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Effetti delle variazioni di temperatura sulla resilienza del biofilm di costa rocciosa

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Academic year: 2021

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C

ORSO DI

L

AUREA

M

AGISTRALE IN

S

CIENZE

A

MBIENTALI

Effetti della variazione di temperatura

sulla resilienza del biofilm di costa rocciosa

Relatore: Prof. Lisandro Benedetti Cecchi Controrelatore: Prof. Fabio Bulleri

Correlatore: Dott. Luca Rindi

Candidato:

Roberto Vecchio

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Sommario:

1. INTRODUZIONE ... 3

1.1 Effetti delle modificazioni della variabilità ... 5

1.1.1 Cambiamenti climatici ed effetti della variabilità ambientale sui popolamenti ... 5

1.1.2 Variabilità ambientale e non linearità nella risposta degli organismi alle condizioni ambientali .... 8

1.2 Modalità di risposta degli ecosistemi ai disturbi: relazioni tra biodiversità e resilienza ... 10

1.3 Scopo della tesi ... 13

2. MATERIALI E METODI ... 14

2.1 Area di studio ... 15

2.2 Biofilm ... 16

2.3 Disegno sperimentale ... 18

2.4 Raccolta dati ... 20

2.5 Analisi dei dati ... 26

3. RISULTATI ... 28

3.1 Temperatura dell’aria ... 29

3.2 Clorofilla a ... 31

3.3 Dark yield ... 34

3.4 Light yield ... 37

3.5 Controlli vs controlli artefatto... 40

4. CONCLUSIONI ... 41

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3

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4 La variabilità dei processi ecologici, come la temperatura,

l’apporto di nutrienti o l’erbivoria, può modificare profondamente la struttura e il funzionamento di un ecosistema alterandone la capacità di rispondere alle perturbazioni (resilienza) (Sterk et al., 2013). Tutto ciò assume particolare rilevanza alla luce dei cambiamenti climatici in atto (IPCC, 2014). I cambiamenti nell’intensità e nella varianza dei processi climatici possono modificare la diversità degli ecosistemi, influenzando mortalità, crescita e reclutamento degli organismi che li compongono (Anthony et al., 2011). Con il termine anglosassone legacy effects si definiscono quegli effetti che persistono su un popolamento anche dopo che le modificazioni hanno cessato le loro azioni (Cuddington, 2011; Dal Bello, Rindi, & Benedetti-Cecchi, 2017). Nonostante il notevole sforzo di ricerca diretto a comprendere l'impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità e il funzionamento degli ecosistemi (Doney et al., 2012), l’influenza delle condizioni passate è stata raramente presa in considerazione, soprattutto negli studi di tipo sperimentale (Jentsch, Kreyling, & Beierkuhnlein, 2007). In particolare, visto l’aumento della variabilità delle condizioni climatiche e la maggiore frequenza di eventi estremi degli ultimi decenni, appare chiaro come sia importante porre attenzione agli effetti che queste modificazioni possano avere sull’abilità di un sistema di rispondere alle perturbazioni future (Thornton, Ericksen, Herrero, & Challinor, 2014).

I cambiamenti nella variabilità climatica e degli eventi estremi possono essere visualizzati in relazione ai cambiamenti nelle distribuzioni di frequenza (Fig. 1). Il pannello superiore mostra uno spostamento dell'intera distribuzione verso un clima più caldo (un cambiamento nella media), in questa situazione oltre ad un aumento della temperatura media si registra un aumento degli eventi caldi ritenuti estremi nella precedente distribuzione e una minor frequenza di eventi di freddo da record. Il pannello inferiore mostra un cambiamento nella distribuzione di probabilità della temperatura che conserva il valore medio, ma presenta un aumento nella varianza: in media, la temperatura è la stessa ma gli eventi agli estremi della curva tendono a presentarsi con maggiore frequenza.

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Figura 1.1 Differenti cambiamenti di temperatura tra il clima presente e

futuro e i loro effetti sui valori estremi delle distribuzioni di frequenza: (a) Effetti di un semplice spostamento della distribuzione normale verso un clima più caldo; (b) effetti dell'aumento della variabilità della temperatura senza un cambiamento nella media.

1.1 Effetti delle modificazioni della variabilità

1.1.1 Cambiamenti climatici ed effetti della variabilità ambientale sui popolamenti

Sebbene la variabilità ambientale svolga un ruolo fondamentale nell’influenzare la distribuzione degli organismi e la struttura dei popolamenti, molti studiosi indagarono i meccanismi ecologici tenendo solo in considerazione che ad una modificazione della varianza corrispondesse sempre anche una modificazione del valore medio (Hanski, 1987; Hurlbert 1990; McArdle et al., 1990; Perry and Woiwod, 1992; Gaston and Mcardle, 1993; McArdle and Gaston, 1993; Memmott, Craze, Waser, & Price, 2007; Woodward et al., 2010).).

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6 Furono solo in pochi a pensare alla varianza delle variabili ambientali

come indipendente dal modificarsi del loro valor medio, attribuendo quindi alla varianza di un fenomeno un ruolo centrale nei processi ecologici (Butler, 1989; Benedetti-Cecchi, 2001).

Oggi il problema dell’aumento della variabilità dei processi che influiscono sugli ecosistemi è maggiormente investigato rispetto al passato; in particolare negli ultimi anni in letteratura si riscontra un aumento degli studi che investigano sugli effetti dell’aumento della variabilità climatica sugli ecosistemi dovuta al cambiamento climatico (Hillebrand et al., 2018; Seddon, Macias-Fauria, Long, Benz, & Willis, 2016). Diversi studi hanno evidenziato che la variabilità delle condizioni ambientali può regolare la struttura e il funzionamento delle comunità (P. L. Chesson & Warner, 1981). Essa infatti può influenzare il reclutamento, la fotosintesi, la produttività primaria, il flusso di CO2,

con conseguenze di lungo termine sulle comunità e sugli ecosistemi (Knapp et al., 2002). Ad esempio, è stato osservato che l’effetto congiunto della modificazione della frequenza di predazione e della densità di due specie di gasteropodi (Nucella canaliculata e N.

emarginata) su popolamenti composti da mitili e cirripedi (Mytilus trossulus, Mytilus californianus, Semibalanus cariosus e Pollicipes polymerus) produce effetti diversi rispetto alla modificazione della sola

densità dei predatori o della sola frequenza di predazione. In generale, la predazione a media e bassa frequenza temporale produce composizioni comunitarie diverse da quelle osservate in un regime di predazione costante o in caso di assenza di predatore. Sia la capacità di alcune prede di sfuggire ai predatori raggiungendo maggiori dimensioni, sia i pattern temporali del reclutamento delle prede, sembrano importanti nel determinare l'effetto della variabilità temporale della predazione su ciascuna specie (Navarrkte & Menge, 1996).

Benedetti Cecchi et. al. (2005) hanno osservato che la modificazione nella densità degli erbivori (Patella aspera e Patella

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7 generando pattern di recupero eterogenei nelle alghe delle pozze di

marea. I risultati hanno mostrato che differenze elevate nella copertura algale tra le pozze erano associate a livelli elevati nella varianza spaziale nella densità di patelle. Inoltre, dallo studio è emerso che i cambiamenti nella densità media e nella varianza spaziale dei pascolatori influenzano in modo interattivo la variabilità spaziale della copertura algale.

Anche la variabilità dei fattori abiotici può influenzare la struttura delle comunità biologiche. Un esempio è dato dallo studio di Collins (2000) sugli effetti della frequenza degli incendi sulle praterie del Kansas. Dai risultati dello studio è emerso come nonostante l’effetto degli incendi riducesse il recupero della vegetazione alla condizione pre-disturbata, l’aumento della frequenza degli incendi ha portato ad una intensificazione delle fluttuazioni annuali nella composizione delle popolazioni associate alla prateria (ortotteri e piccoli mammiferi).

