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Infine, allo scopo di valutare l’effetto protettivo nei confronti dello stress del reticolo sono state valutate anche le espressioni geniche di alcuni marker dello stress del reticolo endoplasmatico.

Figura 22: livelli di espressione di alcuni geni coinvolti nello stress del reticolo endoplasmatico in isole non diabetiche esposte a trattamento con palmitato in presenza o meno di rapamicina.

*p<0,05 vs altri gruppi; #p<0,05 vs controllo (N=5)

Figura 23: livelli di espressione di alcuni geni coinvolti nello stress del reticolo endoplasmatico in isole non diabetiche esposte a trattamento con brefeldina in presenza o meno di rapamicina.

Sia il palmitato che la brefeldina inducevano un aumento di PERK, CHOP e BiP; l’espressione di ATF6 veniva indotta solo dalla brefeldina. La presenza dell’induttore di autofagia riduceva marcatamente l’espressione di PERK e CHOP nelle isole esposte a palmitato e solo in parte quella di PERK, CHOP e BiP nelle isole esposte a brefeldina; nessun effetto è stato osservato per quanto riguardava l’espressione di ATF6.

Figura 24: livelli di espressione di alcuni geni coinvolti nello stress del reticolo endoplasmatico in isole diabetiche di tipo 2 esposte o meno a trattamento con rapamicina.

*p<0,05 vs T2D mediante ANOVA (N=5)

Nelle isole diabetiche la presenza di rapamicina provocava una riduzione significativa di PERK, CHOP e BiP; nessuna alterazione è stata evidenziata per quanto riguarda ATF6.

Discussione

Negli ultimi anni, numerosi studi hanno evidenziato come l’autofagia possa essere implicata in diverse patologie; a tal proposito, sebbene la maggior parte di tali studi sostenga il suo ruolo nella sopravvivenza cellulare, paradossalmente, è stato osservato che in alcuni casi la morte può sopraggiungere in seguito ad un consumo cellulare eccessivo dovuto ad una eccessiva autofagia.

Per quanto riguarda l’omeostasi glucidica, l’autofagia sembra giocare un ruolo importante nel regolare la normale funzione delle beta cellule e nella sensibilità dei tessuti target dell’insulina, come il muscolo scheletrico, il fegato e il tessuto adiposo; più in dettaglio, è stato osservato che l’aumento dell’autofagia può agire come meccanismo protettivo contro lo stress ossidativo in tali tessuti, mentre una sua alterazione è stata implicata nella progressione da obesità a diabete di tipo 2 attraverso una riduzione della funzione beta cellulare e lo sviluppo di insulino- resistenza; in aggiunta, alcuni studi ne hanno sottolineato l’importanza nella patofisiologia delle complicanze diabetiche, incluse la nefropatia e la cardiomiopatia (Barlow and Thomas, 2015). Più specificatamente, a livello delle isole pancreatiche alcuni autori, utilizzando topi Rab3A-/-, hanno mostrato come nelle beta cellule l’autofagia sia importante per un corretto turnover dei granuli di insulina (Marsh et al., 2007); allo stesso tempo, Jung e colleghi utilizzando topi con delezione specifica del gene ATG7 beta cellulare, hanno mostrato come le isole di questi animali avessero una ridotta proliferazione ed una aumentata apoptosi con conseguente riduzione della massa beta cellulare; a ciò era associato ad un ridotto rilascio di insulina in risposta sia ad alto che a basso glucosio, concludendo quindi che l’autofagia riveste un ruolo di primo piano anche nel mantenimento di una corretta massa e funzione beta cellulare (Jung et al., 2008). Più recentemente anche il nostro laboratorio (Masini M et al., 2009) ha osservato come nelle isole ottenute da donatore diabetico di tipo 2 oltre alla morte beta cellulare per apoptosi, si associasse anche quella per autofagia; questo dato era accompagnato ad una riduzione dell’espressione dei geni LAMP-2, catepsina B e Catepsina D (componenti dei lisosomi, terminale ultimo del processo autofagico). Una dei meccanismi alla base della disfunzione e della mortalità beta cellulare osservata nel diabete di tipo 2 è rappresentato dallo stress del reticolo

