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Neuroprotezione clinica: l'ipotermia terapeutica

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTÀ DI MEDICINA E CHIRURGIA

DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE CHIRURGICHE,

ANESTESIOLOGICHE E DELL’EMERGENZA MED/41 TESI DI DOTTORATO

NEUROPROTEZIONE CLINICA:

L’IPOTERMIA TERAPEUTICA

Candidato

Relatore

Dr.ssa Maria Martelli

Prof. Francesco Giunta

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Ringrazio il Dr. Francesco Forfori,

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I

NDICE

Introduzione pag. 4

Sindrome post arresto cardiaco pag. 5

Cenni storici pag. 7

Meccanismi fisiopatologici pag. 9

Effetti sistemici pag. 16

Termoregolazione pag. 22

Fasi del trattamento ipotermico pag. 25

Tecniche di raffreddamento pag. 28

Monitoraggio della temperatura pag. 32

Fattori predittivi di recupero neurologico pag. 34

Chi “raffreddare” pag. 42

Studio pag. 51

Risultati pag. 60

Discussione pag. 63

Limiti pag. 65

Conclusioni e Prospettive pag. 66

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INTRODUZIONE

La cardiopatia ischemica è la principale causa di morte nel mondo [1]. In Europa la malattia cardiovascolare rappresenta circa il 40% di tutti i decessi sotto i 75 anni [2]. L’arresto cardiaco è responsabile di oltre il 60% delle morti tra gli adulti per patologia coronarica [3].

Nel nostro paese le malattie cardiovascolari rappresentano ancora oggi la principale causa di morte essendo responsabili del 44% di tutti i decessi.

Tra i pazienti inizialmente rianimati con successo, il danno anossico cerebrale è la principale causa di morbidità e mortalità. Almeno l’80% dei pazienti che inizialmente sopravvive ad una arresto cardiaco rimane in coma post-anossico per periodi più o meno prolungati , circa il 40% entra in uno stato vegetativo persistente e la mortalità ad una anno è pari all’80% [4].

Una volta ottenuto un ritorno di circolo spontaneo a seguito di una efficace rianimazione cardiopolmonare si verificano a livello cerebrale complessi meccanismi che portano ad un danno secondario da riperfusione con ulteriore perdita neuronale ed un conseguente peggioramento dell’outcome cerebrale [5].

La Neuroprotezione è quel complesso di atteggiamenti e di strategie farmacologiche messo in atto per contenere il danno encefalico secondario a trauma o ad eventi ischemici [6].

In questi anni un grande interesse si è concentrato sulle strategie neuroprotettive; una di queste è l’ipotermia terapeutica. Essa ha dimostrato di migliorare l'outcome dopo arresto cardiaco tanto che l'European Resuscitation Council e le linee guida dell'American Heart Association [7, 8] ne raccomandano l'uso dopo tale evento.

Dopo un periodo di ischemia, a livello cellulare avviene una complessa cascata di processi che inizia dopo pochi minuti dalla lesione e prosegue per più di 72 ore; in questa finestra temporale le lesioni cerebrali possono essere mitigate da trattamenti quali l’ipotermia [4].

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SINDROME POST ARRESTO CARDIACO

Il ripristino della circolazione spontanea dopo un’ischemia prolungata di tutto il corpo è una condizione fisiopatologica nata dal successo della rianimazione cardiopolmonare. L’alta mortalità, in questi casi, può essere attribuita a un unico processo fisiopatologico che coinvolge vari distretti. Sebbene l’ischemia prolungata di tutto il corpo sia nociva per gli organi e per i tessuti, danni ulteriori si verificano durante e dopo la riperfusione [9-10].

Negovsky ha dichiarato che una complessa fase di rianimazione inizia dopo l’arresto cardiaco quando il paziente riacquista la circolazione spontanea [11] e, a tal proposito, ha coniato il termine di “sindrome post arresto cardiaco”.

Secondo l’International Liaison Committee on Resuscitation (ILCOR) [173], tale sindrome si articola in quattro componenti chiave:

- il danno cerebrale

- la disfunzione miocardica

- la risposta sistemica all’ischemia/riperfusione

- il processo patologico che ha causato l’arresto cardiaco

Il danno cerebrale dopo arresto cardiaco è una causa comune di morbidità e mortalità. In uno studio di pazienti che sono sopravvissuti alla dimissione dalla terapia intensiva ma che, successivamente, sono deceduti in ospedale, il danno cerebrale è stato la causa di morte nel 68% degli arresti cardiaci extraospedalieri e nel 23% di quelli intraospedalieri [12]. La particolare vulnerabilità dell’encefalo è attribuita alla sua limitata tolleranza all’ischemia e alla sua risposta alla riperfusione. I meccanismi di danno cerebrale innescati dall’arresto cardiaco e dalla rianimazione sono complessi e includono l’eccitotossicità, l’interruzione dell’omeostasi del calcio, la formazione di radicali liberi, le patologiche cascate di proteasi e le vie di segnale della morte cellulare [13-15]. Molti di questi fenomeni avvengono in un periodo da ore a giorni dopo il ripristino della circolazione spontanea. Istologicamente alcune subpopolazioni neuronali selettivamente vulnerabili nella corteccia, nell’ippocampo, nel cervelletto, nel corpo striato e nel talamo degenerano in un periodo che va da ore a giorni [16-17]. Dopo l’arresto cardiaco sono state segnalate sia la necrosi neuronale che l’apoptosi. La

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suggeriscono un’ampia finestra terapeutica per la strategia neuroprotettiva dopo arresto cardiaco. Il prolungato arresto può essere seguito da un’insufficiente riperfusione della microcircolazione nonostante l’adeguata pressione di perfusione cerebrale [18-19]. Questo flusso insufficiente può causare un’ischemia persistente e piccoli infarti in alcune regioni cerebrali. L’occlusione microvascolare cerebrale che causa il fenomeno dell’assenza di flusso è stata attribuita a una trombosi intravascolare che si verifca durante l’arresto cardiaco e, in studi preclinici, si è dimostrata responsiva alla terapia trombolitica [20].

A dispetto di una microcircolazione cerebrale inadeguata, macroscopicamente, nei primi minuti dopo l’arresto cardiaco, la riperfusione è spesso iperemica a causa di un’elevata pressione di perfusione e di un’autoregolazione cerebrovascolare compromessa [21, 22]. Questo fenomeno può esacerbare l’edema cerebrale e il danno da riperfusione.

Sebbene il ripristino del trasporto di ossigeno e dei substrati metabolici a livello della microcircolazione sia essenziale, diverse evidenze suggeriscono che l’iperossia durante le fasi iniziali della riperfusione possa esacerbare il danno neuronale attraverso la produzione di radicali liberi e il danno mitocondriale [23, 24].

L’autoregolazione del flusso ematico cerebrale è compromessa subito dopo l’arresto cardiaco. Durante il periodo subacuto la perfusione cerebrale non è più correlata all’attività neuronale ma varia con la pressione di perfusione cerebrale [21, 22].

Nelle prime 24-48 ore aumentano le resistenze vascolari cerebrali e decrescono sia il flusso ematico cerebrale sia il consumo cerebrale di ossigeno e glucosio. Sembra, da alcuni studi, che durante questo periodo il flusso ematico cerebrale sia adeguato per soddisfare la domanda metabolica [25].

Altri fattori che possono contribuire al danno cerebrale dopo arresto cardiaco sono la febbre, l’iperglicemia e le crisi convulsive.

L’ipotermia terapeutica si inserisce nel trattamento della sindrome post arresto rivestendo un ruolo chiave proprio nell’ambito della neuroprotezione e dimostrandosi efficace nel ridurre la mortalità in ambito di cure post arresto cardiaco.

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CENNI STORICI

L’ipotermia a scopo clinico ha radici antiche; alcuni documenti ne testimoniano l’utilizzo tra gli Egizi, i Greci e i Romani. [26-28]

L’interesse clinico cominciò a svilupparsi tra il 1930 ed il 1940 in seguito a osservazioni e case reports che descrivevano situazioni di vittime di annegamento, in condizioni di ipotermia, nelle quali le tecniche di rianimazione si erano dimostrate efficaci anche dopo un periodo prolungato di asfissia [29].

Il primo studio scientifico riguardante l’utilizzo dell’ipotermia terapeutica in pazienti con traumi cranici gravi fu pubblicato nel 1945 ad opera di un neurochirurgo, Temple Fay [30].

