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La memoria del chiostro. Studi di storia e cultura monastica in ricordo di Padre Pierdamiano Spotorno O.S.B., archivista, bibliotecario e storico di Vallombrosa (1936 - 2015)

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ISTITUTO PER LA VALORIZZAZIONE

DELLE ABBAZIE STORICHE

DELLA TOSCANA

Presieduto da

Paolo Tiezzi Maestri

h Collana diretta da

Francesco Salvestrini

ISTI TUTO PER LA VALORIZZA ZION E • D E LL E A BB AZIE STORICHE DELLA TO SCA NA •

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(5)

LEO S. OLSCHKI EDITORE

LA MEMORIA

DEL CHIOSTRO

Studi di storia e cultura monastica

in ricordo di Padre Pierdamiano Spotorno O.S.B.

archivista, bibliotecario e storico di Vallombrosa

(1936-2015)

a cura di

Francesco Salvestrini

STUDI SULLE ABBAZIE STORICHE E ORDINI RELIGIOSI DELLA TOSCANA

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ISBN 978 88 222 6590 6

Comitato scientifico per la presente pubblicazione

Maria Pia Alberzoni - Franco Cardini - Fulvio Cervini Isabella Gagliardi - Donato Gallo - Stefano Zamponi

© 2019 Casa Editrice L. S. Olschki

L’opera è stata pubblicata col contributo determinante di Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze

Famiglia Casetta-Silvestrin Famiglia Salvestrini-Fiorentino Famiglia Tiezzi Maestri della Stella

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TABULA GRATULATORIA

Anna Agostini (Biblioteca Fabroniana, Pi-stoia)

Giancarlo Andenna (Università Cattolica di Milano)

Roberto Angelini (Società Italiana per lo Studio del Medioevo Latino, Firenze) Archivio Segreto Vaticano

Archivio Storico Diocesano, Fiesole Mario Ascheri (Accademia dei Rozzi,

Sie-na)

Associazione Nazionale Case della Memo-ria

Duccio Baldassini (Reparto Carabinieri Bio- diversità di Vallombrosa)

Andrea Barlucchi (Università di Siena, sede di Arezzo)

Concetta Bianca (Università di Firenze) Biblioteca del Monastero di San Silvestro

Abate (Fabriano)

Biblioteca Fabroniana, Pistoia

Monica Bietti (Musei del Bargello, Cappelle Medicee e Casa Martelli, Firenze) Sofia Boesch Gajano (Centro Europeo di

Studi Agiografici)

Cécile Caby (Université Lumière Lyon 2) Carlo Calvo (Roma)

Maurizio Caperna (Università di Roma ‘La Sapienza’)

Anna Maria Cardini (Firenze)

Franco Cardini (Istituto di Scienze Umane, Firenze)

Valerio Cattana (Abbazia di S. Benedetto, Seregno)

Rossana Cecchini (Università di Pisa) Silvia Chiaraviglio (Roma)

Caterina Giovanna Coda (Roma) Congregazione Benedettina Camaldolese Congregazione Benedettina Olivetana Congregazione Benedettina

Vallombrosa-na

Congregazione Benedettina di Sankt Ot-tilien (Emming, Oberbayern, Deutsch-land)

Congregazione Sacro Ordine Cistercense di Casamari

Alfio Cortonesi (Università della Tuscia, Viterbo)

Alessandra Cosi (Empoli)

Andrea Czortek (Istituto Teologico, Assisi) Giuseppe De Iuliis (Accademia di Belle Arti

di Brera, Milano)

Antonella Degl’Innocenti (Università di Trento)

Carlo Fabbri (Terranuova Bracciolini) Enrico Faini (Università di Firenze)

Renzo Fantappiè (Diocesi di Prato, Ufficio beni culturali)

Giustino Farnedi O.S.B. (Abbazia di San Pietro, Perugia)

Giulio Fasolino (Roma) Luigi Fasolino (Roma)

Teresina Favot (Lestans, Pordenone) Ugo Fossa O.S.B. (Eremo di Camaldoli) Federico Frediani (Firenze)

Donatella Frioli (Università di Trento) Giovanni Galipò (Reparto Carabinieri

Bio-diversità di Vallombrosa) Laura Galoppini (Università di Pisa) Pietro Giordano (Roma)

Luana Giorgi (Terranuova Bracciolini) Benedetta Gori Sassoli (Roma) Mario Gori Sassoli (Roma) Niccolò Gori Sassoli (Roma) Angela Grazia (Bologna)

Giuliana Guidi De Iuliis (Firenze) Maria Teresa Ghinassi (Vallombrosa) Amerigo Hofmann (Osservatorio Foreste e

Ambiente, Vallombrosa) Pellegrino Innocenti (Reggello) Marie Keane (Roma)

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— VIII —

TABULA GRATULATORIA Alfredo Lucioni (Università Cattolica di

Milano)

Norma Maltinti (Fucecchio)

Alberto Malvolti (Fondazione Montanelli Bassi, Fucecchio)

Mauro Mazzucotelli (Lecco)

Giovanni Mignoni (Consiglio Archivistico della diocesi di Montepulciano-Chiusi- Pienza)

Monastero delle Benedettine di San Loren-zo in Amandola (Fermo)

Monastero delle Benedettine di Sant’Ono-frio (Ascoli Piceno)

Monastero di Santa Caterina a Monte San Martino (Macerata)

Marco Montori (Montepulciano) Monastero di Santa Umiltà (Faenza) Museo della Badia di Vaiano

Alessandro Nigro (Università di Firenze) Maria Camilla Pagnini (Pistoia)

Enrico Palombi (Roma)

Riccardo Parmeggiani (Università di Bolo-gna)

Giovanni Pestelli (Biblioteca Roncioniana, Prato)

Paolo Pirillo (Università di Bologna) Riccardo Angiolo Poli (Firenze) Rossella Renzi (Reggello) Adriano Rigoli (Vernio)

Carmen Romero Gonzalez (Roma) Abate Diego Rosa (Abbazia di Monte

Oli-veto Maggiore)

Lucia Roselli (Università di Pavia)

Massimiliano Rossi (Università del Salento, Lecce)

Roberto Rusconi (Università di Roma Tre) Giacomo Gajano Saffi (Roma)

Enrico Sartoni (Accademia delle Arti del Disegno, Firenze)

Carlotta Sassoli (Roma) Cecilia Sassoli (Roma) David Sassoli (Roma) Filippo Sassoli (Roma) Giulio Sassoli (Roma) Livia Sassoli (Roma)

Silvano Sassolini (Archivio storico diocesa-no, Fiesole)

Raffaele Savigni (Università di Bologna) Guglielmo Scannerini O.S.B. (Abbazia di

Praglia)

Daniele Scarsella (Lestans, Pordenone) Andrea Solinas (Firenze)

Massimo Sottani (Reggello) Mario Sulli (Università di Firenze)

Mauro Tagliabue (Università Cattolica di Milano)

Lorenzo Tanzini (Università di Cagliari) Massimo Tarassi (Deputazione di Storia

Patria per la Toscana)

Nadia Togni (Université de Genève) Mara Visonà (Università di Firenze) Paolo Viti (Università del Salento, Lecce) Raffaella Zaccaria (Università di Salerno) Alessandra Zanzi Sulli (Università di

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PREMESSA

La presente raccolta di saggi nasce dal desiderio di rendere omaggio a Padre Pierdamiano Spotorno (1936-2015), monaco, archivista e biblio-tecario di Vallombrosa, per decenni principale testimone della tradizione culturale e della memoria storica appartenenti all’Ordine vallombrosano.

Tutti gli studiosi che hanno offerto i testi qui riuniti hanno avuto modo di confrontarsi con la sua competenza, la sua disponibilità e la sua grande generosità in differenti momenti della loro vita e della loro attività di ricer-ca, trovando sempre un punto di riferimento ed un aiuto concreto, confer-mati dagli attestati di stima e di sentita riconoscenza presenti in molti dei lavori da essi dati alle stampe.

Chi scrive, in particolare, ha potuto contare su una guida, un padre spirituale ed un maestro, che ha segnato profondamente gli anni di studio a Vallombrosa dedicati alla storia dell’Ordine di san Giovanni Gualberto e alla tradizione benedettina fra Medioevo e prima età moderna.

Al di là del dato senza dubbio occasionale che ha in prima istanza riu-nito gli autori della presente Miscellanea, le pagine che seguono offrono uno spaccato aggiornato su vari temi di storia e cultura monastica italiane (e non solo), riguardanti un arco cronologico che va dagli inizi del secondo millennio agli ultimi decenni del XIX secolo. Il volume, costituito da oltre trenta saggi, ‘misura’ in certo qual modo il polso della storiografia incen-trata su tali temi; cioè su un settore che dalla seconda metà del Novecento si è arricchito di molti contributi e interessanti piste di ricerca.

I dossiers sono proposti da studiosi di estrazione laica ed ecclesiastica, nonché di provenienza accademica oppure attivi in comitati, società stori-che e gruppi di lavoro presenti a livello locale, nazionale e internazionale. Le tre sezioni di cui il libro si compone ospitano scritti di argomento stori-co-religioso, storico-filosofico e storico-artistico, accompagnati da saggi di codicologi, archivisti, esperti di eucologia e liturgia, cultori di storia della Chiesa, di agiografia e di storia della scienza, nonché mediolatinisti e storici della letteratura.

