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Attorno al Mediterraneo

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Academic year: 2021

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daniela ciampoli

marco marseglia

Attorno al

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Il testo affronta il rapporto tra design, artigianato, luoghi e persone

che divengono attori principali di un progetto che si pone l’obbiettivo di

ridare identità ad un luogo, il Mediterraneo, fin dall’antichità portatore

di conoscenze, traghettatore di scambi e contaminazioni, attraverso

gli oggetti rappresentanti della cultura materiale e caratterizzati

spes-so da un forte carattere simbolico.

I lavori presentati nel libro si sviluppano nell’ambito del progetto

“Svi-luppo dei Saperi Artigianali Tradizionali e Integrazione dei Sistemi

Pro-duttivi in Marocco e in Italia”, finanziato dal Programma di Sostegno

alla Cooperazione Regionale – APQ Mediterraneo, Linea 2.1 Marocco e

realizzato e coordinato dalle Regioni Sardegna e Toscana.

Obiettivo primario del progetto è recuperare il patrimonio di

compe-tenze materiali e delle tecniche artigianali locali e allo stesso tempo

valorizzare ed innovare la produzione artigianale, sia nell’ottica di

sal-vaguardare le competenze tradizionali che di accrescerne le possibilità

di mercato. Il progetto ha previsto due workshop: uno in Marocco dove

il lavoro è stato condotto con le artigiane di Ifrane Alì della regione di

Tanger-Tétouan; l’altro in Italia, nel laboratorio del giovane ceramista

Alfredo Quaranta.

La tesi qui esposta si interroga sulla perdita d’identità degli oggetti

dovuta ai molteplici fattori globalizzanti, cercando di restituire alle ‘cose’,

attraverso l’avvicinamento della cultura progettuale, propria del

proget-tista, e quella del fare propria dell’artigiano, la loro valenza simbolica.

La relazione tra design ed artigianato nella contemporaneità è

stretta-mente legata al design per il territorio e quindi alla rinnovata

attenzio-ne per i luoghi, dove appare centrale la figura del desigattenzio-ner come attore

sociale, capace di contribuire sì allo sviluppo territoriale, ma anche alla

coesione sociale ed al miglioramento della qualità della vita.

Marco Marseglia, Bergamo, 1982, designer, Ph.D. in Design, è assegnista di ricer-ca al Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze dove attualmente è docente a contratto per il corso di Applicazioni di Progettazione I al CDL triennale in Disegno Industriale, ed è componente del gruppo di ricerca del Laboratorio di Desi-gn per la Sostenibilità – LDS, DIDA LABS - dove si occupa di desiDesi-gn di prodotto con particolare riferimento alle tematiche ambientali.

Daniela Ciampoli, Grosseto, 1984, designer. Dopo aver svolto attività di ricerca presso il Laboratorio di Design per la Sostenibilità – LDS, DIDA LABS – si dedica all’attività professionale spaziando dal design di prodotto a quello della grafica e della comunicazione con particolare riferimento al packaging design.

ISBN 978-88-3338-032-2

9 788833 380322 ISBN 978-88-3338-032-2

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Barche di pescatori a Oued Laou, Regione di Tanger-Tétouan, Marocco

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Il presente volume è la sintesi della tesi di laurea a cui è stata attribuita la dignità di pubblicazione.

“La tesi affronta la tematica del design per il mediterraneo evidenziando in maniera originale problematiche legate alla società, alla cultura, al linguaggio. I progetti appaiono innovativi dal punto di vista tecnico-formale coniugando solu-zioni estetiche proprie delle due rive del mediterraneo”.

Commissione, Proff.: S. Mecca, M. Ruffilli, V. A. Legnante, F. Tosi, G. Lotti, G. Alfarano, A. Mecacci, E. Benelli Ringraziamenti

Alla Terra, materia prima di questi progetti.

in copertina

Grand Commis de Cusine, pentola per la cottura a vapore o per la preparazione del cous cous.

contributi al testo

Il testo è stato pensato e strutturato insieme dai due autori. Tuttavia si attribuisce a Marco Marseglia la stesura dei capitoli: Introduzione, Attorno al Mediterraneo, Design e Mediterraneo, Design e Artigianato, Design con i sud, Il Progetto, Conclusioni e a Daniela Ciampoli la selezione e la raccolta iconografica.

crediti fotografici

Tutte le foto sono di Marco Marseglia tranne la foto a p. 12, di proprietà dell'archivio fotografico Alinari, e le foto alle pp. 8-9, 17, 51, 53, 54 e 56 di Stefano Visconti.

Stampato su carta di pura cellulosa Fedrigoni Arcoset

didapress

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze via della Mattonaia, 8 Firenze 50121 © 2018

ISBN 9788833380322

progetto grafico

didacommunication lab

Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze Susanna Cerri

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daniela ciampoli

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Mediterraneo, il mare di mezzo tra culture, popoli, continenti. Con l'Italia che è in mezzo al mare di mezzo.

E allora abbiamo davanti due strade.

Guardare ai flussi migratori che ci attraversano come un fenomeno esclusivamente negativo da contrastare e da combattere.

Oppure, nella consapevolezza della reversibilità del fenomeno, porsi nei suoi confronti in maniera proattiva con l'idea di regolamentarlo ma, allo stesso tempo, di coglierne le opportunità a livello di scambio culturale, di sapere, di com-petenze tecniche.

Nel lavoro di questi anni, sposiamo questa seconda opzione con l'obiettivo di capire se, in un tale contesto, il design può giocare, in maniera diretta e quasi programmatica, un ruolo di supporto al modello sociale sopra prefigurato co-me contributo al diffondersi di una società realco-mente interculturale. La risposta è per noi ovviaco-mente affermativa ed è strettamente legata al compito che può svolgere in tale contesto l’Italia. Dallo scambio con persone che provengo-no da altre parti del mondo il provengo-nostro design può trarre nuova linfa, nuovi spunti creativi, nuove capacità produttive e le imprese differenti opportunità di business.

Un lavoro di ricerca e progetto che si presenta come contributo allo scenario sopra prefigurato.

In questa pubblicazione viene presentata la tesi magistrale di Daniela Ciampoli e Marco Marseglia, frutto di due wor-kshop in Italia e in Marocco, esempio e sintesi di un fare progettuale a cavallo tra diverse culture.

Giuseppe Lotti Dipartimento di Architettura Università degli Studi di Firenze

Progetti dal mare di mezzo

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Decorazione su portone, Medina di Marrakech, Marocco

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Introduzione

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Momento di lavorazione dei prototipi, artigiana Fatima Bozekri, Ifrane Alì, Regione di Tanger-Tétouan, Marocco

Recuperare le tradizioni e le abilità tec-niche di un luogo, elaborare nuove for-me di dialogo e conoscenza, promuo-verne il patrimonio ed esaltarne la ric-chezza.

Questi i capisaldi del progetto “Svilup-po dei Saperi Artigianali Tradizionali e Integrazione dei Sistemi Produttivi in Marocco e in Italia”, finanziato dal Pro-gramma di Sostegno alla Cooperazio-ne Regionale — APQ MediterraCooperazio-neo, Li-nea 2.1 Marocco e realizzato dalle Re-gioni Sardegna e Toscana.

Obiettivo primario del progetto è re-cuperare il patrimonio di competenze materiali e delle tecniche artigianali lo-cali e allo stesso tempo valorizzare ed innovare la produzione artigianale lo-cale, sia nell’ottica di salvaguardare le competenze tradizionali che di accre-scerne le possibilità di mercato.

Nello specifico, la Regione Toscana, Di-partimento Competitività del Sistema Regionale e Sviluppo delle Competen-ze, Sviluppo Toscana S.p.A., ha orga-nizzato tre workshop in collaborazione con il CDL magistrale in Design dell'U-niversità degli Studi di Firenze: due in Marocco ed uno in Italia, al fine di rag-giungere gli obbiettivi prefissati dal progetto.

Il progetto di tesi presentato si è svi-luppato in due workshop: uno in Ma-rocco dove il lavoro è stato condotto con le artigiane di Ifrane Alì; l'altro in Italia, nel laboratorio del giovane ce-ramista Alfredo Quaranta, progettan-do insieme a due studenti marocchini dell'Istitut National deux Beaux Arts di Tétouan.

Artigianato e design quindi come atto-ri patto-rincipali di un progetto che si pone

l'obbiettivo di ridare identità ad un luo-go, il Mediterraneo, fin dall'antichità portatore di conoscenze, traghettato-re di scambi e contaminazioni, soprat-tutto attraverso gli oggetti rappresen-tanti della cultura materiale e carat-terizzati spesso da un forte carattere simbolico.

La tesi si interroga sulla perdita d'iden-tità degli oggetti dovuta ai molteplici fattori globalizzanti, cercando di resti-tuire alle 'cose', attraverso l'avvicina-mento della cultura progettuale, pria del progettista, quella del fare pro-pria dell'artigiano, la loro valenza sim-bolica.

