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Lettura tematica delle Rime di Vittoria Colonna

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Academic year: 2021

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(1)

DIPARTIMENTO DI

FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA

CORSO DI LAUREA IN ITALIANISTICA

TESI DI LAUREA

Lettura tematica delle Rime di Vittoria Colonna

CANDIDATO

RELATORE

Margherita Barachini

Chiar.mo Prof. Giorgio Masi

CORRELATORE

Chiar.mo Prof. Sergio Zatti

(2)

A Elisabetta, per avermi trasmesso

la passione per l'insegnamento,

dedico questa tesi e la parte più “soleggiata”

della mia anima: di madre in figlia.

A mamma Fulvia e babbo Eliano,

ai Dottori Mini, Martucci e Niccoli.

Senza di loro non sarei qui.

(3)

Indice

Indice...1

Introduzione...2

I: «Quel bel ginepro»: le metafore vegetali tra poesia e

spiritualità...4

II: «Quando io dal caro scoglio guardo intorno»: le metafore

marinaresche tra la poesia e il soggiorno ischitano...22

III: «Il gel de le mie colpe e 'l vivo ardore»: contrapposizione tra gelo

e calore nei componimenti colonniani...33

IV: «Chi può troncar quel laccio che m'avinse?»: le immagini del

laccio e del nodo, tra legame e scioglimento...45

V: «Di così nobil fiamma Amor mi cinse»: l'immagine del fuoco nelle

Rime della Marchesa di Pescara...60

VI: «Se a l'alto vol mancar le ardite penne»: la tematica del volo, tra

ispirazione alle favole antiche e spiritualità...80

VII: «Questo sol, ch'oggi agli occhi vostri splende»: il tema del Sole

tra Ferrante e Dio...92

Conclusione...109

TAV. I...114

Bibliografia...115

Sitografia...121

(4)

Introduzione.

La mia tesi di laurea consta di sette capitoli e si concentra su un

percorso di lettura delle Rime di Vittoria Colonna attraverso immagini

frequenti, metafore e tematiche principali proposte dalla medesima

poetessa. L'intero lavoro non riguarda soltanto i componimenti del

corpus colonniano, ma consiste anche in una visione d'insieme e nella

correlazione tra i testi della Marchesa di Pescara e quelli di autrici ed

autori coevi al lei, quali, primo tra tutti, Michelangelo Buonarroti con

il quale intraprende un amichevole rapporto a partire dal 1536, l'anno

della conoscenza tra i due, Gaspara Stampa, Veronica Franco, Isabella

di Morra, Chiara Matraini, Pietro Bembo, Antonio Tebaldeo ed altre

personalità di spicco nel panorama sociale, culturale e letterario del

tempo. Il significato delle ricerche da me condotte consiste nell'analisi

di una selezione di punti nevralgici della poesia colonniana e del

rapporto che essa ha intrattenuto con gli autori (e non solo) appena

citati.

Il primo capitolo si sofferma sulle metafore vegetali, con particolare

riferimento all'albero del ginepro (citato nel titolo), peculiare emblema

della Colonna, tenendo conto del fatto che, secondo una credenza

popolare, le bacche di questa pianta possedevano la proprietà magica

di scacciare il male. Altro elemento dell'universo vegetale caro alla

Colonna è la vite, simbolo di Dio e pianta presente nel brano

evangelico giovanneo.

Il secondo capitolo riguarda le metafore marinaresche più in generale

e quella della vita come navigazione, già materia petrarchesca, in

particolare. La Marchesa inserisce anche figure di rilievo nella

letteratura classica, quali Penelope e Laodamia, entrambe vittime di

crudeli vicissitudini che spinsero lontano da casa i loro mariti. Un'altra

emblematica metafora marinaresca impiegata dalla poetessa è quella

del mare in agitazione come simbolo della società mondana, cui fa

fronte l'imperturbabile scoglio come emblema dell'anima di Vittoria.

La matrice del terzo capitolo risiede nella contrapposizione tra il gelo

e il calore, dunque ancora una volta le immagini impiegate dalla

(5)

Marchesa provengono dal mondo naturale, come quelle citate in

precedenza. Il ghiaccio è metafora dell'anima macchiata dal peccato e

quindi indurita e cristallizzata perché allontanata dalla luce di Dio,

mentre il calore non può che essere emanato dalla fiamma divina.

Il quarto capitolo si concentra sull'immagine del nodo, anch'essa

molto cara alla Colonna e che quest'ultima colloca in diversi contesti a

seconda che venga impiegata nelle Rime Amorose o nelle Rime

Spirituali. Nelle prime è simbolo del legame matrimoniale con

Ferdinando Francesco d'Avalos, Marchese di Pescara che Vittoria

sposa il 27 dicembre 1509; nelle seconde è associata ai chiodi della

croce, ma anche al legame esistente tra la Trinità e le anime.

L'immagine del fuoco, altro elemento naturale, è protagonista del

quinto capitolo e, come le altre immagini naturali, assume diversi

significati all'interno del corpus colonniano: nelle Rime Amorose il

“primo foco” simboleggia l'amore per Ferrante impossibile da

acquietare, nelle Rime Spirituali il fuoco è metafora di Cristo, che

accende i nostri cuori.