Cambiamenti nell’intensità di un processo nel tempo e/o nello spazio possono alterare la composizione dei popolamenti (Navarrete & Menge, 1996) La variabilità ambientale può quindi esercitare un duplice ruolo: da un lato un’elevata variabilità può ridurre la diversità aumentando il rischio di estinzioni stocastiche, dall’altro la variabilità ambientale può promuovere la biodiversità favorendo specie diverse in momenti diversi, riducendo così la probabilità di esclusione competitiva (“Storage effect”; Chesson e Huntly, 1997; Shea et al., 2004; P. Chesson, 1994, 2000). Lo storage effect si basa su tre assunti (Vázquez, Gianoli, Morris, & Bozinovic, 2017): 1) le specie devono avere una sorta di capacità di "stoccaggio" per persistere in periodi sfavorevoli, come una banca dei semi o fasi di quiescenza (ad es. spore); 2) le specie devono avere risposte specie-specifiche all'ambiente, ovvero devono rispondere in maniera differente alle fluttuazioni ambientali; 3) infine, la competizione intraspecifica deve co-variare in funzione delle condizioni ambientali, in modo che la competizione sia maggiore nei periodi con condizioni favorevoli. Shurin et al. (2010) hanno studiato come la ricchezza delle specie di zooplancton nei laghi sia associata alla variabilità nell’ambiente fisico e chimico. Tale studio

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8 ha evidenziato che il numero di specie di zooplancton presenti nei laghi

è strettamente correlato al grado di variabilità nell’ambiente fisico e chimico, nonché alle condizioni ambientali medie sperimentate nel tempo. Nei laghi che mostravano maggiori fluttuazioni nelle condizioni chimiche è stato osservato un numero minore di specie di zooplancton, mentre la variabilità della temperatura è risultata positivamente correlata con la ricchezza di specie.

1.1.2 Variabilità ambientale e non linearità nella risposta degli organismi alle condizioni ambientali

Gli studi sui possibili scenari futuri del clima terrestre indicano chiaramente che i fenomeni legati al cambiamento climatico odierno tenderanno ad aumentare nei prossimi secoli (Moss et al., 2010); inoltre

questi fenomeni hanno già influenzato fortemente gli ecosistemi marini (Henson et al., 2017). Le variazioni delle temperature sono sicuramente uno degli aspetti principi del cambiamento climatico. Le modalità con il quale si manifestano queste variazioni sono: l’aumento della temperatura media e l’aumento dei fenomeni estremi di temperatura (giorni estremamente caldi, notti tropicali, ondate di calore) (IPCC, 2014). Alla luce delle modalità con cui si manifesta il cambiamento climatico (Seddon et al., 2016) e dell’importanza della variabilità dei fenomeni di disturbo sugli organismi, per testare l’effetto delle variazioni di temperature sugli ecosistemi e sulla loro capacità di rispondere alle perturbazioni, è necessario suddividere gli effetti di aumento della temperatura media dagli effetti di aumento della variabilità (Benedetti-Cecchi, 2003). La maggioranza della ricerca in campo ecologico si è concentrata sullo studio degli effetti dell’aumento delle temperature medie sugli ecosistemi (Mieszkowska et al., 2006). Solo pochi studi hanno investigato gli effetti prodotti dalle modificazioni della varianza della temperature (Vázquez et al., 2017). Le variazioni di temperatura influiscono su vari processi fisiologici degli organismi, dal danneggiamento delle proteine, alla fluidità delle membrane alla funzione degli organi (Somero, 2002). Anche se l’influenza della temperatura sugli organismi varia a seconda

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9 delle specie, spesso gli organismi vivono vicini alle loro soglie di

tolleranza; proprio per questo, un aumento di temperatura può influire negativamente sulle funzioni e la sopravvivenza degli organismi (Harley et al., 2006).Uno dei principali meccanismi attraverso il quale la performance di un organismo è influenzata dalla variabilità ambientale è la non linearità che caratterizza la maggior parte delle risposte fisiologiche ai diversi fattori ambientali (Ruel and Ayres, 1999). Ad esempio, le Temperature Performance Curves (TPC) (Fig. 1) che caratterizzano la relazione tra un tratto vitale di un organismo (a.e. accrescimento) e la temperatura, sono generalmente caratterizzate da un aumento esponenziale a basse temperature, un graduale aumento fino al picco della temperatura ottimale, seguito da un rapido declino delle performance ad alte temperature. In ambienti termicamente variabili la non linearità delle TPC conduce a effetti sulla performance differenti a seconda che la fluttuazione sia al di sopra o al di sotto dell’optimum.

Figura 1.2: Temperature Performance Curves (TPC) and Jensen inequality

Questo effetto è riconducibile a un fenomeno conosciuto con il nome di Jensen’s inequality (Jensen, 1906). La Jensen’s inequality

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10 afferma che, per le funzioni non lineari quali le TPC, la performance di

un organismo in condizioni costanti non equivale alle performance in condizioni variabili dove la variabile ha la stessa media. L’entità (e il segno) della differenza tra la performance in condizioni costanti e la

performance in condizioni variabili è una misura dell’effetto dovuto

alla varianza (effetto della varianza). Di conseguenza, il grado di curvatura della TPC attorno al valore medio della variabile e l’ampiezza dell’intervallo di valori determinano la performance complessiva

1.2 Modalità di risposta degli ecosistemi ai disturbi:

relazioni tra biodiversità e resilienza

La stabilità ecologica è un concetto multidimensionale che incorpora diverse proprietà delle dinamiche di un sistema e permette di sintetizzare la sua capacità di rispondere alle perturbazioni (Donohue et al., 2016). Pimm (1993) ha identificato cinque componenti di stabilità ecologica che sono di uso comune. La stabilità asintotica è una misura che descrive un sistema che ritorna asintoticamente al suo punto di equilibrio a seguito di piccole perturbazioni. La variabilità, l'inverso della stabilità, calcolato come il coefficiente di variazione di una variabile nel tempo o nello spazio. La persistenza, che comprende il periodo di tempo in cui un sistema mantiene lo stesso stato prima di un cambiamento. Viene spesso usata come misura della suscettibilità dei sistemi all'invasione di nuove specie o alla perdita di specie native (Donohue et al., 2016). La resistenza è il discostamento nella variabile di stato di un sistema, rispetto alla condizione non-disturbata, misurato subito dopo una perturbazione. La resilienza è la velocità con cui un sistema ritorna al suo stato precedente alla condizione non-disturbata. Spesso questa metrica viene misurata come il reciproco del tempo impiegato ad un sistema per ritornare alla condizione non-disturbata. I sistemi con tempi di ritorno più brevi (più veloci) sono più resilienti di quelli che con tempi di recupero più lunghi.