La relazione tra design ed artigianato nella contemporaneità è strettamente legata al design per il territorio e quindi alla rinnovata attenzione per i luoghi, dove appare centrale la figura del

de-signer come attore sociale, capace di contribuire sì allo sviluppo territoria-le, ma anche alla coesione sociale ed al miglioramento della qualità della vita.

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“Che cos'è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innu-merevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civil-tà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Medi-terraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sar-degna, le città greche in Sicilia, la pre-senza araba in Spagna, l'Islam tur-co in Jugoslavia. Significa sprofondare nell'abisso dei secoli, fino alle costru-zioni megalitiche di Malta o alle pira-midi d'Egitto. Significa incontrare re-altà antichissime, ancora vive, a fian-co dell'ultramoderno: accanto a Vene-zia nella sua falsa immobilità, l'impo-nente agglomerato industriale di Me-stre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il pesche-reccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere. Significa immer-gersi nell'arcaismo dei mondi insula-ri e nello stesso tempo stupire di fron-te all'estrema giovinezza di città mol-to antiche, aperte a tutti i venti del-la cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare. Tut-to quesTut-to perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo”.

(Braudel F. 2010, Il Mediterraneo: lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizio-ni, Bompiatradizio-ni, Milano, pp. 7-8).

L' espressione Attorno al Mediterra-neo racchiude in sé una molteplicità di significati e messaggi che lasciano spazio a differenti interpretazioni. Mediterraneo è incontro, confronto, talvolta scontro tra popoli, trasmis-sione di saperi, usi e costumi, movi-mento di merci e conoscenze. Il Mediterraneo è traghettatore di scambi e contaminazioni, attraver-so gli oggetti portatori della cultura materiale e immateriale caratterizza-ti sovente da un forte carattere sim-bolico.

Al contempo fattore di unione e di di-visione, dove le distanze geografiche possono sembrare oggi più brevi ri-spetto al passato, è fortemente de-finito da distanze culturali difficili da colmare. Ed è proprio in questo sco-glio che vanno a frangersi tutti i ten-tativi di imposizione di una globaliz-zazione forzata e che mal si conforma alla gente di questo mare.

All’imporsi di diversi aspetti

apparte-nenti alla società dei consumi esisto-no in parallelo risposte che origina-no, consciamente e non, dalle radici di dette civiltà che hanno fatto la sto-ria del Mediterraneo e che continua-mente ne ridefiniscono i confini; con-fini questi solamente politici o lingui-stici, poiché la mescolanza delle genti ha dato origine nel tempo ad un’unica civiltà, quella mediterranea.

È la costante compresenza di fat-tori contrastanti che alimenta e allo stesso tempo custodisce la memoria e tutto ciò che la va a definire, a par-tire dalle tradizioni fino all’artigiana-to dei luoghi. Per mezzo di quest’ul-timo, uomini e donne salvaguardano antiche tipologie di lavorazione, l’i-dentità locale e la collettività stessa, che risulta unita e sempre più spesso a queste identificata; analogamente attraverso forme e in particolare de-corazioni esprimono la propria condi-zione sociale ovvero significano i pro-pri pensieri, le propro-prie emozioni.

Attorno al Mediterraneo

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Forno per la cottura dei manufatti in ceramica, Ifrane Alì, Regione di Tanger-Tétouan, Marocco

“Il Mediterraneo è un orizzonte cul-turale più che un confine geografico, connota un’appartenenza storica più che un territorio definito. È centro di modi di abitare diversi, di circolazio-ne di merci e informazioni; deposito di sedimentazioni storiche, luogo di ma-turazione di nuove culture attraverso una particolare attitudine al sincreti-smo tecnologico; nodo di confluenza di saperi e tradizioni in un corpo stra-tificato e in divenire. Il Mediterraneo è interpretabile secondo Braudel come ‘cicatrice’ tra la cultura occidentale e la cultura orientale. L’identità mediterra-nea è quindi porosità, capacità perfor-mativa di assorbire e rielaborare con-cezioni di vita differenti”.

(La Rocca F. in Fagnoni R., Gambaro P., Vannicola C. (a cura di) 2004, Me-design_forme del Mediterraneo, Ali-nea, Firenze, p. 148).

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È lecito parlare di design mediterraneo associando questo binomio al design per il territorio?

Innanzitutto, come sostengono Maf-fei S. e Villari B. (MafMaf-fei S., Villari B., in Fagnoni R., Gambaro P., Vannicola C. (a cura di), Me.Design_forme del Medi-terraneo, Alinea, Firenze 2004, p. 88), la definizione di design a scala territo-riale è intimamente legata al concetto di dar forma a qualcosa, come del re-sto lo è la definizione classica di desi-gn; in questo caso però la forma non è legata soltanto agli artefatti materia-li, ma comprende in senso più ampio il dar forma a intuizioni, pensieri, cultu-re, saperi e conoscenze che stanno nel territorio e lo caratterizzano.

Pertanto lo scopo di questo approccio progettuale è rendere visibile la specifi-cità territoriale attraverso la definizione di prodotti, servizi e strategie: si han-no quindi da un lato gli artefatti fisici, dall'altro opere di natura immateriale. “Il design che agisce per lo sviluppo lo-cale deve fare riferimento [all'ambien-te in[all'ambien-teso come insieme di risorse eco-nomiche, umane, sociali, fisiche, stori-co-culturali, ambientali] affrontando-ne la natura e i limiti specifici: ciò può essere realizzato attraverso una prima definizione complessiva che può esse-re rintracciata nel concetto dinamico di capitale territoriale” (Maffei S., Vil-lari B., ibidem), intendendo con questo

l'insieme di quei fattori presenti nel territorio, che possono essere conside-rati punti di forza o vincoli, e che vanno a costituirne la ricchezza (attività, pae-saggio, patrimonio, know-how). Oltre al capitale territoriale è di con-seguenza necessario prendere in esa-me il capitale sociale, ovvero l'insieesa-me delle modalità che regolano le relazioni tra individui, imprese e istituzioni. Il design per il territorio implica quindi “un'attività progettuale che ha come fine quello di promuovere processi si-stemici di innovazione (sociale, eco-nomica, tecnologica) attivati a parti-re dalla specificità delle risorse locali [il capitale territoriale e quello sociale] attraverso l'uso di livelli disciplinari dif-ferenti […] e con diversi focus d'azione […]. Il design a scala territoriale può at-tivare perciò molteplici interventi cor-relati a differenti livelli di progetto: lo scopo è sempre quello di migliorare la quantità, l'accessibilità, la distribuzio-ne delle risorse locali, siano esse im-materiali o im-materiali (risorse umane, fisiche, di conoscenza, di relazione) che costituiscono il capitale territoriale” (Maffei S., Villari B., id., p. 89).

Alla base di questa strategia vi è una visione strutturata dell'azione da com-piere da parte del designer che inizia con il rilevare, interpretare e tracciare le caratteristiche del territorio per poi

concepire un'idea di progetto che le va-da ad integrare in un sistema dinami-co, capace di adattarsi continuamen-te a circostanze soggetcontinuamen-te a mutamen-ti conmutamen-tinui.

Il design per il territorio è quindi ricono-scere come oggetto del progetto il ca-pitale territoriale.

Il concetto di design per il territorio e quello di design mediterraneo sono le-gati dal concetto di giacimento, inteso come quel sistema sedimentato com-posto da numerosi fattori correlati e in-teragenti: risorse umane, risorse pro-duttive, forme di governance, modelli culturali, elementi fisico-ambientali e fisico-monumentali che restituiscono le molteplici identità di quel dato terri-torio e che più in generale considera le componenti territoriali direttamente connesse a dei caratteri identificativi. In un contesto tale, quale è quello me-diterraneo, il design ha l'ulteriore com-pito di mantenere stabile il localismo cosmopolita (Manzini E., id., p. 103), in-teso come condizione di equilibrio tra radicamento e apertura, al fine di at-tivare un sistema di configurazione e valorizzazione della relazione prodot-to/contesto/identità.

Come sostiene Cristallo V. (Cristallo V. , id., p. 101) i manufatti locali mediter-ranei si caratterizzano per essere una combinazione di prodotto, contesto e identità dove la progettualità del

de-Design e Mediterraneo

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Brocca decorata a motivi marini, arte minoica, ceramica, Museo di Heraclion, Isola di Creta

sign, inteso come disciplina, può inter-vinire al fine di sistematizzare questa relazione al fine di consolidarne il po-tenziale. Il traguardo che il design per il Mediterraneo deve raggiungere è quello di rendere questa relazione mo-tore di sviluppo per processi di crescita territoriale intimamente legata a fat-tori locali.

