverso definizioni e descrizioni puntuali.
Secondo Vanoye questo può essere considerato lo schema tipo:
«La sinossi è un breve riassunto della storia, un esposizione succinta del soggetto (una o più pagine). (…).
Il soggetto, in una delle accezioni del termine, è un breve riassunto, che dà un’idea della trama narrativa del film (personaggi, azioni ed eventi).
Il trattamento è l’elaborazione della storia in un numero di pagine che può andare da una ad alcune decine, con le articolazioni dell’intrigo, la sua progressione, la struttura drammatica, le linee generali dei dialoghi.
La continuità dialogica offre il découpage della storia in scene e sequenze, la descrizione delle azioni, il testo completo di dialoghi.
La sceneggiatura, o script, viene nella maggior parte dei casi confusa con la continuità dialogica».4
Molti sceneggiatori tengono conto di queste indicazioni, ma quasi nessuno le applica rigidamente.
Ogni autore decide se e come utilizzarle. Comunque, secondo Vanoye, anche coloro che non le utilizzano vi fanno riferimento, come Blier, se non altro per rifiutarle.
La scrittura, la forma e la funzione della sceneggiatura sono in subordine alle esigenze di produzione, alle condizioni del set, alle personalità coinvolte nella messinscena del film, prima e durante la lavorazione: per questo è possibile l’esistenza di molteplici modalità per scrivere ed utilizzare la sceneggiatura. La sceneggiatura ha uno statuto indefinito, infatti non è né un’elaborazione della scrittura come il romanzo o il testo teatrale, né un film.
È «una struttura che vuol essere un’altra struttura»,5 pensata e scritta per trasformarsi in un altro tipo di linguaggio, l’immagine, diverso dal proprio.
Secondo Maurizio Ambrosini6 la sceneggiatura viene scritta nel momento in cui c’è una prefigurazione del film, e ha la sua naturale conclusione nel film realizzato. Questo è il suo obiettivo, che, di solito, viene raggiunto attraverso un percorso di scrittura e riscrittura di un racconto che l’autore cerca di pensare per immagini. Raramente una sceneggiatura viene pubblicata.
La sceneggiatura può essere considerata un modello per il film che dovrà essere realizzato. È l’anello di congiunzione tra un progetto e la sua realizzazione. È la raffigurazione astratta di un film e indica la sua possibile, concreta realizzazione. Il suo essere modello la porta anche ad essere oggetto d’imitazione attivo e passivo.
Negli USA i manuali di sceneggiatura sono impostati sull’analisi di film che hanno avuto grande successo di pubblico; in Europa, invece, siamo meno soggetti alla logica del mercato e più orientati a seguire un punto di vista che porta a privilegiare scelte di tipo estetico.
5
P.P. Pasolini, La sceneggiatura che vuole essere un’altra struttura, in Empirismo eretico, Milano Garzanti, 1972.
Anche in Europa ci sono diverse forme di sceneggiatura e le loro funzioni possono essere comprese soltanto attraverso l’osservazione e l’individuazione delle diversità presenti in questi testi date: «(…) dalle interazioni, dalle evoluzioni (…) nella produzione del senso e dell’emozione».7
Neppure potremo prescindere dalle relazioni «(…) con lo spettatore e con la società che le ha prodotte».8
Secondo Robbiano la sceneggiatura «(…) è un prodotto letterario che non ha alcuna dignità di lettura: una costruzione di parole che surroga immagini, una specie di contraddizione in termini. (…) è una forma di scrittura che non sottostà alle regole e alle finalità della comunicazione letteraria: le regole alla base della sceneggiatura sono quelle della drammaturgia».9
Perciò la sceneggiatura può forse essere definita come un testo letterario non destinato alla lettura ma alla visione.
1.2 Breve storia della sceneggiatura
La storia del cinema sembra dimostrare che la sceneggiatura, dall’inizio ai nostri giorni, sia sempre stata caratterizzata da una certa instabilità formale e funzionale. Negli Stati Uniti, fin dagli inizi dell’attività cinematografica, alla Biograph venivano assunti scrittori con l’incarico di elaborare idee, da poter poi trasformare in sinossi dalle quali far derivare un trattamento da cui ricavare un intreccio da strutturare in episodi filmabili.
La teoria dello Scientific Management del Lavoro (1911), messa a punto da Frederick W. Taylor influenza anche gli ambienti del cinema. A Hollywood prima
7 F. Vanoye, La Sceneggiatura, Forme, dispositivi, modelli. Torino, Lindau, 2011, p.17. 8 Ivi.
di arrivare alla realizzazione di un film andava presentato un budget dettagliato alla casa di produzione.
In questo contesto una sceneggiatura puntuale assume un ruolo fondamentale perché viene ad essere la prima pietra nella costruzione del film. Il produttore si assume l’intera responsabilità della realizzazione della pellicola ed è lui che sceglie sceneggiatore, regista e, in definitiva, tutto il cast.
I ruoli di sceneggiatore e regista iniziano a distinguersi già intorno al 1911.
In questi anni gli “studios” si dotano di dipartimenti di sceneggiatura nei quali operano molti scrittori professionisti. Sceneggiatori e registi tendono a specializzarsi in un genere particolare di storia.
La produzione di «film a più bobine (…) condusse a elaborare script nei quali veniva curata la continuità logico-spazio-temporale.»10
In questo modo c’era la possibilità di raccordo tra scene non contigue nello spazio-tempo, era però necessario seguire regole precise per assicurarne una lettura corretta, la comprensione, la continuità logica; questo poteva avvenire ad esempio creando situazioni di entrata e uscita dei personaggi o mediante l’uso di intertitoli.
Tutto ciò contribuì a far divenire la sceneggiatura la base ineludibile del racconto, perché grazie ad essa la conservazione della storia per tutto l’arco della durata delle riprese del film era garantita.
Le sceneggiature dettagliate in continuità sono pressoché sempre presenti fino al 1931, anche se tale pratica è messa in discussione per le scelte di alcune
produzioni che, sotto l’influenza di grandi registi, si basano solo su un trattamento ed è il regista che decide il da farsi, molto spesso, durante le riprese.
Con l’avvento del sonoro lo sceneggiatore deve inserire nello script dialoghi, rumori e musica.
Intorno agli anni ’20 del ‘900 gli studios hanno un settore del dipartimento di sceneggiatura interamente dedicato alla lettura per ricercare soggetti adatti da trattare per il cinema nei testi letterari o teatrali. «Vi lavorano specialisti nella trascrizione di storie in continuità o decoupage tecnico (in ciò che più tardi verrà chiamato adattamento, in senso lato)»11.
Romanzi o commedie possono essere “trattati” in vari modi prima che venga scelto quello definitivo da utilizzare per la messa in continuità.
È Hollywood che ha creato una efficace organizzazione di lavoro per la strutturazione narrativa e per il controllo filmico, che prevede la divisione dei compiti, pur rimanendo sempre presente una variante a questo sistema, data da registi dotati di forte personalità che riescono ad addomesticare le regole ferree della produzione verso maggiori concessioni alla loro creatività.
La pratica di una sceneggiatura, completa in tutte le sue parti e intoccabile, pur essendo predominante, non è certo l’unica.
In Europa, ad esempio, già dagli anni ’20 del secolo scorso, c’era chi sosteneva che un regista deve creare anche la sceneggiatura del proprio film per diventare creatore di un’opera, altrimenti sarà solo un riproduttore.
