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L'induzione dell'autofagia migliora la funzione e sopravvivenza delle beta-cellule umane isolate da donatori diabetici di tipo 2

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DIPARTIMENTO DI BIOLOGIA

CORSO DI LAUREA IN BIOLOGIA APPLICATA ALLA BIOMEDICINA

L'induzione dell'autofagia migliora la funzione e la

sopravvivenza delle beta-cellule nel diabete di tipo 2

Relatori: Candidato: Prof. Piero Marchetti Sandra Mossuto

Dott. Marco Bugliani

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Sommario

Sommario ... 2 Riassunto ... 5 Abstract ... 7 Introduzione ... 8 1. Diabete Mellito ... 8 1.1. Definizione ... 8 1.2. Cenni storici ... 8 1.3. Epidemiologia ... 10 1.4. Classificazione ... 11 1.5. Diabete di tipo 2 ... 12

1.5.1. Eziologia del diabete di tipo 2 ... 13

2. Il pancreas ... 16

2.1. Isola pancreatica ... 18

2.2. Funzione e massa beta cellulare ... 20

2.2.1. Funzione beta-cellulare ... 20

2.2.2. Massa beta cellulare ... 22

3. Autofagia ... 25

3.1. Macroautofagia ... 26

3.2. Meccanismo molecolare dell’autofagia ... 27

3.3. Autofagia e Diabete di tipo 2 ... 31

Scopo della tesi ... 33

Materiali e metodi ... 34

1. Isolamento e purificazione delle isole pancreatiche umane ... 34

1.1. Preparazione delle isole pancreatiche umane ... 34

2. Coltura isole ... 36

2.1. Preparazione del mezzo di coltura m199 ... 36

3. Studi funzionali in vitro ... 37

4. Dosaggio immunoradiometrico ... 38

4.1. Analisi del rilascio insulinico ... 39

5. Microscopia elettronica ... 39

6. Analisi dell’espressione genica ... 41

7. Analisi statistica ... 48

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1. Caratteristiche dei donatori ... 49

2. Sopravvivenza beta cellulare ... 50

3. Secrezione insulinica ... 52

4. Morfometria ... 53

5. Espressione genica ... 56

Discussione ... 58

(4)

ABBREVIAZIONI

3-MA: 3-metiladenina

ADA: American Diabetes Association ADP: adenosina difosfato

ATG: autophagy-related gene ATP: adenosina trifosfato ConcA: concanamicina-A DM: diabete mellito DT1: diabete di tipo 1 DT2: diabete di tipo 2

FADH2: flavina adenina dinucleotide GWAS: genome-wide association study Hsp: heat shock protein

IDF: International Diabetes Federation IGT: alterata tolleranza al glucosio IMC: indice di massa corporea KRB: krebs ringer-bicarbonato

mTOR: mammalian Target of Rapamycin

NADH: nicotinammide adenina dinucleotide ND: donatori non diabetici

OMS: Organizzazione mondiale della sanità RE: reticolo endoplasmatico

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Riassunto

L’autofagia è un processo fisiologico attraverso cui le cellule degradano e riciclano i loro componenti; negli ultimi anni è stato inoltre proposto che alterazioni a carico del processo autofagico siano in grado di indurre disfunzione beta cellulare che in ultima analisi può portare a DT2. Nel nostro studio abbiamo valutato gli effetti di una modulazione dell’autofagia in isole ottenute da donatori non diabetici e donatori diabetici (DT2) sottoposte a varie condizioni sperimentali.

Le isole pancreatiche umane utilizzate in questo studio sono state ottenute da 17 ND; (età: 65±21 anni; genere: 5M/12F; indice di massa corporea (IMC): 23,4±3,3 Kg/m2) e

5 donatori affetti da DT2 (età: 77±7 anni; genere: 3M/2F; IMC: 23,9±3,7 Kg/m2). Le

isole ND e DT2 sono state poi tenute in coltura per un periodo di 1-5 giorni con 5 mmol/l di 3-MA, 1,0 nmol/l di ConcA (inibitori dell’autofagia), o 10 ng/ml di rapamicina (induttore di autofagia), in presenza o meno di un induttore dello stress del RE metabolico (0,5 mmol/l di palmitato) o chimico (0,1 ug/ml di brefeldina A). Come aspettato le isole esposte (5 giorni) a palmitato mostravano un aumento di 4-5 volte del grado di apoptosi (valutata mediante microscopia elettronica) beta cellulare, (da 0,4±0,2 a 2,0±0,8%, p<0,01); tale effetto deleterio era completamente prevenuto dalla esposizione a rapamicina (0,3±0,3%) e peggiorato in maniera significativa da 3-MA (7,0±1,1%) e ConcA (3,1±1,1%). Risultati sostanzialmente simili venivano osservati anche nelle isole trattate per 24 ore con brefeldina A. La secrezione insulinica stimolata da glucosio nelle isole non diabetiche risultava ridotta dal palmitato in misura del 40-50% e dalla brefeldina in misura del 60-70%, rispetto alle isole non diabetiche non trattate. La concomitante presenza di rapamicina riusciva a prevenire l’effetto citostatico del palmitato, ma influenzava solo marginalmente gli effetti della brefeldina. I due agenti stressogeni inducevano, poi, l’espressione genica di PERK, CHOP e Bip, che veniva parzialmente ma significativamente prevenuta dalla rapamicina. In maniera simile, rispetto alle isole DT2 non trattate, le isole diabetiche esposte a rapamicina (24 ore) mostravano una riduzione della percentuale di beta cellule con segni di apoptosi (da 6,6±1,7 a 2,0±0,8%, p<0,05), un aumento della secrezione insulinica (indice di stimolazione indotto da glucosio da 1,6±0,8 a 2,1±1,1, p=0,05) e un miglioramento dell’ultrastruttura dei granuli di insulina, dei mitocondri

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e del RE. Questi dati erano associati ad una riduzione significativa dell’espressione genica di PERK, CHOP e Bip. In conclusione, questo studio enfatizza l’importanza dell’autofagia nella funzione e sopravvivenza beta cellulare, in particolare in situazioni di stress del RE. La modulazione dell’autofagia potrebbe, quindi, rappresentare uno strumento per la protezione beta cellulare.

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Abstract

Autophagy is the major mechanism involved in degradation and recycling of intracellular components, and its alterations have been proposed to cause β cell dysfunction. In the present study we explored the effects of autophagy modulation in islets prepared from type 2 diabetic (T2D) and nondiabetic (ND) human donors, studied under several different conditions. Islets were isolated from 5 T2D (age: 77±7yrs; gender: 3M/2F; BMI: 23.9±3.7 Kg/m2) and 10 nondiabetic (ND; age: 69±19

yrs; gender: 3M/7F; BMI: 23.6±2.9 Kg/m2) organ donors. T2D and/or ND islets were

then cultured for 5 days with 10 ng/ml rapamycin (autophagy inducer), or 5 mM 3-methyladenine (3-MA) and 1.0 nM concanamycinA (ConcA) (autophagy blockers), either in the presence or absence of metabolic (0.5 mM palmitate) or chemical (0.1 ug/ml brefeldin A) endoplasmic reticulum (ER) stressors. Compared to untreated T2D islets, rapamycin exposed (24h) diabetic islets showed improved insulin secretion (glucoseinduced insulin stimulation index from 1.6±0.8 to 2.1±1.1, p=0.05), reduced amount of β cells with signs of apoptosis (from 6.6±1.7 to 2.0±0.8% by electron microscopy, p<0.05), and better insulin granules, mitochondria and ER ultrastructure. This was associated with significant reduction of PERK, CHOP and Bip gene expression (qRT-PCR).

As expected, in ND islets palmitate exposure (5 days) induced a 4-5 fold increase of β cell apoptosis (from 0.4±0.2 to 2.0±0.8%, p<0.01); this deleterious action was completely prevented by rapamycin (0.3±0.3%) and significantly exacerbated by 3-MA (7.0±1.1%) and ConcA (3.1±1.1%). Substantially similar results were observed with brefeldin treatment (24h). Both palmitate and brefeldin induced PERK, CHOP and Bip gene expression, which was significantly, although partially, prevented by rapamycin. This study emphasizes the importance of autophagy in human β cell function and survival, likely in association with ER activity. Modulation of autophagy could be instrumental to β cell protection.

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Introduzione

1. Diabete Mellito

1.1.

Definizione

Il Diabete Mellito, DM, è un disordine metabolico, ad eziologia multipla, caratterizzato da iperglicemia cronica con alterazioni del metabolismo dei carboidrati, dei lipidi e delle proteine, conseguente ad un difetto di secrezione o di azione dell’insulina o ad entrambi. L’iperglicemia cronica è associata a danni a lungo termine dovuti alla disfunzione di diversi organi in particolare di occhi (retinopatie), reni (nefropatie), nervi (neuropatie), e vasi sanguigni con un aumento da 2 a 4 volte del rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. (American Diabetes Association 2014).