Se il filo conduttore è costituito dalla vicenda di Vallombrosa e della sua famiglia regolare, coloro che hanno voluto lasciare la loro testimonianza

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PREMESSA

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hanno offerto approfondimenti anche su altri rami del mondo benedettino, sui Certosini, sulla riforma di Santa Giustina e i Cassinesi, sulle relazioni in-tessute fra i vari Ordini religiosi. Gli approfondimenti riguardano singole personalità o istituzioni monastiche, cui si affiancano riflessioni di carattere più generale incentrate sulle normative congregazionali, la vita economi-ca, le compagini culturali, il patrimonio artistico e quello architettonico.

In questo senso il volume costituisce un momento di riflessione intor-no a quelli che, a parere di chi ha formulato l’invito al quale tanti amici e colleghi hanno risposto, sono stati alcuni orientamenti della più recente ri-cerca relativa alle forme e alle dinamiche del cenobitismo regolare. I testi si collocano, infatti, sulla scia di indagini risalenti e di prospettive consolidate, coltivate inizialmente soprattutto dagli studiosi contemplativi, e apporta-no, nel contempo, significative novità frutto di indagini di prima mano e di ricerche originali.

I contributi sono, quindi, di assoluto rilievo, e costituiscono, per questo motivo, l’omaggio migliore che una comunità scientifica interessata alla storia del monachesimo poteva offrire alla memoria di uomo di fede sem-pre attento cultore ed estimatore della medesima.

Nel 1768 Voltaire, in piena stagione illuminista, scriveva: «I monaci sono gente che si mette insieme senza conoscersi, vive senza amarsi e muo-re senza rimpiangersi».1

Spero che la presente opera possa almeno in parte dissipare e corregge-re questa non troppo generosa immagine.

Un sentito ringraziamento va a tutti coloro che hanno reso possibile l’uscita di questo libro. In primo luogo la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, Don Giuseppe Casetta, Rev.mo Padre Abate generale della Con-gregazione benedettina vallombrosana, Paolo Tiezzi e le famiglie Casetta Silvestrin e Salvestrini-Fiorentino, il cui sostegno alla pubblicazione è stato assolutamente determinante. Ringrazio tutti coloro che hanno gentilmen-te concesso il loro supporto e coloro che hanno pargentilmen-tecipato alla Tabula Gratulatoria. Per l’organizzazione e l’aiuto nella cura editoriale desidero esprimere la mia gratitudine a Paola Foschi e Rino Salvestrini.

Francesco Salvestrini

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Anna Benvenuti BERTA DI CAVRIGLIA

TRA INVENTIO ERUDITA E DEVOZIONE POPOLARE

Ormai da tempo gli interessi della storiografia si sono orientati sulle co-munità regolari femminili e sulla morfologia delle soluzioni canoniche che via via adeguarono il diversificarsi della società alle istanze spirituali delle donne.1 Sottratte ai barocchismi dell’erudizione ecclesiastica o

all’autore-ferenzialità delle storie ‘familiari’ degli ordini religiosi, le indagini recenti hanno evidenziato i contesti sociopolitici della ‘storia religiosa’ (ammesso che siffatta definizione abbia un senso), inserendo anche i movimenti di riforma, specie quelli dell’XI secolo, nel più ampio campo sematico delle sperimentazioni dei poteri e delle loro dinamiche nei vari contesti locali.

Questi approfondimenti hanno reso evidenti, ad esempio, gli appiat-timenti prospettici che retrodatavano al contesto delle origini le identità

1 Su questo ormai vastissimo campo storiografico esiste una letteratura sconfinata e non sempre significativa. Si rinvia alle opere più recenti: Gert Melville – Anne Muller (eds.), Female vita religiosa between late antiquity and the high middle ages: structures, developments and spatial contexts, Münster, Lit Verlag, 2011; Vincenza Musardo Talò, Il monachesimo femmini-le: la vita delle donne religiose nell’Occidente medievale, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006. Sulla ‘femminilizzazione’ della religiosità tardomedievale, tema ambiguo ma caro alla storiografia recente, cfr. Jacques Dalarun, “Dieu changea de sexe, pour ainsi dire”: la religion faite femme 11.-15. siecle, Münster, Lit Verlag, 2008; sempre utili le considerazioni di Giulia Barone, Come studiare il monachesimo femminile, in Il monachesimo femminile in Italia dall’Alto medioevo al secolo XVII a confronto con l’oggi, a cura di Gabriella Zarri, Negarine di San Pietro in Cariano, Il Segno dei Gabrielli Editori, 1997, pp. 1-15, e di Roberto Rusconi, Problemi e fonti per la storia religiosa delle donne in Italia alla fine del Medioevo (secoli XIII-XV), «Ricerche di storia sociale e religiosa», XLVIII, 1995, pp. 53-75. Per una vasta rappresentazione storiografica sul monachesimo, anche femminile, cfr. Francesco Salvestrini, La più recente storiografia sul monachesimo italico d’età medievale (ca. 1984-2004), «Benedictina», LIII (2006), 2, pp. 435-515, e Annalisa Albuzzi, Il mo-nachesimo femminile nell’Italia medioevale. Spunti di riflessione e prospettive di ricerca in margine alla produzione storiografica degli ultimi trent’anni, in Dove va la storiografia monastica in Europa? Temi e metodi di ricerca per lo studio della vita monastica e regolare in età medievale alle soglie del terzo millen-nio, Atti del convegno internazionale (Brescia-Rodengo, 23-25 marzo 2000), a cura di Giancarlo Andenna, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 131-192; Anna Maria Rapetti, Monachesimo medie-vale. Uomini, donne, istituzioni, Venezia, Marsilio, 2005.

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ANNA BENVENUTI

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istituzionali maturate dalle congregazioni riformate in epoche successive, evidenziandone la natura ‘liquida’ in una società in trasformazione anche dal punto di vista ecclesiologico.

Dei molti monasteri privati originatisi nel quadro delle strategie signo-rili delle aristocrazie toscane tra XI e XII secolo alcuni, come noto, furono femminili: pur in assenza di una analisi complessiva che ne restituisca il panorama completo – per quanto la discontinuità della documentazione possa consentirlo – si ha l’impressione che nella maggioranza dei casi que-ste fondazioni, coeve alle istanze riformatrici che interessarono il mondo regolare maschile e che sicuramente da esso furono a vario titolo influen-zate, non abbiano avuto un ruolo evidente nel processo di rinnovamento ecclesiale in corso. Forse espressione di un conservatorismo istituzionale più radicato nella tradizione femminile benedettina, ad esse, come a suo tempo suggeriva la compianta Rosanna Pescaglini Monti, sembra manca-re «ogni cosciente impulso riformatomanca-re» 2 nel prevalere delle funzionalità

tradizionali all’evergetismo religioso dei ceti aristocratici che le promos-sero con lo scopo prevalente di favorire specifiche strategie signorili per il controllo territoriale e l’affermazione del prestigio familiare.

Se non è facile, all’interno del sistema ‘olistico’ medievale, determinare una priorità motivazionale tra la componente religiosa e quella socio-eco-nomica o politico-istituzionale, è ancor più difficile isolare questo «impulso riformatore» anche in quei cenobi feminili che la tradizione vallombrosana o camaldolese avrebbe più o meno tardivamente incorporato, omettendo le molte oscillazioni avvenute all’indomani della loro fondazione.

Possono essere assunte ad esempio di questa fluidità le prime comunità muliebri che la tradizione attribuisce, rispettivamente, ai due ordini: Santa

2 Rosanna Pescaglini Monti, I conti cadolingi e le origini dell’abbazia di San Salvatore di Settimo, adesso in Ead., Toscana medievale. Pievi, signori, castelli, monasteri (secoli X-XIV), Pisa, Pacini, 2012, p. 538, disponibile in rete all’indirizzo http://pescaglini.labcd.unipi.it/wp-con-tent/uploads/2014/05/17_Cadolingi_Settimo.pdf. Sulla situazione monastica toscana nell’XI secolo, anch’essa oggetto di molta attenzione storiografica, cfr. l’ancor fondamentale Giovan-ni Miccoli, Aspetti del monachesimo toscano del secolo XI, in Id., Chiesa Gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, Firenze, La nuova Italia, 1966, pp. 47-73, e la serie degli studi di Wilhelm Kurze, Monasteri e nobiltà nel senese e nella Toscana meridionale. Studi archeologici, genealogici, giu-ridici e sociali, Siena, Accademia senese degli Intronati, 1989; Studi toscani: storia e archeologia, Castelfiorentino, Società storica della Valdelsa, 2002; Scritti di storia toscana: assetti territoriali, diocesi, monasteri dai longobardi all’etá comunale, a cura di Mario Marrocchi, Pistoia, Società pi-stoiese di storia patria, 2008. Inoltre, Mauro Ronzani, Il monachesimo toscano del secolo XI: note storiografiche e proposte di ricerca, in Guido d’Arezzo monaco pomposiano, a cura di Angelo Rusconi, Firenze, Olschki, 2000, pp. 21-54; M.L. Ceccarelli Lemut, Monasteri e signoria nella Toscana oc-cidentale, disponibile in rete all’indirizzo http://www.bibar.unisi.it/sites/www.bibar.unisi.it/ files/testi/testibds/bda7%20monasteri/05.pdf.