Questa idea si afferma definitivamente, soprattutto in Francia, negli anni ’50 in seguito ad un celebre articolo di Alexandre Astruc.12
Evidentemente le funzioni, le pratiche e le forme della sceneggiatura cambiano notevolmente tra un regista riproduttore e uno autore.
Ma gli autori non utilizzano certo pratiche di scrittura uniformi. Lo studio compiuto da numerosi critici su vari autori sembra dimostrare che i loro metodi di lavoro non hanno cambiato di molto la funzione della sceneggiatura nell’evoluzione delle varie fasi del film.
Una sceneggiatura può essere scritta da un singolo o da un team, come avveniva comunemente anche in Italia soprattutto a partire dagli anni ’50.
Sembra di poter dire che la sceneggiatura rimane come un oggetto «mutevole, fluttuante, instabile e in pari tempo indispensabile»13
In Italia, come nel resto d’Europa, cominciano ad esserci, sempre più spesso, scrittori coinvolti nella produzione cinematografica.
In questa relazione stabilitasi tra le due arti il cinema, che può contare su una grande capacità mediatica, cerca di costruirsi una legittimazione culturale.
Gli scrittori, a loro volta, cercano di sfruttare il canale mediatico per farsi conoscere da un pubblico più vasto. Sempre negli anni ’50 gli intellettuali come categoria hanno un atteggiamento ambivalente nei confronti del cinema: una parte è quasi spaventata, ritenendolo superficiale, dalla sua enorme influenza; altri invece ne mettono in rilievo le caratteristiche peculiari, convinti che queste possano dare un contributo fondamentale al rinnovamento del contesto estetico. Da allora lo scambio tra cineasti e letterati, anche in Italia, non si è più interrotto.
«Un libro e un film, in pratica, sarebbero la maniera con cui un autore porge al mondo dei significati. Di conseguenza, l’analisi del rapporto che si instaura tra un testo letterario e uno cinematografico sarebbe l’analisi dei rispettivi significati che gli autori dei due testi hanno posto in essere (…): l’istituzione letteratura (che ha già un linguaggio, una storia, un repertorio, in altre parole è definita dalla tradizione) e l’istituzione cinema, che si regge sui medesimi presupposti».14
Questo rapporto tra lingua letteraria e linguaggio cinematografico, con le sue problematiche, si manifesta nel fatto che, assai spesso, il cinema presuppone un testo letterario di partenza, la sceneggiatura; avviene così che il cinema sviluppa alcuni meccanismi per poter mantenere il piano espressivo della lingua scritta: il trattamento, come adattamento di un testo precedente, può essere considerato un esempio di tali meccanismi.
Sia film sia romanzo sono costantemente impegnati nel confronto con un contesto di riferimento che ne influenza la funzione; per questo il rapporto tra un film e il suo riferimento letterario deve essere inglobato “nell’ambito di una fitta rete di relazioni intertestuali e intermediali”.
Quindi possiamo concludere con Robbiano che «Storicamente, se buona parte delle evoluzioni o svolte nel linguaggio cinematografico sono state generate da autori e movimenti europei, da Ejzenstein, Vertov, Pudovkin ecc…, passando per il realismo poetico dei francesi (Carné-Prevert, Renoir, Clair), fino al neorealismo italiano (…), e ancora, attraverso la Nouvelle Vague, il Free cinema, il Nuovo cinema tedesco (…) fino agli asiatici (…), è contemporaneamente vero che altrettante rivoluzioni del linguaggio cinematografico sono state originate da
motivazioni commerciali o sono state proposte da film e autori perfettamente integrati nel sistema industriale statunitense, Hitchcock (…), Wells, (…), oltre agli stessi Hawks, Ford e molti altri, per giungere ai moderni prima e ai contemporanei poi».15
1.3 La sceneggiatura secondo alcuni autori italiani
Consultando i testi di alcuni tra i più conosciuti studiosi italiani della sceneggiatura, risulta evidente che molti sono quelli che iniziano il loro percorso di analisi di questo testo partendo dalla definizione data Pier Paolo Pasolini, che ritiene la sceneggiatura una «struttura che vuol essere altra struttura».16
Partendo da questa affermazione Giovanni Robbiano aggiunge che la sceneggiatura è, come afferma Carrière «Stato transitorio, forma passeggera destinata a divenire altro (…)».17
Ed è questa sua duplicità che non permette di studiarla e definirla in termini esatti.
Manzoli nota che già dal titolo del suo saggio La sceneggiatura come struttura
che vuol essere un’altra struttura, Pasolini, dopo avere approfondito i rapporti tra
segno cinematografico e letterario, si chiede di che cosa sia fatta la sceneggiatura. Egli esamina questa specifica tipologia di testo letterario da un punto di vista strutturale. Quindi, secondo questa ottica, non è interessante stabilire quali siano regole e canoni seguiti da chi stende una sceneggiatura, ma è utile invece capire quale può essere l’interesse di un lettore che si rivolge ad un testo simile. La
15 G. Robbiano, La sceneggiatura cinematografica, Roma, Carocci Editore S.p.A., 2000, p. 18. 16
P.P. Pasolini, La sceneggiatura che vuole essere un’altra struttura, in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972.
stesura di un sceneggiatura ha un fine specifico: «fornire la base alla lavorazione di un film».18
Anche Ambrosini, riferendosi alle riflessioni pasoliniane sulla sceneggiatura, rileva che in questo studio è messo in evidenza «lo statuto transitorio e non autonomo»19 di tale testo, dovuto all’essere pensata per realizzarsi in un film, e perciò destinata ad essere letta e immaginata in quella prospettiva.
Chiunque si sia occupato di sceneggiatura non ha potuto prescindere dall’affrontare il tema del rapporto tra cinema e letteratura, del quale essa, sempre secondo Pasolini, rappresenterebbe l’aspetto concreto. In questo caso non si parla certo di una sceneggiatura che fa da intermediaria tra un romanzo e un film, ma piuttosto di una scrittura che possiede una tecnica narrativa autonoma rispetto a quelle tradizionali della letteratura, per via della sua «allusione continua a un’opera cinematografica da farsi».20
Scrivere una sceneggiatura è molto diverso da scrivere un romanzo, anche se c’è qualcosa in comune tra i due testi, il loro scopo, cioè: raccontare una storia. «Ciò che si richiede alla sceneggiatura è quello di essere il film sulla carta. La sua validità (…) si basa (…) sull’impatto che tale storia saprà generare una volta rappresentata sullo schermo».21
Dal momento che: «La sceneggiatura, (…), è propriamente quel testo letterario che comprende la suddivisione della trama in scene, i dialoghi che devono svolgersi in ciascuna scena, l’indicazione degli ambienti e a volte dei movimenti
18 G. Manzoli, Cinema e letteratura, Roma, Carocci Editore S.p.A., 2003, p. 57.
19 M. Ambrosini, La prefigurazione del film, sulle sceneggiature di Paolo e Vittorio Taviani, Pisa,
Edizioni ETS, 2008, p. 49.