L’ipotermia è stata successivamente utilizzata negli anni ’50 da Botterell durante interventi di neurochirurgia per aneurismi cerebrali [31, 32] e da Bigelow in cardiochirurgia per garantire un certo grado di neuroprotezione in interventi con arresto di circolo completo in modo da consentire interventi intracardiaci con campo operatorio esangue [33, 34].

Sempre durante gli anni ’50 Rosomoff ne dimostrò i benefici trattando dei cani con ipotermia moderata durante o dopo un’ ischemia cerebrale e danno cerebrale traumatico sperimentale [35, 36].

Benson et al. in uno studio pubblicato nel 1959 su Anaesthesia and Analgesia descrivono l’outcome di 12 pazienti vittime di arresto cardiaco trattate con ipotermia terapeutica [37]. La sopravvivenza nel gruppo di intervento è stata del 50% senza riportare deficit residui. Nello stesso anno viene pubblicato uno studio da parte di Williams et al. su Annals of Surgery che riporta un tasso di sopravvivenza nei soggetti trattati pari all’83% contro il 25% dei non trattati [38].

Successivamente, negli anni ’60, Rosomoff insieme a Safar e contemporaneamente Lazorthes e Campan cominciarono a condurre studi clinici su un piccolo numero di pazienti [39, 40]. In questi studi veniva abitualmente utilizzata un’ipotermia relativamente profonda (30°C o temperature inferiori). Risalgono a questi anni inoltre i primi studi sull’ipotermia terapeutica dopo arresto cardiaco.

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Nonostante risultati promettenti ed incoraggianti questi esperimenti vennero con il tempo sospesi a causa dei risultati a volte contraddittori e di problemi di gestione del paziente in contesti privi di unità di terapia intensiva.

L’interesse nei confronti dell’ipotermia terapeutica si riaccese a partire dai primi anni ’80 quando studi sperimentali condotti su animali dimostrarono che i benefici di tale trattamento erano tali anche a temperature meno estreme, comprese tra i 32 e i 35°C con effetti collaterali minori rispetto al trattamento ipotermico profondo utilizzato nei precedenti studi [41-45] .

Alla fine degli anni ’90 furono pubblicati due trials prospettici che hanno aperto la strada a importanti trials clinici [46, 47].

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MECCANISMI FISIOPATOLOGICI

Si definisce ipotermia una temperatura centrale ≤ 35°C [29].

E’ necessario distinguerla tra “accidentale”, spontanea e non controllata, e “indotta”, provocata tramite raffreddamento artificiale e controllata, messa in atto con lo scopo di prevenire o attenuare varie forme di danno neurologico.

In base alla sua entità può essere classificata in [48]:

- lieve se la temperatura corporea è compresa tra 35°C e 32°C - moderata se la temperatura corporea è compresa tra 32°C e 30°C - profonda se la temperatura corporea è inferiore a 30°C

Gli esatti meccanismi fisiopatologici coinvolti nei meccanismi neuroprotettivi dell’ipotermia sono ancora in parte poco noti; cercherò di prendere in considerazione i principali.

Metabolismo

I meccanismi fisiopatologici correlati alla terapia ipotermica sono stati inizialmente attribuiti al rallentamento del metabolismo cerebrale ed al conseguente ridotto consumo di glucosio ed ossigeno.

Le richieste cellulari di glucosio e ossigeno si riducono del 5%-8% per ogni grado Celsius di riduzione della temperatura [49]. In particolare è emerso che il consumo cerebrale di ossigeno (CMRO2) diminuisce durante il trattamento ipotermico di circa il 6% per ogni grado centigrado di riduzione della temperatura e questo fenomeno potrebbe contribuire a ridurre il rilascio di aminoacidi eccitatori e radicali liberi [50]. Nonostante questi dati, gli effetti protettivi del raffreddamento sono di una portata tale da non essere spiegabili solamente con la sola variazione del metabolismo; altri meccanismi potrebbero giocare dunque un ruolo importante.

Risposta immunitaria ed infiammatoria

Il danno cellulare indotto da ischemia stimola una serie di risposte immunitarie e infiammatorie particolarmente rilevanti durante la fase di riperfusione.

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(TNFα) e l’ossido nitrico, NO. I livelli aumentano a partire da ±1h dopo la riperfusione e rimangono elevati per almeno 5 giorni stimolando l’accumulo di cellule infiammatorie nel tessuto danneggiato e la comparsa di molecole di adesione sui leucociti e sulle cellule endoteliali. L’infiltrazione leucocitaria che ne risulta può aumentare l’estensione del danno tissutale attraverso l’azione fagocitica, la sintesi di sostanze tossiche e l’ulteriore stimolazione di reazioni immuni.

Alcuni studi mostrano come una lieve ipotermia possa agire nelle fasi precoci tramite un ritardo fino alla soppressione del rilascio di questi fattori microgliali.

Un possibile meccanismo potrebbe essere il ritardo dell’attivazione del NF-kB. Esso è un fattore di trascrizione citoplasmatico che, se attivato, penetra nel nucleo cellulare inducendo la trascrizione di vari geni codificanti i mediatori infiammatori dando così inizio alla “cascata citochinica” [51, 52].

Un recente studio di Matsui et coll pone l’accento sul possibile coinvolgimento della protein-chinasi mitogeno attivata p38. Gli autori hanno preso in esame cellule microgliali in vitro e hanno dosato i livelli di TNF α, IL-6, NO confrontando i campioni trattati con ipotermia (33°C) con quelli sottoposti a ipertermia (39°C). I risultati mostrano una riduzione dei livelli di citochine e di p38 nelle cellule microgliali “ipotermiche” suggerendo il ruolo dell’ipotermia nel ridurre l’attivazione di p38 e conseguentemente la produzione di citochine p38- correlata. Il fenomeno è tanto evidente che gli autori propongono di dosare il TNF α e NO per monitorizzare l’efficacia della terapia [53].

L’ipotesi che l’ipotermia generi un’attenuazione della risposta infiammatoria è confermata anche da uno studio in cui i livelli sierici di metallo-proteinasi della matrice MMP9 sono ridotti nei pazienti trattati rispetto ai casi controllo [54].

Uno dei meccanismi di neuroprotezione dell’ipotermia potrebbe dunque essere spiegato con il ritardo del picco e la riduzione dell’entità dell’espressione delle citochine proinfiammatorie.

Il danno cellulare dopo un insulto cerebrale comporta l’attivazione dell’ossido nitrico-sintasi neuronale e la conseguente produzione di ossido nitrico e perossinitrito con danno al DNA.

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Con il trattamento ipotermico l’ attività della superossido-dismutasi, enzima responsabile dello “scavenging” del superossido, aumenta e quella del NO-sintasi, enzima responsabile della sintesi del NO, si riduce [55-57].

Protein-chinasi e geni

La normale attività neuronale è mediata da protein-chinasi molte della quali vengono distrutte durante ischemia cerebrale. Quest’ultima, infatti, inibisce l’attività della protein-chinasi II calcio/calmodulina dipendente (CaMKII), una proteina chiave che media il fenomeno sinaptico e che partecipa alle funzioni di apprendimento e memoria [58]. L’ipotermia attenua questo processo [59].

Essa inoltre riduce l’inibizione della protein-chinasi C (PKC) e la sua traslocazione sulla membrana determinate da ischemia [60].

Il gene c-Fos che regola la risposta genetica dei neuroni è attivato dall’ ipotermia dopo ischemia cerebrale transitoria [61, 62].

Questi studi sottolineano che la temperatura potrebbe avere profondi effetti sugli eventi associati al danno cerebrale e anche sulla normale elaborazione dei segnali neuronali coinvolti nel pensiero.

Eccitotossicità

Il termine eccitotossicità descrive il processo attraverso cui il glutammato ed altri aminoacidi eccitatori causano il danno neuronale.

Lucas e Newhouse [63] hanno descritto per primi la tossicità da glutammato. Sebbene esso sia il neurotrasmettitore più abbondante nel cervello, l’esposizione a livelli tossici produce morte neuronale [64].

L’esposizione al glutammato produce danno neuronale in due fasi. Alcuni minuti dopo l’esposizione, si verifica un rigonfiamento neuronale sodio-dipendente. In seguito avviene una degenerazione ritardata calcio dipendente. Questi effetti sono mediati sia da recettori ionofori, denominati in base agli specifici agonisti [N-metil-D-aspartato (NMDA), kainato e acido α-amino-3-idrossi-5-metil-4-isossazol-propionico (AMPA)], sia da recettori legati al sistema del doppio messaggero, chiamati recettori metabotropi. L’attivazione di questi recettori conduce all’ingresso di calcio attraverso canali sotto il

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L’aumento di concentrazione del calcio intracellulare è il fattore scatenante [65] di numerosi processi che, attraverso una “cascata eccitotossica”, possono condurre al danno o alla morte cellulare.