Se per Vico Magistretti l'associazione del design, di cui una delle caratteristi-che principali è la produzione in grande numero, al Mediterraneo è vagamente dissonante poiché rimanderebbe ad un design legato al mare o alla navigazio-ne o comunque a un design contraddi-stinto da fatti unici e raramente ripeti-bili a larga scala, per Gillo Dorfles è ne-cessaria all'individuazione di un genius loci che sta alla base di tutto quanto è stato creato nel campo dell'arte appli-cata, dall'antichità ad oggi, in quest'a-rea privilegiata che è il Mediterraneo. Dorfles, a sostegno della sua tesi, cita il grande storico dell'arte Herbert Re-ad, del quale ha sempre contrastato l'opinione “che il design – nella sua ve-ste di ‘product design’, di progettazione per l'industria – debba essere conside-rato come tale solo a partire dall'era in-dustriale, ossia alla fine dell'800, e non confuso con l'artigianato di preceden-ti stagioni […]. [Ciò] non toglie [ripren-dendo Read] che un autentico processo progettuale possa

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es-sere alla base di tutta quanta la gran-de produzione architettonica e artigia-nale sin dall'antichità più remota” (Dor-fles G., id., p. 6).

Dorfles sostiene che è quindi riconosci-bile una specie di peculiarità creativa che accomuna le genti dell'Africa Set-tentrionale, delle penisole greca, ita-liana, iberica, con le sponde dell'Asia Minore e le grandi isole di Sardegna, Sicilia, Creta, Malta e che va a definire una sorta di espressività riconoscibile, scaturita dal susseguirsi di contami-nazioni tra le civilizzazioni presenti nel bacino mediterraneo e gli apporti stra-nieri del Nord e dell'Est.

Questo aspetto è riscontrabile in que-sto Mare che, come sostiene Dalisi R. (in Buono M., Lotti G. 2005, Habitat-med. Cooperazione, contaminazione, cultura materiale come veicolo di svi-luppo, Luciano Editore, Napoli, pp. 22-25) “è stato il grande teatro ove è nata e prosperata in modo ineguagliabile la capacità tecnica e creativa dell'oggetto, del fare spazio umano [ed] un'immen-sa fucina di materiali oltre che di for-me” per cui, come sostiene Braudel F.

(Braudel F., op. cit., 2010, pp. 43-44), fin dall'antichità sulle antiche rotte marine venivano trasportate materie prime per la costruzione di utensili come l'ossidia-na dall'Asia Minore a Cipro, così come dalla Sicilia a Malta, e ancora manufatti e opere d'arte tra cui statue e colonne di marmo e bronzo, chiese ‘prefabbricate’ in marmo e porfido, carichi da oltre tre-mila anfore di vino ed olio.

Ed è proprio in riferimento alle anfore vinarie che Marilia Pederbelli (in Branzi A. 2007, Capire il Design, Giunti Editore Spa, Prato), ci spiega quanto la produ-zione in serie o meglio la realizzaprodu-zione di oggetti con caratteristiche costan-ti, che riproducono un modello iniziale (o archetipo) sia dal punto di vista del-la tecnica che deldel-la forma, abbia radi-ci lontane e più che mai legate al saper fare artigiano locale.

Parlare di ‘locale’ in riferimento a un'a-rea vasta e dai confini labili come quel-la mediterranea, è da intendersi co-me un'individuazione di peculiarità che la rendono identificabile in un'u-nità, quindi in un giacimento. Dal pun-to di vista del design si può parlare di

design mediterraneo come di un desi-gn per il territorio, o desidesi-gn per lo svi-luppo locale, che ha come fine il miglio-ramento del capitale territoriale stesso poiché questo comprende tutte quelle peculiarità che ne vanno a costituire la ricchezza e che, adeguatamente siste-matizzate attraverso la ricerca, condu-cono ad un processo di crescita innova-tivo e valorizzante.

Le prerogative possedute quindi pos-sono ancora permettere a questo ma-re di ‘ripensarsi’ nella contempora-neità, proponendosi come alternati-va al mercato globale, sfuggendo dalla morsa della perdita d'identità in atto a causa della globalizzazione.

In ambito progettuale il tema della perdita di identità e dell’importanza dei luoghi viene evidenziato nel conte-sto design-territorio dall’architetto e storico del design François Burkhardt:

“La condizione postmoderna è innan-zitutto un atteggiamento di fronte al-le perdite di identità subite dalla so-cietà moderna […] il recupero della no-zione di specificità regionale che, sen-za rimettere in causa la tendensen-za all’u-niversalismo, consente una nuova di-scussione attorno al rapporto fra luo-go e storia, fra identità e prodotti, co-me seguito ai segni che comprendono significati propri ad una regione e che servono da legame nel senso di una co-munità. È evidente che questi segni sono sempre esistiti ma che, a causa di lenti meccanismi che cercano di far-li sparire o di ignorarfar-li, sono stati can-cellati negli spiriti, pur essendo fisica-mente presenti. Non si tratta di ripren-dere una discussione sulla conserva-zione dei valori ma piuttosto di asso-ciare culture radicate e nozioni univer-salistiche” (Burkhardt F., in Ugo La Pie-tra (a cura di) 1997, Fatto ad arte. Arti decorative e artigianato, Edizioni della Triennale, Milano, p. 18).

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Cuscini in lana naturale filata e tessuta a mano, Roberta Morittu, Cooperativa Femmes de Casablanca, Casablanca, Marocco

Lampada a sospensione, Younes Duret, Atelier Duret, Marrakech, Marocco

Come sostiene Lotti G. (appunti per-sonali della lezione del 13 ottobre 2011 al CDL Magistrale in Design, UNIFI), si parlerà allora di un design per il terri-torio come “un'opzione culturale che, nel recupero del rapporto con il luogo, riafferma il valore delle identità plura-li, l’importanza del dialogo e, al tempo stesso, un rinnovato legame con la sto-ria, ed ancora una nuova ritualità del fa-re, un simbolismo spesso perduto”. Design Attorno al Mediterraneo signi-fica questo: cercare di recuperare i va-lori, le tradizioni, il saper fare, facendo del design il mediatore tra innovazione e tradizione con l'obiettivo di scaturire processi innovativi.

Il design per il mediterraneo è associa-bile a quello che Zolo D. (in Cassano F. e Zolo D. 2007, Alternativa Mediterranea, Feltrinelli, Milano, pp. 20-21) intende per ‘alternativa mediterranea’.

L'alternativa mediterranea è il tentati-vo di resistere facendo leva su un recu-pero della tradizione e dei valori medi-terranei, valorizzando la cultura dei li-mes, degli dei, delle diverse lingue e ci-viltà, del ‘mare di mezzo’, estraneo

al-la dimensione monista del mondo oc-cidentale.

Design attorno al Mediterraneo è quin-di un design per i territori e con i terri-tori, cui il designer può contribuire al-lo sviluppo di questi, in quanto possie-de i mezzi e le conoscenze teoriche per far dialogare le varie realtà locali e in-trattenere rapporti con i diversi attori del sistema: “[…] chi lavora sulla ricer-ca pura ed appliricer-cata – mondo univer-sitario, strutture private, consulenti di impresa a vario livello –, da una parte, e le competenze presenti sul territo-rio – dall’artigiano a chi opera nel set-tore della comunicazione –, dall’altra” (Legnante E., Lotti G. 2005, Un tavolo a tre gambe, Design/Impresa/Terriro-rio, Alinea Editrice, Firenze, pp. 23-24). Il progetto di tesi comprende tutto que-sto: si è sviluppato all'interno di un pro-gramma molto ampio, con capofila la Regione Sardegna, seguita dalla Regio-ne Toscana – ente Sviluppo Toscana – che si è avvalsa del contributo del mon-do universitario – Facoltà di Architettu-ra di Firenze, CDL MagistArchitettu-rale in Design – al fine di raggiungere gli obbiettivi

pre-fissati: lo sviluppo dei saperi artigianali tradizionali e l'integrazione dei sistemi produttivi in Marocco e in Italia. Come sostiene Fagnoni R. (in Fagno-ni R., Gambaro P., VanFagno-nicola C., op. cit., 2004, p. 220) il design è anche fattore di diversità fra le culture, soprattutto in un mondo globalizzato, fornisce solu-zioni oggettive e funzionali, e solusolu-zioni soggettive, di tipo simbolico, psicologi-co, cioè intrise di un valore determina-to dalla soddisfazione che gli individui traggono dall'uso o dal possesso.

Ed è proprio nella diversità culturale che la disciplina può assumere una fer-ma posizione al fine di ricercare nuovi modelli di sviluppo, nuove metodolo-gie di intervento, anche come contribu-to ad una ridefinizione della stessa che supera la consolidata e convenzionale logica di un design strettamente lega-to all'industria e che va ad abbracciare altre metodologie produttive che re-alizzano artefatti, espressione della cultura materiale e imma-teriale di uno specifico luogo.

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In un progetto di valorizzazione terri-toriale e di riscoperta, promozione e rafforzamento dei saperi di un territo-rio come il Mediterraneo – con tutte le sue diversità –, e in questo caso parti-colare il Marocco, il designer può dare un importante contributo facendo in-teragire sinergicamente tutti gli atto-ri del sistema.

Per ottenere questa sinergia l’inter-vento di design deve perciò tenere con-to della specificità dei luoghi, dell’im-prescindibile presenza di fattori glo-balizzanti, delle tradizioni e risorse del territorio e, non per ultimo, della ca-pacità di recepire stimoli innovativi da parte delle realtà e delle

imprese locali.