Il sesto capitolo ruota intorno al tema del volo, nel quale la Colonna

sceglie di impiegare, come Penelope e Laodamia, figure appartenenti

alla classicità quali Icaro e Fetonte, entrambi precipitati nel tentativo

di intraprendere voli imprudenti. La tematica del volo acquista un

diverso sapore passando alla lettura di alcuni sonetti appartenenti alle

Rime Spirituali; tale sapore è infatti conferito dalla componente

divina, dal momento che il volo è il mezzo con il quale l'anima sale

verso il Cielo e dunque verso Dio.

Il settimo ed ultimo capitolo è dedicato ai due protagonisti del corpus

colonniano, ovvero Ferrante d'Avalos e Dio: il tema analizzato è

quello del Sole, che viene scelto dalla Marchesa per rappresentare

l'uno e l'altro dei protagonisti citati: Ferrante, l'unico uomo che la

poetessa amerà per tutta la vita, è il Sole di Vittoria nelle Rime

Amorose, Dio lo è nelle Rime Spirituali.

(6)

«Quel bel ginepro»: le metafore vegetali tra poesia e

spiritualità.

La metafora vegetale viene sviluppata all'interno del corpus dei sonetti

seguendo molteplici linee, giungendo a coprire una vasta gamma di

significati, adombrando sia la mutevole condizione spirituale della

poetessa, sia più convenzionali immagini religiose.

Di particolare rilevanza appare l'uso della figura fatto dalla Colonna in

A2:25, nel quale la poetessa descrive i tormenti del suo animo,

ricorrendo all'icastica immagine dell'albero di ginepro, che resiste

sotto i colpi della tempesta:

Qual bel ginepro, cui d'intorno cinge irato vento, né per ciò le foglie sparge né disunisce, anzi raccoglie la cima i rami, e poi se stesso stringe,

l'animo stabil mio, Donna, dipinge, combattuto ad ognor, ma, se discioglie

Fortuna l'ira, ei la raffrena e toglie sol vincendo il dolor che la sospinge

con chiudersi e coprir ne' gran pensieri del Sol amato, nel cui lume, involta da l'aspra guerra, altera l'alma riede.

A quell'arbor Natura insegna a' fieri nimici contrastare, e a me la molta ragion vuol che nel mal cresca la fede.

Come l'albero, esposto al vento di tempesta, non perde le proprie

foglie, ma compatta le fronde sulla cima, così l'animo della Colonna

riesce a respingere i colpi della Fortuna e a sconfiggere il proprio

dolore, trovando rifugio nel pensiero del suo amato Sole. Il paragone

tra la poetessa e l'albero viene ripreso ed esplicitato nel corso della

seconda terzina, dove la natura dell'albero, capace di contrastare le

avversità e le intemperie, viene accostata alla situazione della

Colonna, la cui fede trae alimento e si sviluppa maggiormente proprio

(7)

nel dolore. La scelta del ginepro potrebbe essere spiegata dalla terzina

finale, che sembra rimandare ad una credenza popolare, secondo la

quale le bacche di questa pianta avevano la magica proprietà di

respingere il male. Forse la scelta di un albero che, nelle tradizioni

popolari, ha la funzione di respingere il male, simboleggia la capacità

della poetessa di resistere alle prove che la Fortuna le impone

1

.

In apertura del sonetto la descrizione degli elementi naturali, come

l'albero, le fronde e la tempesta, costituisce un parallelo concreto per

la condizione d'animo della poetessa, colpita dai venti della Fortuna e

tuttavia capace di resistere a quest'assalto: la descrizione iniziale

traccia quasi un paesaggio interiore, che trasmette al lettore il

tormento dell'anima della Colonna.

In questo sonetto compare uno dei temi cari ai letterati del

Cinquecento italiano: il ruolo della Fortuna, destino cieco e

capriccioso, che interviene nelle vicende umane con arbitraria

violenza; nel componimento della Colonna l'intervento della Fortuna è

paragonato a quello di un elemento naturale e l'ira della Sorte colpisce

l'essere umano alla stregua di una cieca e devastante raffica di vento

che si abbatte su un albero. Emblematico a riguardo e concernente

proprio la Fortuna è un sonetto colonniano, A1:9, in cui l'immagine di

quest'ultima è accostata, insieme alla stella ostile della poetessa,

all'insorgere di una “cruda procella” e al conseguente adunarsi di

venti, piogge e saette. Il sonetto si conclude con una nota rassicurante:

malgrado tutte le peripezie, l'anima non perde l'orientamento.

[…] L'aversa stella mia, l'empia fortuna scoverser poi l'irate inique fronti dal cui furor cruda procella insorge; venti, piogge, saette il ciel aduna, mostri d'intorno a divorarmi pronti, ma l'alma ancor sua tramontana scorge.