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BERTA DI CAVRIGLIA TRA INVENTIO ERUDITA E DEVOZIONE POPOLARE

Maria di Cavriglia 3 e San Pietro di Luco: 4 il primo fondato tra il 1066 e il

1067 5 su impulso, si vuole, dell’abate Leto di Passignano, grazie alla

dispo-nibilità patrimoniale di una Gisla che l’erudizione settecentesca ha identi-ficato come appartenente al casato dei Firidolfi (o Ridolfi) 6 – a loro volta

collegati, attraverso l’intreccio delle relazioni interfamiliari, anche alla rete

3 Per la complessa vicenda di questo istituto cfr. Martina Verna, Per una storia del mo-nachesimo vallombrosano femminile: San Girolamo a San Gimignano tra Medioevo ed Età Moderna, tesi di laurea magistrale aa. 2015-16, Scuola Umanistica e della Formazione, Corso di laurea in Scienze Storiche, relatore prof. F. Salvestrini; ringrazio la dottoressa Verna per avermi genero-samente consentito di visionare il suo lavoro e per le rilettura di questo testo.

4 Laura Fontani, San Pietro di Luco: origine e primo sviluppo di un monastero femminile camal-dolese, tesi di laurea quadriennale, Facoltà di Scienze della Formazione, aa. 1996/97, relatore prof. Anna Benvenuti. Un’altra serie di tesi (tre) sulle pergamene del monastero di Luco dalle origini al XIII secolo era stata in precedenza assegnata dalla professoressa Luciana Mosiici, già docente di paleografia e diplomatica presso la facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. Sul ricchissimo patrimonio documentario del monastero cfr. Le contesse di Luco. Il monastero camal-dolese di San Pietro a Luco di Mugello. La storia, la fabbrica, l’arte, Azzano San Paolo (BG), Bolis, 2004; sul ruolo della famiglia dei Gotizi, benefattori del monastero di Luco, e sui loro rapporti con quell’ente, oltre quanto detto dalla Fontani, cfr. Maria Elena Cortese, Signori, castelli, città: l’aristocrazia del territorio fiorentino tra 10. e 12. secolo, Firenze, Olschki, 2007, pp. 100-101 e 325-332, che ringrazio per la rilettura di queste pagine e per le precisazioni prosopografiche relative ai gruppi parentali interessati alle fondazioni femminili.

5 Il 1066 quale data di fondazione è accolto anche da Paolo Fridolino Kehr, Italia Ponti-ficia, III, Etruria, Berlino, Weidman, 1908 (1935), p. 101.

6 Secondo Fedele Soldani, Lettera decima sopra la fondazione dei monasteri di S. Lorenzo a Coltibuono e di S. Maria a Cavriglia con breve apologia sopra S. Berta dei Bardi, badessa vallombrosana, Firenze, Stamperia in Borgo de’ Greci, 1754, pp. 44-55, un primo monastero a Cavriglia sarebbe stato fondato, nel IX secolo, dallo stesso capostipite dei Firidolfi, Geremia Seniore. Come nota Maria Elena Cortese, Signori, cit., p. 312, non solo questa affermazione non ha alcun riscon-tro documentario, ma anche la ricorrenza del nome ‘Geremia’ non è propria dei Firidolfi ma del gruppo familiare noto con il nome di ‘nepotes Rainerii’ (a lungo confusi dagli eruditi con i Firidolfi), per la cui prosopografia ivi, pp. 341-353. La lezione del Soldani sarebbe stata accolta anche da Giacomo Sacchetti, Memorie per la vita di santa Berta abbadessa e per la storia della pieve e del monastero di Cavriglia, Siena, Luigi e Benedetto Bindi, 1804, pp. 64-65. Le omonimie pos-sono aver favorito l’attribuzione familiare della Gisla benefattrice e poi badessa di Cavriglia ai Firidolfi, visto che nello stesso periodo (1067) una Gisla di Rodolfo – in realtà non proveniente da questo gruppo familiare ma più probabilmente da quello dei ‘nepotes Raineri’ – è attestata quale benefattrice del monastero di San Pier Maggiore, fondato, come noto, dal vescovo Pietro Mezzabarba proprio tra 1066-1067. Come suggerisce la Cortese questa Gisla non fu badessa di San Pier Maggiore, ma lo divenne una sua figlia omonima: su tutta la vicenda della fonda-zione di San Pier Maggiore e il ruolo di Gisla di Rodolfo e delle sue figlie nel monastero cfr. ivi, pp. 98-100 e 356-362. Per il quadro complessivo degli interessi delle aristocrazie locali nella fondazione di monasteri cfr. della stessa Maria Elena Cortese, Signori di castello nel Valdarno di Sopra (secoli XI-XII), in Lontano alle città. Il Valdarno di sopra nei secoli XII-XIII, Atti del convegno di Montevarchi-Figline Valdarno (9-11 novembre 2002), a cura di Giuliano Pinto e Paolo Pirillo, Roma, Viella, 2005, pp. 119-140: 129, n. 30, 130, 135; Enrico Faini, Firenze in età romanica, Fi-renze, Olschki, 2010, pp. 238-243 e Id. Uomini e famiglie nella Firenze consolare, «Storia di Firenze. Il portale per la storia della città», disponibile in formato digitale all’indirizzo http://www. storiadifirenze.org, 2009.

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ANNA BENVENUTI

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agnatizia dei Cadolingi, consanguinei tradizionalmente attribuiti alla pri-ma badessa Berta 7 –; il secondo, quello delle ‘Contesse’ di Luco, fu invece

promosso dall’abate di Camaldoli, Rodolfo, che nel 1086, con il concorso di clientele stavolta riconducibili ai Guidi 8 e con le consuete riserve patronali,

avrebbe dotato questa nuova fondazione con proprietà mugellane, periferi-che rispetto al nucleo patrimoniale del sacro Eremo.

Se per entrambi i monasteri le dinamiche istitutive rinviano, secondo una tradizione non sempre ben documentata, all’opera di due abati noti per il loro attivismo e per l’interazione coi potentati territoriali locali, già nel periodo successivo si colgono fluttuazioni nei rapporti istituzionali coi fondatori: e questo sia per quanto attiene alla presunta giurisdizione ca-nonica esercitata su entrambi i monasteri dalle rispettive congregazioni, sia relativamente alla continuità di esercizio di diritti patronali da parte dei gruppi familiari sotto la cui protezione essi erano stati fondati – diritti a loro volta esposti al divenire e al differenziarsi di interessi politico-mili-tari di quelle dinastie nelle zone di riferimento territoriale –; sia infine, ma non ultimo argomento, per l’interferenza di soggetti istituzionali ‘altri’, come l’autorità ecclesiastica ordinaria o le stesse compagini comunali, solite ad avvalersi della ‘copertura’ episcopale per insinuare forme più o meno esplicite di sovranità. Nel caso di Luco, ad esempio, l’importanza patrimoniale raggiunta dal monastero nel corso del XII secolo avrebbe evidenziato la necessità di ridefinire legami formali di dipendenza da

Ca-7 Secondo Teodoro de Colle, Donna Berta e Beata Berta dell’Ordine delle Benedettine Val-lombrosane, Firenze, Tipografia Pieri e Paoletti, 1900, pp. 16-18, la fondazione del monastero di Cavriglia rimonterebbe al 1050 e sarebbe da ricondurre alle intenzioni di una Berta che egli ascrive senza ombra di dubbio al casato cadolingio; appare più probabile però, come mi segnala Enrico Faini – che qui ringrazio ‘una tantum’ per la generosa consulenza –, associarla ai Giandonati, anch’essi legati al gruppo consortile cadolingio e rappresentanti dei conti in Firenze, nella cui tradizione onomastica ricorrono sia i nomi di Lotario e Uguccione (gli stessi degli ultimi Cadolingi), entrambi figli di Giovanni di Donato, sia quello di ‘Berta’ (ad es. questo era il nome della moglie di Donato, nonna quindi di Lotario e possibile bisavola della nostra). Ringrazio sia Enrico Faini sia Maria Elena Cortese (secondo la quale, vista la frequenza del nome Berta in ambiente familiare guidingo, la nostra badessa potrebbe essere ricondotta an-che a quest’ultimo gruppo familiare) per questi preziosi suggerimenti, rinviando ai loro già ricordati studi sui gruppi aristocratici operanti in area fiorentina (cfr. supra nota 6). Tornando a Cavriglia Gisla avrebbe solo beneficiato un monastero preesistente; cfr. Verna, Per una storia del monachesimo, cit., p. 37.

8 Cfr. Renzo Nelli, Il Diplomatico, in Le contesse di Luco, cit., pp. 33-34, con l’edizione dei documenti del 1086. Per un altro caso interessante, quello delle Benedettine di Rosano, an-ch’esse sotto la protezione dei Guidi, cfr. Giampaolo Francesconi, La signoria monastica: ipotesi e modelli di funzionamento. Il monastero di Santa Maria di Rosano (sec. XI-XIII), in Lontano alle città, cit., pp. 29-65. Id., Il Principato e la devozione. I Guidi, l’abbazia di Rosano e la Croce dipinta, in La croce dipinta dell’abbazia di Rosano: visibile e invisibile: studio e restauro per la comprensione, a cura di Marco Ciatti, Cecilia Frosinini, Roberto Bellucci, Firenze, Edifir, 2007, pp. 33-42.