Deve inoltre intervenire a salvaguar-dare e valorizzare l’identità territoria-le, in termini di promozione e diffusio-ne dei saperi legati ad aspetti cultura-li ed ambientacultura-li, e quelle piccole produ-zioni locali ed imprese che rischiano di essere annientate dalla globalizzazio-ne, recuperando mestieri e tecniche di lavorazioni tradizionali.

Di fondamentale importanza in tale contesto è il ruolo di designer come at-tore sociale, capace di contribuire allo sviluppo di un territorio ma anche alla coesione sociale e alla qualità della vita di chi abita quel territorio.

Per una maggiore coesione tra il design e le realtà produttive locali c’è bisogno dell’apporto di nuove soluzioni di cui le piccolissime imprese appartenenti a re-altà artigianali spesso vengono a man-care. Il ruolo svolto finora dal design de-ve essere rafforzato, pianificando e pro-grammando i vari interventi possibili: per raggiungere questo obbiettivo il

de-signer deve attuare progetti che opera-no partendo anche da valori sociali, po-sti alla base del progetto, visto che ne-gli ultimi anni ne-gli atteggiamenti di con-sumo si sono progressivamente modi-ficati; molta più attenzione viene data alle tematiche sociali e i comportamen-ti di acquisto risultano meno effimeri ri-spetto al passato, basati su un sistema di valori esistenziali e culturali più pro-fondi e duraturi.

“Nella marea di oggetti che inonda il mondo, domestico o non, pochi ogget-ti sono capaci ancora di stupire, di de-stare quel senso di meraviglia che ri-mane pur sempre lo stimolo della co-noscenza e della ricerca; pochissimi, fra i prodotti di forte identità, possie-dono i caratteri per diventare icone po-polari, prodotti simbolo per il loro con-tenuto estetico e progettuale, per una spiccata personalità. Si tratta di ca-ratteri difficilmente prevedibili, felice espressione di una particolare capaci-tà di esprimersi in un linguaggio chia-ro, ma innanzitutto felice espressione di un'idea, un concetto, inteso come il senso dell'oggetto” (Fagnoni R., ibi-dem).

Il designer deve quindi progettare sce-nari e “oggetti dotati di senso, dunque, con una storia alle spalle che deve es-sere spiegata, raccontata, valorizzata. Come particolare contributo ad una te-matica – quella delle implicazioni eti-che della professione di designer – eti-che negli ultimi tempi, appare sempre più centrale nel dibattito internazionale […] In un tale scenario – che vede come centrali le macro questioni ambienta-li e, più in generale, della sostenibiambienta-lità

– rivendicare il ruolo dei territori (gran-di e piccoli) come espressioni dei sape-ri ma anche di valosape-ri e l’importanza del-le connessioni tra questi e realtà vici-ne e lontavici-ne capaci di attivare percor-si di innovazione appare un contributo al dibattito sul ruolo del design che, più attento al sociale, interviene nel meri-to delle questioni inmeri-torno alla globaliz-zazione” (Legnante E., Lotti G., op. cit., 2005, p.20).

Progettare – come sostiene Paolo Ulian (in Follesa S. 2010, Pane e Proget-to, Franco Angeli, Milano.) – “non è so-lo un gioco di invenzione e di elabora-zione estetica, ma è in prima istanza la veicolazione di un pensiero, di una po-sizione politica, di un dissenso verso gli aspetti di una realtà che non condivi-diamo”.

Il design per il territorio, quindi, prende posizione contro quei processi di glo-balizzazione e di livellamento dei mer-cati causa di perdita d’identità del ter-ritorio e di conseguenza di tutte quel-le realtà locali che ne fanno parte come le piccole imprese, l’artigianato e le co-munità stesse. L’artigianato, grazie al-le ultime modificazioni del mercato, dove è sempre più presente un inte-resse per il pezzo unico, può disporre di nuove opportunità.

“Sul fronte della percezione del valore artigiano occorre distinguere tra due diversi tipi di consumo, poiché il con-sumo dell’artigianato ha valori propri, che possono essere anche quelli di fe-ticcio, collezionismo, curiosità legate ad un’esperienza come quella del viag-gio. Ma il valore proprio dell’artigiana-to può essere anche quello simile a ciò

che si cerca negli alimenti tipici...voglio quella cosa perché mi da un senso tat-tile per il materiale con cui è realizzata, per i segni che vi sono stati lasciati so-pra da chi l’ha realizzata. In questo ca-so c’è una specie di ecologia della men-te, una magia naturale che si innesca al momento dell’acquisto, un mondo di sensorialità” (intervista a Calabrese O., Artigianato, ecologia della mente, www.fi.camcom.it).

In Attorno al Mediterraneo si è cercato di far dialogare la tradizione con l'arti-gianato specifico delle regioni interes-sate, le forme appartenenti a queste con i materiali e le lavorazioni presen-ti nel contesto e in parpresen-ticolare due cul-ture differenti, quella italiana e quella marocchina partecipi entrambe della costituzione di questa grande area ri-conoscibile come mediterranea. Tutto questo con l'obiettivo di realiz-zare manufatti che potessero parte-cipare ad una ricontestualizzazione di un territorio, il Marocco e in un senso più ampio il Mediterraneo, in cui alcuni, se pur pochi, elementi della globalizza-zione hanno fatto un'irruglobalizza-zione violenta e che, allo stesso tempo, riuscissero a comunicare con un mercato più ampio, anche internazionale, per dar voce a questo tipo di esperienza ed esprime-re l'inteesprime-resse di una comunità nel vo-ler partecipare alla condivisione di co-noscenza e tradizione. Più che di ricon-testualizzazione quindi si tratta di un tentativo di conservazione della tradi-zione e allo stesso tempo apertura al cambiamento.

Il design, lavorando a favore del terri-torio, in stretto contatto con le picco-le realtà produttive locali, va oltre

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l’a-Roberta Morittu e Milli Paglieri, Tessitura di Boujad, Cooperativa Femmes de Nouasser, Boujad, Marocco

spetto economico, mirando a ridare ai luoghi la loro identità, difendendo-ne e rivitalizzandodifendendo-ne il patrimonio ar-tigianale, sempre più apprezzato e ri-cercato conseguentemente all’ecces-sivo livellamento dei mercati. Pertan-to il Mediterraneo va inteso come un orizzonte culturale più che economico, “connota un'appartenenza storica più che un territorio definito. […] L'identi-tà mediterranea è quindi porosiL'identi-tà, ca-pacità performativa di assorbire e ri-elaborare concezioni di vita differen-ti. Attraverso scambi commerciali, ma anche conflitti bellici, le tre grandi civil-tà del mediterraneo – Latinicivil-tà, Islam e mondo Greco – hanno ibridato il sa-pere, hanno diffuso culture che, altri-menti sarebbero rimaste locali [e il] design italiano è profondamente radi-cato nell'orizzonte delineato e si diffe-renzia nel contesto europeo per que-sta appartenenza culturale” (La Rocca F., in Fagnoni R.,et al. , op. cit., 2004, p. 148).

Vari sono stati gli interventi di desi-gner circa lo studio e la sperimenta-zione sul possibile utilizzo di materia-li e tecniche artigianamateria-li particolari e ca-ratteristici di aree geografiche in cui da tempo è presente una forte identità

ri-conoscibile a livello territoriale e comu-nitario, ma che è costantemente mes-sa a rischio da fattori globalizzanti. In genere, in questo tipo di intervento, i designer seguono una sorta di map-pa progettuale che li porta, anche se-guendo strade differenti, ma passan-do tutti comunque attraverso tap-pe cruciali, ad una stessa meta, quel-la progettuale: a partire dalquel-la specifici-tà dei luoghi, delle tradizioni e risorse presenti sul territorio, passando per la salvaguardia e la valorizzazione dell'i-dentità locale, delle tecniche artigia-nali, delle comunità stesse come ag-glomerato di conoscenze, per arriva-re a progetti basati su valori sociali e di condivisione, dal connotato fortemen-te identitario.

In questo scenario di localismo cosmo-polita andiamo quindi ad incontrare una tipologia di progetto che, parten-do dalla ricerca, riesce a trovare il giu-sto equilibrio nella collaborazione tra design e produzione artigianale, fa-cendo di questi due fattori interdipen-denti e di valorizzazione reciproca. Tale tipo di partecipazione, che avviene sempre e comunque a stretto contat-to con le realtà produttive locali, porta i progettisti e le figure che assieme a lo-ro collaborano ad interessanti risultati.

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Design e Artigianato

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Momenti di lavorazione dei prototipi, artigiano Alfredo Quaranta, Laboratorio Quaranta Ceramiche, Firenze, Italia e artigiana Fatima Bozekri, Ifrane Alì, Regione di Oued Laou, Marocco

"Gli oggetti non sono e non sono mai stati soltanto ‘oggetti’; cioè strumen-ti per realizzare semplici operazioni di lavoro o di vita domestica. Le piccole o grandi ‘cose’ che si trovano nelle no-stre case sono state fin dall'antichità più remota, dispositivi su cui gli uomini si sono esercitati per realizzare meta-fore o relazioni simboliche"

(Branzi A., op. cit., 2007, p. 9).