1 Fino all'inizio del Novecento si usava bruciare un ramo di ginepro la sera di Natale, di San Silvestro e dell'Epifania. Il suo carbone veniva impiegato tutto l'anno in rimedi superstiziosi. Il fatto che le foglie e i rami del ginepro allontanassero il Maligno non è soltanto una credenza medievale: le cronache dei giornali del 1870 riferivano che in quell'anno negli ospedali di Parigi si sarebbe debellata un'epidemia di vaiolo grazie a fumigazioni di ginepro. L'infuso di quest'ultimo, infatti, serve ad espellere dall'organismo gli umori che si formano dopo fatiche prolungate. ALFREDO CATTABIANI, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano, 1996, pp. 315-319.

(8)

Una serie di sonetti impiega metafore tratte dal mondo vegetale in

connessione con il tema della “speme”, la speranza, declinato secondo

varie modalità, ma sempre connesso alla sfera della spiritualità

religiosa.

Di grande interesse è il confronto tra A1:55 e A1:58, sonetti nei quali

pare quasi delinearsi un percorso di rinascita della speranza nel cuore

della poetessa. Nel sonetto 55 il cuore della Colonna, tormentato dal

pianto della donna in lutto, è “cinto e coverto” dal fuoco del desiderio

acceso della nostalgia. L'immagine del fuoco, molto comune nelle

Rime della Colonna, si salda qui alla metafora del legno secco, che

alimenta continuamente il fuoco interiore. Le fiamme del desiderio

terreno hanno fugato la “verde speme” della vita eterna: si vengono in

tal modo a costituire due poli, complementari e contrapposti, dei quali

il primo, positivo, è rappresentato dall'immagine della natura in pieno

rigoglio, il “verde”, che si contrappone al polo negativo, rappresentato

dall'immagine di una natura arida e senza vita, esemplificata dal legno

secco, che permette il divampare del fuoco del peccato.

Un'immagine molto simile, nella quale la stessa contrapposizione tra

positivo e negativo, tra la speranza e la sua negazione, è nuovamente

espressa dal contrasto tra “verde” e “secco”, tratti dal campo

semantico dell'agricoltura, ricorre in S1:67, nel quale la poetessa si

rallegra per il recupero della speranza, quasi del tutto abbandonata, di

poter fare un pellegrinaggio in Terra Santa.

Già si rinverde la gioiosa speme che, quasi secca, era da me sbandita,

di veder l'alma e mal da noi gradita terra che 'l gran sepolcro adorna e preme.

Odo ch'or gente intrepida non teme tormenti e morte; anzi è cotanto ardita

a la fede, fra noi quasi smarrita, che 'l sangue lor agli altri è vivo seme […].

È possibile notare, in A1:55, l'elaborazione originale di un sintagma

che si riscontra anche altrove nella letteratura cinquecentesca. I

(9)

riferimenti al “secco legno” compaiono nei sonetti della Gambara

2

e

della Stampa

3

, negli Asolani

4

di Pietro Bembo e nei componimenti di

Michelangelo Buonarroti

5

, ma Vittoria Colonna recupera l'espressione

rendendola funzionale a un'immagine più complessa ed inserendola in

un'opposizione polare, che veicola un significato religioso.

Decisamente emblematico, nel presente studio sulle metafore vegetali

utilizzate dalla Marchesa di Pescara, è il sonetto S1:12, che riporto

integralmente per l'importanza che possiedono molte delle parole che

lo compongono, appartenenti all'ambito semantico della vegetazione:

Padre eterno del Ciel, se, Tua mercede, vivo ramo son io ne l'empia e vera Vite ch'abbraccia il mondo e Seco intera

vuol la nostra virtù solo per fede, l'occhio divino Tuo languir mi vede per l'ombra intorno a le mie frondi nera

s'a la soave eterna primavera il quasi secco umor verde non riede.

Purgami sì ch'io rimanendo Teco mi cibi ognor de la rugiada santa e rinfreschi col pianto la radice. Verità sei; dicesti d'esser meco; vien dunque omai, sì c'hio frutto felice

faccia in Te degno di sì cara Pianta.

L'incipit del sonetto presenta una significativa invocazione, che evoca

quello del celebre sonetto 62 dei Rerum Vulgarium Fragmenta, al

2 VERONICA GAMBARA, Rime, 52: «Se tardo a dir di voi, Dolce gentile, / è stato il rozzo mio debile ingegno; / fu la

cagion perché cognosce indegno / a tal soggetto ogni onorato stile; / che se questo non era esca e focile / non accendono foco in secco legno / sì tosto come avrei tolto per segno / voi del mio dir, benché in suon basso, umile / […]».

3 GASPARA STAMPA, Rime, CXV: «Quelle rime onorate e quell'ingegno, / pari a la beltà vostra e al gran valore, /

rivolgete a voi stesso in far onore, / conte, come di lor soggetto degno; / o trovate di me più altero pegno, / se pur uscir da voi volete fore, / perché a sì larga vena, a tanto umore / son per me troppo frale e secco legno, / e non ho parte in me d'esser cantata, / se non perch'amo e riverisco voi / oltra ogni umana, oltra ogni forma usata. / Sì chiara

fiamma merta i pregi suoi; / in questa parte io deggio esser cantata / fin ch'io sia viva, eternamente, e poi».

In questo sonetto della Stampa, il legno secco è associato all'immagine del fuoco come in A1:55.