20
P.P. Pasolini, La sceneggiatura che vuole essere un’altra struttura, in Empirismo eretico, Milano Garzanti, 1972, in M. Ambrosini, La prefigurazione del film, sulle sceneggiature di Paolo
e Vittorio Taviani, Pisa, Edizioni ETS, 2008, p. 49.
di macchina. Si può forse (…) capire maglio perché Pasolini parlasse di volontà di essere un’altra struttura».22
Sembra di poter dire che la sceneggiatura assume una sua configurazione grazie ad una serie di riferimenti che traggono il loro senso da un diverso sistema espressivo. Ne è un esempio il fatto di indicare le posizioni della macchina da presa, questo trasmette a chi legge l’idea di un testo che allude a un altro testo, già compiuto, che sta altrove, oppure ancora da realizzare.
Sempre secondo Manzoli ci sono almeno due tipologie di sceneggiature: «le sceneggiature vere e proprie e le cosiddette sceneggiature desunte o, per essere più corretti, trascrizioni. (…). Le prime sono testi al servizio del regista, che su di esse basa l’organizzazione del proprio lavoro. (…). La sceneggiatura desunta, invece, coincide a tutti gli effetti con il film, essendo in sostanza un lavoro di
trascrizione, in cui si cerca di dar conto dell’opera finita, ai fini dell’analisi…».23
Tutto questo vale per le sceneggiature dei film che narrano storie e per quelli di finzione, perciò vi sono incluse anche quelle tratte da opere letterarie, gli
adattamenti. L’adattamento è un raffronto tra il romanzo e la parte narrativa del
film, già in gran parte presente nella sceneggiatura. Parliamo invece di traduzione quando c’è confronto diretto tra un romanzo e il film propriamente inteso.
Ambrosini, rifacendosi anche a Vanoye, considera la sceneggiatura una parte imprescindibile di un processo di regia nel quale ogni fase è: «al tempo stesso,
autonoma e interdipendente»24, una parte nella quale inizia a prendere corpo la
regia cinematografica. Perciò la sceneggiatura diviene: «modello del film che
22
G. Manzoli, Cinema e letteratura, Roma, Carocci Editore S.p.A., 2003, p. 65.
23 Ivi, p. 66. 24
deve essere realizzato. È la base, il referente, il termine medio tra il progetto (…) e la sua realizzazione. Raffigura astrattamente il film e lo determina concretamente (…). La sceneggiatura è al tempo stesso figurazione e schema direttivo del film».25
Da queste premesse Ambrosini prova a considerare la sceneggiatura come un copione teatrale, vede nella sua scrittura «il luogo in cui individuare i segni linguistici di una virtualità registica stratificata e complessiva».26 Questo lo porta
ad ipotizzare «la sceneggiatura (…) come testo metalinguistico che fonda il proprio statuto e le proprie convenzioni formali sulla necessità di configurare una proposta operativa di pratica cinematografica, e, per un altro verso, come trascrizione linguistica di un’ipotetica sintesi audiovisiva pre-testuale.
Dentro questa impostazione, che vede nella scrittura una dimensione filmica immanente, il film concretamente realizzato rappresenterà l’attuazione di una delle sintesi cinematografiche possibili, in quanto autorizzate da una serie di indicazioni operative disposte su più livelli, e la sceneggiatura sarà dunque da considerarsi come invariante variabile, sempre oggetto di un’interpretazione nel momento della sua realizzazione filmica».27
Così, il regista, insieme a tutti gli altri transcodificatori del testo, si troverà ad operare in un metalinguaggio, utilizzando il testo come un «linguaggio-oggetto».28
25 F. Vanoye, La Sceneggiatura, Forme, dispositivi, modelli. Torino, Lindau, 2011, p.16.
26 M. Ambrosini, La prefigurazione del film, sulle sceneggiature di Paolo e Vittorio Taviani, Pisa,
Edizioni ETS, 2008, p. 55.
27 M. Ambrosini, La prefigurazione del film, sulle sceneggiature di Paolo e Vittorio Taviani, Pisa,
Edizioni ETS, 2008, p. 55.
Partendo da questi presupposti emerge la necessità di capire quanto sia necessario che una scrittura così particolare e ambigua utilizzi o meno delle regole, se è opportuno che debba seguire un suo schema.
Assodato che il fine è scrivere una storia per comunicare qualcosa a qualcuno, un autore come Robbiano ritiene che «(…) la sola regola inviolabile, (…) è la necessità di suscitare interesse e (…) piacere». Per lui «la materia principale di cui le sceneggiature sono costituite è storia e non forma»29, quindi il linguaggio cinematografico è una struttura aperta perché è, per sua natura, ambiguo.
Conseguentemente, per imparare a scrivere sceneggiature l’unica via possibile è di «leggerne sulla pagina e vederne sullo schermo».30
Anche per Moscati non esisterà una sceneggiatura se uno non ha qualcosa da raccontare, senza un’idea primaria; ma, diversamente da Robbiano, afferma che un bravo sceneggiatore «Alla sua naturale intuizione, (…) deve affiancare una precisa conoscenza delle regole che stanno alla base della scrittura cinematografica: deve acquisire il mestiere».31 Anche in questo ambito
l’esperienza che si acquisisce con il tempo è fondamentale e serve a far emergere il talento naturale.
Ancora Moscati ritiene che per l’esordiente sia importante comprendere che la forma in cui viene scritta una sceneggiatura è «lo strumento pratico che ne permetterà la filmabilità».32
Come abbiamo visto ci sono vari schemi per arrivare alla stesura di una sceneggiatura, lo sceneggiatore può decidere autonomamente se seguire quello
29
G. Robbiano, La sceneggiatura cinematografica, Roma, Carocci Editore S.p.A., 2000, p. 20.
30 Ivi, p. 30. 31
che ha scelto in maniera completa o soltanto in parte. Una convenzione che invece deve essere subito acquisita, fin dall’inizio, è l’uso del presente indicativo: «il cinema, per sua natura, esiste solo e unicamente al presente. Anche quando la vicenda narrata è situata nel passato (o nel futuro)».33
Age, in maniera forse ancor più decisa di Moscati, crede che la conoscenza della tecnica della scrittura cinematografica sia per il futuro sceneggiatore indispensabile.
«La tecnica assiste e sostiene la fantasia e l’ispirazione (…) e viene dall’esperienza, dallo studio e dall’osservazione di ciò che gli altri fanno e (…) hanno fatto prima di noi. (…).
Nella stesura di un testo cinematografico non si può dunque non tener conto della parte tecnica che è specifica di questo genere di scrittura».34 Per Age tra sceneggiatura e romanzo non sussistono grandi diversità, ma, mentre nel romanzo è possibile rimediare ad eventuali errori, imprecisioni, incertezze nella narrazione, per la sceneggiatura è quasi impossibile e, soprattutto, rischioso «perché il ricorso alla pezza non attenuerebbe il difetto ma lo accentuerebbe».35
33 Ivi
34 Age, Scriviamo un film, manuale di sceneggiatura, Milano, Il Saggiatore, 2014, pp. 55-56. 35 Age, Scriviamo un film, manuale di sceneggiatura, Milano, Il Saggiatore, 2014, p. 76.
CAPITOLO 2
Ovosodo: esempio di sceneggiatura ispirata al genere letterario del romanzo di formazione
La mia idea di scrivere una sceneggiatura nasce dalla visione del film Ovosodo. Mi ha stimolato quel modo un po’ noncurante di raccontare cose anche gravi avvenute nella vita di un ragazzo qualunque, cose che permettono di capire la complessità di una persona anche se apparentemente soltanto qualunque. Mi sono appassionato, e anche divertito, a leggere tutto il materiale che ho potuto reperire sul film, dal trattamento originale, Nato da un cane, alla sceneggiatura definitiva
Ovosodo.