La tesi di laurea vede nell'artigianato e nel design i due attori principali di un progetto che si pone l'obbiettivo di ri-dare identità ad un luogo, il Mediterra-neo, fin dall'antichità portatore di co-noscenze, traghettatore di scambi e contaminazioni, soprattutto attraver-so gli oggetti rappresentanti la cultura materiale e caratterizzati spesso da un forte carattere simbolico.

La relazione tra i due termini nella con-temporaneità è strettamente legata al design per il territorio e quindi alla rin-novata attenzione per i luoghi, dove appare centrale la figura del designer come attore sociale, capace di contri-buire sì allo sviluppo dei luoghi, ma an-che alla coesione sociale ed al migliora-mento della qualità della vita. Il tema rimanda al rapporto tra pro-getto e artigiano dove su tutte sono sicuramente da ricordare le esperien-ze condotte da Ugo La Pietra che da-gli anni '70 ad oggi si è impegnato per

comprendere quali possono essere le collaborazioni tra cultura artigianale o cultura del fare, radicata nei luoghi, e cultura progettuale propria di artisti, architetti e designer, al fine di evitare il declino dell'identità territoriale e di al-zare il livello culturale dell'oggetto ar-tigianale portatore di raffinatezza d'e-secuzione fin da epoche antiche. Se nella storia l'artigiano ha ricoperto un ruolo attivo nella produzione di og-getti per le persone – inteso come ar-tigianato del necessario, degli oggetti presenti nelle case, atti a svolgere fun-zioni pratiche e non – non lo si può di-re per quanto riguarda il pdi-resente, do-ve gli oggetti prodotti industrialmente dominano le nostre case.

Oggetti, per altro, completamente de-ritualizzati, privi di significato sim-bolico al contrario della moltitudine di manufatti che ci hanno preceduto.

“Come ci spiegano gli antropologi, gli stessi manufatti preistorici erano il ri-sultato di culture sciamaniche che in-dagavano le misteriose relazioni esi-stenti tra il tornio e le leggi cosmi-che cosmi-che guidano il moto rotatorio del-le steldel-le; oppure tra il fuoco che fonde i metalli e le energie magiche del sot-tosuolo; tra il battere del telaio primiti-vo e il succedersi della vita e della mor-te. L'origine delle tecnologie primitive non è mai stata determinata dal caso, ma dalla faticosa mediazione tra

signi-ficati cosmici e risultati tecnici; tra la solitudine dei nostri padri e la ricerca di relazioni ‘alte’, in grado di dare senso a quella solitudine planetaria”

(Branzi A., id., pp. 11-12).

Oggi sicuramente l'artigianato può as-sumere un ruolo significativo, tentan-do di ristabilire quel particolare rappor-to che fin dall'antichità l'uomo ha in-trattenuto con il mondo e con gli og-getti del quotidiano. L'artigianato nel-la storia ha avuto un ruolo fondamen-tale nello sviluppo di tutte le civiltà fi-no all'era industriale; gli oggetti, utiliz-zati per le più svariate operazioni, fino all'era della macchina sono stati tutti eseguiti artigianalmente, con un ‘sa-per fare’, con il ‘sa‘sa-pere delle mani’, pro-prio dell'artigiano; dai primi strumenti utilizzati per la caccia, al vasellame pro-dotto per svolgere funzioni legate agli alimenti – pensiamo alle anfore vina-rie o a quelle per l'olio –, alle numerose statuette rappresentanti la Dea Madre – antico culto di origine paleolitica –, a tutti quegli strumenti utilizzati in epo-ca etrusepo-ca e non solo durante particola-ri particola-riti celebrativi, alle anforette

dell'an-tica Grecia, alle tazze auree e così via. Come ci ricorda Branzi A.:

“La storia degli oggetti domestici e della loro importanza culturale, comin-cia dunque in quelle isole nei lonta-ni XVI e XV secolo a.C.; ed è una storia importante che non è mai appartenuta alla storia ufficiale dell'arte ma è coin-cisa con un livello autonomo e originale dell'attività umana"

(Branzi A., id., p. 63).

Dall'antichità l'uomo ha usato il rap-porto mano e mente per modificare la materia, al fine di realizzare manufat-ti atmanufat-ti a rispondere sia ad esigenze fun-zionali che simboliche e rituali. Come ricorda Riccardo Dalisi (in AA.VV. 2008, Manufatto.ArtigianatoComuni-tàDesign, Silvana Editoriale SpA, Cini-sello Balsamo, Milano, p.12) :

“[…] la mano deriva dal cuore: ogni no-stro impulso mette in moto braccia e mani. La mano si posa tra noi e il cielo, tra il cuore e le stelle. Con le mani l'uo-mo ha trasformato il l'uo-mondo e già Gior-dano Bruno lo diceva che senza la ma-no ma-non ci sarebbe stata civiltà alcuna”.

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In quasi tutti i popoli, tranne quelli del-le società gilaniche – ampiamente teo-rizzate e studiate da Marija Gimbutas –, la produzione di armi era una delle pro-duzioni principali; parallelamente però vi era una produzione di oggetti decora-tivi e non, prodotti per essere esportati. Sono i commerci gestiti nel Mediter-raneo soprattutto da Etruschi, Fenici, Cretesi e Minoici a dare grande impul-so all'artigianato dei beni di lusimpul-so – ve-tro, oro, avorio e stoffe pregiate – e alla produzione di vasellami per il trasporto di olio e vino. Grazie agli scambi com-merciali si crea dunque un ‘gusto arti-stico’ mediterraneo che mescola mo-tivi ornamentali e tecniche artigianali provenienti da diverse aree.

Nel mondo greco l'artigianato divie-ne elemento di propulsiodivie-ne economi-ca, i numerosi scambi commerciali fa-voriscono una maggior disponibilità di cibo, necessario a colmare il crescente aumento demografico.

La figura dell'artigiano acquista valore sociale nelle città a più forte sviluppo commerciale dove non ci sono preclu-sioni alla carriera politica di

conciato-ri di pelle o fabbconciato-ricanti di lampade che, anzi, dispongono di patrimoni più vasti di molti proprietari terrieri. Questo an-che se nelle città meno sviluppate l'ar-tigiano non aveva ancora la possibilità di partecipare alla vita politica e civile. La figura artigiana si rafforza maggior-mente nel periodo romano e vengo-no ricovengo-nosciute le prime corporazioni di mestiere: pittori, flautisti, orefici, con-ciatori, carpentieri, muratori, calzolai e vasai, sebbene non tutte le catego-rie necessitavano degli stessi privilegi. È nel periodo medioevale che la figura acquista ulteriore importanza e si cre-ano le corporazioni per quasi tutte le attività artigianali.

“Con la frantumazione dell'impero ro-mano e la nascita delle prime ammini-strazioni locali indipendenti, gli artigia-ni conquistarono un ruolo fondamen-tale nella vita politica e civile, organiz-zandosi in corporazioni […] basate su associazioni di categoria, che prevede-vano il raggruppamento dei lavoratori che svolgevano lo stesso mestiere nel-la stessa città, con lo scopo di

difende-re sia i segdifende-reti tecnici sia gli intedifende-ressi co-muni, e di favorire gli scambi commer-ciali” (Branzi A., op. cit., 2007, p.23). Le botteghe artigiane medioevali rea-lizzavano oggetti in base a processi pro-duttivi definiti, tipici di una produzione seriale. Infatti, accanto alle organizza-zioni corporative, sorsero intorno al XIV e il XV secolo le prime realtà proto-indu-striali, dove iniziavano ad essere utiliz-zati i primi macchinari che ripetevano i gesti delle mani degli artigiani. La pro-duzione tessile è stata una delle prime produzioni in cui l'uso della mano fu so-stituito da un macchinario.

La caratteristica dell'artigianato nel passato è stata la coincidenza della fa-se progettuale con quella di efa-secuzione;

“Con l'invenzione dell'industria si ra-zionalizza la separazione a livello espo-nenziale: la produzione industriale è basata proprio sulla non coincidenza tra progetto e produzione, e su que-sta separazione si è articolata ogni fa-se del lavoro di produzione. […] E così anche il progetto, come qualsiasi

pro-dotto industriale, finisce per diventa-re una sorta di catena di montaggio, su cui intervengono diverse specializ-zazioni” (Mari E. 2004, La valigia sen-za manico, conversazione con Francesca Alfano Miglietti, Bollati Boringhieri Edi-tore srl, Torino, p. 36).

La produzione industriale ha quindi oscurato il lavoro dell'artigiano che nel tempo si è relegato a fare o meri rifa-cimenti industriali, o artigianato tra-dizionale legato sopratutto alla sfera turistica con una conseguente perdita d'identità, sia propria che dei prodotti realizzati.

C'è da dire però che questo vale solo per alcune tipologie di artigiano, per-ché oggi, ma in parte era così anche nel passato – basti pensare al gar-zone di bottega o al mastro – esisto-no varie tipologie di artigianato che si differenziano sia per approccio verso la materia che per qualità e tipologia di manufatti.