I recettori glutammatergici, AMPA e NMDA, sono modulati dall’ipotermia applicata durante l’ischemia [66]. Globus e coll. [67] hanno dimostrato che l’ipotermia attenua l’aumento dei livelli extracellulari di glutammato e dopamina dopo ischemia cerebrale globale. Questi studi sono stati ripetuti in diversi modelli di ischemia indicando che uno dei meccanismi principali attraverso cui la temperatura influenza la vulnerabilità neuronale è quello di ridurre l’eccitotossicità neuronale [68, 69] che si verifica nelle cellule cerebrali durante l’ischemia e la successiva fase di riperfusione, e di modulare l’omeostasi ionica del calcio.

Apoptosi, caspasi e danno mitocondriale

E’ sempre più chiaro, da modelli sperimentali e dati umani, che le cellule morenti dopo ischemia cerebrale globale o focale o dopo trauma cranico possono essere classificate secondo una sequenza morfologica che va dalla necrosi all’apoptosi [70]. L’apoptosi è una descrizione morfologica della morte cellulare caratterizzata da contrazione cellulare e da condensazione nucleare, da frammentazione del DNA internucleosomale e dalla formazione di corpi apoptotici [71].

Viceversa, la cellula che muore per necrosi mostra rigonfiamento cellulare e nucleare con dissoluzione delle membrane. L’apoptosi necessita di una cascata di eventi intracellulari per

portare a termine la morte cellulare: pertanto morte cellulare programmata è il termine attualmente utilizzato per indicare il processo di morte cellulare che conduce all’apoptosi [72].

Si ritiene che la morte cellulare programmata neuronale possa attuarsi seguendo due vie separate: una che comporta l’attivazione di una famiglia di cistein-proteasi chiamate

caspasi [73] e l’altra caspasi indipendente [74].

Molti studi hanno mostrato come l’ipotermia sia in grado di prevenire o bloccare quei processi che portano la cellula che ha subito un insulto ischemico all’apoptosi, agendo probabilmente in uno stadio precoce del processo [75-77]. Questo effetto sembrerebbe

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mediato da inibitori dell’attivazione delle caspasi e dalla prevenzione della disfunzione mitocondriale.

Radicali liberi

L’encefalo è un organo “aerobio obbligatorio”; quando l’apporto di ossigeno è inferiore alla richiesta si determina una cascata di eventi che porta alla produzione di radicali liberi dell’ossigeno come l’anione superossido (O2-), il diossido d’azoto (NO2-), il

perossido d’idrogeno (H2O2) ed il radicale idrossilico (OH-) che contribuiscono al

danno da ischemia-riperfusione. I radicali liberi inibiscono l’attività delle pompe ioniche Na/K-ATPasi portando alla dissipazione dei gradienti transmembrana del sodio e del potassio; sono in grado, inoltre, di ossidare le membrane lipidiche portando ad un aumento della permeabilità e alla citolisi.

Esiste un sistema antiossidante di protezione cellulare che comprende gli scavenger enzimatici, la superossido-dismutasi (SOD), le catalasi, la glutatione-perossidasi e i sistemi non enzimatici. Le SOD permettono la conversione del superossido in perossido di idrogeno, mentre le catalasi e la glutatione perossidasi trasformano il perossido di idrogeno in acqua. Questo sistema antiossidante endogeno viene saturato rapidamente in corso di ischemia severa [29].

L’ipotermia lieve può sopprimere lo stress ossidativo dopo un insulto rallentando la formazione di radicali liberi e permettendo ai sistemi scavenger di assolvere la propria funzione [78].

In particolare la produzione post-ichemica dell’anione superossido è attenuata da un trattamento ipotermico moderato [79, 80].

Barriera ematoencefalica

Le alterazioni della permeabilità della barriera emato-encefalica (BBB) dopo un danno ischemico acuto consistono nel passaggio, attraverso il sistema vascolare, di acqua, elettroliti, sostanze di derivazione ematica e potenziali agenti neurotossici all’interno del parenchima cerebrale. Molti studi hanno dimostrato l'importanza della temperatura corporea e cerebrale sul distretto microvascolare dopo ischemia cerebrale e trauma. Il contenuto d'acqua a livello cerebrale è notevolmente ridotto con l'ipotermia dopo ischemia cerebrale focale [81, 82]. Alcuni studi hanno valutato questo aspetto con la

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risonanza magnetica dimostrando che, in corso da ipotermia, si verifica la riduzione del coefficiente di diffusione dell’ acqua (edema cellulare) [83].

In studi su modelli di danno post-traumatico, il trattamento ipotermico riduce la permeabilità della BBB probabilmente attraverso un’azione modulante sulle metalloproteinasi, enzimi extracellulari che rivestono un ruolo chiave nella distruzione della BBB [84].

Complessivamente viene riconosciuto all’ipotermia un effetto stabilizzante sulla BBB.

Thermopooling cerebrale

Alcune aree cerebrali, in condizioni fisiologiche, hanno una temperatura significativamente più alta di altre. Tale fenomeno prende il nome di “thermopooling cerebrale”. Questo “gradiente termico” può aumentare drammaticamente dopo un insulto cerebrale tanto che la temperatura delle aree danneggiate può essere superiore di 2°C- 3°C rispetto alle altre zone [49].

L’ipotermia può essere utilizzata per prevenire o mitigare il thermopooling [85].

Attività elettrica cerebrale

Le crisi epilettiche sono comuni nel paziente con danno ischemico cerebrale. L’ipotermia si è dimostrata efficace nel ridurre l’attività epilettica [49].

Flusso ematico cerebrale

Gli effetti dell’ipotermia sul flusso ematico cerebrale sono controversi.

Nel 1954 Rosomoff e Holaday [86] dimostrarono che un’ipotermia sistemica fino a 25°C riduceva significativamente il flusso ematico cerebrale. Tuttavia, uno studio condotto da Kuluz e coll. sui ratti con un modello di raffreddamento selettivo cerebrale a 30°C dimostrò che il flusso ematico corticale misurato con la flussimetria laser doppler era aumentato al di sopra dei livelli controllo [87]

I cambiamenti cerebrovascolari secondari a raffreddamento sono importanti poiché la riduzione del flusso ematico cerebrale a livelli critici potrebbe avere effetti avversi sulla sopravvivenza tissutale e, conseguentemente, sull’outcome funzionale [49].

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EFFETTI SISTEMICI

L’ipotemia terapeutica comporta alterazioni fisiopatologiche che potrebbero dare origine a effetti collaterali che, se non adeguatamente controllati, ne annullerebbero gli effetti benefici. Molti di essi possono essere prevenuti o trattati grazie a un’elevata qualità di cure delle terapie intensive (attento monitoraggio del bilancio idrico, stretto controllo degli effetti metabolici come i livelli di glucosio ed elettroliti, prevenzione e trattamento delle complicanze infettive etc).

Un adeguato trattamento ipotermico implica la conoscenza, prevenzione ed eventuale trattamento precoce dei suoi effetti collaterali [88]. Essi dipendono in gran parte anche dal grado e dalla durata dell’ipotermia indotta.

Complicanze cardiovascolari, ad esempio, sono rare per temperature superiori a 30°C mentre il rischio di aritmie aumenta significativamente per valori inferiori ai 30°C, limite invalicabile per una sicura applicazione del trattamento.

Il range termico ottimale è stimato tra i 31°C e i 35°C che corripsponde a un grado di ipotermia lieve-moderata.

Gli effetti dipendono inoltre da fattori correlati al paziente quali l’età, la patologia sottostante e le comorbidità.

Effetti cardiovascolari ed emodinamici

Inizialmente l’induzione dell’ipotermia, probabilmente a causa dell’incremento delle concentrazioni plasmatiche di adrenalina e noradrenalina, porta a un aumento del consumo di ossigeno a livello miocardico la cui conseguenza è quella di aumentare la gittata cardiaca e la domanda di ossigeno [89].

L’ipotermia inizialmente determina quindi una tachicardia sinusale seguita poi da una bradicardia dovuta in parte al diminuito metabolismo e in parte a un effetto diretto sul miocardio. La bradicardia ipotermia-indotta porta a una riduzione della gittata cardiaca ma, dato che il tasso metabolico diminuisce, anche l'equilibrio tra domanda e offerta è di solito preservato e migliorato [90].