Sono state queste letture che mi hanno spinto a mettere in pratica l’idea che da parecchio avevo in mente: raccontare la mia storia.
Per questo trovo giusto ripercorrere, a grandi linee, attraverso il materiale consultato, l’iter seguito dagli sceneggiatori per la realizzazione di questo film.
2.1 Pensare a un modello
Paolo Virzì è uno di quei registi che si occupa e si preoccupa della sceneggiatura dei propri film, anzi, il suo iter professionale inizia dalla sceneggiatura. Non lavora da solo, accanto a lui troviamo molto spesso l’amico sceneggiatore livornese Francesco Bruni e il tocco magico del loro maestro Furio Scarpelli.
Ovosodo non fa eccezione.
Per questo, come per altri film, il regista si rifà alla letteratura ottocentesca, soprattutto inglese, e a quella italiana del secondo dopoguerra. È lui stesso che più
volte ha dichiarato di sentirsi ispirato, attratto dalla narrazione di storie che si fondano sul percorso, definito in gergo tecnico, “arco del personaggio”.
È lo stesso Virzì che dichiara il suo debito creativo nei confronti di Dickens: «tutti discendiamo da Dickens; neanche il cinema, neanche Charlot sarebbe possibile senza. Ho un grande amore per il romanzo di formazione, raccontato in prima persona da un protagonista, ingenuo o perlomeno disarmato, che deve farsi strada nella vita attraverso un tragitto che configura l’arco della sua esistenza; questo modo di raccontare dà l’impressione che il narrare sia un processo giocoso e l’ascoltare un godimento. Questo è il sapore che mi piacerebbe avessero i miei film».36
E ancora: «tra le tante storie ce n’è una che vale sempre la pena di raccontare, il cammino buffo e doloroso della crescita, il viaggio dalla fanciullezza all’età adulta, che ti costringe a perdere qualcosa per guadagnare qualcos’altro. È il percorso iniziatico per eccellenza, quello narrato dai romanzi che si leggono in gioventù e che rimangono dentro per sempre in forma di archetipo».37
In Ovosodo questo legame culturale con il romanzo di formazione si palesa: i nomi dei più dei grandi romanzieri compaiono scritti sulla lavagna nella classe in cui Giovanna, la professoressa spirito-guida di Piero, sta facendo lezione.
Il Bildungsroman, o romanzo di formazione, indica tanto l’evoluzione quanto il risultato di questo processo di crescita della persona, fino ad essere comunemente considerato come un qualunque percorso evolutivo, e non più uno specifico genere letterario ottocentesco, frutto di un peculiare contesto socio economico,
36
A. Accardo e G. Acerbo, My name is Virzì. L’avventurosa storia di un regista di Livorno, cit. p. 196, in F. Zecca, a cura di, Lo Spettacolo del reale - il cinema di Paolo Virzì, Pisa, Felici Editore, 2011, p. 100.
caratterizzato dall’ascesa della borghesia. In questo genere letterario emerge la gioventù come segno caratteristico di un nuovo corso dell’esistenza, come entità sociale che rivendica il proprio diritto ad esistere.
Una gioventù che sarà la cifra distintiva di un’epoca piena di dinamismo e instabilità. È durante la gioventù che si compie il percorso formativo del futuro adulto che gli permetterà di trovare una sua collocazione nella società: «Autosviluppo e integrazione sono percorsi complementari e convergenti, al cui punto di incontro e di equilibrio si colloca quella piena e duplice epifania del senso che è la maturità. Raggiunta la quale, il racconto ha realizzato il suo scopo e può senz’altro finire.
(…). Bisogna innanzi tutto apprendere (…) a indirizzare la trama della propria vita in modo che ogni momento rinsaldi il proprio senso di appartenenza ad una più vasta comunità»38.
Se leggiamo il trattamento e la sceneggiatura di Nato da un cane e di Ovosodo saltano agli occhi numerosi riferimenti al romanzo di formazione.
Come ci fa notare Franco Moretti, la prima caratteristica del romanzo di formazione è la sovrapposizione di sguardo tra il protagonista e il lettore: «in linea di massima, il Bildungsroman fa sì che il lettore percepisca il testo attraverso gli occhi del protagonista: cosa del tutto logica, considerato che questi è colui che deve formarsi, e la lettura si propone anch’essa come percorso formativo. Lo sguardo del lettore è dunque incardinato a quello del protagonista: egli si identifica con lui, condivide la parzialità e l’individualità delle sue reazioni».39
38
Così, in molti dei suoi film, Virzì sceglie di utilizzare la voice over come commento della storia, in questo modo il protagonista rievoca i momenti fondamentali della propria vita, i passaggi cruciali per la sua crescita.
Questo è anche il caso di Piero, con lui questa tecnica prende quasi la forma di un diario, è ovviamente una narrazione in prima persona.
Il film è costellato di date cruciali per il protagonista, eventi che possono condurlo alla maturità soltanto se lui saprà tenere conto di quelle esperienze. Infatti, questi accadimenti, queste prove da superare, dovranno essere interiorizzate per poter divenire funzionali al formarsi della personalità.
Nel racconto della sua biografia, la voce di Piero seleziona eventi cruciali, che potrebbero sembrare a noi insignificanti, ma che, con il procedere della storia acquistano senso. È proprio per aiutare a trovare questo senso che Virzì utilizza il flashback, in cui il protagonista ripensa al proprio passato, accanto alla pratica del diario.
In questo film assume un rilievo particolare, ai fini della narrazione, l’infanzia di Piero, così come accade in David Copperfield. «(…). Nasco: così si intitola il primo capitolo di David Copperfield, e ben quattro di questi sei romanzi (Tom
Jones, Jane Eyre, David Copperfield e Grandi speranze) attribuiscono un valore
emblematico e duraturo, se non proprio alla nascita, quanto meno all’infanzia dei rispettivi protagonisti».40
Come fa notare Zecca «il flashback non è sinonimo di opacità della narrazione, anzi gli eventi appaiono sempre e comunque fortemente connessi gli uni agli altri.
Le tappe fondamentali del percorso di crescita dei personaggi portatori della storia sono chiaramente segnalate».41
E ancora: «il romanzo di formazione si concentra sulla difficoltà del suo protagonista di entrare in sintonia con la società che lo circonda».42
Ad esempio, nel caso di Piero, potremmo dire che questa difficoltà trae origine dal fatto che il protagonista è «(…) un disadattato per ceto (…)».43
Acquisisce la consapevolezza del suo stato, la sua coscienza di classe, soltanto quando inizia a lavorare in fabbrica. Questa nuova consapevolezza lo porterà a prendere coscienza dell’ingiustizia sociale che pervade la realtà che ci circonda.
Però, «Al di là dell’amara e realistica parabola, Virzì spera nel potere di quell’ovosodo, carico di sensibilità, cultura e di senso d’ingiustizia, che va ancora su e giù nel groppo di Piero. E spera ancora nel potere della cultura (vedi la scena di Piero che fa appassionare, come fosse una soap opera, i colleghi operai a Dickens) e nella possibilità che essa porti, prima o poi, a un cambiamento».44 Inoltre, come David Copperfield, Piero cresce anche per le delusioni amorose. Così come l’eroe di Dickens, dopo la morte di Dora, sposa Agnes, la sua amica di sempre, Piero dopo il fallimento della sua passione per Lisa, sposa Susy, la sua vicina, che conosce fin da bambino. Ancora un altro topos del romanzo di formazione presente nel film è la chiusura della storia con un matrimonio che, in questo caso, diviene il modello di un nuovo tipo di contratto sociale.