4 PIETRO BEMBO, Asolani, I, X: «Perciò che se il corpo si duole, d'alcuno accidente tormentato, non è ciò se non perché

egli naturalmente ama la sua sanità; che se egli non l'amasse di natura, impossibile sarebbe il potersene alcun dolere, non altramente che se egli di secco legno fosse o di soda pietra».

5 MICHELANGELO BUONARROTI, Rime, 96, v. 1: «Sì come secco legno in foco ardente».

MICHELANGELO BUONARROTI, Rime, 97, vv. 1-2: «Al cor di zolfo, a la carne di stoppa, / a l'ossa che di secco legno

(10)

verso 1, e che subito richiama l'attenzione del lettore: “Padre eterno

del Ciel”; l'aggettivo “eterno” enfatizza, infatti, l'onnipresenza e

l'onnipotenza della divinità. Rinaldo Corso, nella sua «espositione» di

Tutte le rime della Illustriss. et Eccellentiss. Signora Vittoria Colonna,

Marchesana di Pescara, evidenzia l'immediata connessione tra il

sonetto colonniano ed una sezione del Vangelo secondo Giovanni

6

. Il

sintagma “vera Vite”, utilizzato dalla Marchesa in riferimento a Dio, è

infatti un'espressione evangelica tratta dalla metafora presente nel

brano giovanneo. Il parallelo si fa ancora più calzante quando la

Colonna definisce se stessa “vivo ramo”, evocando l'immagine dei

tralci di vite che, nel brano evangelico, diventano fecondi grazie alle

parole di Gesù. Al versetto 3 del Vangelo di Giovanni, è possibile

leggere le seguenti parole: “Voi siete già puri, a causa della parola che

vi ho annunciato”; anche la poetessa, esattamente all'inizio della prima

terzina, irrompe con l'imperativo “purgami”, pregando quindi di essere

purificata al fine di potersi cibare della “rugiada santa”. Anche la

chiusa del sonetto ricalca il passo evangelico, quando la Colonna

invita la divinità ad esserle accanto, in modo tale da produrre un frutto

rigoglioso e degno di una Pianta così importante, ovvero la vite di cui

sopra. Il sintagma “frutto felice” è enfatizzato ancor di più

dall'inarcatura con il verbo presente nell'ultimo verso del sonetto.

La figura della vite è ricorrente nei sonetti della Marchesa proprio

perché la pianta è simbolo di Cristo. Oltre al brano giovanneo citato

nella pagina precedente e strettamente ascrivibile all'immagine di

Cristo come Vite, è possibile individuare un passo del Vangelo

secondo Matteo in cui il regno dei cieli è paragonato ad un padrone di

casa, che esce all'alba per cercare i lavoratori per la sua vigna: come

nel terreno hanno ricevuto tutti lo stesso compenso per avervi

lavorato, coloro che avevano iniziato all'alba come quelli che avevano

6 GIOVANNI 15, 1-8: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo

taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi

ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella

vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi

lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

(11)

cominciato alle cinque del pomeriggio così nel regno dei Cieli gli

ultimi saranno i primi e i primi, ultimi

7

. Ancora una volta la vite è la

pianta prescelta.

Infine, in un passo del Vangelo secondo Luca, il frutto della vite

divenuto vino viene addirittura paragonato al sangue versato da Cristo

nella passione e simbolo della “nuova alleanza”

8

.

Il sintagma “secco umor”, presente nel sonetto della Colonna e

raffigurante il desiderio ardente del ritorno dell'eterna primavera della

grazia sulle fronde avvolte dall'ombra delle malizie mondane, è una

ripresa petrarchesca dalla quinta stanza della canzone 323 dei Rerum

Vulgarium Fragmenta:

Una strania fenice, ambedue l'ale di porpora vestita, e 'l capo d'oro, vedendo per la selva altera e sola,

veder forma celeste e immortale prima pensai, fin c'ha lo svelto alloro giunse, ed al fonte che la terra invola:

ogni cosa al fin vola; ché, mirando le frondi a terra sparse, e 'l troncon rotto, e quel vivo umor secco,

volse in se stessa il becco,

quasi sdegnando, e 'n un punto disparse: onde 'l cor di pietate e d'amor m'arse.

7 MATTEO 20, 1-16: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata

lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi

verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella

vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece

altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

8 LUCA 22, 14-20: «Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: «Ho tanto desiderato

mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio». Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me». E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi».

(12)

(FRANCESCO PETRARCA, Rerum Vulgarium Fragmenta, 323, 49-60)

La vite continua ad essere metafora della feconda presenza di Dio

anche nei sonetti S1:31, S1:39 e S1:154.

Il sonetto 31 delle Rime Spirituali è interamente incentrato sul Peccato

Originale e sulla Vite, che raccolse il frutto dell'“antico errore” e ne

avvolse i secchi rami tutt'intorno al verde tronco, rinnovando la pianta,

dalla quale “vita ora si coglie” dall'“arbor prima vietata”:

Quella che 'l bene e 'l male in sì poche ore contra il divin precetto intender volse, col pomo i lunghi affanni insieme colse,

onde si piange ancor l'antico errore; ma l'alma sacra Vite al grand'odore del salutar Suo frutto ne raccolse, e i secchi rami al verde tronco involse

che serba eterno il bel vivo colore. Seco ne inesta or la ben nata pianta

onde vita si coglie, e l'arbor prima

vietata; crudel morte al mondo diede.