Quindi l'artigiano è una figura che è sempre esistita nella storia e che, con l'avvento dell'industria, si è

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ta ed evoluta adeguandosi anche alle nuove tecnologie.

“Figura non univoca, tanto è vero che dalla diagnosi sul sistema artigiana-le […] emerge un ritratto dell’artigiano con diverse declinazioni.

ARTIGIANO ARTISTA

Secondo una visione un po’ più colori-ta di quella convegnistica, Ugo la Pie-tra, che a lungo ha intrecciato il proprio destino con quello dell’artigiano, de-scrive l’arti-artigiano come un creati-vo depositario di abilità manuali, inca-pace di accettare un ruolo generico nel settore artigianale , rifiutato sia dal si-stema dell’arte che dal design: insom-ma, un isolato.

ARTIGIANO TIPICO

Opera in un territorio definito e con gli elementi e i materiali di cui il territorio dispone; è depositario di tecniche, pro-cessi e linguaggi della tradizione, ma in genere si limita a riprodurre gli ogget-ti del passato, senza progetto e talora distorcendone la memoria. Una figura sovente sfruttata dal sistema turistico

popolare dei mercatini del folklore, in-capace di distinguere per il proprio fu-turo tra autonomia del proprio lavoro e desiderio di comunità, associazioni-smo, consorzio.

ARTIGIANATO INDUSTRIALE

Partecipa alla creazione di un prodotto industriale con parti che contribuisco-no a impreziosire l’artefatto; oppure […] si sostituisce integralmente al pro-cesso industriale partecipando come maestranza scelta all’interno dell’a-zienda o occupando una parte della fi-liera che dà vita al prodotto, non tanto industriale, quanto seriale.

ARTIGIANATO TECNICO

All’inizio era colui il quale seguiva e re-alizzava le parti speciali dei proget-ti, quelle complesse e su disegno di al-tri. Poi è diventato fornitore di servizi – modelli e prototipi – per il sistema in-dustriale, aziende e designer. Oggi una nuova dimensione lo interessa: la re-alizzazione di prodotti con contenuto tecnologico – pensiamo al settore illu-minotecnico – che utilizzano

compo-nenti seriali reperibili sul mercato e as-semblabili però in completa autonomia.

ARTIGIANO DEL LUSSO

Opera in settori specifici – gioiello, mo-da, libri antichi, restauro di opere pre-ziose – in cui è richiesta una compe-tenza manifatturiera degna dell’alto valore intrinseco del manufatto” (in AA.VV., op. cit., 2008, p. 13).

In un recente convegno, – patrocinato dall'ADI, dal Comune di Sesto Fiorenti-no e da quello di Firenze, oltre che dal-la Regione Toscana – svoltosi il 27 Aprile 2012 a Sesto Fiorentino, Ugo La Pietra sottolinea come nella storia, all'interno dell'artigianato tradizionale, in cui vi ri-entra anche quello artistico, vi sono sta-ti arsta-tigiani capaci di evolvere nel tempo grazie alla propria capacità progettuale, quindi considerati artisti artigiani con capacità di invenzione; mentre il resto degli artigiani tradizionali, per altro con grandi capacità manuali, non sono riu-sciti a compiere quell'evoluzione degli artisti artigiani rimanendo relegati so-pratutto a produzioni tradizionali lega-te all'oggetto per il turista.

Questo ci porta a dedurre le ampie possibilità che ha il design, inteso co-me progetto, in collaborazione con l'ar-tigianato, stabilendo rapporti sopra-tutto con quest'ultima tipologia di ar-tigiani rimasta emarginata.

La tesi di laurea infatti ci ha visto coinvolti in un progetto per lo svilup-po dei saperi artigianali e produttivi in Italia e Marocco dove abbiamo lavora-to prima con Fatima Boziekri, artigia-na tradizioartigia-nale Marocchiartigia-na, poi con Alfredo Quaranta, torniante tradizio-nale italiano.

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“Talvolta, nel loro entusiasmo per i pro-dotti occidentali, gli abitanti delle al-tre regioni trascurano le opportunità che derivano dalle loro stesse tecnolo-gie, dai loro materiali e dai loro simboli. Esperti di design particolarmente ben-disposti, anche provenienti dall'estero, potrebbero aiutare a mobilitare ciò che vi è di positivo al livello locale, compre-so il modo particolare in cui la gente del posto concepisce il suo design. Esiste qualche precedente in questa direzio-ne, anche se prevalentemente a livello artigianale. Quello che oggi consideria-mo un tappeto navaho nacque quando alcuni imprenditori yankee, volendo re-alizzare tappeti meno costosi dei kilim turchi, mostrarono alcuni disegni me-diorientali ai Navaho perché li copiasse-ro. Il risultato fu un tipo di prodotto dal-la concezione molto più complessa ri-spetto alle semplici bande di colore del prodotto tradizionale, ma sempre me-no arabescato dalle versioni d'importa-zione. Alla fine, grazie al loro aspetto vi-sivo e tattile molto particolare (a trama molto fine)i tappeti navaho raggiunse-ro costi molto più elevati rispetto ai tap-peti di cui erano solo imitazioni ‘imper-fette’. Non voglio assolutamente soste-nere che, a questo punto della storia, ci si possa garantire la sopravvivenza at-traverso la produzione artigianale, ma soltanto che la mescolanza tra diverse culture può dare ottimi risultati”

(H. Molotch, Fenomenologia del tosta-pane: come gli oggetti quotidiani diven-tano quello che sono, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 324-325). Con e non per i Sud. In questa distin-zione è già possibile leggere il differen-te indifferen-tento progettuale, che si distacca dall'approccio occidentalocentrico (La-touche S., 2010) proprio di colonialismo e del “capitalismo bianco che diventa neocolonialismo quando si comincia a inviare qua e là «gruppi di controllo sulla popolazione» per «aiutare»” (Papanek V., Progettare per il mondo reale. Il desi-gn: come è e come potrebbe essere, Ar-noldo Mondadori, Vicenza, 1973, p. 250). Design con i Sud è la ricerca – là dove mancano – e il mantenimento – là do-ve ancora fortunatamente resistono – di diversità e pluralismo. È un metodo di indagine possibile per la costruzio-ne, condivisa, di un'alternativa. Un'al-ternativa a che cosa? Al nostro ideale di ricchezza, quello del sogno occiden-tale, che si fonda sul mito dell'abbon-danza materiale e dell'accumulazio-ne, e che a questo associa l'unico mo-do di raggiungere uno stato di benes-sere o almeno un modello di vita desi-derabile.

Poiché parlare di design con i Sud è co-munque riferirsi ad una progettazio-ne che si rapporta con un determina-to terridetermina-torio e col relativo contesdetermina-to

so-cio-economico, va fatta una precisa-zione: partendo dalla definizione di di-segno industriale del Icsid (Internatio-nal Council Of Societies Of Industrial Design) del 1961 per cui “si accettava che il compito del disegno industria-le consistesse nel progettare la for-ma del prodotto [con tutte le implica-zioni relative, quindi] coordinare, in-tegrare e articolare tutti quei fatto-ri che, in un modo o nell'altro, parteci-pano al processo costitutivo della for-ma del prodotto” (Maldonado T., Dise-gno Industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano, 2008, pp. 11-12), già Maldona-do evidenziava che una tale definizio-ne doveva definizio-necessariamente adeguar-si “ai particolari contesti in cui l'attivi-tà è svolta, ospitando altre definizioni ausiliarie, capaci di riflettere la reale di-versità […] di tali contesti. È evidente […] che il disegno industriale non può essere lo stesso in una società alta-mente industrializzata e in un paese in via di sviluppo” (Maldonado T., idem). Quindi le tecnologie che sono servi-te per portare al modello di sviluppo in atto per quel 10% della popolazione mondiale, intendendo con ciò quello occidentale, non possono essere pre-se e introdotte di sana pianta in quei paesi sottosviluppati (Bonsiepe G., Te-oria e pratica del Disegno industriale: elementi per una manualistica critica, Feltrinelli, Milano, 1993, pp. 67 e

suc-Design con i Sud

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Produzione in serie di vasi torniti a mano – Marrakech, Marocco

cessive) dove vive – o sopravvive – il re-stante 90% del pianeta. Ciò non toglie che un trasferimento di know-how non possa non essere attuato; non quin-di un know-how basato sull'importa-zione di soluzioni tecniche che porte-rebbero solo a riprodurre il modello dei paesi avanzati, ma basato sull'impor-tazione di metodi da utilizzare come strumenti flessibili per avviare un'i-struzione locale. Questo vale anche per l'importazione dei mezzi di produzione da intendersi come importazione in-novativa, vale a dire che pur basando-si sull'introduzione di beni di investi-mento li impiega per nuovi fini. È pos-sibile altresì attuare una strategia che mira al salto tecnologico, ovvero al sal-to di una fase caratteristica del model-lo di sviluppo occidentale che è quella dell'industria pesante, passando diret-tamente a branche industriali più gio-vani come l'elaborazione dati, l'elettro-nica o la biologia molecolare. Possiamo a questo proposito fare riferimento al-la Corea con il colosso Samsung. O infine (secondo le indicazioni di Bon-siepe) è possibile attuare una con-tro-tecnologia, ovvero una tecnologia qualitativamente nuova che si distac-ca nettamente dall'idea di sviluppo concepita nei paesi avanzati, evitando così di ripercorrere gli stessi errori ed avanzando soluzioni alternative di carattere innovativo.