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11 La resilienza però è un concetto che presenta molte e diverse

definizioni nei diversi campi scientifici (Hassink, 2010; Rutter, 2012). In ecologia, il concetto di resilienza proposto da Pimm (1993), (denominato "resilienza ingegneristica"; Holling, 1996), è stato ampliato da Holling attraverso il concetto di "resilienza ecologica", che riconosce più stati stabili e la capacità dei sistemi di resistere ai cambiamenti di regime e di mantenere le funzioni, potenzialmente attraverso la riorganizzazione interna (cioè la loro "capacità adattiva"; S. Murphy, 2012). I due concetti di resilienza possono essere visualizzati attraverso il celebre esempio di “ball in a cup” (Fig 1.3) in cui il sistema è rappresentato dalla palla, che ha come stato ottimale il fondo della coppa. Quando il sistema viene disturbato, ovvero la palla viene spostata dal fondo della coppa, tornerà verso lo stato ottimale (resilienza ingegneristica); in alternativa se il disturbo supera una certa soglia (treshold) e se il sistema possiede capacità riorganizzativa la palla si sposterà verso un nuovo stato di equilibrio (resilienza ecologica)

Figura 1.3 Il concetto di resilienza ingegneristica (a sinistra) e di resilienza

ecologica (a destra). La palla rappresenta il sistema che viene spostato dalle perturbazioni. Il fondo della coppa rappresenta il punto di equilibrio a cui tende a ritornare il sistema dopo un evento di disturbo. L’inclinazione dei bordi della coppa rappresenta la velocità del sistema nel tornare al punto di equilibrio. Nel caso della resilienza ecologica troviamo uno stato soglia (treshold) oltre il quale il sistema passa ad uno stato alternativo.

Le recenti definizioni di resilienza comprendono aspetti sia di recupero che di resistenza, anche se possono essere supportati da differenti meccanismi e in alcuni casi potrebbero avere relazioni inverse (MacGillivray & Grime, 2006).

Un numero crescente di studi sperimentali rivela effetti stabilizzanti della diversità sui singoli componenti della stabilità. In

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12 particolare, una maggiore diversità spesso - ma non sempre - riduce la

variabilità temporale della produzione di biomassa (Isbell et al., 2015). Gli effetti positivi della diversità sulla resistenza sono comuni (David Tilman, 2012), sebbene essa possa esercitare sia effetti neutri che negativi (Pfisterer & Schmid, 2002) sulla resistenza e la resilienza di una comunità.

Un aspetto che influisce su diversi aspetti della stabilità di una comunità è la diversità funzionale; ovvero il range e il valore di quei tratti, di organismi o specie, che influenzano il funzionamento di un ecosistema (Tilman, 2013). Le risposte tendono ad essere più efficienti quando più specie svolgono funzioni simili (cioè, le specie mostrano una certa ridondanza nei loro contributi ai processi degli ecosistemi); la resistenza di un ecosistema sarà maggiore se queste specie hanno anche risposte diverse alle perturbazioni ambientali (Yachi & Loreau, 1999).

Figura 1.4 la presenza di ridondanza funzionale (caso A) fa si che la

rimozione di una specie non influisca sulle funzionalità dell’ecosistema come nel caso in cui un’unica specie presenti determinati tratti funzionali (caso B).

L'importanza della diversità funzionale, della ridondanza funzionale e della diversità delle risposte ai disturbi è stato evidenziato in uno studio sulle specie erbacee dei pascoli australiani (Walker, Kinzig, & Langridge, 1999). La diversità funzionale aumenta le prestazioni della comunità vegetale nel suo complesso, riunendo specie che prendono acqua da diverse profondità, crescono a velocità diverse, immagazzinano quantità diverse di carbonio e sostanze nutritive. La

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13 ridondanza funzionale e la diversità di risposta consentono alla

comunità di mantenere le proprie funzioni ecosistemiche anche di fronte a stress e disturbi come il pascolo e la siccità.

1.3 Scopo della tesi

Il presente lavoro di tesi ha avuto come scopo la valutazione degli effetti dei cambiamenti nella variabilità temporale della temperatura sul microphytobenthos epilitico (MPBE) di costa rocciosa (da qui in avanti denominato per semplicità biofilm). In particolare, è stata valutata l’ipotesi secondo cui la capacità di recupero del biofilm (resilienza) in seguito a una perturbazione (shocks di temperatura) è maggiore se precedentemente esso è esposto ad un regime di condizioni variabili piuttosto che ad uno costante.

Lo studio è stato condotto tra maggio e settembre del 2018 lungo la costa rocciosa di Calafuria, a sud di Livorno. L’aumento della temperatura dell’aria è stato ottenuto tramite l’utilizzo di camere in alluminio equipaggiate con stufe a butano (camere riscaldanti). Il disegno sperimentale ha previsto l’allestimento di quattro sequenze temporali secondo le quali i trattamenti di riscaldamento sono stati applicati: una costante e tre variabili. Queste ultime hanno uguale varianza, ma differiscono nei valori di temperatura applicati a ciascuna data di trattamento. Ciò ha permesso di separare l’effetto della varianza da quello della sequenza con la quale i riscaldamenti sono stati applicati. Inoltre, la temperatura media era la medesima (12 °C) per ciascuna sequenza temporale. Al fine di valutare la capacità di recupero del biofilm nei diversi regimi temporali (costante vs variabile), alle unità sperimentali sono stati applicati, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, due shocks termici di 60 °C ciascuno.

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2.1 Area di studio

La località di Calafuria (43°28’ N, 10 °20’ E), è stata oggetto di indagine su un tratto di costa lungo circa 200 m (Fig. 2.2). La composizione della costa è arenarica (Bracci et al., 1984) ed è comunemente correlata al Macigno oligocenico della Falda Toscana. La sua natura fa sì che la costa sia soggetta ad estesi fenomeni di erosione, i quali le conferiscono un aspetto frastagliato e ricco di insenature e cavità (Fig. 2.1).

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Figura 2.2 sito di studio

Lo studio è stato realizzato nella fascia alta della battigia (1-1,5 m sul Livello Medio di Bassa Marea, LMBM). A tale altezza sulla costa i popolamenti sono caratterizzati da una scarsa presenza macroalgale. Le popolazioni di EMPB di Calafuria comprendono prevalentemente cianobatteri e diatomee (Maggi et al., 2017). A questa altezza sulla riva, i principali pascolatori sono gasteropodi littorinidi Melarhaphe

neritoides, che si aggregano nelle fessure della roccia quando il

substrato è secco e vanno alla ricerca di cibo quando il substrato si inumidisce ad opera della pioggia o dei moti ondosi (Dal Bello et al., 2017).

2.2 Biofilm

In molti sistemi acquatici spesso i microrganismi vivono in una matrice organica formata da sostanze polimeriche extracellulari (extracellular polimeric substances, EPS) prodotte dal loro

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17 metabolismo (Stall, 2011). Formando una matrice EPS, i microrganismi

possono creare un ambiente stabile e condizioni ottimali per la crescita (Decho, 2000). All’interno di questa matrice vivono vari microrganismi, quali microalghe, batteri, funghi e spore di macroalghe. La componente autotrofa del biofilm è denominata microfitobentos (microphytobenthos, con termine anglosassone; MPB). Il microphytobenthos epilitico (EMPB) che forma il biofilm sulle coste rocciose è presente in tutto il mondo e consiste principalmente di organismi fotosintetici, come diatomee, cianobatteri, spore e germogli di macroalghe (Hill e Hawkins, 1991).

Dal punto di vista della distribuzione temporale il biofilm di costa rocciosa presenta una marcata stagionalità, con un aumento della biomassa durante il periodo autunnale fino al raggiungimento del picco durante l’inverno, per poi diminuire durante la primavera fino a al picco minimo in estate (Hill & Hawkins, 1991). Per quanto riguarda invece la distribuzione spaziale si è osservata una maggiore abbondanza di MPB nella fascia bassa della battigia e nelle aree maggiormente esposte al moto ondoso (Underwood, 1984; Thompson et al., 2005). Inoltre in uno studio di Hutchinson et al. (2006) viene dimostrato come la distribuzione spaziale a piccola scala del biofilm sia legata all'interazione tra il pascolo di diverse specie di molluschi e la rugosità della superficie rocciosa.