A che salir per ricader da cima di questa, se di quella a l'ombra santa scorger si può quanto s'intende e vede?

Eva non è chiamata col suo nome, ma indicata da una perifrasi, questa

volta molto articolata, “Quella che 'l bene e 'l male in sì poche ore /

contra il divin precetto intender volse”. L'aggettivo “antico” è riferito

nel sonetto al Peccato Originale e sottolinea come questo stia agli

albori della storia del genere umano e tutta la influenzi. La chiusa,

come ha asserito Raffaella Martini, mostra chiaramente la totale

inutilità del peccato, consistente nel voler rubare a Dio quanto Egli è

disposto a donarci gratuitamente se ci fidiamo sella Sua sapienza e se

rimaniamo nel Suo amore

9

. Sant'Agostino d'Ippona sottolinea, infatti,

come la natura del Peccato Originale sia scaturita dalla volontà

9 RAFFAELLA MARTINI, Vittoria Colonna. L'opera poetica e la spiritualità, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano,

(13)

dell'uomo di conoscere da solo subito quello che gli giova o quello che

gli è dannoso, mentre affidandosi alla volontà di Dio lo avrebbe

saputo a tempo debito

10

.

La vite è implicata ancora una volta nella metafora vegetale del

sonetto S1:39, che riporto integralmente di seguito:

Con vomer d'umiltà larghe e profonde fosse conviemmi far dentro al mio core, sgombrando il mal terreno e 'l tristo umore,

pria che l'aggravi quel, questo l'innonde, tal ch'altra poi miglior terra il circonde,

e più fresca del Ciel pioggia lo irrore, onde la vite del divino amore

germini frutti, non labrusca e fronde.

Ma pria che l'ombra in tutto la ricopra e poscia indarno fra le vane foglie aspetti il caldo del celeste raggio, Lui, che fu sol umil prego che scopra Se stesso al cor, poiché da me sempre aggio

tenebrosi pensier, superbe voglie.

La serie di immagini vegetali si arricchisce di una nuova suggestione,

in quanto, nel presente sonetto, la vita spirituale della poetessa è

adombrata da una articolata metafora tratta dal mondo dell'agricoltura,

che inserisce, all'interno delle Rime, termini e figure legate alla vita

quotidiana.

Emblematico è il sostantivo “vomer”, che compare nel primo verso: il

vomere, infatti, è l'organo principale dell'aratro, formato da una lama

d'acciaio appuntita anteriormente e disposta di piatto con il taglio

inclinato rispetto alla direzione dell'avanzamento

11

. È interessante

l'accostamento, operato dalla poetessa, tra “vomer” e “umiltà”: il

vomere ha il compito di sgombrare il terreno dannoso, così l'umiltà

10 S. AURELII AUGUSTINI, De Genesi ad litteram, XI, xli, 56: «Non autem ignoro quibusdam esse visum festinatione

praevertisse illos homines adpetitum scientiae boni et mali et inmaturo tempore percipere voluisse, quod eis dilatum oportunius servabatur idque egisse temtatorem, ut praecerpendo, quod nondum talibus congruebat, offenderent deum et ab eius rei utilitate alienarentur exclusi atque damnati, ad quam si suo tempore, sicut deus volebat, accederent, possent ea salubriter perfrui. Hoc, si forte lignum illud non ad proprietatem ut verum lignum et vera poma eius, sed ad figuram velint accipere, habeat exitum aliquem rectae fidei veritatique probabilem».

(14)

agisce sulla condizione dello spirito. La metafora del vomere è già

petrarchesca, e compare in posizione rilevante in apertura della

seconda quartina del sonetto 228 dei Rerum Vulgarium Fragmenta:

Vomer di pena, con sospir del fianco,

e 'l piover giù dagli occhi un dolce umore l'addornâr sì, ch'al ciel n'andò l'odore, qual non so già se d'altre frondi unquanco.

Fama, Onor e Vertute e Leggiadria, casta bellezza in abito celeste son le radici de la nobil pianta.

(FRANCESCO PETRARCA, Rerum Vulgarium Fragmenta, 228, 5-11)

Vittoria Colonna riprende l'immagine, cambiandola di segno e

caricandola di un significato spirituale e religioso, trasformandola in

un riferimento alla virtù cristiana dell'umiltà, un tema molto caro alla

Marchesa, secondo la quale la fede autentica si basa sull'umiltà, che

permette di mantenersi nel rapporto di riconoscenza verso l'amore

infinito di Dio

12

: l'azione del vomere non è più quella di scavare solchi

di sofferenze nel cuore, ma quella, positiva, di purificare l'animo con

l'umiltà, rendendola terreno più fertile per far fiorire i frutti della

parola di Dio. Di nuovo, la Colonna fa ricorso alla metafora

evangelica della vite per indicare l'amore di Dio. In quest'ultimo

componimento il “vomer di pena”.