Il termine diabete deriva dal greco antico diabein “διαβαίνειν“, che significa passare attraverso, attraversare, alludendo al fluire dell’acqua in un sifone e quindi il passaggio di materiale energetico attraverso le urine; uno dei segni clinici più distintivi di tale patologia, infatti, è rappresentato dalla presenza di zucchero nelle urine, dove giunge attraverso il rene quando la sua concentrazione ematica supera una certa soglia; per tale motivo nel 1675 il medico inglese Tommaso Willis associò alla parola diabete il termine “mellitus” che in latino ha il significato di miele, ad indicare l’eccessiva produzione di urine dal sapore dolce, per la presenza di zucchero, osservata nei pazienti diabetici. Oggi il termine è tuttora in uso in quanto serve a distinguere questa forma di diabete da un’altra detta diabete insipido che ha eziopatogenesi e decorso completamente differenti.

1.2.

Cenni storici

Il primo accenno storico al diabete si ritrova nel papiro egiziano di Ebers datato 1552 a.C. dove si evinceva che gli antichi egiziani erano già a conoscenza di una malattia associata col passaggio di molta urina.

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Areteo di Cappadocia nel secondo secolo d.C, scrisse un piccolo trattato “Sul Diabete” che rimase il testo di riferimento per l’insegnamento e la pratica clinica fino al milleottocento.

Nel 1869, Paul Langerhans, uno studente di medicina, aveva descritto un nuovo gruppo di cellule, sparso all’interno del pancreas, con una funzione ancora sconosciuta, che da lui presero il nome di Isole di Langerhans.

Nel 1889 grazie agli esperimenti di van Mering e Minkowski i quali avevano notato che la rimozione del pancreas da due cani provocava negli animali una profusa diuresi con tutti i sintomi nell'uomo con diabete, poliuria e iperglicemia, si ebbero le prime evidenze di un’associazione tra diabete e pancreas.

Nel 1893 Edouard Laguesse aveva ipotizzato che fossero le "isolette di Langerhans" a regolare il metabolismo del glucosio e che rappresentassero infatti la parte endocrina del pancreas; tale concetto fu ripreso da Jean de Mayer nel 1909, il quale ipotizzò che fosse una sostanza prodotta dalle isole di Langerhans a provocare la riduzione della glicemia e le diede il nome di insulina.

Sebbene conosciuto da secoli, il diabete risultava ancora una malattia fatale prima della scoperta dell’insulina avvenuta negli anni Venti da parte di un gruppo di ricercatori canadesi, guidato da Frederick Grant Banting e John R. Macleod. Banting partì dalla constatazione che la legatura del dotto pancreatico (attraverso cui il succo pancreatico viene convogliato nell'intestino) provocava degenerazione del pancreas tranne che delle isole di Langerhans. Per condurre queste ricerche ottenne da Macleod, allora direttore del laboratorio di fisiologia dell'Università di Toronto, una decina di cani, e l'aiuto di un giovane studente di medicina, Charles Best. Banting e Best legarono il dotto pancreatico ad un cane: dopo qualche settimana il pancreas era degenerato. Essi triturarono allora il residuo costituito prevalentemente da isole, in un mortaio, riducendolo in poltiglia e filtrandolo fu prelevato il secreto prodotto che venne chiamato “isletin” (da cui insulina). Somministrato in cani privati del pancreas, questo estratto era in grado di abbassare il livello di zuccheri nel sangue. Nei mesi successivi Banting e Best cercarono di perfezionare il metodo d’estrazione, cercando di abbreviarne i tempi (erano necessarie sei settimane per riuscire a estrarre insulina da un animale). Grazie alla collaborazione con il biochimico James Bertram Collip purificarono l’estratto pancreatico e nel 1922 un giovane diabetico di nome Leonard Thompson fu il primo paziente a ricevere l’insulina purificata dagli estratti di

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pancreas; cominciò così l’era dell’insulina anche se si dovette giungere allo sviluppo della biologia molecolare per sostituire l’insulina di estrazione animale con quella umana ricombinante che si usa oggigiorno.

1.3.

Epidemiologia

Il DM con le sue complicanze, è una patologia in continuo aumento, tale da indurre gli esperti a parlare di epidemia mondiale di diabete.

Ad oggi, si stima che le persone in tutto il mondo affette da diabete siano circa 382 milioni, e che, se questa tendenza viene mantenuta, entro il 2035, il loro numero crescerà a circa 592 milioni con i maggiori incrementi nei Paesi in via di sviluppo come India, Cina, Brasile. Oltre ai casi accertati, l’IDF ritiene che almeno 175 milioni di persone in tutto il mondo, non siano a conoscenza di essere diabetiche.

Sotto l’aspetto umano e finanziario il peso del diabete è enorme con 5,1 milioni di morti di età compresa tra i 20 e i 79 anni (pari all’8,4 %) maggiormente registrati nei paesi in cui è presente il maggior numero di persone con questa malattia (Cina, India, Stati Uniti e Federazione russa) e una spesa sanitaria di circa 548 miliardi di dollari (11% del totale speso a livello mondiale), nel 2013. Le previsioni non sono di certo le più rosee: l’OMS stima infatti che per il 2030, il diabete potrebbe diventare la prima causa di morte a livello globale.

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1.4.

Classificazione

I meccanismi eziopatogenetici, coinvolti nello sviluppo della malattia sono molteplici e per talune forme, come per il diabete mellito di tipo 2, non ancora completamente chiari, comunque, sulla base di tali meccanismi nel 1997 l’American Diabetes Association (ADA) ha elaborato una classificazione delle varie forme di diabete successivamente avallata dagli esperti della diagnosi e classificazione del diabete (WHO, 1999):

- DIABETE DI TIPO 1 (DT1): precedentemente chiamato "diabete insulino dipendente" o "diabete ad esordio giovanile," rappresenta il 5-10% delle forme di diabete. Si configura come una malattia autoimmune caratterizzata dalla distruzione selettiva della componente beta cellulare delle isole pancreatiche attraverso un processo immuno-mediato, a cui segue un'assoluta deficienza della secrezione insulinica. La distruzione autoimmune delle beta cellule ha più predisposizioni genetiche ed è anche legata a fattori ambientali che sono ancora poco definiti, come virus, tossine, nitrosamine (Helgason et al., 1981), o molecole di tipo alimentare come proteine del latte, cereali o glutine (Akerblorn et al., 2002; Virtanen et al., 2000; Vaarala et al., 1999; Thorsdottir and Ramel, 2003; Norris et al., 2003).


Oltre a questa, ci sono alcune forme di diabete di tipo 1, meno frequenti, che hanno una eziologia sconosciuta e sono definite come diabete idiopatico. I pazienti affetti da questa forma di diabete presentano vari gradi di carenza di insulina e sono inclini a chetoacidosi. La maggior parte di questi pazienti sono di origine asiatica o africana. Si tratta di un tipo di diabete fortemente associato a fattori ereditari, nel quale non è stata riscontrata alcuna evidenza immunologica di autoimmunità delle beta cellule ed inoltre non risulta essere HLA associato.

- DIABETE DI TIPO 2 (DT2): in precedenza indicato come diabete non insulino-dipendente, o diabete dell'adulto, esso rappresenta, il 90-95% delle persone con diabete. Questa forma verrà trattata più dettagliatamente in un paragrafo successivo.

- DIABETE GESTAZIONALE: è una forma di diabete che viene diagnosticato per la prima volta durante la gravidanza, intorno alla 24° settimana, e

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generalmente non dà sintomi. La condizione deriva dal fatto che l'azione dell'insulina è bloccata, probabilmente da ormoni prodotti dalla placenta. Nella maggioranza dei casi scompare dopo il parto, tuttavia le donne che hanno avuto questa forma di diabete hanno un maggior rischio di sviluppare il diabete gestazionale in gravidanze successive e sviluppare diabete di tipo 2 negli anni successivi.

- ALTRE FORME DI DIABETE:

 Difetti genetici della funzione delle beta cellule

 Difetti genetici dell’azione dell’insulina

 Disturbi del pancreas endocrino

 Endocrinopatie

 Infezioni

 Farmacologicamente o chimicamente indotto

 Forme rare di diabete immuno mediato

 Altre sindromi genetiche associate con il diabete

1.5.

Diabete di tipo 2

È una forma di diabete caratterizzata da un duplice difetto: nel primo, non viene prodotta una quantità sufficiente di insulina per soddisfare le necessità dell’organismo (deficit di funzionalità della beta cellula pancreatica), nel secondo l’insulina prodotta non agisce in maniera soddisfacente (insulino-resistenza) sia a livello delle cellule epatiche, dove determina una mancata soppressione della produzione di glucosio, sia a livello delle cellule muscolari scheletriche e adipose dove ne promuove l’uptake. I due difetti possono variamente combinarsi tra loro (Leahy, 2005) e il risultato, in entrambi i casi, è il conseguente incremento dei livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia), dapprima postprandiale (IGT) e poi anche a digiuno.