Per testare gli effetti dell’aumento delle temperature e dell’aumento della variabilità dei fenomeni sugli ecosistemi di costa rocciosa l’EMPB risulta particolarmente adatto per vari motivi. Per prima cosa è facilmente manipolabile sul campo ed è il risultato dell'attività di organismi in rapida crescita che consentono una risposta rapida a molteplici perturbazioni (Dal Bello et al., 2017). Inoltre l’EMPB ha un ruolo particolarmente importante sulle coste rocciose in quanto contribuisce in modo significativo alla produttività primaria (Yallop et al., 1994). Infine l’ambiente in cui vive l’EMPB è estremamente variabile e naturalmente sottoposto a stress termici (Helmut, 2006).

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2.3 Disegno sperimentale

Nello studio sono state incluse 27 unità sperimentali (plots), che consistevano in porzioni di roccia di 40 x 30 cm colonizzate da biofilm. Le unità sperimentali sono state marcate agli angoli per poterle rilocalizzare nel corso dell’esperimento.

Lo studio era costituito di due fasi. Una prima fase, in cui parte delle unità sperimentali sono state trattate secondo quattro sequenze temporali: una regolare, che ha previsto che la temperatura venisse innalzata di 12°C ad ogni data di trattamento, e tre variabili, in cui la temperatura applicata a ciascuna data differiva da quelle delle altre date. Le tre sequenze variabili differivano da quella regolare per la varianza della temperatura, ma non per la temperatura media applicata durante il periodo di studio. Le sequenze irregolari hanno invece un uguale valore positivo di varianza, ma differiscono fra loro per la temperatura applicata allo scopo di non confondere l’effetto della varianza di per sé con quello prodotto dalla particolare distribuzione degli eventi di disturbo durante il corso dell’esperimento. Nella seconda parte dell’esperimento si è voluto valutare la capacità di recupero del biofilm nei diversi trattamenti seguito a eventi estremi di temperatura. Ad esclusione di 7 unità sperimentali sono stati applicati, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, due shocks termici di 60 °C ciascuno. Sono stati selezionati, inoltre, 3 plots come controllo artefatto, per quanto riguarda l’utilizzo di camere riscaldanti, e 4 di controllo che non hanno mai ricevuto il trattamento di riscaldamento.

Il livello d’intensità del pulse di temperatura è definito facendo riferimento ad una serie temporale di temperature nell’area di studio in cui sono state registrate temperature superiori a 60°C. Queste temperature, infatti, rappresentano eventi estremi che hanno una bassa probabilità di verificarsi (Dal Bello et al., 2017).

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Figura 2.3 disegno sperimentale

L’aumento della temperatura dell’aria è stato ottenuto mediante l’utilizzo di camere in alluminio equipaggiate con stufe a butano (camere riscaldanti) (Fig. 2.4). Le camere avevano le seguenti dimensioni: larghezza 0,4 m x lunghezza 0,4 m x altezza 0,4 m. Un foro circolare presente su uno dei lati permetteva di assicurare la stufa alla camera e di mantenerla ad un’altezza di circa 10 – 15 cm dal substrato, mentre una finestra, dotata di uno sportellino, sul lato opposto, consentiva ad un operatore di modulare la temperatura interna. Il trattamento di riscaldamento, pertanto, consisteva nel mantenere per 70 minuti la differenza di temperatura dell’aria tra l’interno della camera e l’esterno (T) ad un valore il più vicino possibile al valore nominale del trattamento (a.e. +5°C).

Durante il trattamento la temperatura dell’aria all’interno e all’esterno della camera è stata costantemente monitorata attraverso l’utilizzo di termometri digitali e registrata ad intervalli regolari di un minuto grazie a data logger digitali (Fig. 2.5; "FT-800/System Micro registratore di Temperatura”). Ne sono posizionati due all’interno della camera e due all’esterno, di cui uno sul terreno ed uno sollevato da terra. Dato che la struttura stessa delle camere poteva generare degli artefatti, alterando ad esempio il livello di irradianza, 3 unità sperimentali sono state assegnate alla condizione controllo artefatto (CA) che consisteva in una scatola di cartone, con dimensioni analoghe a quelle delle camere riscaldanti, non equipaggiate con la stufa a butano (Dal Bello et al., 2017).

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Figura 2.4. Camera d’alluminio con stufa a butano e termometro digitale

Figura 2.5 termometro a bottone FT-800

2.4 Raccolta dati

La risposta del biofilm ai trattamenti sperimentali è stata valutata per tre variabili di risposta: la biomassa, l’efficienza fotosintetica (yield)

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21 misurata in condizioni di buio e l’efficienza fotosintetica misurata in

condizioni di luce.

Le stime di biomassa del biofilm sono state ottenute mediante misure indirette in situ della quantità̀ di clorofilla a presente, tramite una tecnica di remote sensing (R. J. Murphy & Underwood, 2006; R. J. Murphy, Underwood, & Jackson, 2009) che prevede l'utilizzo di una fotocamera digitale a infrarossi. La fotocamera usata (Agriculture Digital Camera TETRACAM, ADC) è in grado di acquisire immagini multispettrali, cioè la radianza viene misurata in più intervalli dello spettro elettromagnetico, ovvero verde (525-575 nm), rosso (645-689 nm) e Near-InfraRed (NIR, 758-833 nm) (R. J. Murphy et al., 2009; Richard J. Murphy, Underwood, & Pinkerton, 2006). Ciascun plot è stato inizialmente fotografato più volte utilizzando diverse modalità di esposizione. Durante la fase di acquisizione delle immagini, l’utilizzo di un distanziatore (60 cm) ha permesso la perpendicolarità dell’immagine rispetto al substrato e l’acquisizione di immagini per aree di uguale grandezza. L’effetto delle diverse condizioni di illuminazione e la modifica delle impostazioni di esposizione durante l’acquisizione delle immagini sono stati compensati attraverso l’uso di uno standard di reflettanza (spectralon ®) con una superficie Lambertiana (cioè in grado di riflettere omogeneamente la luce in tutte le direzioni). La fotocamera utilizzata acquisisce le immagini in formato RAW, per l’analisi esse sono state quindi convertite in file TIF, tramite il software grafico PixelWrench 2 (TETRACAM). Mediante l’utilizzo del software grafico ImageJ, sono stati quindi calcolati i valori dell’Indice Vegetazionale (e successivamente stimate le concentrazioni di chl a per unità di superficie) per ciascuna delle repliche. A tale scopo è stata implementata una MACRO in linguaggio Java.

Gli Indici Vegetazionali (IV) sintetizzano le informazioni presenti nelle immagini multispettrali in un unico valore, così da evidenziare la presenza di organismi autotrofi e normalizzare gli effetti provocati dal suolo e dai cambiamenti atmosferici. L'indice è in genere una somma, una differenza, un rapporto o un'altra combinazione lineare di fattori di reflettanza o osservazioni di radianza da due o più intervalli

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22 di lunghezza d'onda. (Wiegand, Richardson, Escobar, & Gerbermann,

1991). Gli IV si basano sulle diverse caratteristiche spettrali possedute dalle diverse componenti del sistema di studio. Il primo e più comune indice vegetazionale è basato sul rapporto tra la riflettanza nella banda del NIR (Near Infra-Red) e la riflettanza prodotta nella banda del rosso (RVI Rational Vegetation Index; Jordan, 1969). Tale IV si basa sulla capacità della clorofilla di riflettere nella banda del NIR e di assorbire nella banda del rosso; ciò significa che all’aumentare della quantità di clorofilla aumenterà il valore dell’RVI.