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BERTA DI CAVRIGLIA TRA INVENTIO ERUDITA E DEVOZIONE POPOLARE

maldoli che potevano essersi vanificati o mai erano stati di fatto esercitati. Quando nel 1223 si consacrò solennemente la chiesa del monastero alla presenza di Simone arcivescovo di Ravenna e di Giovanni da Velletri pre-sule fiorentino, Guido, secondo priore generale camaldolese con questo nome (1205-1248), reclamò come unicamente dovuti a San Salvatore di Camaldoli gli ‘iura spiritualia et temporalia’ che in qualità di patrono l’e-remo vantava sulla fondazione di Luco, negando risolutamente che essi spettassero ad altri, come con ogni probabilità era avvenuto fino a quel momento. Fu forse in questa occasione che le monache erasero accura-tamente, dall’esemplare dell’atto di fondazione in loro possesso, tutta la riga nella quale si faceva riferimento al ruolo patronale del superiore camaldolese sul loro istituto. Con questa falsificazione, facilmente veri-ficabile grazie al confronto con l’analogo documento conservato tra le pergamene del Sacro Eremo, le religiose rivendicavano un’autonomia di cui dovevano effettivamente aver goduto fino ad allora, quando la diver-sa condiver-sapevolezza ‘congregazionale’ raggiunta della famiglia di diver-san Ro-mualdo cominciava ad imporre l’esercizio di un controllo sulle ‘dipenden-ze’ dell’ordine.9

Come vedremo, pure nel caso di Cavriglia, con qualche certezza riferibi-le alla congregazione vallombrosana solo nel pieno XII secolo,10 anche il

re-cupero memoriale di questa appartenenza sarebbe avvenuto a posteriori. A differenza di Luco, ascrivibile insieme ad altre fondazioni femminili al nove-ro delle pnove-rotezioni guidinghe,11 sulle penombre documentarie della

preisto-ria di Cavriglia l’interpretazione erudita ha proiettato, senza alcuna certezza

9 Anna Benvenuti, Est quidam ecclesia in Mucello sita prope castellum nomine Lu-cum… San Pietro di Luco: viaggio nell’archivio di un monastero soppresso, in Le contesse di Luco, cit., pp. 14-16. Per il tema generale si vedano i molti studi di Cécile Caby, tra cui in particolare De l’érémitisme rural au monachisme urbain: les camaldules en Italie à la fin du Moyen Âge, Rome, École française de Rome, 1999; ma anche Congregazione camaldolese dell’Ordine di San Benedetto, a cura di Cécile Caby e Samuele Megli, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2014 e recentemente gli atti del convegno dedicati al millenario della fondazione di Camaldoli: Camal-doli e l’ordine camaldolese dalle origini alla fine del 15. secolo, Atti del I convegno internazionale di studi in occasione del millenario di Camaldoli (1012-2012) (Monastero di Camaldoli, 31 mag-gio-2 giugno 2012), a cura di Cécile Caby e Pierluigi Licciardello, Cesena, Badia di Santa Maria del Monte, 2014; si veda anche Giampaolo Francesconi, II monachesimo camaldolese e la società dei secoli XI e XII. Note per un bilancio storiografico, in Dalle abbazie, all’Europa: i nuovi germogli del seme benedettino nel passaggio tra primo e secondo millennio (secc. X-XII), Atti del Convegno di Studi (Badia a Settimo, 22-24 aprile 1999), a cura di Alessandro Guidotti e Graziella Cirri, Firenze, Maschietto, 2006, pp. 41-58.

10 Il monastero di Cavriglia è ricordato per la prima volta come vallombrosano nel 1153, in una bolla di Anastasio IV del 22 novembre di quell’anno. Cfr. Nicola Vasaturo, Vallombrosa, l’Abbazia e la Congregazione: note storiche, Vallombrosa, Edizioni Vallombrosa, 1994, p. 37.

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ANNA BENVENUTI

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documentaria, l’ombra del casato comitale dei Cadolingi.12 Quest’ultimo

gruppo familiare, che per qualche tempo fu particolarmente vicino a san Giovanni Gualberto e ai suoi seguaci, si connotò, com’è noto, per l’impegno profuso nell’organizzazione di una rete di insediamenti monastici strategici per il controllo della viabilità e delle comunicazioni fluviali in un vasto com-prensorio territoriale esteso tra Pisa, Lucca, Pistoia, Firenze e Siena.

Non essendoci pervenuta documentazione attendibile sulle origini del cenobio, l’ipotesi di una qualche protezione esercitata dai conti di Borgo-novo su questa fondazione valdarnese pur se plausibile resta indimostrabi-le.13 Unico indizio di una possibile vicinanza cadolingia alle donne di

Ca-vriglia è costituito da una donazione con cui nel 1075 Nero e Ugo figli di Ermengarda donavano a Berta la cappella di San Vittore nel distretto di San Gimignano (diocesi di Volterra), alla presenza di quell’Uguccione del fu Guglielmo Bulgaro che della badessa poteva essere nipote, omonimie permettendo, visto che con questo stesso nome è nota una figlia del conte Lotario di Cadolo, sorella, appunto, di Guglielmo.14

Le oscurità originarie che avvolgono molti degli Eigenklöster femminili che emergono o riemergono alla storia nel corso dell’XI secolo attraverso una documentazione disomogenea e discontinua non consentono di co-gliere una tendenza ‘carsica’ che pure è stata evidenziata nelle dinamiche del fenomeno monastico di quel periodo. Di questa fluidità traccia rimane nelle oscillazioni delle ‘protezioni’ signorili via via accordate al fenomeno sia dai potentati laici che ecclesiastici, a loro volta interconnessi nel variabi-le gioco delvariabi-le clientevariabi-le e degli spesso insondabili variabi-legami agnatizi. Su questo incerto sedimento avrebbe randomicamente agito il monachesimo rifor-mato, intervenendo là dove possibile o opportuno, sul coevo panorama del cenobitismo benedettino.

Anche i pochi lacerti documentari su cui si poggia la protostoria fem-minile vallombrosana non fanno intravvedere l’esistenza di una strategia

12 L’attribuzione di questa Berta ai Cadolingi – poi, seguendo le evoluzioni dinastiche del casato ai discendenti Alberti e infine ai Bardi – è stata a lungo dibattuta: cfr. Antonio De Casto, Vita della beata Berta de’ conti Alberti già signori di Vernio monaca nel venerabil monistero di S. Felicita di Firenze, Firenze, Ippolito Navesi, 1685; Fedele Soldani, Succinta relazione della vita di Santa Berta de’ Bardi badessa di Cavriglia della Congregazione di Vallombrosa, in Firenze, nella Stamperia di Bernardo Paperini, 1730; Giuseppe Maria Brocchi, Vite de’ Santi e Beati fiorentini, Firenze, Gaetano Albizzini, 1742-1761, pp. 206-218; ma anche Emanuele Repetti, Dizionario geografico, fisico e storico della Toscana, Monastero di Cavriglia, in Corte, Firenze, presso l’autore, 1833, I, p. 638. Infine essa sarebbe stata data per certa dal De Colle, Donna Berta e beata Berta, cit., pp. 16-18; su una più probabile parentela coi Giandonati cfr. infra nota 7.

13 Verna, Per una storia del monachesimo, cit., p. 37. 14 Ibid., p. 40.

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BERTA DI CAVRIGLIA TRA INVENTIO ERUDITA E DEVOZIONE POPOLARE

da parte dell’ordine, ma un casuale sistema di affiliazioni esercitato da fi-gure carismatiche su monasteri preesistenti: una attrazione informale, non una vera e propria incorporazione, destinata solo in un secondo momen-to a confluire canonicamente nella consuetudo gualbertiana; cenobi che paiono connotati  – come già suggeriva Willem Kurze 15 evidenziando il

carattere effimero di molti istituti regolari attestati da documenti di fon-dazione ma poi ‘falliti’ nel breve volgere di poche generazioni – da una sostanziale volatilità, dovuta alla loro variabile capacità di affermarsi sul piano economico-patrimoniale.

Se è attendibile la tradizionale attribuzione a Leto, abate di Passigna-no – e per suo tramite allo stesso Giovanni Gualberto – di un influsso isti-tutivo sulle intenzioni religiose di Gisla, questo non comportò un legame formale tra il nascente – o redivivo – monastero di Cavriglia e l’ordine val-lombrosano, ma ne determinò, semmai, uno informale, che inscriveva an-che quell’angolo del Valdarno nelle sperimentazioni di riforma dell’ordine benedettino avviate a Firenze durante il pontificato di Niccolò II, quando il vescovo-papa aveva promosso, con la rifondazione del monastero di Santa Felicita, la nascita di un vivaio monastico femminile fedele ai suoi obietti-vi e dal quale adesso si potevano espiantare energiche badesse destinate, come Berta a Cavriglia, ad attuare quelle riforme che si andavano speri-mentando anche nel mondo regolare maschile.