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Figura 2: patogenesi del diabete

1.5.1.

Eziologia del diabete di tipo 2

Il diabete di tipo 2 è una patologia complessa, nel quale fattori genetici e ambientali concorrono all’insorgenza della patologia.

ASPETTI GENETICI:

Il fatto che, il diabete di tipo 2 sia una malattia genetica, è ben noto ai clinici da molto tempo: la letteratura segnala infatti che la presenza di un’anamnesi familiare positiva per DT2 conferisce un rischio più che doppio di diabete: del 40% per i parenti di primo grado di un paziente DT2 e del 70% per chi ha entrambi i genitori diabetici, mentre il tasso di incidenza è solo il 6% nella popolazione generale (Kobberling, 1982; Sanghera and Blackett, 2012). Tassi di concordanza più elevati si riscontrano in alcuni studi, ma non in tutti, condotti sui gemelli monozigoti (96%) rispetto ai dizigoti (Poulsen et al., 2009; Sanghera and Blackett, 2012); questa è stata una prova convincente di una componente genetica importante nel diabete di tipo 2. Nel corso degli ultimi decenni, anche attraverso studi di genome-wide association (GWAS) condotti dall’inizio del 2007, sono stati scoperti alcuni loci di suscettibilità associati al diabete di tipo 2 (Sladek et al., 2007; Wellcome Trust Case Control Consortium, 2007). Ad oggi, sono stati identificati con successo circa 75 geni di suscettibilità, presenti in pazienti con DT2, associati all'insulina, alla disfunzione β-cellulare

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comprese le varianti genetiche associate allo sviluppo del pancreas, allo stoccaggio e secrezione di insulina (Grant et al., 2009). Esempi di geni candidati sono:

KCNJ11 (canale rettificante del potassio) che codifica per il canale del potassio

Kir 6.2 presente nell’isola;

TCF7L2 (fattore di trascrizione 7-like 2), il più forte locus DT2 identificato fino

ad oggi) (Olokoba et al., 2012) che è associato a una diminuzione della secrezione di insulina, proporzionale all’ammontare del gene trascritto e associato, inoltre, a una aumentata trascrizione del gene per l’insulina;

IRS1 (Insuline Receptor Substrate 1), noto come Arg972 (in cui l’arginina

sostituisce la glicina, essendo questo l’aminoacido normalmente presente in posizione 972 di IRS-1) (Zeggini et al., 2007; Rung et al., 2009), che ha effetto sull’azione dell’insulina in quanto giocano un ruolo chiave nella trasmissione del segnale insulinico, nella muscolatura scheletrica e nel fegato, favorendo così l’insulino-resistenza;

MTNR1B (melatonin-receptor gene) collegato con il ligando endogeno

melatonina che media il ritmo circadiano e media una reagolazione metabolica (Lyssenko et al., 2009);

PPARγ2 (peroxisome proliferator-activated receptor gamma 2) codifica per un

fattore di trascrizione per la differenziazione degli adipociti (Sanghera et al., 2008);

IGF2BP2 (insulin-like growth factor two binding protein 2) è coinvolto nello sviluppo, crescita del pancreas e stimola l’azione dell'insulina (Sanghera et al., 2008);

CDKN2A (chinasi ciclina-dipendente 2A), HHEX (hematopoietically expressed

homeobox) colpisce lo sviluppo delle cellule β e FTO (fat mass and obesity associated) che predispone al diabete agendo sull’ IMC (Frayling et al., 2007). Molti di questi loci sono anche bersagli terapeutici di farmaci utilizzati ampiamente nella terapia del diabete di tipo 2, per esempio, KCNJ11 e PPARG2 sono bersagli delle classi dei sulfonilureici e tiazolidindionici (Pearson et al., 2006; Lehmann et al., 1995).

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ASPETTI AMBIENTALI:

Una vasta gamma di fattori ambientali, che rientrano nello stile di vita di un soggetto, sono di grande importanza per lo sviluppo del DT2, tra questi di rilevanza fondamentale risultano essere, lo stile di vita sedentario (Zimmet et al., 2001), la cattiva alimentazione, l’inattività fisica (Hu et al., 2001a), il fumo (Manson et al., 2000) e il consumo di alcool (Cullmann et al., 2012). Studi epidemiologici hanno dimostrato che l'obesità è il fattore di rischio più importante e quindi uno dei principali fattori predisponenti lo s viluppo di tale patologia (Belkina and Denis, 2010), tanto che l’ IMC, utilizzato come misura del grado di obesità, si è rivelato un forte predittore di diabete sia negli uomini che nelle donne (Haffner et al., 1990; Lundgren et al., 1989). Oltre al grado di obesità, anche la distribuzione del grasso corporeo sembra influenzare lo sviluppo di diabete. Il grasso presente a livello viscerale risulta, infatti, metabolicamente più attivo di quello sottocutaneo e sembra responsabile del maggior rischio di diabete presentato dai soggetti con obesità di tipo centrale (Pijl et al., 2000).

Altro fattore, considerato come un fattore di rischio modificabile per DT2 risulta essere la dieta, infatti alcuni studi hanno dimostrato che una dieta povera di fibre, ricca di alimenti con un alto indice glicemico, o ricca in grassi è positivamente associata ad un più alto rischio di sviluppare diabete di tipo 2 (Liu et al., 2000; Hu et al, 2001b). Secondo l'OMS quasi il 90% dei pazienti diabetici che sviluppano diabete di tipo 2 sono sovrappeso (WHO, 2011). Questi fattori da un lato aumentano la richiesta di insulina, dall’altro provocano disfunzione beta cellulare che a lungo termine possono portare all’insorgenza del DT2. In ogni caso, qualsiasi siano i fattori che portano all’insorgenza del diabete tipo 2 tratto caratteristico fondamentale risulta essere la disfunzione beta cellulare.

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2. Il pancreas

Il pancreas è una voluminosa ghiandola retroperitoneale, annessa all’apparato digerente, priva di capsula. Si presenta di colore grigio-giallastro e aspetto lobulato. Pesa circa 100 g nell’uomo e 85 g nella donna (Bockman, 1993). Dal punto di vista anatomico, viene convenzionalmente suddiviso in tre porzioni, che prendono il nome di testa, corpo e coda del pancreas. La testa corrisponde alla parte più spessa del pancreas ed è quella prossima al duodeno; il corpo e la coda si estendono verso sinistra fino all’ilo e alla milza, passando anteriormente all’arteria aorta (White, 1973).

Figura 3: Anatomia del pancreas (Copyright © The McGraw-Hill Companies, Inc.)

Dal punto di vista istologico viene considerata una ghiandola impari e di tipo misto in quanto formata da una:

porzione esocrina deputata alla secrezione del succo pancreatico che

rappresenta il 95%; l’unità morfologica è il lobulo costituito da acini separati da tessuto connettivo. Gli acini, con aspetto sferoidale, sono composti dalle

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cellule acinari, le quali sono collegate tra loro da giunzioni strette. Questi tipi cellulari sono di forma piramidale tronca e presentano la tipica struttura delle cellule secernenti; all’estremità apicale sono dotati di un esteso apparato secretorio costituito da reticolo endoplasmatico rugoso e numerosi granuli di zimogeno che contengono gli enzimi digestivi come amilasi, nucleasi e lipasi che vengono secreti, per esocitosi, come proenzimi inattivi. Attraverso il sistema duttale raggiungono il duodeno, dove vengono attivati da proteolisi. Dagli acini, infatti, si dipartono piccoli dotti chiamati dotti intercalari che sfociano in dotti di maggior diametro, dotti interlobulari, e questi nei dotti principali, il maggiore di questi, chiamato di Wirsung sbocca insieme al coledoco in corrispondenza della papilla di Vater nel duodeno. I dotti sono delimitati da cellule epiteliali che producono e secernono un fluido ricco di mucina e bicarbonato la cui funzione una volta raggiunto il duodeno è quella di neutralizzare il prodotto acido dello stomaco.

Figura 4: struttura del pancreas (www.wirsung.org)

Porzione endocrina costituita da diversi tipi cellulari contenuti nelle isole Langherans. Questi aggregati cellulari sono costituti fondamentalmente da 4 tipi di cellule: le cellule beta, le cellule alfa, le cellule delta e le PP (chiamate anche cellule gamma) le quali differiscono tra loro per le caratteristiche istologiche e per la numerosità, oltre che per la funzione. Le alfa cellule secernenti glucagone rappresentano circa il 20% delle cellule delle isole pancreatiche; mentre le cellule beta, producenti insulina in risposta al glucosio e alla stimolazione aminoacidica, sono il tipo cellulare più rappresentato; l’1 % è rappresentato da cellule delta e PP, producenti somatostatine e polipeptide pancreatico.