«Da notare come la felicità, in questo quadro (…), diventi il contrario della libertà (…). Si potrebbe pensare a Ovosodo come a una storia dal finale amaro, ma forse
41 F. Zecca, a cura di, Lo Spettacolo del reale - il cinema di Paolo Virzì, Pisa, Felici Editore, 2011,
p. 104.
42 Ivi, p. 105. 43
più che amaro, potrebbe essere gradevole, in un’accezione però particolare del termine».45
2.2 Evoluzione del progetto creativo
La sceneggiatura di Ovosodo ( prima stesura 1996, stesura definitiva 1997) deriva da un trattamento di quarantacinque pagine, Nato da un cane. Il titolo definitivo del film però compare già dall’inizio, tra parentesi, insieme ad altri possibili. Il termine Ovosodo, comunque, è l’argomento principale del primo paragrafo del trattamento, dove si narra di un ragazzo, il protagonista, noto a tutto il rione con questo soprannome. Nessuno sa di preciso come sia venuto fuori, un’ipotesi è che derivi dal nome del quartiere di origine di Nedo, padre del ragazzo, che si chiama ovosodo, appunto.
«Quello che appare singolare è che sia il titolo originario Nato da un cane che l’ultimo e definitivo, Ovosodo, oltre a legare indissolubilmente la vicenda di Piero al territorio toscano (…), ancorano il protagonista al padre.
Sta infatti nella sua partenza dagli ultimi blocchi, da una famiglia sfortunata e sgangherata, che la vicenda del giovane Piero prende forza e dichiara da subito il luogo da cui prende origine».46
La lettura di questo trattamento non si differenzia da quella di un romanzo, è un bel racconto che ci richiama esplicitamente al suo modello, il romanzo di formazione, in particolare Dickens.
45
F. Zecca, a cura di, Lo Spettacolo del reale - il cinema di Paolo Virzì, Pisa, Felici Editore, 2011, p. 106.
46 O. Madeddu, a cura di, P. Virzì - F. Bruni, Nato da un cane, il trattamento originale di Ovosodo,
Nella prima parte del trattamento (nove pagine) viene descritto il protagonista e l’ambiente in cui vive, le persone che lo circondano; vengono ricordati episodi della sua quotidianità che hanno accompagnato la sua crescita, fino ad arrivare all’ultimo anno di liceo, quando avviene l’incontro più importante della sua sgangherata adolescenza: quello con l’estroso Tommaso Paladini.
Oltre ad essere una scrittura che prende a modello il romanzo di formazione, quella del trattamento prima e della sceneggiatura compiuta poi, può essere considerata anche una auto biografia. Infatti, nell’intervista rilasciata a Zecca, Francesco Bruni dichiara: «Ovosodo è un film che riguarda molto Paolo, è una storia di autobiografia romanzata e ovviamente rielaborata, ma sotto c’è l’idea della difficoltà di emanciparsi dalla propria classe sociale quando si parte in svantaggio».47
In questa storia, perciò, non troviamo solo un’idea partorita dalla feconda fantasia di un autore che vuole dare voce alla realtà della vita di un operaio in una città di provincia, ma abbiamo molto dell’esperienza esistenziale del regista.
Virzì scrive Nato da un cane dopo alcuni anni dal suo allontanamento da Livorno. Vive a Roma, dove si è diplomato in sceneggiatura e ha già girato due film: La
bella vita nel 1994 e ferie d’agosto nel 1996.
Probabilmente, dal momento che ha deciso di mettere in scena il percorso di vita di un ragazzo di provincia, ha trovato naturale tornare nella sua Livorno dove, insieme al fratello e alla madre, ha trascorso la sua vita fino alla giovinezza vivendo esperienze molto vicine a quelle narrate nel film.
47
La madre e il fratello, intervistati, hanno parlato di episodi, tra quelli narrati, realmente accaduti. Ad esempio, suo fratello dice che Paolo ha frequentato il liceo classico cittadino e ha realmente venduto i temi ai compagni ricchi; la madre, invece, rivela che l’episodio di Piero che racconta le storie di Dickens e Cassola ai compagni e canta per loro, è ripreso dall’esperienza del fratello Carlo che, appassionato di musica, cantava in fabbrica per far passare meglio le otto ore del turno ai compagni operai.
Nel film, rispetto al trattamento, compare solo la parte in cui Piero fa il racconto a puntate dei romanzi, ma il senso di questo episodio rimane identico nei due testi: primo,un ragazzo così è sprecato dentro una fabbrica e, secondo, la letteratura, la musica, l’arte… la bellezza possono raggiungere chiunque.
Anche in fabbrica, come già al Liceo Piero è fuori posto, non è in linea con tutti gli altri. Al liceo è un problema di censo (si sente a disagio con i figli dei ricchi), in fabbrica è la cultura.
«Nelle pagine di Nato da un cane, nella sua struttura, nel modo in cui organizza il racconto, nella presentazione delle situazioni e dei personaggi (…) non è difficile trovare un andamento umoristico direttamente legato alla tradizione della commedia italiana; (…)»,48
d’altra parte Furio Scarpelli è il maestro di scrittura di Virzì e Bruni che sentono la necessità di ricorrere a lui per avere una sorta di supervisione del testo.
La voce over, che è un tratto distintivo di Ovosodo, è molto spesso simile al narratore di Nato da un cane, riprende molto dalle «(…) voci narranti di numerose
48 O. Madeddu, a cura di, P. Virzì - F. Bruni, Nato da un cane, il trattamento originale di Ovosodo,
commedie italiane degli anni Cinquanta nelle quali il commento finisce per sottolineare gli aspetti buffi e ironici degli accadimenti».49
Anche nel finale, trattamento e sceneggiatura si discostano. Il primo tende alla ricostruzione: Piero, apparentemente libero da conflitti, festeggia con la famiglia, la Professoressa, gli amici d’infanzia, che per un certo tempo aveva allontanati, e con Tommaso, con il quale riesce di nuovo a trovare una complice intesa, per portare via Ivanone dall’ospedale dove era stato ricoverato dopo essersi buttato in mare durante il pranzo di nozze di Piero. In questo finale sembra aggiustarsi tutto, gli animi sono pacificati, c’è il senso di una serenità finalmente raggiunta.
«Anche nel finale del film Piero fa i conti con il nuovo equilibrio raggiunto, ma il senso di perdita qui sembra non essere più rimarginabile».50
Virzì è un regista che nel suo lavoro difficilmente prescinde dall’osservazione della società che lo circonda, soffermandosi particolarmente sulle difficoltà che gli
ultimi sono costretti ad affrontare, seguendo in questo l’insegnamento del suo
maestro: «Paolo Virzì, insieme al suo maestro Furio Scarpelli, che lo inserisce, di diritto, nel solco della Commedia all’italiana, guarda con senso di affetto e di solidarietà agli umili, rende interessante la vita comune di esseri umani che sembrerebbero non avere nulla di significativo».51
È questo che ritroviamo nel film, sotto la parziale copertura di una rielaborazione romanzesca e sotto l’ironia con la quale i personaggi esprimono il loro carattere. Un’ironia drammatica presente in Ovosodo, dall’inizio alla fine.