Il raffreddamento da 37°C a 31°C ha in realtà un effetto inotropo positivo con un aumento dello stroke volume superiore alla riduzione della frequenza cardiaca che

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determina ipotensione se si mantiene una condizione di normovolemia e le prove preliminari suggeriscono che può essere tranquillamente utilizzata in pazienti con shock cardiogeno [90].

Variazioni dell’ECG sono comuni, ma, in contrasto con l’ipotermia profonda (inferiore/uguale a 30°C), quella lieve-moderata non induce aritmie, anzi, l'evidenza suggerisce che esse possono essere prevenute e/o più facilmente trattate in condizioni di ipotermia [90].

Abitualmente, per temperature attorno ai 30°C, la prima forma di aritmia che compare è una fibrillazione atriale che può essere seguita da flutter o fibrillazione ventricolare per temperature inferiori a 28°C.

E’ pertanto necessario evitare durante il trattamento che si scenda al di sotto dei 30°C dal momento che, sotto questa soglia, il rischio di aritmie aumenta in maniera esponenziale.

L’induzione del raffreddamento può inoltre causare vasocostrizione periferica con un evidente riduzione del letto vascolare [92] e aumento della pressione venosa centrale (PVC).Viceversa, durante il riscaldamento, i vasi si dilatano, la PVC si riduce e il paziente può diventare relativamente ipovolemico.

Pazienti in coma dopo arresto cardiaco spesso sono affetti da una sindrome simile alla sepsi, “sepsis like syndrome”, in quanto gli alti livelli di citochine circolanti e la presenza di endotossine nel plasma riducono le resistenze vascolari sistemiche [93.] In queste persone l’ipotermia potrebbe portare un miglioramento della stabilità emodinamica.

Studi invasivi ed ecocardiografici durante l’infusione di liquidi freddi per indurre ipotermia hanno dimostrato che la stabilità emodinamica è preservata [94, 95].

Lo stato volemico, tuttavia, dovrebbe essere strettamente monitorato e sarebbe opportuno anticipare, al momento del riscaldamento, l’infusione del volume aggiuntivo necessario per mantenere a livelli adeguati la pressione sanguigna e la diuresi.

Esistono dei rischi di danno miocardico durante il trattamento con ipotermia terapeutica in pazienti cardiopatici, specialmente nella fase iniziale di induzione, quando è dimostrato un aumento della frequenza cardiaca e di conseguenza un aumento del consumo d’ossigeno. D’altra parte esistono forti evidenze, provenienti da studi animali,

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che dimostrano che il trattamento ipotermico, condotto durante o a seguito a un infarto miocardico, può ridurre la dimensione della zona infartuata [91].

Studi condotti da Mochizuki e coll. sul miocardio di ratti sottoposto a ischemia hanno dimostrato che anche un’ipotermia lieve (34°C) indotta in ritardo, cioè subito dopo l’inizio della riperfusione, ha effetto cardioprotettivo mediato da ossido nitrico e da fosfatidilinositolo-3-chinasi con riduzione della dimensione dell’area infartuale del ventricolo sinistro [96]

Poduzione di CO2

L’ipotermia riduce la produzione di CO2 e ne altera la solubilità. Pynnönen L,

Falkenbach P. e coll. [97] ne hanno studiato gli effetti concludendo che una normocapnia ai limiti inferiori è associata a una riduzione della perfusione e dell’ossigenazione cerebrale e che, viceversa, un valore superiore di pCO2 incrementa la

perfusione e diminuisce il valore di lattato cerebrale. Concludono che un controllo rigoroso dei parametri ventilatori e della pCO2 è mandatorio durante il trattamento

ipotermico.

Coagulazione

Sebbene l’ipotermia moderata possa ridurre la funzione e la conta piastrinica e alterare in generale la funzione coagulativa [98, 99] (si stima che essa si riduca del 10% per ogni grado centigrado al di sotto dei 37°C), essa non risulta responsabile di complicanze emorragiche negli studi condotti fino ad oggi; questi includono soggetti con concomitante trauma o somministrazione di eparinoidi e inibitori della glicoproteina IIb/IIIa [100, 101].

Le alterazioni dei parametri coagulativi sono tuttavia reversibili; essi, infatti, si normalizzano con il riscaldamento [102].

Mendaci riguardo alla reale funzione coagulativa sono gli esami di laboratorio standard che prendono in esame solo una parte della cascata coagulativa e che, riportando i campioni ematici a 37°C, ne sovrastimano l’efficienza.

Per uno studio più veritiero sulla coagulazione bisognerebbe avvalersi del tromboelastogramma (TEG) che considera la reale temperatura del paziente e che,

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guidando in modo mirato l’eventuale somministrazione di plasma fresco congelato, fibrinogeno, piastrine e fattori della coagulazione. Inoltre, grazie alla possibilità di essere eseguito in parallelo con un campione contenente eparinasi, distingue tra alterazioni coagulative proprie del paziente e quelle iatrogene indotte dalla somministrazione di eparina a basso peso molecolare.

Non è da sottovalutare, infine, l’eventualità che il danno cerebrale dopo rianimazione cardiopolmonare possa portare alla formazione di microtrombi e che questo fenomeno potrebbe essere attenuato dall’effetto anticoagulante dell’ipotermia [49].

Tuttavia, la possibilità che l’ipotermia porti a un numero superiore di complicanze emorragiche non è supportata dai dati emersi negli studi clinici [103].

Infezioni

Le infezioni raramente insorgono quando il periodo di raffreddamento è inferiore a 24 ore ma diventano più frequenti se esso si prolunga per oltre 24 ore. Sembra dunque che le infezioni siano lievemente più comuni nei pazienti in fase post-rianimatoria sottoposti a raffreddamento per 24 ore [104] ma non in quelli analogamente trattati solo per 12 ore [105].

La diminuita sintesi di insulina e la relativa insulinoresistenza che si verificano in seguito a trattamento ipotermico potrebbero contribuire a incrementare il rischio di infezione.

L’incidenza di polmonite (circa il 50%) [106, 107] non è diversa da quella riscontrata nei pazienti non sottoposti a ipotermia. [104, 108].

Diuresi

L’induzione del raffreddamento, portando a vasocostrizione periferica, riduzione del letto vascolare e aumento della pressione venosa centrale, determina un aumento della diuresi.

Questo fenomeno può esser particolarmente marcato nei pazienti con trauma cranico rispetto ai pazienti con coma post-anossico dato che il diabete insipido e la somministrazione di mannitolo possono esacerbare la perdita di liquidi.

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Ne consegue che lo stato volemico del paziente deve essere valutato e trattato attentamente tenendo in considerazione il previsto aumento del letto vascolare con riduzione delle resistenze periferiche che avviene durante la fase di riscaldamento. Alcuni studi clinici, infatti, rivelano che la mancanza di attenzione verso questa alterazione della volemia ha portato a spiacevoli effetti collaterali [109].

La diuresi iniziale, insieme agli scambi tra compartimenti intra ad extra cellulari, può causare ipopotassiemia, ipofosfatemia, ipocalcemia e ipomagnesiemia in fase di raffreddamento seguite da iperpotassiemia durante quella di riscaldamento [110, 111]. E’ necessario dunque garantire un attento monitoraggio ed eventuale correzione degli elettroliti durante queste fasi di passaggio. Il magnesio, in particolare, sembra svolgere un ruolo particolarmente importante nel prevenire il danno da riperfusione.

Vari studi sostengono che un supplemento di magnesio può svolgere un ruolo protettivo e suggeriscono di mantenerne i livelli nella parte alta del range plasmatico in tutti i pazienti con danno neurologico [112, 113].

Altri effetti metabolici

L’ipotermia diminuisce la sensibilità all’insulina e la secrezione di tale ormone portando all’iperglicemia. L’iperglicemia è associata ad un aumentato tasso di infezioni, di insufficienza renale, di critical illness neuropathy e a varie altre complicazioni, mentre lo stretto monitoraggio dei valori glicemici all’interno delle terapie intensive è associato ad una riduzione della morbidità e della mortalità [114, 115].

Durante la fase di riscaldamento è possibile che si verifichino condizioni di ipoglicemia dal momento che la sensibilità all’insulina e la sua secrezione aumentano con l’incremento della temperatura.