I rimandi intertestuali al sonetto petrarchesco non si fermano qui: la

Colonna cita nuovamente il sonetto 228 dei Rerum Vulgarium

Fragmenta, introducendo anche in questo caso una variazione. Il

“dolce umore” petrarchesco, ossia le lacrime versate dal poeta (dolci

perché ricordano il suo amore), viene trasformato dalla Marchesa in

un sintagma dal segno opposto, nel quale l'aggettivo “dolce” è

sostituito da una qualificazione negativa, nell'espressione “tristo

umore”: i peccati da cui il suo cuore deve essere sgombrato sono

paragonati ad un cattivo nutrimento per il terreno.

(15)

La citazione petrarchesca si accompagna ad un riferimento più

strettamente biblico, in quanto i versi riguardanti la labrusca e la

fioritura che non dà frutto sono riconducibili alle parole del profeta

Isaia:

«Perciò, come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume e la loro fioritura volerà via come polvere, perché hanno rigettato la legge del Signore degli eserciti, hanno disprezzato la parola del Santo di Israele».

(ISAIA 5, 24)

L'immagine della vite continua ad essere protagonista nel sonetto

S1:154 ed è presente subito nel primo verso affiancata dagli attributi

“gloriosa” ed “eterna”:

Veggio la Vite gloriosa ed eterna nel Suo giardin, sovra ogni stima adorno,

cinta di mille e mille rami intorno, e quel più verde che più in Lei s'interna,

tenerli, con virtute alta superna, felici a l'ombra del Suo bel soggiorno, e vuol che Seco al Ciel faccian ritorno, onde li ciba, purga, erge e governa;

e s'alcun ne produce frutti e fiori che sian di Sua radice Ella ne onora il grande Agricoltor di gloria intera, e perch'ei sparga più soavi odori

con la celeste Sua rugiada vera di novo lo rinfresca, apre, incolora.

La Marchesa di Pescara, nell'incipit del sonetto, descrive la Vite, che

cresce rigogliosa, con mille tralci che la circondano e la abbracciano,

godendo dell'ombra del divino arbusto. Nella prima terzina compare,

poi, il “divin Agricoltor”, ovvero Dio, al quale la vite rende onore con

i suoi frutti e con i suoi fiori. La vite, i tralci e l'agricoltore sono tutte

immagini tratte dal lessico evangelico.

(16)

La rugiada compare anche in S1:12: al verso 13 di tale sonetto

raffigura un elemento portatore di rinnovamento, è “santa”, mentre è

“celeste” e “vera” in S1:154.

Nei sonetti esaminati fino a questo momento, la metafora vegetale

costituisce il cuore del sistema simbolico attraverso il quale la

poetessa esprime la propria condizione spirituale o riflessioni

religiose, ed è fondamentale per la costruzione e la comprensione dei

componimenti. Le immagini tratte dal mondo della flora, tuttavia,

sembrano molto amate dalla Marchesa, e ne troviamo numerosi

esempi anche in altri componimenti.

Molto suggestivo è l'impiego della metafora vegetale all'interno di

S1:25, ispirato all'episodio evangelico della Strage degli Innocenti

narrato in Mt 2, 1-18

13

.

Puri Innocenti, il vostro invitto e forte Duca parte, e vi lascia soli inermi, e vuol che i vostri petti siano schermi

e le Sue spalle. Oh benedetta sorte! Erode con le voglie inique e torte

incide e spezza i bei teneri germi, ed Ei ne rende a voi gli eterni e fermi frutti, e vita immortal per breve morte.

Tolti dal latte, deste il pianto solo

13 MATTEO 2, 1-18: «Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a

Gerusalemme e dicevano: “Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: “Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”. Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese. Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti

avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo”. Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande:

(17)

per parole ai martiri, ed Egli ornati v'ha di celesti palme e santi allori; a pena eran sugli omer vostri nati

i vanni, o cari e pargoletti amori, ch'alzaste infin al Cielo il primo volo.

I bambini vittime della crudeltà di Erode sono definiti dalla Marchesa

“teneri germi”, dolci germogli spezzati sul nascere. Il tema della

strage degli innocenti è declinato dalla Colonna con una squisita

sensibilità, che la porta a concentrarsi sul destino insieme doloroso e

lieto dei bambini. Doloroso perché, da un lato, queste tenere vite sono

prematuramente spezzate dalla crudeltà di Erode; lieto perché tale

sacrificio condurrà le loro pure anime all'ascensione al cielo. Vittoria

Colonna sottolinea particolarmente la dimensione infantile di queste

creature indifese: basti pensare ai sintagmi “soli inermi” (v. 2), “teneri

germi” (v. 6), “Tolti dal latte” (v. 9) e “pargoletti amori” (v. 13).

L'espressione “tolti dal latte”, densamente icastica, sottolinea la tenera

età degli Innocenti con una nota di pathos conferita dall'immagine dei

bambini strappati al seno materno. Inoltre il richiamo ha radici nel

testo biblico (Mt 2, 18), poiché interpreta lo strazio di tutte le madri di

cui Rachele, moglie di Giacobbe e madre del popolo ebraico, è il

simbolo.

Un altro caso di immagine vegetale, utilizzato in un contesto religioso,

è il sonetto S1:70, del quale riporterò unicamente le due terzine.