49 O. Madeddu, a cura di, P. Virzì - F. Bruni, Nato da un cane, il trattamento originale di Ovosodo,
Pisa, ETS, 2016, p. 24.
50 Ivi, p. 38. 51
Un’ironia che si ritrova nella Commedia all’italiana di autore, dove le storie hanno la struttura di romanzi, di testi simili a Nato da un cane.
Un bravo sceneggiatore, dovrebbe lavorare in collaborazione strettissima con tutti coloro che contribuiranno alla realizzazione del film, in particolare, non credo possa prescindere dall’inserire nel suo lavoro i “significati” che il regista intende dare all’opera e, naturalmente, condividerli.
Possiamo dire che il prodotto finito Ovosodo abbia queste caratteristiche, pertanto «L’anima del racconto di Ovosodo è dunque riconducibile ad un elemento propulsivo, un profondo impulso etico del regista, che si manifesta nella sincera simpatia umana verso gli umili e in una grande attenzione per la realtà. In particolare, Paolo Virzì e Francesco Bruni condividono con Furio Scarpelli una sorta di coscienza esistenzialistica riassumibile nella constatazione espressa nel tema di Piero (…) il cosmo non è a misura d’uomo tranne per i privilegiati. Quando l’epoca moderna diventa oppressiva ed espone i deboli ai colpi della sorte, l’uomo ricerca il significato e la dignità del vivere nell’intimità.
Questa è l’essenza del romanzo-sceneggiatura e poi film Ovosodo».52
52 Ivi, p. 46.
PARTE II
CAPITOLO 1 TRATTAMENTO
Come iniziare la narrazione della vita particolare di un trentenne strano, io, senza esagerare nei particolari e senza omettere eventi utili alla comprensione?
Provo a cominciare dall’inizio, vediamo se funziona…
Sono il terzogenito, maschio dopo due femmine, nato in una famiglia che potrei definire normale secondo i canoni di giudizio che vengono generalmente utilizzati. Invece io la definirò famiglia ad alta intensità affettiva, perché trovo priva di significato la parola “normale”.
Il 31 maggio 1987, giorno della mia nascita, i miei genitori, le mie sorelle, i nonni, i parenti e gli amici erano contenti.
I miei genitori mi hanno raccontato che ero bellino e vispo, nato bene dopo una buona gestazione.
Con le sorelle, Paola otto anni più grande, e Francesca quattro, le cose sono sempre andate bene e, dal momento che si sfogavano già a litigare tra loro, io ero il bimbino da coccolare o brontolare, che le faceva sentire grandi, visto che potevano insegnarmi i giochini, i saluti ecc…
I miei genitori, Barbara e Giacomo, insegnante e impiegato, hanno sempre avuto un solido rapporto di coppia che ha permesso loro di superare gli inevitabili momenti di crisi, quando si sono presentati.
Ad esempio, loro possono discutere in modo anche vivace per cose assurde, tipo se è più buona la mozzarella di bufala o la fior di latte, ma non hanno bisogno di tante parole se si tratta di essere disponibili nei passaggi faticosi della vita tra loro, con noi figli e anche al di fuori della nostra piccola cerchia.
Mamma, donna di non elevata statura, un po’ rotonda, dà l’idea del morbido. Ha grandi occhi verdi, parlanti, che danno espressione a tutto il volto e ti fanno sentire presente nella sua vita. Tra quelli della famiglia mamma è la più allegra, spesso le vengono battute spontanee, è autoironica, ma a volte è un po’ troppo sbrigativa e pretenderebbe che gli altri la seguissero nelle sue scelte con altrettanta velocità.
Naturalmente questo non sempre avviene, lei diventa di malumore, prosegue per conto suo e taglia fuori tutti. Questi sono momenti brevi fortunatamente, perché senza la sua concreta relazione collaborativa io non mi sento tranquillo e, mi pare, neanche gli altri.
Quando ero piccolo, fino verso i sei anni, mamma ha insegnato. Credo che il suo lavoro le piacesse molto, lo faceva con entusiasmo ed era sempre fiduciosa nelle capacità dei suoi alunni. Ha smesso di insegnare al mio ultimo anno di scuola materna, per poter essere più presente nella costruzione del mio percorso di crescita, che per parecchi avrebbe dovuto avere caratteristiche statiche anziché evolutive, e anche per non essere troppo assente con le mie sorelle.
Babbo, uomo snello, né basso né alto, ha un volto regolare, ha i capelli tutti bianchi da molto tempo, ha sempre portato gli occhiali che ormai fanno parte della sua fisionomia al punto che, quando se li toglie, assume un aspetto un po’ estraneo, lontano. È un uomo piuttosto silenzioso, sempre un po’ troppo
preoccupato delle regole e di voler avere il controllo di ogni situazione. Questo lo porta ad essere ansioso, soprattutto nei miei confronti, visto che molto spesso sono imprevedibile. Però devo dire che quando gioca o quando qualcuno gli chiede aiuto è veramente “la persona giusta al momento giusto”.
Di lavoro ha sempre fatto l’impiegato, con grande senso del dovere e di responsabilità, credo però che questa sua occupazione non lo entusiasmasse molto, soprattutto quando ha dovuto adattarsi a scelte aziendali contrarie ai suoi principi. Spesso per evitare discussioni familiari tace, ma è peggio per noi che non riusciamo a comprendere che cosa ha in mente. Solo mamma ci riesce, tra loro chiariscono velocemente e mi piace quando si utilizzano a vicenda come mediatori nei confronti miei e delle mie sorelle. Adesso anche lui è in pensione. La scelta che babbo ha fatto di continuare a lavorare e mamma no, l’hanno presa insieme. Babbo in banca guadagnava di più, inoltre mamma, per il suo tipo di formazione, era più adatta a trovare per me percorsi idonei e a poterli difendere e motivare nelle sedi istituzionali.
Anche se ricordo molto bene che quando c’erano da prendere decisioni di tipo medico o di gestione scolastica le difficoltà erano tali che mamma da sola rischiava di crollare, così andava sempre anche babbo per sostenerla. Questo fece credere ad alcuni che i miei genitori fossero separati e che presenziassero insieme agli incontri perché non si fidavano una dell’altro. Fine acutezza degli psicologi! Venendo alle mie sorelle la prima parola che mi sovviene è diversità.
Infatti tra loro non hanno similitudini tangibili, né fisiche né caratteriali, le accomuna solo la tendenza ad essere inavvicinabili nel periodo del ciclo.
Paola, la più grande, fisicamente è una ragazza piacente, non magrissima, ma snella e proporzionata, con una massa di riccioli scuri e due grandi occhi marroni sempre un po’ incerti, quasi timorosi del mondo. Spesso è in ansia per sé e per gli altri, per me in particolare, questo la rende insicura, perciò si mette sulla difensiva e chi non la conosce magari la ritiene scostante. Con me è tenera, io con lei sono ironico, ma cerco di non esagerare perché la sento vulnerabile.
Quando io ero piccolo, temeva che alcuni accertamenti clinici fossero troppo invasivi per me; non ha esitato a proteggermi e, nonostante avesse solo dieci anni, si è ribellata anche con i miei genitori. Non lo dimenticherò mai.