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2.1.

Isola pancreatica

Ogni isola rappresenta un organo endocrino indipendente, capace di riversare il prodotto della secrezione direttamente in circolo. All’interno dell’isola le cellule endocrine hanno una distribuzione variabile a seconda della specie, nella maggior parte dei mammiferi le cellule beta giacciono al centro dell’isola e sono circondate da un sottile strato di cellule alfa o PP, e cellule delta (Orci and Unger, 1975). Nell’uomo e negli altri primati, questa separazione cellulare è meno definita, e le cellule alfa, beta e gamma sembrano avere una distribuzione casuale all’interno dell’isola (Brissova et al., 2005). In realtà, questa organizzazione, apparentemente disordinata, è determinata dalla distribuzione dei vasi all’interno dell’isola, lungo i quali si distribuiscono cellule non-beta.

Le cellule beta hanno una forma poliedrica di piramide tronca; sono caratterizzate dal produrre insulina contenuta in granuli aventi un diametro compreso tra 250 e 300 nm. Questi possono essere distinti in granuli maturi, che presentano un core elettrondenso circondato da un alone chiaro, e granuli immaturi aventi, questi ultimi, un contenuto moderatamente elettrondenso e un alone meno appariscente. I granuli immaturi sono la sede dove avviene il processo di conversione enzimatica della pro-insulina a pro-insulina e la formazione dei cristalli esamerici di pro-insulina (Orci et al., 1987; Orci, 1985). Le cellule alfa hanno aspetto colonnare, sono generalmente più piccole delle cellule beta, contengono granuli secretori di glucagone, del diametro di 200-250 nm e aspetto elettropaco. Le cellule delta sono più piccole sia delle cellule alfa che delle beta, hanno un aspetto dendritico, possiedono granuli di somatostatina che sono più grandi e meno elettropachi dei granuli delle alfa cellule. Le cellule PP sono il tipo cellulare più variabile nelle diverse specie, contengono granuli allungati, elettrondensi, del diametro di 120-160 nm. Le isole possono avere dimensioni variabili, comprese tra 50 e 300 m; tuttavia, il diametro medio di un’isola è di 100-150 m, un’isola di queste dimensioni contiene circa 1.000 cellule beta. A seconda delle dimensioni, le isole possono presentare una composizione cellulare diversa; in particolare, le isole di piccole dimensioni contengono in prevalenza beta cellule e solo poche cellule non-beta, al contrario, nelle isole di dimensioni maggiori la componente non-beta cellulare è ben rappresentata, soprattutto da cellule alfa. Il pancreas umano contiene un numero di isole variabile da 500.000 a 1.000.000 (Saito et al., 1978),

(19)

queste rappresentano l’1-2% del parenchima pancreatico totale. Per quanto riguarda la loro distribuzione nel pancreas, è stato riportato che queste sarebbero più numerose a livello della coda dell’organo rispetto al corpo e alla testa (Saito et al., 1978), successivamente è stato invece rilevato che le differenze topografiche tra testa, corpo e coda non sarebbero dovute alla numerosità delle isole, bensì al loro volume (Opie, 1900). In particolare, la porzione di pancreas prossima al duodeno conterrebbe isole piuttosto piccole, mentre progredendo verso l’estremità splenica dell’organo aumenterebbe la proporzione di isole più grandi (Opie, 1900); fatto questo che contribuisce a determinare il gradiente insulare tra corpo e coda (Opie, 1900). Per quanto riguarda la distribuzione cellulare, la porzione di pancreas corrispondente alla parte superiore della testa, corpo e coda, presenta isole ricche di cellule alfa e povere di cellule PP; mentre, la porzione di pancreas corrispondente alla parte inferiore della testa e processo uncinato, presenta isole povere di cellule alfa e ricche di cellule PP (Stefan et al., 1982; Sakuraba et al., 2002).

Figura 5: Immagini di cellule endocrine insulari ottenute mediante microscopia elettronica. A sinistra è riportata l’immagine di una beta cellula umana; si apprezza il nucleo al centro e il citoplasma contenente i granuli che presentano un core centrale elettrondenso circondato da un alone opaco. A destra è riportata l’immagine di una cellula alfa con granuli elettropachi e una cellula delta (Marchetti et al., 2004 ).

(20)

2.2.

Funzione e massa beta cellulare

La funzione delle beta cellule è quella di secernere insulina così da mantenere i livelli plasmatici di glucosio in uno stretto intervallo di concentrazione fisiologica compreso tra 65 e 110 mg/dl. La normale funzione beta cellulare dipende sia dall’integrità dei meccanismi che regolano la sintesi e il rilascio dell’insulina, sia dalla massa complessiva delle cellule beta(Marselli L et al., 2014; Marchetti P and Ferrannini E, 2015; Marchetti P. et al. 2012).

2.2.1.

Funzione beta-cellulare

Il glucosio è l’unico zucchero d’importanza fisiologica per il controllo della secrezione insulinica. Il suo ingresso nelle beta cellule è mediato da specifici gluco-trasportatori (GLUT2 e nell’uomo anche GLUT1); una volta all’interno delle cellule, il glucosio viene fosforilato in posizione 6 ad opera della glucochinasi (GK, esochinasi IV) e quindi avviato verso la via glicolitica. La molecola di piruvato che alla fine ne deriva entra nel mitocondrio, dove viene convertito in acetl-CoA e, come tale, entra nel ciclo degli acidi tricarbossilici, dove si formano i nucleotidi ridotti FADH2 e NADH, questi entrano nella catena respiratoria dove, attraverso la cessione di elettroni, contribuiscono alla produzione di ATP. Con l’aumento della concentrazione ematica e, quindi, intracellulare del glucosio, aumenta anche il rapporto tra ATP e ADP all’interno della beta cellula. Questo determina la chiusura, a livello della membrana plasmatica dei canali del potassio ATP-dipendenti, cui consegue la depolarizzazione della membrana e l’apertura dei canali del calcio voltaggio-dipendenti, l’ingresso degli ioni calcio nella cellula induce l’esocitosi dei granuli di insulina (Marchetti et al., 2008; Prentki and Nolan, 2006)

(21)

Figura 6: Meccanismo di secrezione dell’insulina nella cellula beta (Marchetti et al., 2008).

Le cellule beta sono in grado di rispondere anche a sostanze diverse dal glucosio come alcuni aminoacidi, tra cui l’arginina e farmaci del gruppo delle sulfaniluree. A concentrazioni fisiologiche i singoli aminoacidi sono inefficaci, ma la loro combinazione, in proporzioni corrispondenti a quelle riscontrate nel circolo, ha un effetto stimolatorio (Sener and Malaisse, 1981; Bolea et al., 1997). Gli effetti degli aminoacidi sulle cellule beta derivano, verosimilmente, da una azione combinata che coinvolge sia meccanismi metabolici che biofisici. Questi, infatti, essendo poco metabolizzati dalle cellule insulari (Hellman et al., 1971; Malaisse et al., 1989), portano ad un accumulo di cariche positive all’interno della cellula (Henquin and Meissner, 1981; Charles et al., 1982) cui consegue la depolarizzazione della membrana, questo meccanismo risulta essere particolarmente importante per l’arginina. Tuttavia, la capacità degli aminoacidi di indurre la secrezione insulinica è dipendente dalla presenza di glucosio (Pagliara et al., 1974).

Per quanto riguarda i farmaci, le sulfaniluree sono gli ipoglicemizzanti comunemente usati nel trattamento dei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2. Queste molecole, legandosi a recettori specifici che si trovano sui canali del potassio ATP-dipendenti, determinano diretta- mente la chiusura di tali canali.

La chiusura del canale non determina un cambiamento nel metabolismo della cellula beta ma è il risultato di una diretta interazione della molecola con SUR1, l’unità proteica regolatrice del canale (Ashcroft and Gribble, 1999; Panten et al., 1996).

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2.2.2.