Come è noto il cenobio femminile di Santa Felicita era stato fonda-to poco prima della ascesa di Gerardo al soglio di Pietro. Nel gennaio del 1060,16 ormai papa, egli l’avrebbe ampiamente dotato di risorse

patrimo-niali, riproponendo, forse dopo una pausa plurisecolare, la presenza di una comunità di donne tra le ‘nuove’ mura di un sito antico: l’area cimiteriale ipogea dedicata ai santi Maccabei sulla quale nell’alto Medioevo era venu-ta a sovrapporsi la chiesa di Sanvenu-ta Felicivenu-ta.17 Gerardo/Niccolò ne inscrisse

15 Cfr. infra n. 2.

16 Luciana Mosiici, Le Carte del monastero di S. Felicita di Firenze, Firenze, Olschki, 1969, doc. 4, pp. 40-44.

17 Questa stratificazione avrebbe generato una sovrapposizione cultuale tra la martire romana e i suoi figli e i sette fratelli martirizzati assieme alla loro madre ad Antiochia di Siria, sotto il regno di Antioco Epifane. Testimonanza della maggiore antichità della dedicazione ai Maccabei – forse limitatamente alla sola area ipogea della chiesa – rispetto a quella a Felicita re-sta nell’uso fiorentino di celebrare la fere-sta della dedicazione della chiesa al 1 agosto, giorno nel quale si commemoravano i santi antiocheni. Per l’edificio cfr. Francesca Fiorelli Malesci, La Chiesa di Santa Felicita a Firenze, Firenze, Giunti, 1986. Per la complessa tradizione agiografica relativa a Felicita cfr. Bibliotheca hagiographica latina antiquae et mediae aetatis, Bruxelles, Société des Bollandistes, 1898-1901 I, p. 429-430, nn. 2853, 2854, 2855, ma anche Biblioteca agiografica italiana, Firenze, 2003, I, p. 257-259. La diffusione altomedievale italiana del culto per i Macca-bei ebbe un suo epicentro a Roma, nella chiesa di San Pietro in Vincoli, dove si voleva che nel

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l’istituzione nel più vasto quadro di una serie di restauri ‘ideologici’ nel tessuto ecclesiastico cittadino con i quali egli intese non solo richiamare la natura filiale di Firenze rispetto alla città apostolica – con l’esaltazione di culti ‘romani’, quali appunto quelli di Felicita o Lorenzo 18 – ma anche

re-cuperare l’antica dignità della chiesa locale, compromessa dalla negligenza dei pastori che lo avevano preceduto sulla cattedra di san Zanobi: program-ma riforprogram-matore promosso nel segno del recupero della libertas ecclesiae dal-le usurpazioni, non solo laicali, che ne avevano impoverito sia il patrimonio sia il prestigio. Una libertas che i vescovi fiorentini si sarebbero sempre più chiaramente impegnati ad esercitare anche al di là e al di fuori delle tensio-ni della cosiddetta età ‘gregoriana’.

Non a caso di lì a non molto anche il vescovo Pietro Mezzabarba,19

la più nota tra le vittime fiorentine della guerriglia riformatrice spregiu-dicatamente combattuta dai Vallombrosani in città,20 avrebbe a sua volta

VI secolo fossero state traslate le loro reliquie. Cfr. Luigi F. Pizzolato – Chiara Somenzi, I sette fratelli maccabei nella chiesa antica d’occidente, Milano, Vita e Pensiero, 2005.

18 A questo contesto concettuale si deve anche la rifondazione della basilica di San Loren-zo, anch’essa cimiteriale, che in questa occasione fu dotata di un proprio capitolo (Anna Ben-venuti, San Lorenzo: la cattedrale negata, in Le radici cristiane di Firenze, saggi raccolti e ordinati da Anna Benvenuti, Franco Cardini, Elena Giannarelli, Firenze, Alinea, 1994, pp. 117-134. Per il capitolo di San Lorenzo cfr. William M. Bowsky, La Chiesa di San Lorenzo a Firenze nel Medioevo: scorci archivistici, a cura di Renzo Nelli, Firenze, Edizioni della Meridiana, 1999). Questa reno-vatio riproponeva i confini ‘cristiani’ della città tardo antica, nella quale San Lorenzo e Santa Felicita, con i rispettivi cimiteri costituivano i poli terminali del cardo, mentre San Pier Maggio-re e San Paolo quelli del decumano, pMaggio-residiando, ciascuna con una sua croce viaria le aMaggio-ree da cui si dipartiva la viabilità extraurbana: cfr. Anna Benvenuti, Stratigrafie della memoria: scritture agiografiche e mutamenti architettonici nella vicenda del “Complesso cattedrale” fiorentino, in Il bel San Giovanni e Santa Maria del Fiore. Il centro religioso a Firenze dal tardo antico al Rinascimento, a cura di Domenico Cardini, Firenze, Le lettere, 1996, pp. 95-128.

19 Cfr. Mauro Ronzani, Pietro Mezzabarba e i suoi confratelli. Il reclutamento dei vescovi della «Tuscia» fra la morte di Enrico III e i primi anni del pontificato di Gregorio VII (1056-1078), in L’orga-nizzazione ecclesiastica nel tempo di san Guido. Istituzioni e territorio nel secolo XI, Atti del convegno di Acqui Terme (17 e 18 settembre 2004), a cura di Simone Balossino e Gian Battista Garbarino, Acqui Terme, Editrice Impressioni Grafiche, 2007, pp.  139-186, distribuito in formato digi-tale da «Reti Medievali» http://www.rmoa.unina.it/1501/1/RM-Ronzani-Mezzabarba.pdf. Si veda anche George W. Dameron, Episcopal Power and Florentine Society, 1000-1320, Cambridge (Ma), Harvard University Press, 1991, p. 53 e passim. Importanti anche le considerazioni di Enrico Faini, I vescovi dimenticati. Memoria e oblio dei vescovi fiorentini e fiesolani dell’età pre-gre-goriana, «Annali di Storia di Firenze», VIII, 2013, pp. 11-49, part. pp. 36 sg., disponibile in rete all’indirizzo http://www.fupress.net/index.php/asf/article/view/14440, e Id. Firenze in età romanica, cit., pp. 238-243; cfr. anche infra n. 20 e 21.

20 Giovanni Miccoli, Pietro Igneo. Studi sull’età gregoriana, Roma, G. Bardi 1960; Anna Benvenuti, Giovanni Gualberto e i Vallombrosani nei loro rapporti con Firenze, in I Vallombrosani nella società italiana dei secoli XI e XII, Atti del I colloquio vallombrosano (Vallombrosa 3-4 set-tembre 1993), a cura di Giordano Monzio Compagnoni, Vallombrosa, Edizioni Vallombrosa, 1995, pp. 83-112.

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promosso e dotato un monastero femminile, poi consacrato ai primi di marzo del 1067 (ormai nel pieno del clima di tensioni che sarebbero culmi-nate l’anno successivo nella ‘prova del fuoco’ di Settimo),21 restaurando in

San Pier Maggiore il nucleo memoriale più antico della florentina ecclesia e assicurando ad esso quel significato simbolico che avrebbe fatto della sua badessa la mistica sponsa cui si univano in matrimonio i vescovi locali all’at-to dell’assunzione della loro dignità pasall’at-torale.22

Evidentemente mimetico del gesto fondatore del suo predecessore Ge-rardo/Niccolò, l’intento di Pietro era quello di legittimare il proprio ope-rato ricorrendo al tradizionale evergetismo episcopale riguardo alle fon-dazioni monastiche. Un evergetismo che, del resto, era da sempre stato funzionale anche alla loro organizzazione signorile: la stessa al cui eser-cizio si opponeva, in concorrenza ma con gli stessi metodi, la crescente ambizione di quella aristocrazia minore che, formatasi spesso a ridosso e a discapito del patrimonio ecclesiastico, mirava adesso a contrastarne i dirit-ti. All’interno di questa conflittualità si sarebbero determinate le geometrie variabili dei rapporti di potere non solo tra le fondazioni femminili e i loro fondatori, detentori di significativi diritti patronali, ma anche molte delle dispute giurisdizionali che ne avrebbero caratterizzato, come bene dimo-stra la ricca documentazione dei secoli successivi, la vita istituzionale.

Il manto benedettino che aveva coperto le vicende altomedievali di molti dei cenobi femminili dispersi nel territorio poi divenuto fiorentino – spesso grazie anche alla progressiva sovrascrittura comunale su luoghi per-tinenti agli eredi di san Zanobi – avrebbe acquisito i colori riformati (val-lombrosani o camaldolesi) solo successivamente, all’indomani del lungo periodo di stabilizzazione normativa e di riorganizzazione memoriale di quelle congregazioni, le quali, a loro volta, avevano partecipato in manie-ra diversificata e localmente variabile all’inquieta stagione della rinascenza espiscopale dell’XI e del XII secolo e alle conflittualità che all’interno di

21 In merito si veda adesso Francesco Salvestrini, La prova del fuoco. Vita religiosa e identi-tà cittadina nella tradizione del monachesimo fiorentino (seconda meidenti-tà del secolo XI), «Studi Medieva-li» III serie, LVII, 2016, 1, pp. 88-127.

22 Giovanni Lami, Sanctae ecclesiae florentinae monumenta, IV/3, Firenze, Salutati, 1758, 1710; Emilio Sanesi, L’Antico ingresso dei vescovi fiorentini, Firenze, Scuola tipografica Artigianel-li, 1932; Maureen C. Miller, The Florentine Bishop’s Ritual Entry and the Origins of the Medieval Episcopal Adventus, «Revue d’histoire ecclesiastique», XCVIII, 2003, pp. 5-28; Ead., Urban Space, Sacred Topography, and Ritual Meaning in Florence: The Route of the Bishop’s Entry, c. 1200-1600, in The Bishop Reformed Studies of Episcopal Power and Culture in the Central Middle Ages, ed. by Anna Trumbore Jones, John S. Ott, Burlington, Aldershot, 2007, pp. 237-249; Lorenzo Fabbri, La sella e il freno del Vescovo: privilegi familiari e saccheggio rituale nell’ingresso episcopale a Firenze fra XIII e XVI secolo, in Uomini paesaggi storie: studi di storia medievale per Giovanni Cherubini (Vol. 1-2) a cura di Duccio Balestracci et alii, Siena, SeB, 2011-2012, II, pp. 895-910.