Non è de la rea pianta il primo amaro frutto in me secco, ond'anco il mortal germe

mette languido il fior, nera la fronde; ma spero omai che 'l sempre vivo e chiaro

foco divino arda il malvagio verme che dentro la radice mia s'asconde.

Il tema del sonetto è il Peccato Originale, definito dalla poetessa con

l'immagine “de la rea pianta il primo amaro / frutto”, un'espressione

resa più efficace dall'inarcatura che separa il sostantivo dall'aggettivo.

La metafora vegetale è sviluppata e ampliata con altri elementi

(18)

simbolici: la vita mortale è paragonata ad un germoglio, il “mortal

germe”, destinato a fiorire già marcito a causa del peccato; di grande

forza icastica l'immagine utilizzata nella seconda terzina, dove il

peccato è adombrato da un verme che mina le proprie radici e che

deve essere estirpato dalle fiamme divine. Dunque, la stessa scrittrice

si paragona implicitamente a una pianta.

La metafora del “verme”, identificato come un agente che corrode il

cuore, è utilizzata anche da Gaspara Stampa nelle sue Rime, e riferito,

però, alla “fredda gelosia”:

[…] e tuttavia nel cor mi rode un verme

di fredda gelosia, freddo timore

di tosto tosto senza lui vederme. Rendi tu vana la mia téma, Amore,

tu, che beata e lieta pòi tenerme, conservandomi fido il mio signore. (GASPARA STAMPA, Rime, CVI, 9-14)

Di nuovo, un'immagine presente in altri poeti ed utilizzata in un

contesto laico ed amoroso, viene declinata dalla Colonna secondo una

sensibilità religiosa.

Immediato è il collegamento con S2:10, che riporto integralmente qui

sotto, in cui ricompare l'immagine del “malvagio verme” come

parassita di una pianta:

Qual arbor, da la pia madre natura fondata in buon terren, con sì profonde

radici che 'l bel frutto, il fior, la fronde mostran ch'è culto con mirabil cura, cui poi malvagio verme entro la pura

medolla la consuma ov'ei s'asconde, e fa le sue virtuti egre infeconde e la vaghezza sua languida oscura; tal l'alma bella, se in se stessa fermo s'asconde un grave error, le macchia e strugge

(19)

s'ella, pentita e umil, tosto non fugge al fonde di Gesù, che sol riduce sano col merto Suo l'animo infermo.

Come è possibile notare, nelle quartine si sviluppa la metafora del

verme che si insedia nella pianta e ne distrugge il midollo, mentre

nelle terzine l'immagine della macchia e dello struggimento si sposta

sul piano dell'anima.

La volontà di estirpare le erbe malvagie ricorre anche nel sonetto

S1:75 della Marchesa di Pescara, che riporto integralmente qui sotto:

Veggio turbato il Ciel d'un nembo oscuro che cinge l'aere intorno, e ne promette,

con tempeste, con tuoni e con saette, far caldo e molle il terren freddo e duro.

Forse l'alto Motor vuol or con puro

foco le sterili erbe ed imperfette arder, si ch'abbian poi l'alme e perfette

il vago Suo giardin lieto e sicuro, pria che da le radici in tutto svelli questa, di verdi e ben composte frondi

ricca, e di vero onor povera pianta, perché più che mai lieta rinovelli germi conspersi di rugiada santa, che sian di frutti e fior sempre fecondi.

La prima quartina del presente sonetto è incentrata interamente su uno

sconvolgimento atmosferico, che prelude ad un qualche giudizio o

provvedimento divino. Il fatto che il cielo si adombri o che le nuvole

sbarrino le porte di esso non è un'immagine nuova nella Colonna:

anche in S1:24 il sole nascondeva i suoi raggi, i sassi si spezzavano, i

monti si aprivano e le acque si agitavano a causa, in quel caso, della

morte di Cristo

14

. Il giudizio dell'“alto Motor” che si sta per scoprire

consiste nel voler, in un primo momento, purificare con il fuoco le

erbe del peccato, quelle stesse erbe legate alla parte più terrena

14 S1:24, 9-11: «Asconde il sol la sua lucida chioma, / spezzansi i sassi vivi, apronsi i monti, / trema la terra e 'l ciel, turbansi l'acque, […]».

(20)

dell'uomo, per poi rinascere circondati da una purezza, che solo la

magnificenza di Dio è in grado di elargire.

Ricorrente, ancora una volta, come in S1:12 e in S1:154, è l'immagine

della rugiada, che torna ad essere accompagnata dall'attributo “santa”,

come in S1:12.

I germogli che si sviluppano dovranno anche essere fecondi di frutti e

fiori, dal momento che l'erba malvagia è stata estirpata.

Il tema della purificazione, che innesta il germoglio del rinnovamento,

è presente anche in S1:174, l'ultimo dei sonetti che tratterò per quanto

concerne le Rime Spirituali, del quale riporto solamente le quartine:

Per far col seme Suo buon frutto in noi e bagnar del mio cor l'arida terra dona dei rivi Suoi, che or apre or serra, la chiave il Fonte eterno a un sol di voi. Ei guarda prima e ben distingue poi

qual fango il sacro germe in me sotterra, e quel purga e dissolve, e mai non erra

la fede umil che regge i pensier suoi.