endoplasmatico, un fenomeno che si attiva quando vi è uno sbilanciamento fra la quantità di proteine da ripiegare e la capacità del reticolo di farlo (Marchetti P et al., 2007); alla luce di ciò nel nostro studio abbiamo voluto valutare se la modulazione dell’autofagia fosse in grado di prevenire o modificare almeno in parte gli effetti deleteri di due agenti, uno metabolico (il palmitato) ed uno chimico (la brefeldina A), entrambi in grado di indurre tale tipo di stress. Come si è potuto osservare, l’inibizione del flusso autofagico, ad opera di 3-MA (un bloccante della formazione degli autofagosomi e quindi considerato un inibitore iniziale del processo), o concA (una molecola che blocca i canali ATPasi voltaggio dipendenti del lisosoma e quindi la fusione tra autofagosoma e lisosoma, pertanto considerato inibitore finale del processo) non era in grado di prevenire, ma anzi nel caso del palmitato aggravava, l’aumento di apoptosi osservato con le due molecole, cosa che, al contrario, era in grado di fare l’esposizione a rapamicina, una molecola che inibendo mTOR stimola l’autofagia; questa infatti, al contrario di quanto riportato in letteratura non risultava essere tossica per le beta cellule nemmeno dopo 5 giorni di esposizione (dati non mostrati); tale discrepanza con quanto presentato da Busierre e collaboratori (Bussiere et al., 2006) potrebbe essere dovuta al fatto che le concentrazioni usate erano circa 10 volte più alte rispetto a quelle utilizzate nel nostro studio; lavori più recenti mostravano come gli effetti della rapamicina sulle isole umane fossero più variabili (Barlow et al., 2013), confermando che la maggior parte degli effetti tossici si osservava per concentrazioni maggiori di 10 ng/ml (questa è la concentrazione circolante che si richiede ai soggetti trapiantati per evitare il rigetto) e/o tempi più lunghi; l’effetto nocivo della rapamicina a queste dosi potrebbe essere dovuto a inibizione del complesso mTORC2 (Barlow et al 2015) che sembra esser invece fondamentale per mantenere una corretta massa e funzione beta cellulare (Gu Y et al., 2011; Le Bacquer O et al., 2013), mentre l’azione sull’autofagia è mediata solo da mTORC1 (Russell et al., 2014). L’effetto protettivo della rapamicina sulla sopravvivenza era tuttavia associato, solo nel gruppo del palmitato, ad un ripristino di una corretta risposta funzionale al glucosio, mentre in presenza di brefeldina la disfunzione beta cellulare permaneva. Dal punto di vista della morfometria la rapamicina riusciva a ripristinare quasi completamente una corretta granulazione delle beta cellule e solo parzialmente la densità di volume dei mitocondri e del reticolo endoplasmatico nelle isole esposte a palmitato; l’effetto della rapamicina

sulle isole esposte a brefeldina risultava più blando in quanto riusciva a ridurre solo in maniera parziale la densità di volume del reticolo endoplasmatico. Il dato morfometrico si associava poi ad una riduzione seppur parziale dell’espressione genica dei marker dello stress del reticolo PERK, CHOP e BiP.

Dal momento che sia il palmitato che la brefeldina A, sembrano in grado di indurre stress del reticolo endoplasmatico mediante l’inibizione del trafficking proteico dal reticolo endoplasmatico al Golgi (Preston Am et al., 2009; Strous, GJ et al., 1993) la diversa risposta alla rapamicina potrebbe essere dovuta alla diversa efficienza di blocco, come dimostrato dal diverso grado di induzione dell’espressione dei marker dello stress del reticolo, o a meccanismi accessori che devono ancora essere valutati come la deplezione della riserva di Ca++ nel reticolo dovuto all’effetto diretto del

palmitato sull’attività della pompa calcio-ATPasi-2b presente sul reticolo sarco- endoplasmatico (SERCA) (Cunha D et al., 2008).