La prima fase di analisi delle immagini è consistita nella calibrazione di ciascuna fotografia utilizzando lo standard di riflettanza. Per confrontare le immagini acquisite in condizioni di luce diverse e i tempi di integrazione della telecamera è stato necessario calibrare le immagini di ciascuna fotografia utilizzando lo standard di riflettanza spectratlon®. I valori dei pixel (numero digitale; ND) sono stati normalizzati rispetto allo standard di calibrazione e la riflettanza (q) per ciascuna banda in ciascuna immagine è stata calcolata con la formula:

𝜌(𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒) =𝑁𝐷(𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒)𝜌(𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑑) 𝑁𝐷(𝑠𝑡𝑎𝑛𝑑𝑎𝑟𝑑)

Dove:

ρ(immagine) = riflettanza di ogni pixel

ρ(standard) = riflettanza dello standard (costante)

ND(immagine) = numero digitale di ciascun pixel dell’immagine ND(standard) = media dei numeri digitali di ciascun pixel dello standard di riflettanza (R. J. Murphy & Underwood, 2006)

Per l’estrazione dei valori di clorofilla a partire dai valori di RVI si fatto riferimento a i precedenti studi condotti sulla stessa area e sugli stessi organismi (Dal Bello et al., 2015).

Le stime della quantità di clorofilla per le diverse repliche sono state ottenute utilizzando la relazione lineare tra RVI e μg chl a/cm2:

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23 I campionamenti con la macchina infrarosso sono stati effettuati

dopo circa 7-10 giorni dall’applicazione del trattamento.

L’attività fotosintetica del MPB epilitico è stata ottenuta tramite l’utilizzo di un Diving-PAM. Attraverso questo strumento è possibile ottenere dati specifici della fotosintesi (sull'efficienza operativa di fotosistema II, PSII), in modo non invasivo e praticamente istantaneo (João Serôdio, Vieira, & Barroso, 2007). Il PAM è uno strumento in grado di separare il segnale prodotto dalla fluorescenza del MPB epilitico dal segnale prodotto dalla luce actinica.

Quando una molecola di clorofilla assorbe la luce, viene promossa dal suo stato fondamentale al suo stato eccitato. La condizione eccitata della molecola ha tre destini principali (Fig. 2.6; Baker, 2008):

1. L’energia viene trasferita ad un'altra molecola di clorofilla mediante il trasferimento di energia di risonanza di Förster, in questo modo l'eccitazione viene gradualmente trasferita ai centri di reazione fotochimica (fotosistema I e fotosistema II) in cui l'energia viene utilizzata nella fotosintesi (chiamata

photochemical quenching);

2. Lo stato eccitato può tornare allo stato fondamentale emettendo l'energia sotto forma di calore (chiamata

non-photochemical quenching),

3. Lo stato eccitato può tornare allo stato fondamentale emettendo un fotone (fluorescenza).

(24)

24

Figura 2.6 i tre destini della condizione eccitata della molecola

La fluorescenza, reazioni fotochimiche ed emissione di calore sono un segnale dell’uso dell’energia assorbita dai sistemi antenna dell’apparato fotosintetico. La diminuzione di fluorescenza è detta quenching ed il quencher è la molecola di plastochinone accettrice di elettroni nella catena di trasporto plastidiale (L. Lazzara et al., 2010).

La fluorescenza dipende dallo stato di ossidazione del

quencher: infatti, quando il plastochinone è in forma ossidata, il centro

di reazione è aperto, assorbe un fotone e poi si ossida cedendo un elettrone al quencher. Il centro di reazione quindi viene chiuso e non in grado di assorbire i fotoni. La fluorescenza dunque è massima (Fm) se

tutti i centri di reazione hanno il plastochinone ridotto ed è minima (F0)

se il plastochinone è ossidato. La fluorescenza minima può essere ottenuta tenendo il campione per qualche minuto in assenza di luce; l’adattamento di un campione al buio provoca l’apertura di tutti centri di reazione, in questo caso l’energia che raggiunge i centri di reazione ha la massima probabilità di essere utilizzata per i processi fotochimici e la minima probabilità di essere dissipata sotto forma di calore o fluorescenza. Attraverso il PAM viene attivato un impulso luminoso saturante che provoca la chiusura di tutti i centri di reazione, l’energia dissipata sotto forma di fluorescenza in questo caso sarà massima (Fm).

(25)

25 Nel caso in cui il campione sia adattato alla luce, la fluorescenza

misurata prima dell’impulso saturante (F’, fluorescenza variabile) è maggiore della F0 e minore dell’Fm; questo perché i centri di reazione

sono chiusi in parte a causa della luce attinica. Allo stesso modo dopo l’emissione dell’impulso saturante (fluorescenza massima alla luce, F’m) la fluorescenza sarà minore dell’Fm; questo perché parte

dell’energia non viene convertita in fluorescenza (Fig 2.7)

Figura 2.7 Efficienza fotosintetica al buio ed alla luce

Attraverso studi di laboratorio, Serodio et al. (1997) hanno dimostrato come vi sia una relazione lineare tra la fluorescenza minima F0 e la quantità di clorofilla a.

La misura della fluorescenza minima dopo adattamento al buio di 5 minuti permette di stimare l’efficienza fotosintetica secondo la formula: (Fm− F05)/F05 (dark yield) che rappresenta la massima

efficienza fotosintetica dei centri di reazione dei fotosistemi II (PSII) e del biofilm. Invece il rapporto (F’m− F’)/F’m è definito light yield è

stato invece utilizzato per stimare l’efficienza fotosintetica del biofilm alla luce. Tale stima fornisce informazioni sull’efficienza con cui viene utilizzata la luce attinica per il processo fotosintetico nelle condizioni ambientali in cui viene misurata senza alcun preadattamento (Genty, Briantais, & Baker, 1989). Una variazione di tali indici può essere indice “stress” del fotosistema II; infatti entrambi possono essere

(26)

26 misure dell’efficienza del PSII, ma il light yield è particolarmente

dipendente dai livelli di luce nell’ambiente in cui viene effettuata la misurazione e può variare sostanzialmente con ogni piccolo cambio nella radiazione fotosintetica attiva (Murchie & Lawson, 2013).

Le misurazioni di fluorescenza minima e di light yield sono state prese pochi giorni dopo ogni trattamento e in seguito ai due pulse a 60 °C per 4 volte a distanza di circa 10-15 giorni l’una dall’altra. In ciascuna data le misurazioni di dark yield e di light yield sono state effettuate nelle stesse ore della mattinata, con 3 misurazioni per il primo dato e 6 per il secondo. Per le misurazioni al buio (F05) sono stati utilizzati dei ritagli di gommapiuma intorno ai clipper necessari per la misurazione

2.5 Analisi dei dati

I dati relativi all’efficienza fotosintetica e alla quantità di clorofilla sono stati analizzati attraverso un’analisi della varianza ANOVA, con un design BACI (before/after and control /impact; Underwood, 1992). Il relativo modello lineare è il seguente:

𝑌𝑖𝑗𝑘𝑟 = 𝜇 + 𝑇𝑟𝑖+ 𝐵𝐴𝑗+ 𝐷(𝐵𝐴)𝑘(𝑗)+ 𝑇𝑟 × 𝐵𝐴𝑖𝑗 + 𝑇𝑟 × 𝐷(𝐵𝐴)𝑖𝑘(𝑗) + 𝜀𝑟(𝑖𝑗𝑘)

µ rappresenta la media parametrica su cui è centrata la distribuzione di frequenza della variabile dipendente.

BA è il fattore Before/After, ovvero prima e dopo il “pulse”, è fisso a 2 livelli. D(BA) è il fattore data, random e gerarchizzato in BA. Tr è il fattore trattamento, fisso a 6 livelli: riscaldamento costante, riscaldamento variabile, suddiviso a sua volta in tre pattern differenti di riscaldamento, OPH (only pulse heated), controllo ortogonale ai fattori data e Before/After.