Francesca, secondogenita, è un tipino minuto, molto graziosa, con grandi occhi espressivi, vivace, attiva e creativa, è sempre in fermento per progettare nuove esperienze.
Ha un modo di affrontare la vita non proprio tranquillo, quasi come se temesse di vedersela sfuggire senza aver potuto realizzare tutti i suoi programmi. Ha un carattere deciso, a tratti un po’ rigido, che per me è motivo di sicurezza. Tra noi c’è una grande intesa, mi stimola in tutti i modi e, fin da quando ho memoria, mi ha impedito di isolarmi, pur rispettando i miei necessari spazi di tranquillità. In questo habitat ho iniziato il mio percorso di vita.
Non avevo ancora un mese che già frequentavo assiduamente i bagni Pancaldi - Acquaviva,53 all’ombra o al sole, secondo l’orario, della grande piscina salata, vanto di tutti i frequentatori del luogo.
Ed è proprio qui, all’inizio del mio secondo anno di vita che mamma ha cominciato ad avere dei dubbi sulla regolarità della mia crescita; infatti, nel
giugno 1988, a tredici mesi, ancora non camminavo, ma quel che era più strano, non riuscivo a mettermi in piedi. Eravamo, io e mamma, sul bordo della piscina a vedere le mie sorelle che facevano il bagno; ad un certo punto io mi sono tenuto con le mani alla ringhiera e ho tentato di alzarmi in piedi. Mamma mi stava osservando e, racconta sempre, che subito le è stato chiaro che mi trovavo in una condizione di notevole difficoltà; infatti, per quanti sforzi facessi, non riuscivo a mantenere la posizione eretta; provavo e riprovavo, ma niente, i miei piedi e le mie ginocchia non rimanevano dritti.
In tutto questo, penserà qualcuno, la mamma che fa? Niente, un po’ perché è in apprensione, ma molto perché è abituata ad osservare i comportamenti infantili e così ha cercato di capire la natura del problema. A rischio di essere giudicata un po’ carogna, mi ha lasciato provare e riprovare da solo, mi ha anche fatto un po’ piangere prima di sostenermi. Non aveva capito la natura del problema, ma si sentiva di poter escludere a priori la pigrizia. Arrivata a casa espresse, in modo non proprio tranquillo, a tutti i propri timori e descrisse così la posizione delle mie gambe: “avete presente le gambe di Bambi54
appena nato, quando cerca di mettersi in piedi? Uguali”.
Prima mossa: contatto immediato con la pediatra; questa gran donna, burbera all’apparenza ma con una sensibilità acuta che, nonostante i suoi sforzi per nasconderla, è sempre emersa a fior di pelle rimase perplessa e, con l’umiltà di tutte le persone intelligenti, disse che la cosa non era di facile comprensione: il mio piede era da considerare “neurologico”, ma lei, che pure mi aveva seguito fin dai primi giorni di vita, non sapeva spiegarsene la ragione. Fu per questo motivo
che ci indirizzò all’ospedale di Pontedera55, dove c’era un’equipe di
neurofisiopatologia all’avanguardia che, con macchinari idonei, avrebbe potuto chiarire, forse, le origini del problema.
Niente, tutte le prove, alcune delle quali molto invasive, dettero esito negativo. Successivo passaggio obbligato: Stella Maris56. Questo Istituto di ricerca e specializzazione per la neuropsichiatria infantile si trova a pochi chilometri dalla mia città, al Calambrone, dove tanti livornesi vanno al mare in estate. Qui sono cominciati i problemi, a partire da quelli di comunicazione, tra il personale sanitario e i miei genitori.
Finché si è trattato di fare un percorso di psicomotricità le cose hanno funzionato: ho conquistato la postura eretta e sono riuscito a mantenerla anche se con tanta fatica.
La fisioterapista era una signora veramente gradevole, Elisa, la ricordo ancora. È stata lei ad insegnare ai miei genitori quali movimenti potevano essermi più utili per mantenere l’equilibrio e con queste indicazioni, loro e le mie sorelle, misero in piedi una serie di giochi, percorsi, gimcane da fare a casa sul tappetone di salotto. Era bellissimo giocare tutti insieme, vedere che tutti tifavano per me, ma anche si divertivano davvero. Io e le mie sorelle facevamo sia i partecipanti alla gara che gli ostacoli e era un appuntamento davvero gioioso che attendevo tutte le sere, pronto ad impegnarmi, a faticare per poi sentirmi gratificato da nuove conquiste, sottolineate dall’allegria generale. Le mie sorelle erano quelle che ci davano dentro più di tutti, magari contente anche loro di non dover star dietro sempre e solo al lavoro scolastico quando erano in casa. Io mi sentivo importante, davanti
55 Comune in provincia di Pisa.
56 IRCCS Fondazione Stella Maris - Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, località
ai miei esercizi non passava niente, nessuna attività dell’organizzazione domestica poteva porli in secondo piano.
In questo stesso periodo ho iniziato l’esperienza dell’asilo nido. Un luogo magico, vicino a casa dove mi sono sempre sentito bene.
L’inserimento è durato il tempo minimo necessario per conoscere le educatrici e gli ambienti. In questa fase non mi sentivo tanto diverso, perché anche gli altri bambini giocavano parecchio per conto proprio.
La mia attività preferita era quella della stanza di psicomotricità, forse perché ero allenato e facevo la mia figura. La maestra preferita era Letizia, ma anche le altre erano OK!.
Al nido facevo progressi, ero felice di andarci, quindi i miei genitori chiesero che fossi trattenuto un altro anno per acquisire maggiore coordinazione e sicurezza di movimento grazie alle attività specifiche previste da questo tipo di scuola.
Insegnanti d’accordo, ASL livornese no, pazienza; ho frequentato per un altro anno il nido.
Siamo alla fine del 1989 e da qui cominciano a nascere i primi dubbi dei miei genitori sul percorso riabilitativo.
Le sedute di psicomotricità vennero sospese per dare spazio all’osservazione della logopedista e della psicoterapeuta.
Il mio caso si è rivelato più tosto del previsto, perché non riuscivano ad incasellarmi dietro nessuna etichetta. Avevo i legamenti lassi, ma mangiavo da solo, riuscivo ad avvitare e svitare i tappini delle bottiglie dell’acqua e, cosa ancor più grave, avevo iniziato a salire e scendere le scale!
“Queste cose però le riferiscono i genitori, saranno vere? Speriamo di no, altrimenti andiamo fuori dalla letteratura sull’argomento”, sembravano pensare i medici.
La situazione poi si è ulteriormente alterata quando anche le insegnanti hanno confermato queste mie prime acquisizioni non conformi alla patologia, che continuava a non avere un nome. Ed è così che ho iniziato il mio percorso di persona con doppio canale ambientale: uno a casa, a scuola, con gli amici, in parrocchia dove tutti mi conoscevano, dove ero considerato semplicemente un bimbo e come tale venivo trattato; l’altro in ambito sanitario, dove ero considerato il problema di turno che non si riusciva a definire, ma che non si poteva dire di non comprendere forse per timore di diminuire la fama del luogo.
Era maggio 1990 quando, dopo aver deciso di chiudere l’esperienza Stella Maris, i miei genitori presero contatto con il centro di neuropsichiatria infantile dell’asl livornese.