L’ipotermia porta ad una lieve acidosi in conseguenza dell’aumento del metabolismo lipidico e alla produzione di glicerolo, acidi grassi liberi, chetoni e lattati e a un innalzamento temporaneo e reversibile delle amilasi sieriche il cui significato non è chiaro [7].

Brivido

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Può comportare, infatti, un aumento del consumo di O2 dal 40% fino al100% [116],

effetto poco desiderabile soprattutto in pazienti con danno neurologico.

In pazienti intubati e ventilati il brivido può essere contrastato con la sedazione ed eventualmente con l’utilizzo di miorilassanti e magnesio solfato [129].

Clearance dei farmaci

L’ipotermia induce una riduzione della clearance della creatinina e altera la farmacocinetica dei farmaci; quest’ultimo fenomeno è aggravato dal fatto che gli enzimi che li metabolizzano sono altamente termosensibili.

La clearance di molte sostanze è dunque ridotta in corso di ipotermia e questo dovrebbe indurre a diminuire proporzionalmente la dose somministrata.

Alcuni studi dimostrano che le concentrazioni plasmatiche e la durata di azione di alcuni farmaci sono aumentati durante il trattamento ipotermico. Ad esempio i livelli plasmatici di propofol risultano aumentati del 30% e quelli del fentanyl del 15% con soli 3°C di ipotermia.

Tortorici et al. in un lavoro pubblicato nel 2007 su Critical Care Medicine hanno documentato una riduzione importante dell’attività dei sistemi enzimatici basati sul citocromo P450 ed hanno analizzato gli effetti su vari farmaci estesamente utilizzati in terapia intensiva [117]. L’ipotermia terapeutica lieve-moderata diminuisce del 7-22% la clearance sistemica dei farmaci metabolizzati dal citocromo P450 per ogni grado centigrado al di sotto dei 37°C.

I prolungati effetti farmacologici potrebbero avere delle ripercussioni sui tempi di risveglio ed estubazione [88, 118]. La potenza e l’efficacia di alcuni farmaci risultano inoltre diminuite.

Controindicazioni all’applicazione dell’ipotermia:

Generalmente riconosciute ma non universalmente accetate: severa infezione sistemica, insufficienza multiorgano, preesistente coagulopatia (la fibrinolisi non è una controindicazione) [7].

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TERMOREGOLAZIONE

La termoregolazione è un meccanismo fisiologico che, tramite processi di produzione e di dispersione del calore, tende a mantenere costante la temperatura dell'organismo in un range di 36.8 ± 0,4 °C. In condizioni normali la temperatura corporea varia durante il giorno, secondo un ritmo circadiano, di 0,6 °C risultando più bassa al mattino e più alta nel tardo pomeriggio o in prima serata [119].

Nell'organismo la produzione di calore deriva dai processi ossidativi del metabolismo energetico, dall’attività muscolare e dall’alimentazione. Le perdite di calore avvengono in gran parte (70%) tramite irradiazione e conduzione e, secondariamente, attraverso il sudore, la respirazione, la defecazione e la minzione. Ogni volta che si verificano variazioni della temperatura ambientale l'organismo mette in atto risposte di tipo somatico, endocrino, comportamentale e soprattutto neurovegetativo, attraverso le quali vengono adeguate la dispersione e la produzione di calore. I meccanismi attivati dal freddo sono l'attività muscolare (brivido), la secrezione di adrenalina, noradrenalina e ormone tireotropo, la vasocostrizione dei capillari cutanei, l’orripilazione; essi tendono a diminuire le perdite di calore. Al contrario sono attivate dal caldo la vasodilatazione cutanea, la sudorazione e la secrezione ipofisaria di ormone tireotropo con conseguente rallentamento del metabolismo e, quindi, della produzione di calore. L'insieme dei meccanismi riflessi termoregolatori è integrato dall'ipotalamo. Nell'ipotalamo anteriore esiste un centro termolitico costituito da un gruppo di neuroni sensibili ad aumenti di temperatura di 1-2°C e capaci di reagire ad essi con l'attivazione dei meccanismi di dispersione termica. Lesioni a livello dei nuclei dell'ipotalamo anteriore determinano ipertermia. Nell'ipotalamo posteriore e laterale esiste un centro termogenetico, costituito da neuroni che risentono delle diminuzioni della temperatura ambiente reagendo a esse con l'attivazione dei meccanismi conservativi e produttivi del calore.

Per comprendere meglio la termoregolazione ricordo i meccanismi di trasferimento di calore.

- L’irraggiamento è il trasferimento di calore tra le superfici separate di due elementi con differenti temperature tramite radiazione infrarossa senza contatto diretto e senza un mezzo di trasferimento interposto

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- La conduzione è il trasferimento di calore direttamente da una superficie ad un’altra adiacente. La perdita di calore dipende dalla superficie di contatto

- La convezione è il trasferimento di calore dalla superficie all’aria circostante

- L’evaporazione è la perdita di calore tramite evaporazione di acqua ( nel nostro caso da cute e polmoni)

Nel corpo umano, oltre che attraverso la produzione di sudore (evaporazione), la perdita di calore avviene tramite la convezione, la conduzione e l’irraggiamento. La quantità di perdita di calore dipende dal gradiente di temperatura, dalla superficie esposta e dalla conduttività termica. Il grado di conduzione dai vasi sanguigni periferici all’esterno, inoltre, dipende dal coefficiente di diffusione, determinato dalle caratteristiche del tessuto. Ad esempio il tessuto grasso isola in misura tre volte maggiore rispetto al tessuto muscolare; ne consegue che i soggetti obesi tendono a disperdere calore molto più lentamente rispetto a quelli magri e, dunque, l’induzione dell’ipotermia in soggetti obesi tramite raffreddamento esterno richiede tempi maggiori.

Riguardo al tessuto muscolare esistono ulteriori differenze tra vari gruppi muscolari nell’intensità e nel tempo d’insorgenza del brivido: i muscoli del tronco, infatti, presentano un’insorgenza precoce ed un’intensità maggiore del brivido rispetto ai muscoli degli arti.

La capacità e l’efficacia dei meccanismi di controllo della temperatura corporea diminuiscano con l’età. I pazienti giovani reagiscono precocemente e con maggiore intensità ed efficacia ai cambiamenti della temperatura corporea rispetto ai pazienti più anziani. Questi ultimi hanno inoltre un minore tasso metabolico, spesso un Body Mass Index (BMI) inferiore e risposte vascolari meno intense (minore vasocostrizione). Complessivamente l’induzione dell’ipotermia nei pazienti più giovani è più difficoltosa e spesso richiede dosi maggiori di sedativi. A riposo ed in circostanze normali, il 50-70% della perdita di calore nei pazienti svegli avviene tramite irraggiamento.

In pazienti sedati in terapia intensiva, la maggior parte della perdita di calore avviene tramite irraggiamento e convezione. Quando si vuole raffreddare attivamente un paziente di solito si tende a facilitare la convezione e/o la conduzione e il passaggio di calore verso il compartimento periferico. La sedazione e l’eventuale impiego di miorilassanti limitano l’insorgenza del brivido e, per riduzione delle resistenze

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periferiche, aumentano il flusso ematico verso la periferia facilitando il trasferimento di calore dal compartimento centrale (tronco e testa) verso la periferia.

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FASI DEL TRATTAMENTO IPOTERMICO

Il trattamento ipotermico si articola in tre fasi: induzione, mantenimento e riscaldamento [120].

La fase di induzione inizia con l’avvio del trattamento ipotermico e finisce con il raggiungimento del target termico stabilito.

Studi su animali dimostrano che il raffreddamento precoce porta a miglioramento dell’outcome [121]. Nonostante il progresso tecnologico in materia di presidi per il raffreddamento di superficie e l’introduzione di cateteri vascolari per il “core cooling”, è richiesto ancora un periodo da due a tre ore per raggiungere la temperatura di 32°C-34°C [88].

Studi su animali suggeriscono che il raffreddamento iniziato durante l’arresto cardiaco potrebbe facilitare il ritorno alla circolazione spontanea [122, 123].

Diversi studi hanno dimostrato che l’ipotermia può essere iniziata nella fase extraospedaliera [124] ma finora non ci sono sufficienti studi sull’uomo che correlino il tempo di raggiungimento della temperatura target con un outcome migliore. A conferma di ciò, uno studio di Wolff B e coll. [125] ha osservato che il rapido raggiungimento del target termico era un fattore indipendente dall’outcome neurologico.