Affinché possa essere condotta un’analisi di tipo BACI sono necessarie due assunzioni: 1) che i dati siano indipendenti rispetto al

(27)

27 tempo, ovvero ogni misurazione non sia correlata con precedenti

misurazioni sullo stesso plot. Questo si ottiene misurando clorofilla e yield (dark e light) in punti selezionati randomicamente all’interno del plot. 2) l’esperimento deve essere bilanciato tra prima e dopo l’impatto, ovvero vi deve essere lo stesso numero di repliche prima e dopo di esso (Underwood, 1992). L’assunzione di omogeneità della varianza è stata esaminata tramite il test C di Cochran. Nei casi in cui le varianze non siano risultate omogenee, i dati sono stati sottoposti ad opportune trasformazioni.

Al fine di valutare le ipotesi del nostro esperimento sono stati applicati dei contrasti tra i diversi trattamenti sperimentali. Per valutare l’effetto “globale” del riscaldamento, i controlli non manipolati sono stati comparati a tutti i trattamenti in cui è stata manipolata la temperatura (“Controllo vs Riscaldati”). L’effetto del regime temporale di temperatura, regolare vs variabile, è stato esaminato contrastando tra loro il trattamento regolare e quello variabile, tenendo in considerazione la sequenza (“regolare vs variabile”). Per valutare l’effetto della “storia” del riscaldamento sono stati comparati i plots a cui è stato modificato regime termico (“regolare+variabile”) con i plots che hanno subito solo i pulse di temperatura (“History vs no-History”). Inoltre, sono state analizzate le interazioni tra i suddetti contrasti con i fattori before-after (BA) e con il fattore data D(BA). L’analisi è stata condotta utilizzando il pacchetto GAD versione 1.1.1 del software R.

(28)

28

(29)

29

3.1 Temperatura dell’aria

L’analisi della varianza ha evidenziato che l’innalzamento medio di temperatura (∆T) non differisce nei diversi trattamenti (Tab. 3.1 A, Fig. 3.1). Al contrario, la deviazione standard (DS) del ∆T risulta essere significativamente maggiore nello scenario “Variabile” rispetto al quello “Regolare” (Regolare vs Variabile; F = 35,945 p < 0.001 Tab. 3.1 B Fig. 3.1). Mentre non sono emerse differenze significative tra le sequenze variabili (“Tra sequenze variabili” F = 0,395 p > 0,05; Tab. 3.1 B, Fig. 3.1). La Figura 3.2 mostra le serie temporali di temperatura nei diversi trattamenti sperimentali.

Tabella 3.1 A) Risultati dell’ANOVA relativa all’innalzamento medio

di temperatura B) e della deviazione standard nei diversi trattamenti. * p < 0,05, ** p < 0,01, *** p < 0,001

A

B

Sorgente di

variabilità g.d.l Devianze Varianze F P

Tra trattamenti 3 9,486 3,282 0,203 0,8936 Regolare vs variabile 1 1,100 1,100 0,068 0,7944 Tra sequenze variabili 2 8,746 4,373 0,271 0,7629 Residuo 92 1482,7 16,116 Sorgente di

variabilità g.d.l Devianze Varianze F P

Tra trattamenti 3 26,296 8,765 12,246 8,2×10 -7*** Regolare vs variabile 1 25,728 25,728 35,945 3,93×10 -8*** Tra sequenze variabili 2 0,566 0,283 0,395 0,67 Residuo 12 8,589 16,116

(30)

30

Figura 3.2 Serie temporali della temperatura dell’aria nei due trattamenti:

Regolare e Variabile. La linea verde chiaro mostra la temperatura dell’aria all’esterno delle camere riscaldanti. Le temperature al giorno 80 e 84 sono quelle relative ai “pulse” di temperatura.

Figura 3.1 In figura, a sinistra troviamo la media delle

temperature in tutti e 4 trattamenti 3 variabili e 1 costante, a destra la deviazione standard dei 3 trattamenti.

(31)

31

3.2 Clorofilla a

Dall’analisi BACI è emerso un effetto del riscaldamento significativo sulla clorofilla a (Controllo vs Riscaldato F =12,1267 p < 0,01; Tab. 3.2 e Fig. 3.3). In particolare essa è risultata maggiore nei controlli riguardo ai plots che hanno subito il trattamento di riscaldamento. L’analisi ha, inoltre, mostrato un effetto significativo della “storia” del disturbo (“History vs no-History”; F = 59,0253 e p < 0,001, Tab. 3.2, Fig. 3.3). La clorofilla a appare, infatti, maggiore nei

plot che hanno subito un precedente riscaldamento rispetto a quelli che

hanno subito solo il “pulse” di temperatura (Fig. 3.3).

Tabella 3.2 Risultati del’analisi BACI sulla clorofilla a. * p < 0,05, ** p < 0,01,

*** p < 0,001

Sorgente di variabilità g.d.l Devianze Varianze F p

Trattamento = Tri 5 29,0110 5,8022 14,0331 0.0000 *** Controllo vs riscaldato 1 5,0140 5,0140 12,1267 0,0015 **

History vs No history 1 24,4050 24,4050 59,0253 0,0000 *** Regolare vs Variabile 1 0,1070 0,1070 0,2588 0,6147

Tra sequenze variabili 2 2,8690 1,4345 3,4694 0,0441 * Prima vs. dopo = BAj 1 53,3880 53,3880 8,1915 0,0287 *

Tr × BAij 5 6,7690 1,3538 3,2743 0,0678

Controllo vs riscaldato × BA 1 0,3700 0,3700 0,8949 0,3517 History vs No history × BA 1 0,0230 0,0230 0,0556 0,8151 Regolare vs Variabile × BA 1 3,2450 3,2450 2,1099 0,2835 Tra sequenze variabili × BA 2 3,0760 1,5380 3,7198 0,0560

Date(BA)=D(BA)k 6 39,1050 6,5175 6,1842 0,0000 ***

Tr × D(BA) 30 12,4040 0.4135 0,3923 0,9981 Controllo vs riscaldato ×D (BA) 6 1,2100 0,2017 0,1914 0,9788 History vs No history ×D(BA) 6 0,5920 0,0987 0,0936 0,9969 Regolare vs Variabile × D(BA) 6 2,4440 0,4073 0,3865 0,8867 Tra sequenze variabili × D(BA) 12 7,9380 0,6615 06277 0,8160

Residuo 144 151,7600 1,0539 -

(32)

32

Figura 3.3 clorofilla a (Media ±1ES) nei diversi trattamenti.

Figura 3.4 Serie temporali della clorofilla a nei tre trattamenti: Regolare,

Variabile e controllo, nel periodo precedente all’imposizione dei pulse di temperatura.

(33)

33

Figura 3.5 Serie temporali della clorofilla a nei 4 trattamenti: Regolare,

Variabile, Controllo e i plot che hanno ricevuto solo i pulse nel periodo seguente all’imposizione dei pulse di temperatura.

(34)

34

3.3 Dark yield

Dall’analisi BACI emergono differenze significative tra l’effetto dei (Tr), in particolare per il contrasto “History vs No history” (Tab. 3.3; Fig. 3.6). Come possiamo notare infatti dalla Fig. 3.6, l’efficienza fotosintetica in seguito ad adattamento al buio (dark yield) è maggiore nei plot che non hanno subito riscaldamenti. L’analisi evidenzia inoltre una differenza significativa nell’efficienza fotosintetica al buio tra il “prima” e il “dopo” (“BA”; F = 0,0073 p < 0,01, Tab. 3.3). L’efficienza risulta essere in media maggiore nel periodo successivo all’imposizione dei pulse di temperatura (“dopo”) che nel periodo precedente (“prima”) (Fig. 3.8). Una significativa variabilità nella biomassa è stata riscontrata tra le diverse date di campionamento (D(BA); F = 3,6633, p < 0,001, Tab. 3.3, Fig. 3.7 e 3.8).