Massa beta cellulare

La massa pancreatica beta cellulare è regolata da quattro fattori principali: la replicazione beta cellulare (divisione mitotica di cellule beta preesistenti), le dimensioni beta cellulari, la neogenesi (origine di nuove cellule beta da cellule epiteliali duttali) (Butler et al., 2003; Bonner-Weir 2000a) e l’apoptosi (Weir et al., 2001; Dickson and Rhodes, 2004;). Il contributo di questi fattori è variabile, e può cambiare nel corso della vita o quando la massa beta cellulare deve adattarsi a condizioni metaboliche particolari, come l’obesità e la gravidanza. Gli studi sui meccanismi che regolano la massa beta cellulare sono stati condotti, per lo più, nei roditori, e anche in questi modelli animali hanno risentito delle limitazioni tecniche dovute al fatto che marcatori di divisione cellulare, quale la Ki-67, compaiono in una breve fase del ciclo cellulare e la loro valutazione potrebbe portare ad una sottostima dell’incidenza delle cellule replicanti. Analogamente, le cellule apoptotiche e necrotiche sono efficientemente rimosse dall’attività dei macrofagi in vivo, pertanto l’esistenza di cellule apoptotiche, specialmente quando valutate su sezioni pancreatiche ex-vivo, potrebbe non essere facilmente apprezzata. La neogenesi, misurata come quantità di cellule insulino-positive nell’epitelio duttale, è relativamente rara e per rilevarla è necessaria l’analisi di molteplici sezioni di pancreas. Questi studi sono particolarmente complessi nell’uomo, per i quali l’unico materiale disponibile è costituito da campioni autotpici, biopsie pancreatiche, o tessuto ottenuto da donatori multiorgano. Nonostante le difficoltà tecniche, studi condotti sia sull’uomo che sui roditori (MacLean and Ogilvie, 1955; Butler et al., 2003; Klöppel et al., 1985), hanno consentito di elaborare un modello di crescita e mantenimento della beta cellula nel periodo post natale. In circostanze normali, subito dopo la nascita, si verifica un picco transitorio di replicazione beta cellulare, seguito da un aumento transitorio della neogenesi beta cellulare (Bonner-Weir, 2000b). In una fase tardiva del periodo neonatale è stato osservato un modesto grado di apoptosi che contribuisce al rimodellamento delle isole. Durante questo periodo il tasso di apoptosi è comunque basso, ne deriva un incremento netto della massa beta cellulare. Queste osservazioni derivano soprattutto da studi su roditori; si ritiene, comunque, che un simile picco di crescita beta cellulare post-natale si verifichi anche nell’uomo (Bonner-Weir 2000b). Durante l’infanzia e l’adolescenza, i tassi di

(23)

replicazione, neogenesi e apoptosi beta cellulare calano drasticamente, si raggiunge una sorta di equilibrio che viene mantenuto durante la vita adulta. In età senile, la massa beta cellulare tende a ridursi per una prevalenza della apoptosi sui fenomeni della replicazione e neogenesi. Nell’adulto la spettanza di vita di una cellula beta non si conosce esattamente, si ritiene, comunque, che sia di anni.

La massa beta cellulare ha la capacità di adattarsi ai cambiamenti del carico metabolico. Un esempio è dato dalla gravidanza: studi su roditori hanno evidenziato che, durante la gestazione, la popolazione beta cellulare materna può raddoppiare per compensare l’insulino-resistenza che si associa alla gravidanza (Sorenson and Brelje, 1997). Un tale adattamento è verosimile che si verifichi anche nell’uomo (Sorenson and Brelje 1997). L’adattamento della massa beta cellulare alla condizione di insulino-resistenza che si verifica in gravidanza è sostenuto da un aumento della replicazione beta cellulare indotta dalla prolattina e dal lattogeno placentare (Sorenson and Brelje, 1997). Dopo il parto, il tasso di replicazione beta cellulare diminuisce e si verifica un aumento dei fenomeni apoptotici, che assicurano il ripristino della massa beta cellulare ai livelli pre gravidici (Bonner-Weir, 2000b). Con l’avanzare dell’età, i fenomeni apoptotici tendono a prevalere su quelli rigenerativi e la massa cellulare si riduce leggermente.

Un’altra condizione di sovraccarico metabolico che condiziona la massa beta cellulare è l’obesità in cui si verifica insulino-resistenza, questa condizione si associa ad un aumento della massa beta cellulare verosimilmente sostenuta sia dalla neogenesi, che dall’ipertrofia beta cellulare (Butler et al., 2003; Unger and Orci, 2001). Un lieve aumento dell’apoptosi beta cellulare è stato osservato in soggetti obesi non diabetici (Butler et al., 2003); comunque, in questa condizione, anche in presenza di apoptosi, l’aumento della replicazione e della neogenesi beta cellulare, e l’aumento di dimensioni delle cellule beta, portano ad un aumento netto della massa beta cellulare.

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Figura 7: - Grafico dei cambiamenti della massa beta cellulare in funzione dell’età, in condizioni fisiologiche e patologiche (Lee and Nielsen, 2009).

(25)

3. Autofagia

Il termine autofagia deriva dal greco mangiare se stessi ed è stato coniato da Christian de Duve oltre 40 anni fa, osservando la degradazione dei mitocondri e di altre strutture intracellulari all’interno dei lisosomi di fegato di ratto perfusi con l'ormone pancreatico, glucagone (Deter and De Duve, 1967).

L'autofagia avviene a bassi livelli basali in quasi tutte le cellule in cui svolge funzioni omeostatiche, turnover proteine e organuli. Lo stato nutrizionale, fattori ormonali, e altri segnali come la temperatura, la concentrazione di ossigeno, e la densità delle cellule sono importanti nel controllo dell'autofagia.

Viene upregolata quando le cellule hanno bisogno di generare nutrienti intracellulari e energia, ad esempio, durante il digiuno, privazione di fattori di crescita, o elevate esigenze bioenergetiche. Promuovendo reazioni cataboliche, degradazione autofagica di proteine, organuli, membrane e gocce lipidiche (Singh et al., 2009) genera aminoacidi e acidi grassi e altri nuovi substrati metabolici, che forniscono elementi costitutivi e mantengono i livelli bioenergetici necessari per la sintesi proteica e la produzione di energia sottoforma di ATP.

L'autofagia è anche upregolata quando le cellule si stanno preparando a subire il rimodellamento strutturale, come durante il differenziamento cellulare o in seguito a stimoli dannosi, quali stress ossidativo, infezioni, o accumulo di aggregati proteici. (Levine and Kroemer, 2008).

Ci sono tre tipi definiti di autofagia il cui fine comune è la degradazione proteolitica dei componenti citosolici ai lisosomi:

 macroautofagia, alla quale si fa rifermento impiegando il termine generico di autofagia. Trasporta componenti citoplasmatici, quali interi organuli e ribosomi, al lisosoma attraverso la formazione di una vescicola a doppia membrana, indicata come autofagosoma, che si fonde con i lisosomi per formare un autolisosoma. Quindi richiede una complessa serie di meccanismi che coinvolgono particolari proteine chiamate Atg (Autophagy-related gene).

 microautofagia, in cui componenti citosolici vengono direttamente assorbiti dal lisosoma stesso attraverso invaginazione della membrana lisosomiale.

 autofagia chaperon-mediata (CMA), fino ad adesso descritta nei mammiferi, in cui proteine contenenti particolari sequenze sono riconosciute da chaperon

(26)

citosolici (come Hsp 70) e trasportate nel compartimento lisosomiale tramite riconoscimento di un recettore associato alla membrana lisosomiale, chiamato LAMP2.

Figura 8: Todde V. et al, Autophagy: Principles and significance in health and disease Biochimica et Biophysica Acta, 2009

3.1.

Macroautofagia

Il processo di autofagia è un meccanismo strettamente regolato dal punto di vista genetico attraverso l'attività coordinata di diversi componenti ed è conservato dal lievito all'uomo.

L’autofagia è attiva a livelli basali in molti tipi di cellule, dove contribuisce a mantenere l’omeostasi cellulare. Tuttavia, è fortemente indotta da condizioni di privazione promuovendo così la sopravvivenza fino a quando le sostanze nutrienti diventano nuovamente disponibili.

Dal punto di vista meccanicistico si possono distinguere 4 fasi:

 l’iniziazione (formazione del primo pezzo della membrana autofagica);

 la nucleazione della vescicola isolata a doppia membrana, chiamata fagoforo attorno ad una porzione di citosol;

 l’allungamento delle vescicole a formare un vacuolo a doppia membrana chiamato autofagosoma; citoplasma microautofagia macroautofagia Autofagia chaperon-mediata lisosoma

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 la fusione con i lisosomi. L’autofagosoma viene indirizzato ai lisosomi, con i quali si fonde, per formare l’autolisosoma, e permettere la degradazione (Mizushima et al., 2011).

In breve, durante questo processo, dopo che l’autofagia è stata indotta dallo stimolo, il fagoforo si espande per inghiottire il carico intracellulare, come aggregati proteici, organuli e ribosomi, sequestrandoli così in un autofagosoma a doppia membrana. L’autofagosoma carico, matura attraverso la fusione con i lisosomi, promuovendo la degradazione dei contenuti autofagosomali attraverso l’azione delle proteasi acide lisosomiali. Permeasi lisosomiali e trasportatori esportano aminoacidi e altri sottoprodotti di degradazione nuovamente al citoplasma, dove possono essere riutilizzati per costruire macromolecole e per il metabolismo (Mizushima, 2007). Per tale motivo, l’autofagia può essere pensata come un impianto di riciclaggio cellulare che promuove anche l'efficienza energetica attraverso la produzione di ATP tendendo a limitare i danni estraendo le proteine e organuli non funzionali.