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quel processo di riorganizzazione ecclesiale si erano sviluppate nel conte-sto più ampio della nascente espansione comunale.

L’intreccio di protezioni e amicizie accordate a fondazioni femminili promosse o raccomandate da esponenti del monachesimo benedettino ri-formato maschile fu a sua volta, come già si diceva, una variabile dipen-dente delle mutevoli strategie territoriali delle aristocrazie locali, come bene esemplificano le simpatie non esclusive dei conti Guidi 23 per i

Ca-maldolesi 24 o quelle dei Cadolingi per i Vallombrosani; 25 l’‘opportunismo’

politico – per richiamare qui la datata espressione di Yoram Milo 26 – che

caratterizzò le simpatie nobiliari per il movimento di riforma monastico del periodo è stato già ampiamente richiamato dalla storiografia, che ha dimostrato come esso, in generale, non si presti ad evocare una specifica adesione ai «differenti modelli ecclesiologici e progetti di riforma» 27

pro-mossi dalle differenti famiglie regolari emerse dalla tempestosa koinè istitu-zionale dell’XI secolo. Considerazione che sembra ancora più opportuna, come già si diceva, per le fondazioni femminili, prevalentemente non esen-ti dalla giurisdizione ordinaria dei vescovi e quindi ancor più condizionate, rispetto alle coeve istituzioni maschili riformate, dalle contingenti strategie pastorali, politiche e talvolta militari dell’episcopato locale.

Come ha evidenziato a proposito delle monache di Cavriglia l’indagine di Martina Verna, l’abbatissato ‘fondatore’ di Berta a Cavriglia avrebbe assi-curato a quell’istituto anche la gemmazione di una dipendenza nel distret-to di San Gemignano, grazie alla donazione della cappella di San Vitdistret-tore:

23 Si vedano, come esempi del rapporto tra Guidi e Vallombrosani, Francesco Salvestri-ni, Disciplina caritatis. Il monachesimo vallombrosano tra medioevo e prima età moderna, Roma, Viella, 2008, pp. 303-326; e Maria Elena Cortese, Una potenza in ascesa. Formazione, Geografia e struttura dei domini guidinghi in territorio forentino (secoli X.XII), ivi, pp. 245-266. Per la documen-tazione guidinga, Natale Rauty, Documenti per la storia dei conti Guidi in Toscana: le origini e i primi secoli, 887-1164, Firenze, Olschki, 2003.

24 Ugo Fossa, L’espansione camaldolese in Toscana (XI-XIII secolo), in Camaldoli e l’ordine ca-maldolese dalle origini alla fine del XV secolo, cit., pp. 135-152; Giampaolo Francesconi, La costru-zione di uno spazio monastico eccentrico: Camaldoli fra pratiche sociali conservative e poteri signorili (secoli XI-XIII), ivi, pp. 101-116; Francesco Salvestrini, “Recipiantur in choro […] qualiter benigne et caritative tractantur”. Per una storia delle relazioni fra Camaldolesi e Vallombrosani (XI-XV secolo), ivi, pp. 53-99.

25 Salvestrini, Disciplina caritatis, cit. Sul tema delle strategie territoriali dei cadolingi cfr. Cortese, Signori, castelli, città, cit., p. 26.

26 Yoram Milo, Political opportunism in Guidi Tuscan policy, in I ceti dirigenti in Toscana nell’età precomunale, Pisa, Pacini, 1981, pp. 207-221: 209 sgg.

27 Nicolangelo D’Acunto, Lotte religiose a Firenze nel secolo XI: aspetti della rivolta contro il vescovo Pietro Mezzabarba, «Aevum», LXVII, 1993, pp. 279-312: 287-290; più recentemente Id., Monachesimo camaldolese e monachesimo “riformatore” nel secolo XI, in Camaldoli e l’Ordine camal-dolese dalle origini alla fine del XV secolo, cit., pp. 21-38.

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filiazione destinata a lunga vita ed espressione, nel tempo, del complesso rapporto che poteva unire una casa madre femminile benedettina alle sue dipendenze.28

I non moltissimi documenti del periodo forniscono indizi sull’esistenza di un sistema di relazioni informali tra vari chiostri di donne, come bene esemplifica proprio il caso fiorentino di Santa Felicita, le cui monache furo-no chiamate, grazie alla buona fama del loro cefuro-nobio, ad istruire nella vita regolare nuove comunità. Berta è un esempio di questo ruolo istruttorio, e non a caso il suo mandato non sarebbe stato lungo, visto che già nel 1077 ella faceva ritorno a Firenze per assumere la guida del suo monastero di origine, sedendo sul seggio lasciato vuoto dalla defunta badessa Teuper-ga.29 Berta avrebbe governato le donne di Santa Felicita fino ai primi anni

Novanta,30 mentre a Cavriglia le era subentrata con ogni probabilità la

stes-sa fondatrice: quella Gisla che ne fu badesstes-sa fino al 1098.

Non sappiamo in che situazione versasse realmente il monastero in quel periodo. Le poche informazioni che hanno alimentato la tradizione storica del cenobio valdarnese dipendono quasi esclusivamente dalla fase successiva della sua storia: quella su cui aleggia più decisa l’influenza di Vallombrosa e dei suoi abati e che si lega al flos agiografico di una seconda badessa di nome Berta,31 vissuta in fama di santità, cui avrebbe dedicato

la sua attenzione di agiografo Girolamo da Raggiolo.32 Per

comprende-28 Verna, Per una storia del monachesimo, doc. 1, p. 106; originale in ASF, Diplomatico di San Gimignano, 1075 ottobre 1.

29 Teuperga era stata la prima badessa del monastero e, secondo Filippo Brunetti (Codice diplomatico toscano, Firenze, Stamperia Pagani, 1806, p. 108, n. 1), non deve essere confusa con la omonima donatrice, figlia di Atto detto Alberto e moglie di Rolando di Atto, che il 20 set-tembre 1058 donava al preposto Martino, ricevente a nome della Canonica di San Giovanni di Firenze, i terreni necessari alla edificazione.

30 Berta è attestata come badessa dal 1080 al 1091. Nel 1095 le subentrò Oria. Cfr. Mosiici, Le carte del monastero di S. Felicita, cit., pp. 77-102, docc. 17-29.

31 Cfr. Sofia Boesch Gajano, Berta, beata, in Dizionario Biografico degli Italiani 9 (1967), disponibile in versione digitale http://www.treccani.it/enciclopedia/beata-berta_(Diziona-rio-Biografico)/, cui si rinvia anche per le indicazioni bibliografiche di riferimento. Si veda anche Vallombrosa: memorie agiografiche e culto delle reliquie, a cura di Antonella Degl’Innocenti, Roma, Viella, 2012.

32 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. XVIII, cod. 21: Hieronymi Radiolensis Opera, Liber quartus beatorum huius religionis (Vallisumbrosae) (cfr. Alfons M. Zimmermann, Ka-lendarium Benedictinum, I, Metten 1933, p. xxii; per l’edizione del testo della Vita di Berta di Gi-rolamo e per il commentario previo dei Bollandisti cfr. Acta Sanctorum, Martii, III, Antverpiae, 1668, pp. 492-494. Indispensabile il rinvio ai lavori sull’opera e sulla tradizione testuale di Gi-rolamo da Raggiolo compiuti nel tempo da Antonella Degl’Innocenti, L’opera agiografica di Girolamo da Raggiolo, in Vallombrosa: memorie agiografiche, cit., pp. 219-243; Santità vallombrosana fra XII e XIII secolo, ivi, pp. 141-159, ed in particolare al recente Studiare la santità delle donne: un omaggio ad Anna Benvenuti (con un excursus sulle sante del “Liber de vallimbrosanae religionis beatis”,

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re l’effettivo valore storico della sua memoria, però, occorre riconnettere l’operazione culturale del dotto umanista al contesto che la produsse: nel cuore tutto quattrocentesco di un composito processo di rielaborazione della memoria agiografica dell’ordine compiuto in un momento di crisi e di dissapori interni che avrebbero proiettato nel passato ideogrammi del presente più che figure storicamente attendibili; ologrammi destinati a comporre la galleria della santità di una famiglia religiosa divisa anche nella rappresentazione del proprio ‘mito delle origini’.33

Sospesa tra l’esiguità e l’ambiguità di testimonianze documentarie di tipo esclusivamente patrimoniale – una documentazione a volte resa poco perspicua anche dal ricorrere contemporaneo degli stessi nomi per perso-ne diverse – e l’astrazioperso-ne letteraria di una rappresentazioperso-ne agiografica, la storia di Cavriglia e delle sue badesse si sarebbe complicata grazie alle ridondanze dell’erudizione ecclesiastica dei secoli XVII e XVIII, cristalliz-zandosi infine nella apparente obiettività documentaria del XIX, quando l’acribia degli studiosi avrebbe aggregato in un disegno unitario la puntifor-me realtà di un’informazione frampuntifor-mentaria, assemblando attorno a Berta non solo le memorie che concernevano la sua storia, ma anche quelle di altre donne coeve che portavano lo stesso nome.