Come accennato, tra gli aspetti caratteristici delle isole di diabete di tipo 2, oltre alla presenza di stress del reticolo endoplasmatico (Marchetti P et al., 2007) è stata osservata un’alterata autofagia (Masini M et al., 2009); per questo abbiamo voluto valutare se l’effetto protettivo dell’induzione dell’autofagia ad opera della rapamicina risultasse visibile anche nelle isole di diabete di tipo 2. Dalle analisi effettuate emergeva che l’esposizione a rapamicina era in grado di aumentare la sopravvivenza e migliorare la funzionalità beta cellulare; in maniera simile a quanto osservato col palmitato, dal punto di vista ultrastrutturale, l’induzione dell’autofagia migliorava la densità di volume dei granuli di insulina, quella dei mitocondri e del reticolo endoplasmatico; nuovamente questo dato si associava ad una riduzione dell’espressione dei marker quali PERK, CHOP e BiP.

I dati generati in questa tesi quindi, da un lato confermano che l’autofagia è un processo fisiologico e dall’altro che un suo mancato turnover anche ad opera di palmitato è in grado di provocare morte beta cellulare che può essere prevenuta dall’esposizione a rapamicina confermando alcuni dati presenti in letteratura effettuati con altri modelli sperimentali (Mir et al., 2015). L’azione protettiva della rapamicina, potrebbe esplicarsi grazie all’inibizione del complesso mTORC1, la cui overespressione è stata vista causare iperglicemia e indurre apoptosi, stress del reticolo e aumento delle dimensioni dei mitocondri in topi con una delezione specifica beta-cellulare di TSC2 (βTsc2(-/-) (Bartolomé et al., 2014); questo potrebbe

spiegare anche il miglioramento della secrezione insulinica evidenziato col palmitato dal momento che la riduzione di Raptor una proteina che forma il complesso mTORC1 è associata ad aumento della secrezione insulinica (Le Baquer et al., 2013). Al contempo, è stato osservato che l’alterata funzionalità beta cellulare rendeva le beta cellule più prone allo stress del reticolo endoplasmatico (Bartolomé et al., 2012) e quindi un suo ripristino potrebbe avere effetti positivi anche su quest’ultimo. In aggiunta il miglioramento del reticolo endoplasmico potrebbe indicare un ripristino dei livelli dei depositi di Ca++ all’interno del reticolo (Hara et al., 2014). Lo stress del

reticolo a sua volta è in grado di indurre morte beta cellulare (Papa FR, 2012), pertanto l’induzione dell’autofagia tramite la riduzione dello stress del reticolo endoplasmico ne potrebbe migliorare la sopravvivenza. E’ stato osservato che il palmitato è in grado di attivare l’autofagia (Martino l et al., 2012), ma uno studio effettuato su INS-1E ha mostrato come gli acidi grassi ed in particolare il palmitato, siano da un lato in grado sì di indurre autofagia ma dall’altro di bloccare la fusione tra l’autofagosoma e il lisosoma (Las G et al., 2011); questa osservazione è in linea con quanto evidenziato in uno studio di RNA sequencing su isole pancreatiche umane esposte all’acido grasso insaturo; in questo lavoro infatti l’autore ha osservato la riduzione di geni legati all’autofagia e alla funzione lisosomiale e come l’esposizione a carbamazepina, un altro induttore di autofagia, sia in grado di prevenire il danno lipotossico (Cnop M et al., 2014).

In conclusione, questa tesi mostra come l’inibizione dell’autofagia peggiori il danno indotto da palmitato e da brefeldina e come, al contrario, la sua induzione possa avere effetti benefici anche sulle isole diabetiche. Sebbene si possa affermare che l’effetto protettivo sia mediato da cambiamenti a livello del reticolo endoplasmatico, non possiamo escludere che altri meccanismi come la regolazione dei livelli di ferro (Jung et al., 2015) o l’azione della sirtuina 3 (Kim et al., 2015) o alterazioni a livello lisosomiale (Las G et al., 2011) siano alla base della disfunzione beta cellulare; per tale motivo, studi molecolari più approfonditi si rendono necessari per individuare quale sia quello alla base dell’effetto protettivo.

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