3.2.

Meccanismo molecolare dell’autofagia

Nel lievito sono stati identificati e caratterizzati più di 30 geni, chiamati geni Atg (Autophagy-related genes), molti dei quali hanno mostrato una omologia di sequenza con il genoma dei mammiferi. Questi sono importanti in quanto sono reclutati durante i vari step del processo autofagico (Nakatogawa et al., 2009).

(28)

Figura 9: Meccanismo molecolare dell’autofagia (Center for autophagy research, Levine laboratory)

Iniziazione dell’autofagia

Molti segnali, inclusi fattori di crescita, aminoacidi, glucosio e lo stato energetico, sono integrati a livello cellulare dalla chinasi mammalian Target of Rapamycin (mTOR). Nelle normali condizioni fisiologiche, viene attivata dalla chinasi Akt, a sua volta attivata dalla fosfatidilinositolo3-kinasi, PI3K, e dal recettore del fattore di crescita, segnalando così che i nutrienti sono disponibili e che quindi, attraverso la fosforilazione di proteine importanti per la sintesi proteica, come la subunità S6 del ribosoma, è possibile indurre un aumento della traduzione proteica (Sabatini, 2006). Però, in particolari condizioni, come la privazione di nutrienti, si ha un’induzione della defosforilazione di ULK-1, una proteina chinasi codificata dal gene Atg-1 che, nelle normali condizioni fisiologiche, viene fosforilata da mTOR, che possiede attività chinasica, mantenendola così in uno stato non attivo. ULK-1 fa parte di un complesso costituito da ATG13, ATG101 e FIP200. Quando manca lo stimolo trofico, e quindi mTOR è inibito, si distacca dal complesso, defosforilando sia ULK-1 che ATG13 (che sono normalmente fosforilati da mTORC1) in specifici residui. A questo punto ULK-1

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si autofosforila ed inoltre fosforila sia Atg13 che FIP200 così da dare inizio al processo autofagico (Hosokawa et al., 2009). Tale complesso, una volta attivato, è responsabile della formazione di una membrana di isolamento o fagoforo che circonda parzialmente il materiale da degradare. Nelle cellule di mammifero, la membrana sembra derivare principalmente dal RE in equilibrio dinamico con altre strutture, come il trans-Golgi e gli endosomi tardivi (Mizushima, 2007; Axe et al., 2008) e probabilmente anche dalla membrana nucleare in condizioni limitate (English et al., 2009).

Nucleazione della vescicola

Il complesso ULK-1 attivato recluta il complesso Beclin1-Vps34 (costituito da Beclin-1 o Atg6, Vps34 o fosfatidilinositolo 3 chinasi, VpsBeclin-15 o pBeclin-105 e ATGBeclin-14L o Barkor) al sito di formazione dell'autofagosoma attraverso la fosforilazione di Ambra1, componente del complesso. L’interazione di Beclin-1 con Vps34 ne promuove l’attività catalitica, infatti, essendo una PI-3 chinasi, che, utilizza fosfatidilinositolo (PI) come substrato, genera fosfatidil inositolo trifosfato (PI3P), essenziale per allungamento del fagoforo e reclutamento di altre proteine nel sito di nucleazione. Oltre a questo ruolo di induttore dell’autofagia, Beclin-1 è in grado di inibirla. Infatti, tramite un dominio BH3, Beclin-1 interagisce con Bcl-2. Questa proteina ha un doppio ruolo nella regolazione della vitalità cellulare che dipende dalla sua localizzazione subcellulare; nel mitocondrio ha una funzione pro-sopravvivenza inibendo il rilascio del citocromo c e quindi bloccando l’apoptosi, mentre nel reticolo endoplasmatico ha un’attività inibitoria nei confronti dell’autofagia per cui può portare ad una morte cellulare non apoptotica (Pattingre et al., 2005).

Elongazione

L'espansione o il completamento dell’ autofagosoma è mediato da proteine ATG, assemblate in due sistemi di coniugazione “ubiquitin-like”:

ATG12-ATG5. – in questo sistema, l’ATG12 è coniugato con ATG5 attraverso l'azione

concertata di ATG7 che agisce come un’ubiquitina E1-like e di ATG10 (un enzima E2-like) che potenzia il legame tra le due proteine Atg, attraverso il legame covalente di Atg12 alla lisina 130 di Atg5. Il sistema ATG12-ATG5 lega, a questo punto, ATG16L,

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formando il complesso multimerico ATG12-ATG5-ATG16L, che funziona come una ligasi E3, ed è fondamentale per dirigere l’inserimento di LC3 nella membrana dell’autofagosoma in quanto partecipa alla coniugazione dell’LC3 con la fosfatidiletanolammina (Yang and Klionsky, 2010; Fujita et al. 2008).

ATG16L e ATG8 (LC3B:fosfatidiletanolamina). – La proteina LC3B è espressa nella

maggior parte dei tipi cellulari, come proteina citoplasmatica che, dopo l'induzione dell’autofagia, è proteoliticamente clivata da Atg4, una cistein-proteasi, per generare LC3B-I, che presenta un residuo di glicina al terminale carbossilico (Kabeya et al., 2000; Tanida et al., 2004). La glicina carbossiterminale viene coniugata alla testa polare di PE, un componente del doppio strato lipidico, in un reazione che richiede Atg7 (E1 like), Atg3 (E2like) e il complesso ATG12-ATG5-ATG16L (in qualità di complesso enzimatico E3like) (Kim and Lee, 2014). Questa coniugazione lipidica converte la forma solubile di LC3 (chiamata LC3-I) alla forma associata alla vescicola autofagica, LC3-II (Yang and Klionsky, 2010).

Dopo l'elaborazione, la forma lipidica di LC3, (LC3-PE), si localizza sulla membrana esterna e interna dell’autofagosoma e partecipa alla formazione e l'allungamento di autofagosomi svolgendo un ruolo nella selezione del carico destinato alla degradazione. In generale, l'autofagia è stata vista come un processo casuale perché sembra “inghiottire” le componenti citosoliche in maniera indiscriminata. Immagini al microscopio elettronico mostrano spesso autofagosomi con contenuti vari, tra cui membrane mitocondriali, RE e Golgi (Eskelinen, 2008). Tuttavia, evidenze sperimentali suggeriscono che la membrana dell’autofagosoma in espansione possa sequestrare aggregati proteici e organuli in maniera selettiva; è stato proposto infatti, che LC3B-II, agendo come un recettore, possa interagire con alcune molecole 'adattatore' poste bersaglio (ad esempio aggregati proteici, mitocondri) promuovendone la captazione selettiva e la successiva degradazione. La molecola più caratterizzata, in questo senso, è p62/ SQSTM1 (sequestosome1), una multi-molecola adattatrice che promuove il turnover delle proteine aggregate poli-ubiquitinate. Una volta formatosi l’autofagosoma, il complesso Atg12-Atg5-Atg16L viene liberato dalla membrana mentre il pool di LC3 associato con le superfici citosoliche autofagosomiali è separato dalla PE attraverso l’azione della proteasi Atg4 e può così essere reciclato.

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Fusione con i lisosomi

Gli autofagosomi maturi si fondono con i lisosomi per formare l’autofagolisosoma, all’interno dei quali i materiali vengono digeriti dagli enzimi lisosomiali. (Kim and Lee, 2014).

La scoperta del meccanismo autofagico è stata rapidamente seguita da numerosi studi che mettono in evidenza una sua implicazione in differenti patologie umane, quali cancro, malattie neurodegenerative e muscolari, sindrome metabolica, malattie infettive.

3.3.

Autofagia e Diabete di tipo 2

Negli ultimi anni è stato ipotizzato che una deregolazione dell’autofagia possa contribuire alla resistenza insulinica, caratteristica tipica del DT2 (Zhang Y et al., 2015); essa inoltre rappresenta un meccanismo cruciale nell’azione di insulina e glucagone dal momento che questi ormoni sono in grado di modularne l’azione rispettivamente inibendola e attivandola; in aggiunta a ciò anche la funzione del reticolo endoplasmatico e dei mitocondri, cruciali nella funzione e sopravivenza della beta cellula e nella sensibilità all’insulina risultano dipendere da tale processo.