Nei fatti, come già si diceva, circa lo stato effettivo del monastero di Cavriglia dopo la morte di Gisla non sappiamo nulla, tranne la tardiva e fortunata testimonianza di Girolamo da Raggiolo (poi raccolta da tutta la storiografia successiva) secondo cui esso, «dirutum et malis exemplis de-formatum … per iniqua exempla iam distructum fuerat».34 Eco forse delle

antiche inimicizie tra Passignano e Vallombrosa,35 ma, più probabilmente,

in Leggerezze sostenibili. Saggi d’affetto e di Medioevo per Anna Benvenuti, a cura di Simona Cresti, Isabella Gagliardi, Firenze, Edifir, 2017, pp. 55-64: 61-62, dove sono pubblicate le tre Vite fem-minili (quelle di Verdiana, di Berta e di Umiltà) presenti nel Liber gerolamiano. Avendo potuto consultare quest’opera quando questo saggio era stato consegnato per le stampe i riferimenti alla Vita di Berta del da Raggiolo restano quelli dell’edizione dei Bollandisti.

33 Sono grata alla disponibilità affettuosa e paziente dell’amico e collega Francesco Sal-vestrini, con il quale ho avuto numerosi e proficui scambi di opinioni sull’argomento e del quale è recentemente uscita una riflessione significativa sul momento mediceo-laurenziano della storia dell’Ordine vallombrosano attraverso l’analisi della figura dell’abate Biagio Milane-si (Francesco Salvestrini, Il carisma della magnificenza. L’abate vallombrosano Biagio MilaneMilane-si e la tradizione benedettina nell’Italia del Rinascimento, Roma, Viella, 2017).

34 Girolamo da Raggiolo, Vita della B. Berta badessa di Cavriglia, in Acta Sanctorum, Martii, III, p. 494.

35 Sulle quali cfr. Francesco Salvestrini, San Michele Arcangelo a Passignano nell’Ordo Valli-sumbrosae tra XI e XII secolo, in Passignano in Val di Pesa. Un monastero e la sua storia, I. Una signoria sulle anime, sugli uomini, sulle comunità (dalle origini al sec. XIV), a cura di Paolo Pirillo, Firenze, Olschki, 2009, pp. 59-127.

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riflesso di contrasti e opinioni contemporanee alla sua scrittura, le cupe tin-te evocatin-te da Girolamo per descrivere il degrado di una fondazione dovuta alla volontà di un abate di Passignano erano la necessaria premessa per in-trodurre il tema della sua ‘rinascita’, assicurata nel 1143 36 dall’intervento di

Gualdo,37 abate di Vallombrosa e legittimo restauratore di quelle disciplina

gualbertiana che in quel cenobio, forse proprio per il peccato originario della sue origini, non era correttamente attecchita, come sembrano evoca-re gli ‘iniqua exempla’ che erano stati causa della sua rovina.

Quasi ripetizione degli eventi fondatori delle origini, la narrazione di Girolamo ricalca fedelmente la ‘preistoria’ di Cavriglia e quella dei suoi protagonisti: un abate riformatore, una nobile monaca di nome Berta, un medesimo monastero di origine (il fiorentino cenobio di Santa Felicita che, grazie a siffatta insistenza, sarà considerato a torto un cenobio vallombro-sano), un periodo di saggia (per la prima Berta), santa (per la seconda) am-ministrazione claustrale, un allontanamento per l’una, la morte per l’altra. Uno schema talmente simile da far pensare che Girolamo abbia clonato sul modello della prima anche la seconda Berta: preludio ai successivi tranelli omonimici nei quali sarebbero caduti gli storici moderni, che avrebbero continuato ad agglutinare attorno al comune denominatore ‘Berta’ una quantità di donne diverse, non ultima una terza badessa di questo nome, attiva anch’essa nel XII secolo, ma a Mantignano (altro dominio cadolingio, nei pressi dell’epicentro monastico dei conti di Borgonuovo, San Salvatore a Settimo), che alcuni biografi, a cominciare dal De Colle,38 hanno

iden-tificato con la beata, coinvolgendola, come si vedrà, in una nota querelle intercorsa tra quel monastero e i vescovi fiorentini. Se, come si è voluto, la beata Berta fosse uscita da Cavriglia per andare a reggere un altro mona-stero, come era successo alla prima Berta, forse il da Raggiolo ne avrebbe avuto un qualche sentore e, pur nei limiti informativi della sua narrazione, ne avrebbe dato notizia.

Girolamo dichiara, infatti, di aver utilizzato per la stesura della sua Vita una ‘storia’ 39 sulla quale non fornisce però alcuna indicazione precisa,

sal-vo il riferimento ai molti miracoli avvenuti per intercessione della santa che la scrittura da lui compulsata conteneva: forse un liber miraculorum annesso

36 Verna, Per una storia del monachesimo, cit., p. 39, n. 60.

37 Girolamo da Raggiolo, Vita della B. Berta badessa di Cavriglia, in Acta Sanctorum, Martii, III, p. 493, n. 11.

38 De Colle, Donna Berta, cit.

39 Egli dichiara di essere a conoscenza di miracoli a lei attribuiti, «ut in historia sua lucide patet» (Girolamo da Raggiolo, Vita della B. Berta badessa di Cavriglia, in Acta Sanctorum, Martii, III, p. 493).

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ad una breve nota biografica nel quale un rettore della chiesa monastica poteva aver registrato gli eventi prodigiosi avvenuti per intercessione di Berta: riprova di una continuità di culto notata anche dai Bollandisti, ignari però degli esiti tempestari e apotropaici che esso aveva assunto nel Quat-trocento, quando, secondo il Sacchetti, si invocava l’intercessione della san-ta badessa «contro i fulmini ed in occasione de’ bisogni delle campagne», come attestavano, a suo dire, numerose «tavolette votive appese al sacro altare della cappella».40

A questa tradizione raccolta oralmente dagli abitanti di Cavriglia dovet-te attingere lo sdovet-tesso Girolamo, il quale, rinunciando ad una disamina ac-curata dei molti miracoli avvenuti presso il sepolcro per la loro notorietà ai contemporanei, si sofferma solo sul prodigioso salvataggio di un bambino caduto nel vorticoso ritrecine di un mulino: «Quibus omnibus praetermis-sis uno quidem, non solum a domino Angelo, tunc illius monasterii recto-re, verum ad universis qui oppidum illud Caprilaie etiam in presenti tem-pore incolunt, accepimus».41 È un miracolo tardivo, che egli data al 1466,42

a riprova dell’esistenza di una continuità nel culto per la santa badessa a Cavriglia che stenta a conciliarsi con le ipotesi di quanti hanno sostenuto un trasferimento a San Vittore di San Gimignano sia delle monache sia del corpo della beata, all’indomani delle vicende belliche che alla metà del XIV secolo avrebbero sconvolto la vita del castrum valdarnese.43

All’epoca in cui il vallombrosano aveva raccolto le testimonianze locali del culto il luogo ove riposavano i resti di Berta era stato dimenticato, così come erano diventati recessivi i dettagli della sua vita. Del resto, probabil-mente, a Girolamo una più approfondita storicizzazione della vicenda di Berta interessava solo fino a un certo punto, dal momento che la stesura del-la biografia deldel-la badessa era per lui, tutto sommato, un pretesto ideologico coerente con tutta la sua attività di agiografo: esemplatore, attraverso una galleria di personaggi a volte del tutto estranei alla tradizione dell’ordine, di

40 Sacchetti, Memorie per la vita di santa Berta, cit., p. 20.

41 Girolamo da Raggiolo, Vita della B. Berta badessa di Cavriglia, in Acta Sanctorum, Martii, III, p. 493, n. 4.

42 Ivi, n. 5.

43 «Dopo la metà del secolo XIV per le scorrerie de Sanesi e de Fiorentini fu diroccato l’an-tico Castello di Cavriglia e le monache soffrirono molte vessazioni. Nel secolo XV si ritirarono le monache nel Monastero di S. Vittore in S. Gimignano. Il Monastero di Cavriglia rimase alla Religione Vallombrosana ed ivi restò la cura sotto il giuspadronato dell’ abate del monastero di S. Trinita di Firenze. In seguito fu ridotta quella chiesa a somma povertà e miseria fu negletto il culto della santa e la sua cappella era tenuta con molta indecenza e per attestato di vari scrittori e per gli atti delle visite vescovili. Allora si perdé la memoria del luogo della sepoltura del corpo della santa» (Sacchetti, Memorie per la vita di santa Berta, cit., p. 14).

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BERTA DI CAVRIGLIA TRA INVENTIO ERUDITA E DEVOZIONE POPOLARE

una purezza delle origini gualbertiane che egli temeva fosse stata dimentica-ta nel complesso dispiegarsi della sua storia istituzionale e spirituale.