Vale la pena comunque ricordare che nello studio HACA [104] continuavano ad esserci effetti benefici sull’oucome rispetto ai pazienti normotermici anche nei casi in cui sono state necessarie 8 ore per raggiungere la temperatura target. Tenendo in considerazione quanto appena detto, Castrén e coll. [126] raccomandano di iniziare il trattamento ipotermico, una volta presa la decisione di attuarlo, “as early as possible”, il prima possibile.

Il tempo di induzione dell’ipotermia è correlato a fattori paziente-dipendenti (natura della patologia sottostante, età, sesso, BMI, grado di vasodilatazione), alle misure di prevenzione del brivido e della produzione di calore endogena e ai presidi utilizzati. Il raffreddamento iniziale è facilitato dalla sedazione, eventualmente associata al blocco neuromuscolare, che evita l’insorgenza del brivido [127] e facilita la vasodilatazione dei distretti periferici con maggiore dispersione di calore. Anche il magnesio solfato,

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naturale antagonista del recettore NMDA, può essere somministrato per ridurre i brividi [128].

Alcuni studi su animali [129], inoltre, dimostrano che esso fornisce un ulteriore effetto neuroprotettivo in combinazione con l’ipotermia. Può essere infuso alla dose di 5 grammi in 5 ore in modo da coprire il periodo di induzione dell’ipotermia.

La fase di mantenimento è il periodo compreso tra il raggiungimento del target termico e l’inizio del riscaldamento. La sua durata ottimale è sconosciuta. Molti studi, tra cui HACA [104], hanno mantenuto la temperatura target per 24 ore, altri invece, come lo studio Bernard [105], per 12 ore. Neonati dopo arresto cardiaco sono stati trattati per 72 ore ed è possibile che anche adulti con grave danno da riperfusione indotto da ipossia possanno beneficiare di un trattamento più prolungato [130, 131].

Castrén [126] nelle linee guida scandinave del 2009 raccomanda di mantenere la temperatura target per 24 ore.

Durante questo periodo è importante adottare un metodo efficace di raffreddamento che mantenga la temperatura al target prestabilito evitandone pericolose fluttuazioni che da un lato potrebbero inficiare il trattamento ipotermico e dall’altro esporrebbero il paziente a temibili effetti collaterali.

La fase di riscaldamento è il periodo necessario, dopo il trattamento ipotermico, per tornare alla normotermia. Anche in questo caso, così come durante il raffreddamento, le concentrazioni plasmatiche di elettroliti, il letto vascolare e il tasso metabolico possono cambiare rapidamente. Il ripristino della normotermia deve essere raggiunto lentamente [132]. Diversi studi suggeriscono che, in ambito clinico, maggiore attenzione deve essere posta sulla velocità di riscaldamento al fine di ottenere gli effetti ottimali dal trattamento ipotermico. I benefici di un lento ritorno alla normotermia sono confermati anche dalla letteratura relativa all'uso dell’ ipotermia nella chirurgia cardiaca e alle sue potenziali implicazioni sull’esito neurocognitivo del paziente. Grigore et al. [133] hanno dimostrato come un lento processo di recupero della normotermia dopo il bypass cardiopolmonare si traducesse in una migliore performance cognitiva a 6 settimane dall’intervento cardiochirurgico rispetto a quella osservata con un riscaldamento più rapido.

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La velocità ottimale di riscaldamento non è nota, tuttavia attualmente in letteratura è ritenuto valido un innalzamento di 0,25-0,5°C ad ogni ora. [134, 7]; in tal modo il rebound ipertermico dovrebbe essere evitato.

Il ritorno alla normotermia può essere ottenuto in modo passivo interrompendo il raffreddamento e coprendo il paziente, oppure con l’ausilio di device specifici, esterni (come coperte e materassini ad aria calda etc) o invasivi (come infusione di liquidi caldi, cateteri intravascolari etc).

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TECNICHE DI RAFFREDDAMENTO

L’uso dell’ipotermia nei pazienti dopo arresto cardiaco è universalmente accettato. Due studi multicentrici randomizzati e controllati hanno dimostrato un significativo miglioramento neurologico nei pazienti trattati con ipotermia dopo molte ore dal danno neurologico e i cui ritmi d’esordio erano stati la fibrillazione e la tachicardia ventricolare [104, 105].

Dati successivi su un gran numero di pazienti dopo infarto miocardico hanno mostrato come la dimensione della zona infartuata risultasse ridotta nei pazienti che erano stati raffreddati al di sotto di 35°C prima dell’angioplastica [135] suggerendo così che tempi di raffreddamento più rapidi possano migliorare l’outcome dei pazienti.

Esistono numerose metodiche di raffreddamento che complessivamente possono essere divise in due grandi gruppi: “non inasive” che agiscono tramite raffreddamento esterno e “inasive” che agiscono tramite raffreddamento interno [136].

E’ verosimile che sia necessaria la combinazione di più metodiche per attuare il trattamento ipotermico [126]. Non possono essere raccomandati specifici metodi dal momento che vi sono solo pochi studi che ne comparano applicabilità ed efficacia [137, 138] e non ci sono dati che indicano che una particolare tecnica di raffreddamento aumenta la sopravvivenza rispetto ad un’altra; tuttavia, i dispositivi invasivi consentono un controllo più preciso della temperatura rispetto a quelli esterni [137].

Non invasive

- Impacchi di ghiaccio e / o asciugamani bagnati: semplici, poco costosi, utilizzabili anche in ambito extraospedaliero. Richiedono più tempo per raggiungere la temperatura desiderata, possono provocare ferite locali e lesioni da decubito, sono poco efficaci nelle persone con un maggiore strato adiposo, permettono fluttuazioni della temperatura con scarso controllo durante la fase di mantenimento e possono richiedere più impegno per il personale infermieristico che deve provvedere alla frequente sostituzione.

- Placche adesive refrigerate: agiscono per contatto con la cute prelevando calore dal corpo; sono impiegabili facilmente anche sul territorio e abbassano la temperatura di

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- Coperte e materassi di raffreddamento ad aria o ad acqua: sono facili da applicare ed efficaci. Sfruttando la conduzione, sono influenzate dalla vasocostrizione periferica e dall’estensione della superficie di contatto; diventano maggiormente efficaci se circondano il paziente. Non sono adatti ad un uso extraospedaliero.

- Artic Sun ™ simula il principio dell'immersione in acqua, fornendo un alto trasferimento di energia e un controllo preciso della temperatura. Nell'Arctic Sun ™ circola acqua a temperatura controllata attraverso le placche a trasferimento di energia, in risposta alle condizioni attuali del paziente. Un sofisticato algoritmo di controllo fa aumentare o diminuire la temperatura dell'acqua circolante per raggiungere una determinata temperatura target del paziente.

Invasive

- Infusione rapida 30 ml/Kg di cristalloidi a 4°C in 30’: riduce la temperatura centrale di circa 1.5°C [7]. E’ una metodica facile, economica e veloce per indurre il raffreddamento. Bernard et al. [105] hanno descritto questa modalità per indurre rapidamente l’ipotermia: la temperatura è stata portata da 35.5°C a 33.8°C entro 30 minuti senza effetti collaterali. Risulta pertanto un metodo rapido, sicuro ed efficace per induzione dell’ipotermia; non è tuttavia sufficiente nella fase di mantenimento, durante la quale deve essere utilizzato in combinazione con altre tecniche. Kliegel et al., infatti, hanno ottenuto risultati analoghi somministrando liquidi freddi per via

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endovenosa confermando quanto detto in precedenza ma hanno precisato che, sebbene questo trattamento sia ottimale per l’induzione dell’ipotermia [139], non risulta tuttavia sufficiente nella fase di mantenimento [140]. Polderman ha esaminato la fattibilità, la velocità e le complicazioni dell’infusione di 1500 ml di soluzione salina allo 0,9% somministrata in 30 minuti in pazienti non affetti da shock cardiogeno. Dai risultati emerge che la temperatura dopo 30 minuti si riduce da 36.9°C ± 1.9°C a 34.6°C ±1.5°C fino ad arrivare a 32.9°C ± 0.9 °C dopo 60 minuti. Monitorando in continuo la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, i parametri emogasanalitici, i livelli sierici di piastrine, elettroliti e globuli bianchi non si sono evidenziati significativi effetti collaterali [88]. Questa metodica, inoltre, merita particolare attenzione se utilizzata in pazienti con insufficienza ventricolare sinistra e renale.