Studiando topi knock-out per il gene ATG7 specifico per le beta cellule (Ebato et al., 2008; Jung et al., 2008), è stato osservato uno sviluppo di iperglicemia e ipoinsulinemia associato ad una ridotta massa beta cellulare dovuta da un alto alla riduzione della proliferazione e dall’altro all’aumento dell’apoptosi, con accumulo di materiale ubiquitinato e di p62, substrato specifico dell’autofagia (Jung H.S. et al., 2008). Il meccanismo autofagico risulta quindi essere importante per la degradazione di aggregati proteici ubiquitinati che si formano nelle beta cellule durante l’iperglicemia (Kaniuk et al., 2007). Tali beta cellule inoltre risultavano essere più sensibile alla morte indotta da palmitato rispetto alla sua controparte esprimente ATG7. L’incrocio di questi topi con topi portatori di una mutazione in omozigosi del gene per la leptina (ob/ob) che determina obesità, induceva una grave forma di diabete accompagnato ad un aumento nel numero delle beta cellule apoptotiche, con riduzione della massa e della funzionalità beta cellulare (Quan et al., 2012).

(32)

Il ruolo dell’autofagia nelle beta cellule è stato studiato anche nell’uomo. Masini e colleghi (Masini et al., 2009) hanno rilevato come le isole di pazienti DT2 oltre ad un aumentato numero di beta cellule morte per apoptosi rispetto ad isole di donatori non diabetici, presentavano una seconda forma di morte in cui le beta cellule non mostravano i segni dell’apoptosi, come la condensazione cromatinica ma presentano piuttosto un sovraccarico di vacuoli autofagici, ed è pertanto detta morte beta cellulare autofagica

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Scopo della tesi

Come già anticipato, negli ultimi anni, l’autofagia è stata vista rivestire un ruolo in molti tessuti, tanto che le sue alterazioni portano a numerose disfunzioni o patologie quali tumori o malattie neurodegenerative (Choi et al., 2013). A livello della beta cellula pancreatica, in condizioni normali, è stato visto che partecipa al turnover dei granuli di insulina (Marsh et al., 2007) e che regola la funzionalità e la sopravvivenza beta cellulare (Jung and Lee, 2009; Masini et al., 2009). In particolare è stato osservato come l’autofagia sembri essere coinvolta anche nel diabete di tipo 2. Alcuni autori infatti, hanno evidenziato come nelle beta cellule pancreatiche umane affette da diabete tipo 2 vi sia un significativo aumento del numero di vacuoli autofagici accompagnato ad alterazioni nell’espressione di alcuni enzimi lisosomiali proteolitici (Masini et al., 2009). La sua attivazione, inoltre, risulta essere in grado di ridurre in modelli murini lo stress del reticolo in seguito ad aumento del numero di proteine mal ripiegate (Bachar-Wikstrom et al., 2013; Martino et al., 2012). Alla luce di tutto questo, nella presente tesi, si è voluto valutare il ruolo dell’autofagia e gli effetti di una sua modulazione sulla sopravvivenza e sulla funzionalità di beta cellule umane esposte a stress metabolici (palmitato) o chimici (brefeldina); infine si è esplorato se la sua induzione potesse essere in grado di influenzare le beta cellule umane provenienti da donatore affetto da diabete di tipo 2.

(34)

Materiali e metodi

1. Isolamento e purificazione delle isole

pancreatiche umane

1.1.

Preparazione delle isole pancreatiche umane

Le isole pancreatiche umane sono state ottenute partendo dal pancreas di donatori, sottoposto ad una procedura complessa, prima di digestione e poi di purificazione su gradiente di densità, che ha l’obiettivo di separare le isole. Tutte le fasi di pulizia, processamento del pancreas e isolamento delle isole avvengono in condizioni di sterilità, sotto cappa a flusso laminare per uso biologico, utilizzando materiale da laboratorio, strumenti chirurgici, e soluzioni sterili.

- Digestione del tessuto pancreatico

Il pancreas viene prelevato in maniera sterile dalle sacche in cui viene posto al momento del prelievo, adagiato su un’arcella contenuta all’interno di un contenitore ripieno di ghiaccio, in modo da essere opportunamente raffreddata. Qui l’organo è stato ripulito di tutto quanto il tessuto non parenchimale presente ed è stata rimossa la testa, in modo da rendere il dotto pancreatico principale accessibile alla successiva fase del processamento. A livello del dotto è stato inserito, infatti, un ago-cannula di 16-18 nm di diametro, attraverso il quale verrà perfusa una quantità di 150 ml di una soluzione di digestione ottenuta solubilizzando 600 - 700 mg di collagenasi (Roche, Indianapolis, IN, USA) (3 - 3.5 mg/ml) in 200 ml di soluzione di Hank’s, (Sigma-Aldrich, Saint Louis, Missouri, Stati Uniti), completata con 10 % di siero bovino (Sigma-Aldrich); la concentrazione di collagenasi varia a seconda dell’attività dell’enzima. A questo punto il pancreas, disteso dalla soluzione iniettata nel sistema duttale, viene posto all’interno di un becher sterile a cui verranno aggiunti i rimanenti 50 ml della soluzione di digestione non iniettata e posto in un bagnetto termostato a 37 °C per 10-15 min. La temperatura utilizzata e l’intervallo di tempo permettono l’azione enzimatica della collagenasi e quindi la digestione della componente esocrina del pancreas, saggiata monitorando le variazioni di consistenza dell’organo. A questo punto l’organo viene riportato a temperatura ambiente dove viene sottoposto a dei

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processi di filtrazione attraverso setacci di acciaio con maglie di diverso diametro posti in sequenza, rispettivamente 400 e 90 micrometri di diametro. Ad ogni filtrazione, il materiale trattenuto sul filtro da 90 micrometri è stato raccolto in un becher, mediante lavaggio del filtro stesso con una soluzione di HBSS contenente il 10 % di siero bovino, e il pancreas è stato riposto nel becher dove è stato aggiunto HBSS raffreddato a 4° C, agitato con delle pinze in modo da favorire il rilascio in soluzione delle isole. Durante le filtrazioni l’attività digestiva della collagenasi è stata monitorata raccogliendo, al termine di ogni filtrazione, una piccola aliquota di digestato, colorato con ditizone (colorante che si lega agli atomi di zinco dei granuli di insulina e impartisce alle isole una colorazione rossa) e osservato al microscopio. La procedura di filtrazione è stata quindi fermata una volta che il tessuto si presentava adeguatamente digerito e le isole sufficientemente libere, in genere dopo circa 40 minuti dall’inizio della procedura stessa.

- Purificazione

La procedura di purificazione ha avuto lo scopo di separare il tessuto pancreatico endocrino da quello esocrino. Per la purificazione, il digestato è stato aliquotato in falcon da 50 ml (Sarstedt, Nümbrecht, Germany)e centrifugato a 1000 x g per 2 min a 4 °C, il surnatante è stato eliminato e si è proceduto con una prova di separazione per gradiente di densità. Una volta stabilito il gradiente da utilizzare, si è passati alla fase di purificazione. Il surnatante di due campioni è stato scartato e i pellet risospesi, uno in 15 ml di una soluzione contenente Lymphoprep (Cedarlane, Burlington, SU, Canada) e HBSS completo con il 10% di siero bovino in rapporto 80:20, l’altro in 15 ml di una soluzione contenente Lymphoprep e HBSS completo in rapporto 70:30; sopra la sospensione sono stati successivamente stratificati 10 ml di HBSS. I campioni sono stati centrifugati a 1800 x g per 5 min a 4°C, il surnatante è stato raccolto e si è valutato, previa colorazione con ditizone (1 mg/ml), la presenza di isole in termini di quantità e la qualità del preparato in termini di purezza; sulla base di questi parametri è stato scelto il tipo di gradiente da utilizzare per la purificazione. Quindi sono stati purificati tutti i campioni, il surnatante, dove le isole hanno stratificato all’interfaccia tra le due soluzioni, è stato recuperato ed è stato nuovamente eseguito un passaggio in centrifuga a 1800 x g per 2 min a 4 °C. Il surnatante è stato scartato e il pellet, contenente le isole, aliquotato in fiasche per sospensione da 75 cm2

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(Sarstedt) con mezzo di coltura M199 (Sigma-Aldrich) arricchito con 100 U/ml di penicillina (Sigma-Aldrich), 100 μg/ml di streptomicina (Sigma-Aldrich), 50 μg/ml di gentamicina (Sigma-Aldrich) e 0,25 μg/ml di amfotericina B (Sigma-Aldrich) (Bugliani et al. 2004).

Le fiasche sono state quindi conservate in incubatore a 37 °C contenente il 5,0 % di CO2; il mezzo di coltura è stato cambiato una prima volta 24 h dopo l’isolamento quindi a distanza di una settimana.

2. Coltura isole

Per valutare gli effetti della modulazione dell’autofagia le isole diabetiche tipo 2 e non diabetiche (T2D e / o ND isole) sono state coltivate per 1-5 giorni con 5 mmol/l di 3-metiladenina (3-MA) o 1,0 nM di concanamicina-A (ConcA) (bloccanti dell’ autofagia) o 10 ng/ml di rapamicina (induttore autofagico), sia in presenza o in assenza di un induttore metabolico (palmitato 0,5 mmol/l di palmitato) o chimico (0,1 g/ml brefeldina A) dello stress del RE.