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La concezione di queste tipologie di strategie indirizza verso il pensiero di Marcuse secondo cui la tendenza all'e-mancipazione non doveva (e Marcuse scrive nel 1968) orientare verso il mo-dello di sviluppo che aveva portato allo standard di vita delle regioni avanzate, poiché avrebbe nociuto all'ambiente e per conseguenza all'uomo stesso, es-sendo quello un modello che non pre-vedeva alternativa né differenziazione qualitativa; bensì verso “lo sviluppo di nuovi modi e scopi di produzione; 'nuo-vi' non solo (o non) per quanto [riguar-dava] le scoperte tecniche dei rapporti di produzione, ma per quanto [riguar-dava] gli altri bisogni e i rapporti uma-ni, in un lavoro che [tendesse] al soddi-sfacimento di questi bisogni” (Marcu-se H., in Bonsiepe G. , id., p. 71). Cercare di indirizzare verso una politi-ca di industrializzazione consapevo-le, che eviti le contraddizioni e i sacri-fici del modello occidentale. Senza ca-dere nell'errore di “sottintesi paterna-listici del tipo: «Dovete evitare di im-boccare la strada di sviluppo che noi er-roneamente abbiamo percorso.»

For-se le intenzioni sono buone, ma ciò non toglie che simili consigli servano tutto sommato a coloro che sostengono una sempre più bipolarizzata divisione del lavoro internazionale. Vale a dire, un centro con tutti i vantaggi della mo-dernizzazione e una periferia con tut-ti gli svantaggi dell'arretratezza pro-duttiva” (Maldonado T., op. cit., 2008, p. 89).

In un tale contesto è evidente desu-mere che le possibilità di realizzare una nuova tecnologia risultano limitate e questo veniva evidenziato già anche da esponenti della critica come Jürgen Habermas.

Quale può essere quindi l'apporto del design? Una prima teorizzazione è quel-la di attivare dei quel-laboratori di ricerca, cen-tri fondamentali per l'avvio del processo innovativo, fondamenta del progresso tecnico, che seguono degli step ben pre-cisi: creazione, applicazione e diffusio-ne. Non sarebbe possibile raggiungere l'innovazione tecnologica bypassando le fasi intermedie della creazione e della diffusione: è proprio l'arresto alla prima fase che determina il deficit tecnologico

della periferia, e la realizzazione di labo-ratori di ricerca che, affiancati da centri di formazione tecnico-industriale a livel-lo universitario in cui il design va ad inse-rirsi come disciplina chiave, ovvierebbe a questo problema.

Altra possibilità di intervento nella pe-riferia consiste nello sviluppo e nella produzione locale di oggetti, realizzati con materiali presenti sul luogo e con tecnologie che non presuppongono ec-cessivi investimenti. Questo approccio si basa sulla creazione di oggetti per i bisogni locali specifici e contribuisce a dare autonomia a quei paesi dipen-denti da diverse tipologie di importa-zione, incidendo così su parte del debi-to. È inoltre da evidenziare il fatto che la progettazione pensata per la metro-poli è nella maggior parte dei casi ina-deguata a rispondere alle esigenze e ai bisogni delle periferie e rischia di por-tare squilibri all'interno dell'apparato socio-culturale poiché gli oggetti “so-no l'espressione di una cultura […], del carattere oggettuale di una cultura” (Bonsiepe G., op. cit., 1993, p. 76). Costruire l'alternativa sulle

fondamen-ta di un sistema al collasso, tenendo quindi ben presente il modello di svi-luppo occidentale da un lato per strut-turare uno schema d'azione sostenibi-le dall'altro, attraverso l'individuazione di punti chiave: stabilire delle priorità, razionalizzare l'assortimento dei pro-dotti, standardizzare i propro-dotti, i sub-sistemi e le loro componenti.

Progettazione come decolonizzazione quindi, secondo le indicazioni di Bonsie-pe, per cui “altri bisogni, altre priorità, altre tradizioni culturali, un altro livel-lo delle forze produttive, altre restrizio-ni economiche si impongono al disegno industriale nella periferia, con implica-zioni corrispondenti alla valenza socia-le da assegnare a questa disciplina pro-gettuale” (Bonsiepe G., id., p. 77). E proprio Bonsiepe, fra i primi a lavo-rare in questa direzione, ci porta come esempio l'applicazione di questi prin-cipi durante l'esperienza cilena, dura-ta quasi due anni in sintonia con la gli obiettivi del governo di Salvador Allen-de, per cui un gruppo di progettisti ha lavorato per contribuire a superare la dipendenza tecnologica del paese nel

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campo dell'industria di trasformazio-ne, attuando lo sviluppo di prodotti ne-cessari a raggiungere diversi obiettivi (tutti comunque sotto il comune de-nominatore del progressivo raggiun-gimento dell'autonomia) tra cui: l'in-dipendenza dal brevetto straniero, il soddisfacimento dei bisogni maggiori-tari (attraverso lo sviluppo di prodotti dall'alto valore d'uso e dal basso valo-re di scambio), la razionalizzazione del-le capacità industriali locali, la standar-dizzazione (mirata a riduzione di costi e semplificazione della produzione), la riduzione e definizione dei tipi di pro-dotti e, alla base di tutto questo, la cre-azione di presupposti per una cultura materiale propria.

L'intervento ha seguito le priorità sta-bilite dal programma socio-politico per differenti settori: macchine, attrezzi e impianti per l'industria agricola; pro-dotti per il consumo di base; impian-ti per il servizio sanitario e gli strumen-ti medici; macchine e utensili per l'indu-stria leggera di trasformazione; com-ponenti per l'edilizia; mezzi di traspor-to; imballaggio per l'industria e il

con-sumo (in particolare quello alimentare). Altra caratteristica d'innovazione propria dell'esperienza cilena è sta-ta la partecipazione attiva dell'opera-io all'intero processo di pianificazdell'opera-io- pianificazio-ne e progettaziopianificazio-ne che, con la matu-rata esperienza, ha potuto migliorare la fattibilità tecnico-produttiva di al-cuni progetti ed intervenire per dimi-nuire i tempi di produzione. Per facili-tare questa collaborazione furono isti-tuiti all'interno delle fabbriche dei co-mitati di progettazione costituiti dai rappresentanti dei diversi settori che si confrontavano con i progettisti al fine di raggiungere soluzioni praticabili se-condo i criteri dell'intervento. La solu-zione dei comitati interni non voleva fare del feticismo operaio o cercare ad-dirittura di fraternizzare con la classe operaia alla maniera

piccolo-borghe-se; si trattava piuttosto di un avvicina-mento ai teoremi dell'ideologia marxi-sta per cui si avevano “auto-determi-nazione e trasparenza della produzio-ne, invece che etero-determinazione ed oscurità; il lavoratore non come og-getto ma come sogog-getto della storia” (Bonsiepe G., id., p. 82).

Il clima politico non permise di portare a termine il progetto, ma l'osservazio-ne di questo periodo portò comunque alla conclusione che si sarebbero otte-nuti risultati più che positivi.

Analogamente alla posizione di Bon-siepe, Victor Papanek considera la fi-gura del progettista chiave per la riso-luzione di molti dei problemi che afflig-gono la maggioranza, la periferia; que-sto partendo dall'assunto che la pro-gettazione è fondamentale per tutte le attività umane.

“Se vuol essere ecologicamente re-sponsabile e socialmente risponden-te, deve essere rivoluzionaria e radica-le nel senso più vero dei termini. Deve votarsi al principio del minimo sforzo adottato dalla natura, in altre parole al massimo della varietà col minimo delle invenzioni, ovvero a ottenere il massi-mo col minimassi-mo. Ciò significa consuma-re meno, usaconsuma-re di più, riciclaconsuma-re i mate-riali” (Papanek V., op. cit., 1973, p. 323) e più in generale ottimizzare la produ-zione, intendendo con ciò non l'otteni-mento del massimo profitto con il mi-nor investimento affiancati da un al-to grado di obsolescenza per il prodot-to tipico dello sviluppo capitalista, ma il perseguimento di una prassi produt-tiva che tenga conto di tutti quei fattori, già ampiamente analiz-zati da Bonsiepe e dallo stesso

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Vermelha, Edra 1998, Campana F. e H. Kumhara, Saathi 2006, Whomade M'afrique, Moroso 2009, Boontje T.