- Gastrolusi con infusione di 500 ml di acqua sterile fredda ogni 15’ attraverso sondino nasogastrico (SNG): porta ad un raffreddamento lento e può provocare diarrea.

- Sonda transnasale di raffreddamento: è un dispositivo portatile che utilizza cateteri nasali attraverso i quali viene iniettato un liquido freddo. Sfrutta il fatto che lo strato osseo che separa le cavità nasali dal tessuto encefalico è molto sottile e funziona come scambiatore di calore. Nello studio condotto da Castrén e coll. [141] il RhinoChill™ è risultato essere un metodo sicuro, associato ad una significativa riduzione del tempo necessario per raggiungere il target ipotermico. Gli effetti collaterali sono stati discromie nasali e, in una percentuale inferiore di casi, enfisema periorbitario, epistassi e sanguinamento periorale.

- Cateteri intravascolari (10-14F): posizonati nella vena femorale o succlavia, sono dotati di due o tre palloncini riempiti di soluzione fisiologica, a temperatura regolabile, spinta da una pompa/refrigerante esterna; inducono l’ipotermia in modo molto efficace e rapido e ne assicurano la stabilità durante la fase di mantenimento. Sono però presidi costosi, caratterizzati dalle complicanze del catetere venoso centrale [142] e non utilizzabili in ambito extra-ospedaliero [139.]. Mancano tuttavia dati sulla sicurezza nell’uso a lungo termine (>24h) [138].

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Vengono prelevati dal catetere venoso 40 ml/kg di sangue al minuto che vongono raffreddati, ossigenati e reinfusi attraverso il catetere arterioso bypassando cuore e polmoni. Questa metodica è consente una rapida di induzione dell’ipotermia, un preciso controllo termico e consente di raffreddare il paziente senza una sedazione profonda o l’utilizzo di bloccanti neuromuscolari; trattasi tuttavia di un metodo molto complesso, costoso e praticabile solamente in centri specialistici [143].

- Elmetti refrigeranti: nuovi approcci prevedono l’uso del raffreddamento cerebrale selettivo anche se è improbabile che il raffreddamento locale del capo produca ipotermia cerebrale quando c’è un’adeguata perfusione con sangue caldo di provenienza centrale [144]. Il capo può comunque essere una sede efficace per rimuovere il calore dal corpo [145].

- Trattamento con paracetamolo: può servire in modo complementare per indurre ipotermia nei pazienti con febbre non di origine centrale.

Castrén et al. nelle linee guida del 2009 [126] affermano, in definitiva, che la strategia di raffreddamento deve essere rapida, efficace e sicura e che non vi sono specifiche tecniche che possono essere raccomandate. Ogni struttura ospedaliera dovrebbe utilizzare il metodo o la combinazione di metodi che si adatta meglio alle infrastrutture, alla logistica, alle risorse finanziarie e ai piani di trattamento.

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MONITORAGGIO DELLA TEMPERATURA

Il sito dove la temperatura viene misurata assume notevole importanza per la gestione del paziente da trattare con ipotermia, in quanto ogni singolo sito di misura possiede le proprie caratteristiche. E’ necessario mantenere la temperatura del paziente nel range “terapeutico” e contemporaneamente porre attenzione a non sconfinare al di sotto di un certo grado di ipotermia per non incorrere in gravi effetti collaterali [88].

Si conoscono vari siti con i relativi presidi per la misurazione della temperatura:

- Catetere in arteria polmonare: riflette accuratamente e velocemente le variazioni della temperatura cerebrale. Ha un basso rischio di errori di misura e di dislocamento ma è un sistema invasivo con le complicanze associate alle procedure di posizionamento. Deve essere rimosso dopo 72-96 h.

- Sonda esofagea: è di facile posizionamento e riflette abbastanza velocemente le variazioni della temperatura. Ha un rischio moderato di dislocarsi (nello stomaco) e di interferire con il sondino naso-gastrico con conseguenti erronee misurazioni della temperatura.

- Sonda vescicale: è di facile posizionamento, tuttavia la misura può essere inficiata se la produzione di urina è scarsa.

- Sonda rettale: è di facile posizionamento ma ha alto rischio di dislocazione ed è inaffidabile in caso di diarrea.

- Sonda timpanica: è facile da usare e sfrutta un sito facilmente accessibile ma è poco affidabile e non consente una misurazione in continuo.

- Termometro ascellare: è facile da usare e non necessita l’inserimento di sonde ma è completamente inaffidabile per il gradiente di temperatura tra core e periferia (vasocostrizione cutanea). Non è dunque da utilizzare in corso di trattamento ipotermico.

Gli studi che si focalizzano sul sito di misurazione ottimale sono carenti.

Tuttavia, pochi mesi fa Knapik et al., in uno studio prospettico osservazionale, hanno preso in esame un gruppo di 12 pazienti sottoposti a ipotermia e ad ogni rilevazione hanno misurato la temperatura tramite tre presidi diversi: il catetere di Swan-Ganz in

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analizzato un totale di 1728 misurazioni (144 per paziente) per un periodo di 48 ore cosiderando come temperatura di riferimento quella rilevata tramite Swan-Ganz . Dai risultati è emerso che le tre tecniche prese in esame fornivano valori termici simili [146].

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FATTORI PREDITTIVI DI RECUPERO NEUROLOGICO

L’obiettivo della pratica clinica è sempre quello di portare il paziente al pieno recupero della coscienza a delle funzioni. Tutti i soggetti con arresto circolatorio di durata superiore a 1-2 minuti saranno in coma al momento della diagnosi iniziale, tuttavia alcuni di questi possono riprendersi e svegliarsi. Sfortunatamente, molti di coloro che sopravvivono ad un arresto cardiaco entrano in uno stato vegetativo permanente [147] o “di minima coscienza”[148].

Il danno neurologico risulta la causa di morte per due terzi dei pazienti ricoverati in terapia intensiva dopo arresto extra-ospedaliero e per un terzo di quelli ammessi dopo arresto intra-ospedaliero [7].

Sarebbe necessario trovare un sistema per predire l’outcome neurologico che possa essere applicato sul singolo paziente dopo la ripresa del circolo. Molti studi si sono focalizzati sui fattori predittivi di un “poor oucome” a lungo termine (stato vegetativo o decesso) basati sull’esame clinico e su dati laboratoristico-strumentali che possano documentare il danno cerebrale irreversibile permettendo quindi ai medici di limitare le cure e interrompere il supporto artificiale delle funzioni vitali. Le implicazioni di questi fattori prognostici sono così importanti che dovrebbero avere una specificità del 100% (nessun falso positivo, nessun individuo che potrebbe avere un buon outcome nonostante la previsione di un “poor outcome” ) [7].

Il tema della prognosi dopo arresto cardiaco è controverso per tre principali motivi: 1. Molti studi sono alterati da una “previsione fai da te” con un trattamento che

raramente si continua per un periodo di tempo e per un numero di pazienti sufficiente a fornire una reale stima della quota di falsi positivi per ogni fattore prognostico.

2. Molti studi includono così pochi pazienti che, pur essendo dello 0% la quota di falsi positivi, non raggiungono neanche un intervallo di confidenza del 95%.

3. Molti studi sui fattori prognostici sono stati intrapresi prima dell’implementazione dell’ipotermia terapeutica, che rende questi test meno affidabili.

Come Oddo e Rossetti ammettono in un articolo di giugno u.s. [149], l'ipotermia terapeutica altera l’accuratezza prognostica. Pertanto, i parametri per la previsione

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dell’outcome, validati dall’Accademia Americana di Neurologia prima dell’introduzione dell’ipotermia terapeutica, necessitano di ulteriori aggiornamenti. E’ per questo motivo che, di seguito, cercherò di passare in rassegna i principali fattori prognostici predittivi di recupero neurologico universalmente riconosciuti, mettendone in evidenza la validità prima e dopo “l’era ipotermica”.

Esame neurologico

Non ci sono segni clinici che, a meno di 24 ore da un arresto cardiaco, possano predire un “poor oucome” (CPC 3-4-5) [7].

Nei pazienti adulti in stato di coma dopo un arresto cardiaco che non sono stati trattati con ipotermia e che non hanno fattori confondenti (ipotensione, sedazione, curarizzazione), l’assenza bilaterale di riflessi fotomotore e corneale a 72 ore dall’arresto è predittiva di “poor outcome” [150].