Legata al presente dell’autore, alla sua vicenda individuale e alla sua personale visione dell’inquieta famiglia vallombrosana, la testimonianza relativa a Berta trasmessa da Girolamo è poco più di un medaglione or-namentale nella cornice che inquadra una santità dell’ordine iconizzata dalla figura di san Giovanni Gualberto. Anche nel caso di Berta lo schema descrittivo adottato da Girolamo non si discosta, evidentemente per l’as-senza di informazioni o lacerti storici effettivi, dalla topica tradizionale: Berta è fanciulla di nobili natali («cuius origo ex Italia a comitibus fuit, pa-tre nomine Lothario»), pudica nei costumi infantili, devota nella penitenza domestica, come sant’Agata affamata di letture evangeliche e di orazioni, monaca esemplare nel cenobio fiorentino di Santa Felicita, e infine badessa dalle virtù gualbertiane richiamate nelle azioni cerimoniali dell’ultima Pa-squa vissuta della santa: lavanda dei piedi alle consorelle, meditazioni sulla Passione, predicazione ed esortazione intorno al tema del vinculum della carità e dell’unione, così come la tradizione attribuiva allo stesso Giovanni Gualberto, di cui chiaramente Berta è ‘figura’.

Nessuna testimonianza documentaria consente di seguire né l’attività della santa badessa, né le vicende del monastero, che viene ricordato in un privilegio concesso il 2 novembre 1148 da Eugenio III,44 allora in San

Gi-mignano, alle benedettine delle due comunità di San Vittore e di Cavriglia. Con questo atto, andato perduto ma richiamato da un successivo breve di Innocenzo III nel 1207, il papa prendeva sotto la protezione apostolica le religiose, confermando tutti i loro beni, decime e pertinenze, consenten-do l’elezione canonica della badessa seconconsenten-do la regola di san Benedetto. Cavriglia avrebbe nuovamente goduto delle attenzioni pontificie di Ana-stasio IV nel 1153, di Alessandro III nel 1168 e 1176, di Urbano III il 12 maggio e il 26 giugno del 1186, di Clemente III nel 1188, di Innocenzo III nel 1198: 45 sequenza cronologica che smentisce l’ipotesi avanzata dal De

Colle,46 secondo il quale già pochi anni dopo la rifondazione del cenobio

si riapriva una crisi di sopravvivenza che avrebbe spinto le poche religio-se prereligio-senti, Berta compresa, ad abbandonare quella religio-sede per trasferirsi, come già si diceva, in un altro istituto benedettino, Santa Maria di Manti-gnano,47 per ordine del nuovo abate generale vallombrosano Ambrogio e

44 Verna, Per una storia del monachesimo, cit., p. 43, n. 71. 45 Sacchetti, Memorie per la vita di santa Berta, cit., p. 67. 46 De Colle, Donna Berta, cit., pp. 19-22.

47 Cfr. Kehr, Italia Pontificia, cit., III, pp. 50-51. Cfr. anche Giovanni Lami, Sanctae Ecclesiae Florentinae Monumenta, Firenze, Tipografia Salutati, 1758, ad indicem, e Ildefonso da San Luigi,

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ANNA BENVENUTI

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con il consenso di Atto, vescovo di Firenze. L’arco cronologico di questa operazione dovrebbe collocarsi prima del 1154 – anno in cui il presule fio-rentino moriva – ed implicherebbe una qualche relazione tra Cavriglia e Mantignano tale da giustificare l’intervento congiunto delle due autorità abilitate  – l’uno per giurisdizione propria, l’altro per autorità locale or-dinaria – ad interferire nella vita di una comunità monastica femminile. Omesso nei riferimenti critici dal De Colle, il documento attestante questo evento è, a quanto risulta, irreperibile, né le informazioni disponibili circa la vicenda monastica di Santa Maria a Mantignano illuminano quel pre-sunto momento della sua storia.

Di questa fondazione femminile alle porte di Firenze, sorta in un luogo strategico per le comunicazioni da e per la città, come sottolinea Rosanna Pescaglini Monti, non conosciamo né la data di fondazione né l’identità dei fondatori: «Senza escludere che lo si possa identificare con la chiesa di Santa Maria «que vocatur Agnano» menzionata fra i più antichi possessi dell’abbazia di Settimo nei due diplomi imperiali del 1014 e del 1047 è comunque certo che questo monastero femminile comincia ad apparire nelle fonti scritte dal marzo 1083 (ASF, Diplomatico S. Apollonia). E se prolunghiamo fino a tutto il primo decennio del XII secolo l’analisi delle non molte pergamene che lo riguardano (provenienti quasi esclusivamen-te dal fondo di Sant’Apollonia dell’ASF), tale esame rivela in primo luogo gli stretti rapporti di Santa Maria di Mantignano e della sua badessa Imilla con i Cadolingi delle ultime due generazioni» 48 e con la loro clientela, a

cominciare da quei Nerli cui dedica pagine interessanti Enrico Faini 49 e

che nella seconda metà del Duecento sono documentati come i patroni del monastero.

Nessun documento sostiene, infine, l’ipotesi di un qualche legame tra quelle monache e Vallombrosa, considerando che il loro fulcro gravitazio-nale restò a lungo il monastero di San Salvatore a Settimo, che a questa data aveva da tempo dimenticato le tensioni e gli effimeri schieramenti del periodo riformatore, comprese le ‘simpatie gualbertiane’ dei Cadolingi in quella stagione. Della duratura fedeltà delle monache di Mantignano ai confratelli benedettini di San Salvatore a Settimo sarebbe rimasta eco pure dopo il passaggio di quell’istituto ai Cistercensi (1230) e anche all’indomani

Delizie degli eruditi toscani, Firenze, Tipografia Cambiagi, 1770-1786, ad indicem; La chiesa fioren-tina, Firenze, Curia Arcivescovile, 1970, n. 177, pp. 266 sgg.

48 Cfr. Pescaglini Monti, I conti Cadolingi, cit., p. 527, n. 23.

49 Faini, Firenze in età romanica, cit., pp. 62, 135 e passim, ma anche Perscaglini Monti, I conti cadolingi, cit., p. 527, n. 23.

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BERTA DI CAVRIGLIA TRA INVENTIO ERUDITA E DEVOZIONE POPOLARE

del loro inurbamento fiorentino in San Frediano, dove le religiose li avreb-bero seguiti nel Trecento.50

Il De Colle, come si diceva, dà conto di un buon numero di documenti noti all’erudizione ecclesiastica fiorentina,51 nei quali, fino al 1190,

compa-re come badessa una Berta. In quest’anno le monache avcompa-rebbero richiesto e ottenuto l’esenzione dall’autorità ordinaria. Contraria a questa iniziativa, Berta avrebbe deciso di lasciare la comunità e di far ritorno a Cavriglia, dove sarebbe morta, ormai vecchissima, in fama di santità nel 1197.52 Al

suo posto subentrava a Mantignano una Cilla, immediatamente deposta dal vescovo fiorentino, il quale, nel marzo 1199, riusciva a sottomettere le monache ribelli e ad ottenerne la fedeltà sotto giuramento. Di lì a poco, però, la comunità sarebbe nuovamente insorta, riaprendo un contenzioso con la sede episcopale destinato a risolversi solo nel 1211 con la definitiva sottomissione delle religiose all’autorità ordinaria. La documentazione di questa controversia, confluita assieme alle carte di Mantignano tra quelle delle benedettine di San’Apollonia – che una poco documentata tradizione ascrive alla congregazione camaldolese 53 – ha fatto ritenere che anche il

monastero di Mantignano appartenesse fin dai suoi esordi a quell’ordine,54

secondo un procedimento di retrodatazione dell’appartenenza congrega-zionale che fu comune a molte famiglie regolari.

Al rumore documentario prodotto dalla polemica delle monache di Mantignano coi vescovi fiorentini faceva riscontro la discrezione delle don-ne di Cavriglia, che alla morte della beata, qualunque don-ne sia stata la data,

50 Cfr. infra n. 54.

51 De Colle, Donna Berta, cit., pp. 19-22.

52 Accogliendo come valido il dato della morte della beata nel giorno di Pasqua, le date possibili sarebbero sia il 1163 sia il 1197. Cfr. Boesch, Berta, beata, cit.

53 Anche sull’appartenenza, a quest’epoca, del monastero di Sant’Apollonia all’ordine ro-mualdino esistono dubbi e riserve. Cfr. in merito Giuseppe Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine divise ne’ suoi quartieri, In Firenze, Viviani, 1754-62, VIII/4, Lezione XXV (Sant’Apol-lonia), 1, p. 297.

54 Le monache di Mantignano risiedevano a Firenze dal 1374, quando papa Urbano V aveva loro concesso di fabbricarsi una casa, cui era annesso oratorio e cimitero, nel popolo di San Frediano. Esse avevano addotto quale motivo della loro richiesta di inurbamento i disagi delle turbolenze militari nell’area in cui insisteva il loro antico insediamento. I locali dell’ex monastero in un periodo imprecisato furono adibiti ad ospedale per donne di cui le religiose mantennero la responsabilità gestionale, così come risulta all’atto della forzosa unificazione con le benedettine di Sant’Apollonia. Questo gesto d’imperio, che si inscrisse nei numerosi provvedimenti con cui Eugenio IV nel suo soggiorno fiorentino si impegnò per la razionalizza-zione del tessuto regolare femminile nel quarto decennio del Quattrocento, fu evidentemente sentito come una volenza alla quale la badessa, suor Bartolomea di Sandro di Cenno dei Bi-liotti, si oppose rinunciando alla carica in cambio della concessione di un vitalizio. Per tutta la vicenda cfr. Richa, Notizie istoriche delle chiese fiorentine, cit., VIII/4, pp. 302 sgg.

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