2.1.

Preparazione del mezzo di coltura m199

Le isole vengono normalmente tenute in coltura in M199 completato con siero bovino e antibiotici. Per la preparazione di 500 ml di medium, sono stati aggiunti al mezzo 50 ml di siero bovino-adulto (Sigma-Aldich), 5 ml di una soluzione di Penicillina-Streptomicina (Sigma-Aldich), 1,5 ml di Amfotericina B (Sigma-Aldich) ed 500 μl di Gentamicina (Sigma-Aldich). La soluzione è stata poi portata ad un valore di pH compreso tra 7.35 e 7.40. Allo scopo di renderlo sterile, il mezzo di coltura è stato fatto passare attraverso sistemi filtranti costituiti da una membrana con pori da 0,22 μm (Scharlab) e quindi conservato per un massimo di 15 giorni a 4°C.

- Preparazione mezzo M199 per Palmitato

Al mezzo da utilizzare per il trattamento delle isole con palmitato vengono aggiunti gli stessi componenti utilizzati nella preparazione del mezzo di coltura M199 ad eccezione del siero bovino umano che viene sostituito con 50 ml di BSA-Charcoal.

(37)

3. Studi funzionali in vitro

Per la determinazione in vitro della funzionalità beta cellulare, le isole pancreatiche umane sono state sottoposte a incubazione statica in soluzioni di Krebs-Ringer-Hepes (KRH), addizionate con albumina (Roche) 0,5% e glucosio (SigamUltra) alle concentrazioni di 60 mg/dl e 300mg/dl a pH 7.

- Preparazione delle soluzione di krebs-Ringer-Hepes

Per gli studi funzionali, è stata utilizzata una soluzione salina contenente glucosio 60 mg/dl o 300 mg/dl sciolta in una miscela di KREBS-RINGER- BICARBONATO (KRB) costituita in parti uguali da quattro soluzioni preventivamente preparate.

. Soluzione 1 (KRBS 1). In 500 ml di acqua distillata vengono sciolti 13.446 g di NaCl.

. Soluzione 2 (KRBS 2). In 500 ml di acqua distillata vengono solubilizzati 0.745 g di KCl, 4.032 g di NaHCO3, 0.407 g di MgCl2•6 H2O.

. SOLUZIONE 3 (KRBS 3). In 500 ml di acqua distillata vengono solubilizzati 555 mg di CaCl2.

. SOLUZIONE 4 (KRBS 4). Viene preparata al momento della preparazione della soluzione del KRB, sciogliendo a 4 °C albumina bovina in acqua distillata in modo da ottenere una soluzione con una concentrazione di 1 g/50 ml.

Una volta costituita la miscela di ugual volumi delle quattro soluzioni, si aggiungono 238.3 mg di Acido 4-2 - idrossietil – 1 – piperazinil – etansolfonico (HEPES) per 100 ml di soluzione di KRB con lo scopo di stabilizzare il pH. La Soluzione KRB si conserva per non più di due giorni a 4 °C.

- Procedura isole pancreatiche umane

In primo luogo 24 ore prima dello studio sono state preparate le soluzioni Krebs e le isole sono state incubate a 37 °C per 24 ore in piastre petri da 20 ml, eventualmente in presenza di vari stimoli quali palmitato. Per ogni condizione lo studio è stato eseguito in triplette. Per gli studi di secrezione statica, gruppi di isole (circa 15) di dimensioni simili, sono stati trasferiti in provette da 5 ml e preincubate per 45 min con soluzione Krebs contenente glucosio 60 mg/dl. Successivamente le soluzioni sono state centrifugate a 1200 rpm per 2 min a RT ed è stato eliminato il surnatante. E’ stato effettuato poi un lavaggio veloce, un

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passaggio in centrifuga a 1200 rpm per 2 min ed è stato scartato il surnatante. A questo punto le isole sono state incubate per 45 min ancora con Krebs e glucosio 60 mg/dl. Al termine dell’incubazione le soluzioni sono state centrifugate a 1200 rpm per 2 min ed è stato recuperato il surnatante. Le isole sono state quindi incubate per 45 min con Krebs e glucosio 300 mg/dl; al termine dell’incubazione è stato effettuato nuovamente un passaggio in centrifuga a 1200 rpm per 2 min ed il surnatante è stato recuperato. Successivamente le stesse isole sono state incubate per 24 ore a 4°C in una soluzione etanolica acida costituita da etanolo puro, acido cloridrico al 36% e acqua deionizzata, passaggio che ha permesso l’estrazione di tutti i granuli di insulina. Al termine dell’incubazione le isole sono state sonicate per 3 minuti e successivamente centrifugate a 3000 rpm per 3 min. Il surnatante è stato poi raccolto per la determinazione dell’insulinemia che è stata eseguita con metodica immunoradiometrica.

4. Dosaggio immunoradiometrico

Il dosaggio dell’insulina nei campioni di surnatante è stato fatto utilizzando il kit DIA source INS-IRMA (Pantec, Forniture Biomediche, Torino, Italia) che impiega il metodo immunoradiometrico basato sull’utilizzo di anticorpi monoclonali diretti contro gli epitopi dell’insulina. Il saggio ha previsto l’impiego di provette in polistirene rivestite, sul fondo, con anticorpi di cattura della molecola insulinica.

- Procedura

In primo luogo 50 μl di standard, ricostituiti con acqua milliQ, campioni e controlli sono stati dispensati nelle provette, nelle quali sono stati poi aggiunti 50 μl di anticorpi monoclonali anti-insulina marcati con I125. Il sistema è stato incubato a temperatura ambiente per 2 ore; al termine della incubazione è stato aggiunto 1 ml di tampone di lavaggio. Il liquido è stato poi aspirato con una pompa a vuoto; sono stati ripetuti 2 lavaggi con 2 ml di tampone, dopo il secondo lavaggio le provette sono state lasciate decantare in posizione verticale per 2 min, quindi è stata contata la radioattività residua utilizzando un contatore gamma. La lettura ha richiesto 60 sec per ciascun campione. I dati della lettura sono stati raccolti dal software collegato tramite computer alla macchina ed è stato tracciato un grafico delle concentrazioni

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degli standard, sulle cui ordinate è stato riportato il numero dei colpi per minuto (c.p.m) e sull’asse delle ascisse la concentrazione dello standard corrispondente; contro questa curva sono state valutate le concentrazioni di insulina nei campioni.

4.1.

Analisi del rilascio insulinico

Il dosaggio immunoradiometrico ha consentito di calcolare la concentrazione insulinica espressa come U/ml. I valori ottenuti sono stati utilizzati per calcolare l’indice di stimolo, ottenuto dal rapporto tra il rilascio insulinico in risposta a glucosio 300 mg/dl e il rilascio insulinico in risposta a glucosio 60 mg/dl. L’indice di stimolo consente di ottenere una stima della sensibilità della risposta insulinica.

5. Microscopia elettronica

Le isole pancreatiche (circa 30 isole per ogni campione) sono state fissate in aldeide glutarica 2,5% in tampone fosfato 0.1M (pH 7.3) per 2 ore a 4°C. Dopo la fissazione, le cellule sono state lavate con tampone fosfato 0.1M (pH 7.3) per 3 ore a 4°C e quindi post-fissate con tetrossido di osmio (OsO4) 1% in tampone fosfato 0.1M (pH 7.3) per 30 minuti a 4°C. dopo una disidratazione normale con una serie crescente di alcools (H2O bid, 25°, 50°, 70°, 95° a 4°C ed etanolo assoluto a temperatura ambiente), è

stato sostituito l’alcool con ossido di propilene per 6 minuti a temperatura ambiente e quindi immersi in una miscela di 1:1 di ossido di propilene e resina epossidica (Poly/Bed 812, Polysciences Inc) e sono quindi inclusi nella stessa resina utilizzando degli stampini numerati in silicone. Le inclusioni vengono mantenute a 60° C per 48 h in modo da ottenere dei blocchetti solidi che saranno sezionati all’ultramicromo. Le sezioni di circa 60nm sono state eseguite con lama di diamante, montate su retini di rame (200 mesh) e contrastate con acetato di uranile e citrato di piombo e osservate al microscopio elettronico a trasmissione Zeiss 90, fotografate utilizzando fotocamera digitale. Sulle sezioni è stata eseguita un’analisi qualitativa delle cellule che compongono l’isola (cellule alfa, beta e delta) con una conta percentuale delle cellule vive e morte (apoptosi e necrosi) mentre sulle immagini fotografate (formato 12x18cm) è stata condotta un’analisi quantitativa morfometrica dei vari organuli cellulari. Per ogni isola pancreatica umana (IPU) sono state contate una media di 200

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