Solita trafila, osservazioni, controlli, le solite domande e le solite risposte che ho dovuto udire dalla voce dei medici e dei miei genitori.
Tra i nuovi personaggi, la mia preferita era una dottoressa, penso la responsabile, che quasi tutti, a partire dal personale subalterno, avevano in antipatia.
Era una biondina esile e vivace, con due occhi grandi, anche troppo, un po’ sporgenti, con poco trucco. Era sempre vestita molto bene, con un gusto spiccato nell’abbinamento dei colori, aveva un’aria sicura di sé, e questo mi tranquillizzava molto, inoltre portava il camice aperto e svolazzante come un mantello e proprio questo suo stile finto casual la rendeva ai miei occhi meno “medica”.
A me piaceva anche perché faceva richieste con frasi brevi, chiare, a bassa voce e se io non ero capace di eseguirle provava un’altra modalità. In questo modo riuscivo spesso ad avere successo.
Ma ahimè, dopo un po’ di incontri la dottoressa introdusse una terapista che avrebbe dovuto proseguire, poi aggiornare e impostare nel tempo il mio percorso riabilitativo. La dottoressa che a me piaceva non poteva più farmi neanche da supervisore, perché a lei competeva la direzione generale del reparto.
Risultato del cambiamento: la nuova dottoressa, alla quale fui assegnato senza possibilità di scelta, insieme alla terapista proposero per me un programma un po’ fumoso dove l’unica cosa chiara era l’assenza della fisioterapia, anche sotto forma di psicomotricità.
Non ho ancora capito se questo avvenne perché i miei piedi peggio di così non avrebbero potuto diventare, oppure perché, seppure tra mille goffaggini e impacci, camminavo ormai da solo.
Ora che vedo come funziona la sanità in generale, sono più portato a credere che il motivo fosse squisitamente economico; infatti, come ritardato generico con atteggiamenti autistici, mi fu concesso un percorso di terapia del linguaggio. Perciò credo che la logica sia stata: ha tanto bisogno di esprimersi, sul linguaggio dobbiamo intervenire per forza, non si muove benissimo, è vero, ma tutto non possiamo dare, altrimenti quanto ci costa?
E così ho iniziato, all’interno di quel centro un lungo periodo di incontri bisettimanali (con alcune benefiche interruzioni, tipo quelle estive, delle vacanze scolastiche, delle mancanze varie della terapista…) del quale ricordo soprattutto la noia mortale, soporifera, di un incomprensibile, assurdo per me, gioco dell’oca
che io non volevo fare. Volendo dare un colore a questo ambiente sceglierei senz’altro il grigio topo.
La terapista, donna di età indefinibile, che voleva comunque apparire più giovane, era un tipo talmente comune che fatico a descriverla, una come tante, tranne la bocca, enorme, sempre guarnita con un trucco felliniano, che mi spalancava sul viso quando, a voce altissima, mi diceva” Luca, Lucaaa guarda cosa devi fareeee”. Mamma, che mi accompagnava e da fuori sentiva, dopo un po’ le fece presente che il tono di voce elevato, così come i rumori molesti, mi innervosiva e spesso aveva su di me l’effetto di inibire ogni azione. Niente, miss labbra disse che l’esperta era lei e che le mamme non si dovevano intromettere.
E qui iniziò l’idillio tra mamma Barbara e la terapista perché mamma le rispose: “l’esperta dovrebbe semplicemente ricordare che Luca non ha problemi di udito ma di linguaggio”.
Anni dopo scoprimmo che ero affetto, grazie ad un gene silente all’interno del cromosoma X, da un discreto disordine sensoriale che contemplava anche il fatto che fossi un “iperudito”, per cui le voci troppo alte, i rimbombi e i rumori mi terrorizzavano e provocavano esplosioni nella mia testa che avevano come effetto immediato la totale perdita della già difficile gestione della funzionalità del mio corpo.
Non cambiò assolutamente niente.
Io non collaboravo, non parlavo, non interagivo, quindi per gli operatori del centro non capivo. Ma, dal momento che ahimè ero molto tranquillo, decisero di perdere tempo con me fino all’età di dieci anni.
A casa il clima era buono fintanto che i miei genitori non dovevano confrontarsi con il personale del centro, compresa la nuova dottoressa che disse di doversi fidare della terapista, perché era lei che “lavorava” regolarmente e continuativamente con me.
Credo di poter affermare che i servizi socio-sanitari sono quelli che più di tutti hanno creato problemi a me e alla mia famiglia.
Fortunatamente in ambito scolastico, prima alla materna e poi alle elementari, l’ambiente era bello, ricco di esperienze, per me all’inizio un po’ difficili, sempre vissute in un clima favorevole, con adulti positivi e meravigliosi compagni, che mi hanno aiutato a superare i momenti più difficili seguendo i suggerimenti derivanti dall’esperienza fatta dai miei genitori: evitare rumori improvvisi, situazioni caotiche e rumorose, favorire sempre la mia partecipazione alle attività della classe, utilizzare musica e immagini significative come canali privilegiati per favorire l’attenzione e l’apprendimento.
Della scuola elementare ho un ricordo indelebile.
Ho potuto contare su un gruppo di persone che, non so per quale combinazione astrale, si sono trovate insieme, contemporaneamente, capaci di caricarsi a vicenda, e questo ha fatto sì che mi caricassi anch’io che in quell’esperienza ero immerso.
Eravamo due classi con quattro insegnanti, tre donne e un uomo. Tra loro si trovava il mio insegnante di sostegno, ma io e i miei amici abbiamo capito il suo ruolo specifico quando ormai questo ciclo scolastico era al termine.
Le tre maestre erano così diverse tra loro da permettere a tutti gli alunni, anch’essi tanto diversi tra loro, di trovarsene almeno una su misura.
Pieranna, maestra a righe57, una bella signora bruna con occhi scuri e penetranti, con una linea sinuosa molto gradevole ai miei occhi, si è sempre mostrata autorevole e contemporaneamente affettuosa. In qualunque punto della classe mi trovassi, riuscivo sempre a incrociare fugacemente il suo incoraggiante sguardo; si metteva subito allo scoperto grazie alla sua personalità vulcanica, al suo modo di proporti qualunque compito come qualcosa di assolutamente possibile per le tue capacità; alla fine succedeva che davvero acquistavi familiarità con argomenti inizialmente sconosciuti ed estranei.
Maria Elisa longilinea, bionda e con gli occhi verdi, è sempre stata presente nella vita della mia famiglia, perché lei e suo marito, Paolo, erano amici dei miei genitori fin da ragazzi.
Con lei, fin dalla prima classe facevamo soprattutto osservazioni scientifiche, e devo dire che nessun altro, in seguito, mi ha insegnato ad osservare, classificare, catalogare tutto ciò che di naturale o artificiale ci circonda in modo così esperienziale. È da allora che ho iniziato a capire che non tutto il mondo circostante è ostile: bisogna osservare, distinguere e scegliere cosa può essere utile e cosa no.
Ad una prima impressione Maria Elisa poteva apparire un po’ fredda e distaccata, ma quando si mascherava a carnevale per fare scherzi a tutti, dando libera espressione alla sua verve creativa, oppure quando ci insegnava le canzoni, la trovavo magica.
Marisa, maestra a quadretti58, era la mia preferita.
57 Insegnante di lingua italiana. 58 Insegnante di aritmetica e geometria.