L’assenza del riflesso vestibolo-oculare a 24 ore così come un GCS motorio di 1 o 2 a 72 ore sono segni clinici meno affidabili. Altri segni come il mioclono non sono raccomandati per predire l’outcome. Può essere molto difficile la diagnosi differenziale tra stato epilettico mioclonico e sindrome di Lance Adams, patologia che si riscontra nei pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco con mioclono ma funzioni intellettive conservate, a prognosi assai migliore [151].

Come riportato da Oddo et al. [149], l’ipotermia ritarda il recupero della risposta motoria e può rendere inaffidabile la valutazione clinica.

Semaniego et all [152] pongono l’accento su studi recenti che hanno utilizzato l’ipotermia terapeutica riportando casi di pazienti in cui la risposta motoria era assente o in estensione (GCS motorio 1-2) dopo 3 giorni e che hanno avuto successivamente recupero della coscienza. L’ipotermia e l’uso associato di sedativi e bloccanti neuromuscolari potrebbe ritardare il recupero neurologico e influenzare la tempistica delle variabili prognostiche.

A Lund è stato condotto uno studio su 102 pazienti vittime di arresto cardiaco trattati con ipotermia dal 2004 al 2008. Trentatre di questi presentavano un GCS ≤ 7 dopo 72 ore dal ripristino della normotermia. Dopo 6 mesi tre di questi (quasi un paziente su dieci) presentavano un buon outcome neurologico con CPC 2.

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Crisi epilettiche

Crisi epilettiche convulsive colpiscono il 5-15% degli adulti che recuperano una circolazione spontanea dopo arresto cardiaco e il 10-40% di quelli che rimangono in coma [153]. Le crisi epilettiche incrementano fino a tre volte il metabolismo cerebrale [154] amplificando il danno; si rende pertanto necessario un trattanento precoce ma non ci sono studi che indirizzino verso un impiego in via profilattica dei farmaci anticonvulsivanti.

Fino a poco tempo fa, crisi convulsive prolungate o uno stato epilettico erano associati a una cattiva prognosi [155, 156].

Edgren e coll., in un importante studio [155], hanno documentato che uno stato epilettico persistente ancora dopo 72 ore dall’arresto cardiaco era associato a un valore prognostico predittivo negativo del 100%.

Langhelle e coll. in uno studio in quattro diverse regioni della Norvegia, hanno associato le le crisi convulsive ad una più alta mortalità [156] .

Queste evidenze appartengono all’era “pre-ipotermica” ma una questione ancora poco chiara è quanto l’ipotermia terapeutica inluenzi la prognosi, in presenza di questi segni clinici, sia in termini di sopravvivenza che di funzione neurologica.

Di seguito vi presenterò come esempio un articolo che conferma quanto detto.

A conferma di quanto sopra, è rilevante segnalare il case report pubblicato da Sunde e coll. [157]. Gli autori riportano il caso di un uomo di 50 anni, colpito da IMA e da molteplici episodi di FV prima e durante la procedura angioplastica, sottoposto a trattamento ipotermico di 24 ore con ricovero in terapia intensiva e assistenza rianimatoria invasiva. Documentano la presenza di uno stato epiliettico refrattario alla fenitoina e al clonazepam, tale da richiedere trattamento con fenobarbital anche dopo nove giorni dall’arresto cardiaco con TC cranio e RM encefalo normali. Descrivono come, dopo molti giorni, superate le complicanze infettive, il paziente abbia iniziato a riacquistare gradualmente la coscienza e a collaborare in maniera più efficace tanto da essere decannulato e posto in respiro spontaneo dopo 42 giorni, da eseguire normalmente test mnemonici dimostrando il recupero delle funzioni intellettive e fisiche dopo 9 mesi e da tornare alla propria attività lavorativa dopo un anno dall’arresto cardiaco. L’EEG mostrava sporadici spike subclinici nelle regioni frontali e

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per questo al soggetto fu prescritta terapia antiepilettica, senza tuttavia crisi clinicamente significative.

In conclusione, nella cosiddetta “era ipotermica”, deve essere rivisto anche il valore prognostico della persistenza delle crisi epilettiche con la relativa tempistica.

Markers biochimici

L’enolasi neurone specifica (NSE) è l’isomero gamma dell’enzima glicolitico citoplasmatico enolasi. La sua presenza è stata rilevata nei neuroni e nelle cellule del neuroectoderma. Il danno neurologico e le alterazioni della barriera emato-encefalica ne causano il rilascio nel liquido cefalorachidiano e nel torrente ematico; valori aumentati di NSE sono stati riportati in seguito a vari tipi di danno neurologico.

Molti studi sono finalizzati a individuare il cut-off del livello sierico di NSE che possa essere correlato con l’outcome neurologico nei pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco.

Nello studio PROPAC pubblicato su Neurology nel 2006, Zandbergen et al. [150] avevano mostrato che tutti i pazienti con NSE >33 μg/l sia a 24 che a 48 che a 72 ore dopo arresto cardiaco aveveno un outcome neurologico sfavorevole.

Le linee guida pubblicate nel 2006 dall’American Academy of Neurology [158] indicavano un valore soglia di NSE sierico superiore a 33 μg/l come predittivo di “poor outcome”; si deve tenere in considerazione però il fatto che esse si basavano solo su studi condotti su pazienti non sottoposti a ipotermia.

Molti autori hanno continuato a studiare il valore predittivo di NSE sull’outcome neurologico.

Oksanen et al. ad esempio hanno preso in esame 90 pazienti trattati con ipotermia; hanno confermato il cut off di 33 μg/l del NSE a 48 ore come predittivo di “poor outcome” ma hanno posto l’attenzione sull’importanza del gradiente di incremento (6.4 μg/l) tra la ventiquattresima e la quarantottesima ora ammettendone l’alta specificità ma la moderata sensibilità come marker di outcome a 6 mesi [159].

Un lavoro di Rundgren et al. [160] ha preso in esame pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco (trattati con ipotermia a 33°C per 24 ore indipendentemente dalla causa o dal ritmo di presentazione) e ne ha analizzato i livelli sierici di NSE dopo 2, 24, 48, 72 ore

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come un aumento superiore a 2 μg/l tra la ventiquattresima e la quarantottesima ora erano correlati con una prognosi neurologica sfavorevole (CPC3-4-5) e che NSE a 48 ore era associato ad una più alta sensibilità (67%) se comparato con NSE a 72 ore (50%).

Tiainen et al. [161] hanno condotto uno studio sui predittori biochimici di danno neurologico in pazienti trattati con ipotermia lieve-moderata. I pazienti con buon outcome neurologico presentavano una riduzione dei livelli di NSE durante il trattamento, dato probabilmente indice dell’attenuazione del danno secondario nei pazienti ipotermici rispetto ai normotermici.

Steffen et al. [162], in un interessante lavoro pubblicato su Critical Care 2010, hanno preso in esame il valore sierico di NSE dopo 72 ore dall’ammissione in terapia intensiva e l’outcome alla dimissione in pazienti sopravvissuti ad arresto cardiaco suddividendoli in due gruppi: uno storico (133 pazienti) non sottoposto a ipotermia e uno (97 pazienti) trattato con ipotermia; ambedue i gruppi hanno ricevuto il medesimo trattamento intensivo. Dai risultati è emersa, nel “gruppo ipotermia”, una proporzione significativamente più alta con buon recupero neurologico (CPC 1-2) anche per valori sierici di NSE compresi tra 20 e 80 μg/l, mentre pazienti con NSE > 80 μg/l hanno avuto un esito neurologico sfavorevole (CPC 3-4-5) in entrambi i gruppi. La relazione, dunque, tra valori sierici di NSE e outcome neurologico è risultata significativamente modificata dal trattamento ipotermico.

Anche Oddo [149] ammette che l’ipotermia altera il valore predittivo di marker sierici come NSE, che un buon recupero neurologico può avvenire nonostante livelli di NSE > 33 μg/l e che questo valore limite non deve essere usato per “guidare” la terapia.

Vi sono due aspetti da considerare che rendono ancor più difficoltosa l’identificazione di un valore soglia. Il primo è l’uso di kit diversi per il dosaggio di NSE nei vari laboratori in assenza di uno standard internazionale che ne renda possibile la comparazione dei risultati tra centri differenti [162, 163].

Il secondo è che NSE risulta contenuto in gran quantità nei globuli rossi e nelle piastrine e, dunque, l’emolisi ne aumenta il livello ematico. Johnsson et al [164] hanno documentato alti livelli di NSE nei pazienti sottoposti a bypass cardiopolmonare derivanti, per la maggior parte, dal rilascio degli eritrociti emolizzati.

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