Tabella 3.3 Risultati delle analisi tramite design BACI sull’efficienza

fotosintetica al buio. * p < 0,05, ** p < 0,01, *** p < 0,001.

Sorgente di variabilità g.d.l Devianze Varianze F p

Trattamento = Tri 5 0,0839 0,0168 3,4478 0.0110 * Controllo vs riscaldato 1 0,0104 0,0104 2,1263 0,1526

History vs No history 1 0,0754 0,0754 15,4905 0,0003 *** Regolare vs Variabile 1 0,0010 0,0010 0,2034 0,6544

Tra sequenze variabili 2 0,0052 0,0026 0,5372 0,5885

Prima vs. dopo = BAj 1 0,3219 0,3219 12,7234 0,0073 **

Tr × BAij 5 0,0438 0,0088 1,8013 0,1346

Controllo vs riscaldato × BA 1 0,0001 0,0001 0,0103 0,9198 History vs No history × BA 1 0,0066 0,0066 1,3539 0,2515 Regolare vs Variabile × BA 1 0,0080 0,0080 0,5441 0,5375

Tra sequenze variabili × BA 2 0,0292 0,0146 3,0015 0,0610 . Date(BA)=D(BA)k 8 0,2024 0,0253 3,6633 0,0006 *** Tr × D(BA) 40 0,1947 0.0049 0,7049 0,9042

Controllo vs riscaldato ×D(BA) 8 0.0367 0,0046 0,6641 0,7226 History vs No history ×D(BA) 8 0,0479 0,0060 0,8678 0,5448 Regolare vs Variabile × D(BA) 8 0,0632 0,0079 1,1447 0,3356 Tra sequenze variabili × D(BA) 16 0,0481 0,0030 0,4351 0,9714

Residuo 180 1,2430 0,0069 -

(35)

35 Sebbene l’analisi non abbia rilevato una differenza significativa,

il grafico in Fig. 3.6 indica una minore efficienza fotosintetica al buio nei plot che hanno subito il riscaldamento rispetto a quelli che non lo hanno subito.

Figura 3.6 Efficienza fotosintetica al buio nei diversi trattamenti

(36)

36

Figura 3.7 Serie temporali dell’efficienza fotosintetica al buio nei tre

trattamenti: Regolare, Variabile e controllo, nel periodo precedente all’imposizione dei pulse di temperatura.

Figura 3.8 Serie temporali dell’efficienza fotosintetica al buio nei tre

trattamenti: Regolare, Variabile, controlli e quelli che hanno ricevuto solo il pulse nel periodo successivo all’imposizione dei pulse di temperatura

(37)

37

3.4 Light yield

L’analisi BACI (Tab. 3.4) ha mostrato come non vi sia un effetto dei trattamenti (Tr) sull’efficienza fotosintetica alla luce (light yield) (Fig. 3.9). Questa, infatti risulta essere in media maggiore nel periodo successivo all’imposizione dei pulse di temperatura (“dopo”) che nel periodo precedente (“prima”) (Fig. 3.9 e 3.10). Anche nel caso del light

yield c’è una significatività del fattore data (D(BA)), ma questo non

interagisce con l’effetto dei trattamenti (Fig. 3.12 e 3.13).

Tabella 3.4 Risultati delle analisi tramite design BACI sull’efficienza

fotosintetica alla luce. * p < 0,05, ** p < 0,01, *** p < 0,001

Sorgente di variabilità g.d.l Devianze Varianze F p

Trattamento = Tri 5 0,0246 0,0049 1,3120 0,2785

Controllo vs riscaldato 1 0,0048 0,0048 1,2853 0,2637 History vs No history 1 0,0102 0,0102 2,7200 0,1069 Regolare vs Variabile 1 0,0000 0,0000 0,0027 0,9591 Tra sequenze variabili 2 0,0119 0,0059 1,5813 0,2183 Prima vs. dopo = BAj 1 0,3621 0,3621 1,4784 0,2587

Tr × BAij 5 0,0615 0,0123 3,2773 0,0742 Controllo vs riscaldato × BA 1 0,0196 0,0196 5,2187 0,0977 History vs No history × BA 1 0,0016 0,0016 0,4320 0,5148 Regolare vs Variabile × BA 1 0,0113 0,0113 0,7384 0,4807 Tra sequenze variabili × BA 2 0,0305 0,0152 4,0627 0,0848

Date(BA)=D(BA)k 8 1,9594 0,2449 54,4740 0,0000 ***

Tr × D(BA) 40 0,1500 0,0038 0,8341 0,7471 Controllo vs riscaldato ×D (BA) 8 0,0080 0,0010 0,2235 0,9863 History vs No history ×D(BA) 8 0,0475 0,0059 1,3203 0,2359 Regolare vs Variabile × D(BA) 8 0,0451 0,0056 1,2533 0,2708 Tra sequenze variabili × D(BA) 16 0,0487 0,0030 0,6766 0,8147

Residuo 180 0,8093 0,0045 -

(38)

38

Figura 3.9 Efficienza fotosintetica alla luce nei diversi trattamenti

(39)

39

Figura 3.10 Serie temporali del efficienza fotosintetica alla luce nei tre

trattamenti: Regolare, Variabile e Controllo, nel periodo precedente all’imposizione dei pulse di temperatura.

Figura 3.11 Serie temporali dell’efficienza fotosintetica alla luce nei tre

trattamenti: Regolare, Variabile, Controlli e quelli che hanno ricevuto solo il pulse nel periodo successivo all’imposizione dei pulse di temperatura

(40)

40

3.5 Controlli vs controlli artefatto

L’analisi su controlli e controlli artefatto (Tabb. 3.5, 3.6, 3.7) non ha evidenziato alcun effetto significativo dovuto alla presenza delle camere riscaldanti per nessuna delle tre variabili di risposta analizzate.

Tabella 3.5 Risultati dell’ANOVA su controlli e controlli artefatto per la

clorofilla a.* p < 0,05, ** p < 0,01, *** p < 0,001

Tabella 2.6 Risultati dell’ANOVA su controlli e controlli artefatto per

l’efficienza fotosintetica al buio.* p < 0,05, ** p < 0,01, *** p < 0,001

Tabella 3.7 Risultati dell’ANOVA su controlli e controlli artefatto per

l’efficienza fotosintetica alla luce.* p < 0,05, ** p < 0,01, *** p < 0,001

Figura 4.12 istogrammi dei valori medi di controlli artefatto e controlli per le

variabili di risposta: biomassa (A), efficienza fotosintetica al buio(B), efficienza fotosintetica alla luce(C)

Sorgente di

variabilità g.d.l Devianze Varianze F P

Cont vs CA 1 2.897 28974 0.948 0.3347

Residuo 52 158.929 3.0563

Sorgente di

variabilità g.d.l Devianze Varianze F P

Cont vs CA 1 0.02014 0.0201426 2.8617 0.09558

Residuo 64 0.45048 0.0070388

Sorgente di

variabilità g.d.l Devianze Varianze F P

Cont vs CA 1 0.00253 0.0025284 0.1979 0.658

(41)

41

(42)

42 Il presente lavoro di tesi ha avuto come scopo la valutazione

degli effetti dei cambiamenti nella variabilità temporale della temperatura sul biofilm di costa rocciosa. In particolare, è stata valutata l’ipotesi secondo cui la capacità di recupero del biofilm in seguito a una perturbazione (pulse di temperatura) sia maggiore se precedentemente esso è esposto ad un regime variabile piuttosto che ad uno costante.