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Papanek, che tendono a restituire di-gnità al genere umano e in parallelo responsabilizzano il progettista orien-tandolo verso un “«survival through design» invece di un «disaster through design»” (Bonsiepe G., op. cit., p. 64). Un altro importante contributo del XX secolo è sicuramente quello di Lina Bo Bardi, architetto che, dopo varie colla-borazioni in Italia a fianco di personag-gi come Gio Ponti e Bruno Zevi, si tra-sferì in Brasile durante il dopoguerra e vi rimase per il resto della vita. Qui poté dare espressione a quello che era il proprio impegno morale che ten-deva ad integrare all’efficienza tecno-logica le radici dell’esperienza popo-lare, di una poetica della povertà che si opponeva all'approccio progettua-le di stampo accademico e moralmen-te vicino all'idea di progresso dei pae-si avanzati. Il suo approccio multidi-sciplinare la portò a lavorare in diffe-renti campi tra cui l'architettura (da ri-cordare in particolare la Casa di Vetro a San Paolo, la Casa del Benin e il Museo di Arte popolare a Bahia), la scenogra-fia, la museograscenogra-fia, il cinema, l’editoria e il design. Bo Bardi adottò il linguag-gio del riciclo tipico delle favelas e del-le case popolari dell’entroterra brasi-liano per contrapporre un progetto im-perfetto a quello impeccabile dei pae-si sviluppati: prodotti industriali loca-li, materiali grezzi, piastrelle di cera-mica fatte a mano sono tra gli elemen-ti scelelemen-ti per manifestare quel dissenso verso un modello non condiviso. Dal lavoro di Bonsiepe, Papanek e Bo Bardi, svoltosi in questo campo pro-gettuale perlopiù nell'arco di un tren-tennio, dalla fine della Seconda

Guer-ra Mondiale alla crisi economica degli anni '70, è stata, negli anni, ricostrui-ta una sorricostrui-ta di mappa concettuale e sperimentale che va integrandosi con le esperienze condotte in varie par-ti del mondo da designers sempre più spesso provenienti dall'ambito di ricer-ca universitario.

Questo tipo di contributo coinvolge sempre più di frequente e necessaria-mente la cooperazione internaziona-le. La cooperazione di per sé implica un coinvolgimento di più soggetti che, mirando ad un obiettivo comune, ope-rano a più livelli attraverso strategie strutturate e condivise. Questa è di-stinta in due tipologie: iniziative ordi-narie, in cui gli Stati donatori per mez-zo di donazioni o crediti di aiuto avvia-no progetti di sviluppo a favore dei Pa-esi beneficiari; oppure iniziative stra-ordinarie promosse dai governi a fron-te di situazioni di emergenza. Entram-be le tipologie si basano su un iter di in-tervento caratterizzato dal susseguirsi di tre fasi ben distinte e consequenzia-li: l'emergenza, dove prevalgono aiuto e assistenza e che mira da subito all'in-dividuazione delle cause del problema per far sì che questo non si ripresenti in futuro; la riabilitazione come sostegno alla ricostruzione delle normali condi-zioni di funzionamento della comu-nità e di quegli aspetti legati alla pro-duttività e all'autonomia della stessa; lo sviluppo inteso come ricostituzio-ne, attraverso una strategia, delle con-dizioni di normalità e di benessere che perdurino nel tempo.

Il fine ultimo della cooperazione è quindi la creazione di programmazio-ni adeguate che permettano una

pre-cisa attuazione degli interventi che non vadano a perpetuare la dipenden-za ma creino autonomia e capacità de-cisionale autonoma dei soggetti inte-ressati. Sulla scia dei succitati Bonsie-pe, Papanek e Bo Bardi, vale la pena ri-cordare le recenti esperienze a livello universitario che hanno contribuito al proseguimento e alla maturazione di quest'alternativa progettuale.

“L'esperienza più strutturata appa-re sicuramente quella promossa dal-la Design Academy di Eindhoven che, nell’ambito del Master Man and

Hu-manity, ha sviluppato progetti come Design Solidàrio (Brasile, 2001), Enjoy the difference (Kenia, 2002), Home in

India (2004)7. Nelle pubblicazioni che descrivono i progetti emergono le dif-ficoltà che inizialmente si presenta-no in interventi di questo tipo: il pri-mo pri-momento di smarrimento di fron-te ad una realtà sconosciuta; la gravi-tà dei problemi che affliggono le po-polazioni con cui si entra in contatto; il conseguente coinvolgimento emoti-vo; il ruolo delle donne che, tra le mol-te difficoltà, possono rappresentare il motore di trasformazione; il progetto come motore di cambiamento; i rischi di imporre (ancora una volta) una visio-ne occidentalizzante. Al di là del lavo-ro della Design Academy, interessante anche il progetto di collaborazione tra la Biennale di Dakar e quella di Saint-E-tienne che nel 2003 ha riunito per tre settimane di lavoro designers africa-ni e francesi. Le regole del gioco, come evidenziato dalla pubblicazione che raccoglie i risultati del progetto, con-cernevano nella concezione e

realizza-zione di un oggetto con le risorse uma-ne, naturali, materiali e tecniche della regione ed in reale partenariato con gli artigiani locali; per un design che, mes-so di fronte alle sue responsabilità eti-che, sia in grado di esaltare ricchezze e potenzialità creative locali senza ca-dere nel pittoresco né nella diffusione omogeneizzante dei modelli. A livello italiano da citare l’esperienza del Cor-so di Laurea in Disegno Industriale del-lo IUAV di Venezia, coordinata da Gad-do Morpurgo, che ha avviato un rap-porto di collaborazione con il Consor-zio Botteghe della Solidarietà che ope-ra sul commercio equo e solidale, con-cretizzatosi nel progetto SuDesign nel distretto Bac Nonh nel Vietnam del Nord. Mentre, più recentemente, sem-pre lo IUAV nella sua sede di San Mari-no, nell’ambito di una serie di iniziative sul tema del design per i Sud del mon-do (creazione di un centro studi, parte-cipazione a mostre, attivazione di wor-kshops) ha realizzato l’Atelier Rwanda,

Laboratoire de recherche et des projets d’innovation de design en Afrique. […]

Il Corso di Laurea in Disegno Industria-le e MagistraIndustria-le in Design di Firenze ha sviluppato nel tempo progetti su [ta-li] tematiche [...]. Così l’azione condot-ta in collaborazione con ADEDRA,

As-sociation pour le développement de la Valleé du Drâa, ONG che opera nella

Provincia di Zagora – Marocco nell’am-bito del progetto Valorizzazione ed in-novazione della Produzione Artigiana-le Artigiana-legata alla palma. Mentre, più recen-temente [...], all’interno del progetto Sviluppo dei Saperi artigianali tradizio-nali e Integrazione dei sistemi produt-tivi in Italia e Marocco, il Corso ha

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rato con l’Institut National des Beaux

Arts de Tétouan e le associazioni ADEO

– Association de développement et de

protection de l’environnement de Oued Laou et de son bassin versant e con As-saida Al Horra a M’diq. Nell’ambito del

progetto Interreg IIIB Euromedsys è stato poi sviluppato un workshop Ce-ramica / Mediterraneo / Agroalimen-tare a Sousse (Tunisia) che ha coin-volto, oltre al Corso di Laurea in Dise-gno industriale, l’Isia di Firenze, la Se-conda Università di Napoli, l’Ecole des

Beaux Arts de Marseille e l’Institut des Beaux Arts de Sousse. In altro

conte-sto, ma muovendo dallo stesso princi-pio, il progetto Design Possível svilup-pato nelle favelas di São Paulo in colla-borazione con la Universiade Presbite-riana MacKenzie – un territorio, quel-lo della metropoli brasiliana, partico-larmente adatto a verificare le logiche dell’incontro, dello scambio, della con-taminazione – in rapporto con le ONG che operano sul riuso dei rifiuti per la realizzazione oggetti: Aldeia do Futu-ro, Monte Azul, Projeto Arrastão”.

(Lotti G. et al., À quatre mains et plus. Design per la ceramica della regione di Tanger-Tétouan in Marocco, Edizioni ETS, Pisa, 2011, pp. 82-83).

Il progetto presentato in questa te-si, Attorno al Mediterraneo, rientra nell'Accordo di Programma Quadro (APQ) Paesi del Mediterraneo che ri-guarda la realizzazione di azioni di co-operazione internazionale di mutuo in-teresse, realizzato in favore dei Pae-si della sponda sud del Mediterraneo, in partnership con le Regioni e con altri soggetti pubblici e privati anche

este-ri. Responsabile dell'attuazione per l'APQ Paesi del Mediterraneo è stata la Regione Sardegna. La Regione Tosca-na ha partecipato a livello universitario all'intervento a favore del Marocco, per la valorizzazione delle competenze ti-piche di operatori provenienti da com-parti dell'artigianato e dell'agroindu-stria, per supportare il miglioramento produttivo in quei comparti, e promuo-vere l'integrazione dei mercati italiano e marocchino. L'intervento si è svilup-pato in due fasi, che verranno analizza-te nello specifico nel capitolo successi-vo; Attorno al Mediterraneo si è con-centrato sulla seconda.

“La globalizzazione divide quanto uni-sce; divide mentre unisce, e le cau-se della divisione sono le stescau-se che, dall'altro lato, promuovono l'unifor-mità del globo” (Bauman Z., Dentro la

globalizzazione: le conseguenze sul-le persone, Editori Laterza, Bari 2001,

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