I risultati di questo studio evidenziano l’importanza della “storia” del disturbo sulla risposta del biofilm all’incidenza di eventi estremi di temperatura (pulse di temperatura) e come il riscaldamento nel alteri il funzionamento, in termini di efficienza fotosintetica e di produzione di clorofilla a (Fig. 3.3, 3.6 e 3.9). La quantità di chl a è risultata maggiore nei plot esposti a precedenti disturbi, indipendente dal livello di variabilità temporale, rispetto ai plot non riscaldati (History vs No-History). Mentre, l’efficienza fotosintetica in seguito ad adattamento al buio (dark yield), ha mostrato un andamento opposto, ovvero i plot con una precedente storia di disturbo mostravano una minore efficienza fotosintetica rispetto a quelli che non l’avevano ricevuta.

La relazione inversa tra chl a e dark yield può riflettere un meccanismo di resistenza in risposta agli stress di tipo termico (Behrenfeld et al., 2016; Geider, 1987). Il dark yield è una misura dell’efficienza fotosintetica del fotosistema II (PSII). Il fotosistema II è considerato uno dei componenti più termosensibili dell'apparato fotosintetico (Berry & Bjorkman, 1980; Srivastava, Guissé, Greppin, & Strasser, 1997), ma le sue reazioni allo stress di calore e la sua capacità di acclimatazione variano a seconda degli organismi (es. cianobatteri, monocotiledoni, dicotiledoni, ecc.; Baker & Rosenqvist, 2004; Janka, Körner, Rosenqvist, & Ottosen, 2013).Nelle piante superiori, in seguito all’esposizione a temperature elevate, sono stati riscontrati danni al complesso di ossidazione dell’acqua, al centro di reazione del PSII e alle proteine accessorie (light harvester) che permettono una maggiore raccolta della luce da parte del PSII (Salvucci, 2002). Altri studi, inoltre, hanno dimostrato come l'inattivazione di PSII ad opera del calore è dovuta principalmente alla dissociazione di cationi Ca2+ e Mn2+ e

(43)

43 dell’anione Cl- dal complesso proteine-pigmenti PSII (Berry &

Bjorkman, 1980; Havaux, 1993; Wise, Olson, Schrader, & Sharkey, 2004). L’effetto del danneggiamento del PS II ad opera del calore, quindi, influenza le misure di “dark yield” abbassando i loro valori rispetto alle misure effettuate sui plot non riscaldati (Yang, Rhodes, & Joly, 1996). Al contrario del PSII, l’attività del fotosistema I (PSI) risulta stimolata ad alte temperature (Mathur, Agrawal, & Jajoo, 2014); questo potrebbe far aumentare la produzione di clorofilla a. Infatti l’aumento dell’attività del PSI provoca uno sbilanciamento dell’attività dei due fotosistemi (Pastenes & Horton, 2016) e una continua ossidazione del pool del plastochinone (Pfannschmidt & Yang, 2012). Alcuni studi affermano come lo stato di ossidoriduzione del plastochinone possa fungere da segnale per la biosintesi di delle molecole necessarie per il ribilanciamento nel funzionamento dei due fotosistemi, tra cui anche la clorofilla a (Escoubas, Lomas, LaRoche, & Falkowski, 2006; Pfannschmidt & Yang, 2012). Come sottolineato da Behrenfeld et al. (2016) nei suoi studi sul fitoplankton, una modificazione nella quantità di clorofilla a misurata può talvolta non riflettere una modificazione nell’abbondanza del fitoplankton, infatti questi microorganismi tendono ad aumentare diminiurire la produzione di tale pigmento in risposta a diversi tipi di stress (ad esempio: fotoacclimatazione, calore e mancanza di nutrienti ). In sintesi, un’aumento di temperatura può causare una riduzione dell’efficienza carico del PSII, mentre al contrario l’efficienza del PSI ne risulta stimolata; per controbilanciare questo squilibrio tra fotosistemi viene stimolata la produzione di vari tipi di molecole tra cui clorofilla a.

I risultati ottenuti sottolineano quanto i trattamenti applicati sul biofilm abbiano influenzato le funzionalità di questi organismi, ad eccezione del light yield, che sembra non aver mostrato una chiara risposta ai trattamenti. Il light yield è fortemente influenzato dalle condizioni nelle quali viene effettuata la misura (Murchie & Lawson, 2013) e solitamente i cambiamenti di questa variabile in seguito a shocks termici o di luce permangono per pochi giorni o addirittura per poche ore (Torzillo & Vonshak, 1994). I campionamenti sono stati

(44)

44 effettuati una settimana dopo l’applicazione dei riscaldamenti e durante

questo lasso di tempo eventuali cambiamenti nel light yield sono “svaniti” e non sono perdurati fino al momento del campionamento.

Tutte e tre le variabili di risposta misurate risultano essere in media maggiori nel dopo il “pulse” piuttosto che nel prima (Fig. 3.5, 3.8, 3.11). L’aumento di biomassa e dell’efficienza fotosintetica al buio è stato già osservato in altri studi sul biofilm di Calafuria e rientrerebbe nella normale stagionalità di questi organismi (Maggi et al., 2017; Sanz-Lázaro, Rindi, Maggi, Dal Bello, & Benedetti-Cecchi, 2015).

Dai risultati si nota come per la biomassa vi sia una differenza significativa tra le tre sequenze variabili (Tab. 3.2). Questo probabilmente implica che fosse necessario avere un numero maggiore di repliche per le serie variabili, in quanto le temperature imposte per le tre serie risultano essere pressochè identiche per media e deviazione standard (tabella 3.1 A, B).

Dal momento che non sono state riscontrate differenze tra i due regimi di disturbo, l’ipotesi secondo cui il regime variabile di temperatura, riespetto al regime regolare, avrebbe favorito specie maggiormente termotolleranti, che a loro volta, avrebbero reso il biofilm maggiormente resistente alle perturbazioni, non è stata supportata. È emerso invece un andamento, sebbene non significativo, dovuto alla storia del disturbo in generale, e come essa sia in grado di modificare la capacità del biofilm di rispondere alle perturbazioni. In particolare, i plots esposti solo ai pulse di temperatura (No-History) sono risultati maggiormente impattati dall’estremi di temperatura, rispetto a quelli che hanno subito un trattamento di riscaldamento (Regolare e Variabile) (Figg. 3.6; 3.9). Questo risultato suggersice che il riscaldatemnto, indipendentemente dal suo regime temporale, abbia causato un cambiamento nelle struttura della comunità, che ha favoriro specie maggiormente termotolleranti; che a loro volta, hanno conferito al biofilm una maggiore resistenza ai pulse di temperatura.

Già precedenti studi sulle comunità microbiche hanno sottolineato come l’effetto di shock di temperature possa avere effetti mitigati su batteri precedentemente esposti a stress termici rispetto a

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45 quelli non trattati, in particolare come le comunità pretrattate siano

caratterizzate da recuperi più repentini (Jurburg et al., 2017). Uno studio precedente sul biofilm di costa rocciosa ha evidenziato una severa riduzione di chl a in seguito all’applicazione ad estremi di temperatura (Dal Bello et al. 2017). Questo evidenzia come la storia dei disturbo possa modulare la risposta dei popolamenti agli eventi estremi di temperatura e come questa reazione possa anche avere direzione opposta rispetto agli stessi organismi che non hanno ricevuto gli stessi disturbi

In conclusione, il mio lavoro di tesi evidenzia l’importanza della temperatura come principale driver del funzionamento e della struttura del biofilm di costa rocciosa e come la storia del disturbo possa alterare la capacità dei popolamenti di rispondere alle perturbazioni future.

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47 Anthony, K. R. N., Maynard, J. A., Diaz-Pulido, G., Mumby, P. J., Marshall, P. A., Cao, L., & Hoegh-Guldberg, O. (2011). Ocean acidification and warming will lower coral reef resilience. Global Change Biology. https://doi.org/10.1111/j.1365-2486.2010.02364.x

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