La metafora vegetale si sviluppa già a partire dal primo verso, dal

momento che sono presenti due termini appartenenti al lessico

dell'agricoltura: “seme” e “frutto”. Interessante è il paragone tra il

cuore della poetessa ed un terreno riarso da irrigare, anch'essa

immagine vegetale.

Nella seconda quartina è presente la metafora del fango, terra dei

campi ridotta dall'acqua in poltiglia, che sta al germe, che ha il

compito di purgare, come la fede umile sta ai pensieri; l'umiltà è

ancora una volta il fulcro del cammino cristiano.

L'edera è la pianta scelta per la metafora vegetale che caratterizza tutto

il sonetto S2:8:

Qual edera a cui sono e rotti ed arsi gli usati suoi sostegni, onde ritira il vigor dentro e intorno si raggira, né cosa trova u' possa in alto alzarsi;

(21)

tal l'alma ch'ha i pensier qui in terra sparsi sempre s'avolge fuor, dentro s'adira,

perch'al bel segno, u' per natura aspira, sono gli appoggi umani e bassi e scarsi mentre non corre al glorioso legno de la nostra salute, ove erga e annodi

le sue radici infin a l'alta cima; avolta, unita a quel sacro sostegno, vuol rivederla il Padre, ove Egli in prima

l'avea legata con sì dolci nodi.

Interessante è la scelta dell'edera operata dalla poetessa: una pianta dal

carattere rampicante e, come il ginepro, considerata in grado di

proteggere dal malocchio e dai sortilegi.

Altrettanto suggestiva è la metafora vegetale presente nella seconda

terzina di S2:18:

Se chieder grazia a l'umil servo lice questa fede vorrei che illustra, accende

e pasce l'alma sol di lume vero;

con questa in parte il gran valor s'intende che pianta e ferma in noi l'alta radice qual rende i frutti a lui tutti d'amore.

In queste terzine, la Colonna introduce il tema della grazia, che

l'uomo, umile servo di Dio, richiede al Signore per essere forte nella

fede, che accende e nutre l'anima con la luce divina. Soltanto

attraverso tale procedimento il “gran valor” può piantare nell'essere

umano “l'alta radice”, dalla quale scaturiscono i frutti d'amore.

La metafora vegetale, ampiamente impiegata e variamente declinata

nelle Amorose e nelle Spirituali, pare avere uno spazio minore nelle

Epistolari, all'interno delle quali compare in due soli sonetti.

Il sonetto E:7 è infatti stato scritto in morte del fratello minore della

Marchesa, Fabrizio, e dedicato ad Ascanio, altro giovane fratello

15

.

Alla giovane età del dedicatario la Colonna allude attraverso una

delicata immagine tratta dal mondo delle piante:

(22)

La vostra bella pianta ancora in erba mille fior mostra chiusi in picciol velo,

e negli animi accende ardente zelo per le promesse de l'etate acerba.

La gioventù di Ascanio è paragonata ad una pianta in boccio, che

mostra già i fiori destinati a nascere, ancora non sbocciati, ma visibili,

racchiusi nel loro germoglio: le virtù del giovane, acerbe e non ancora

messe alla prova, mostreranno il loro valore quando anch'egli passerà

all'età adulta, e la sorella, orgogliosa, si augura di vederlo brillare a

Roma prima ancora di essere divenuto uomo.

Il sonetto E:30 si apre, invece, con una metafora densa di echi letterari

e sviluppata in più loci della letteratura cinquecentesca:

Godo d'udir che voi da l'ampia e folta selva, che 'l petto ancor d'orror v'ingombra,

sfrondaste i rami e discacciaste l'ombra che la luce del ver fin qui vi ha tolta […].

Il presente sonetto è rivolto a Francesco Della Torre

16

, segretario del

vescovo di Verona Giovan Matteo Giberti.

L'immagine iniziale del sonetto, la selva che getta ombra nel cuore del

dedicatario, è una chiara ripresa della selva del peccato dantesca, ma è

stata variamente rielaborata da altri cinquecentisti, in un filone in cui

si inserisce anche la nostra poetessa. Il sintagma “folta selva” ricorre

infatti, fra gli altri, in Pietro Bembo

17

, un'occorrenza interessante

perché la selva degli Asolani è metafora delle menzogne, contrapposta

al “campo aperto” della verità: parimenti, nel sonetto della Marchesa

vi è un'opposizione polare tra l'ombra della selva e la luce della verità,

da essa fino ad ora ostacolata e adesso recuperata dal Della Torre.

Meno significativa è l'occorrenza della stessa espressione nelle

16 Ivi, p. 510.

17 PIETRO BEMBO, Asolani, 2, III: «Ma perciò che a me conviene, per la folta selva delle sue menzogne passando,

all'aperto campo delle mie verità far via, prima che ad altra parte io venga, a' suoi ragionamenti rispondendo, in essi porrem mano».

(23)

Amorose Egloghe del Muzio Giustinopolitano alla Signora Tullia

D'Aragona

18

, nelle quali la “folta selva” fa parte di una convenzionale

descrizione di locus amoenus; è possibile notare la ricorrenza del

termine “orrore” associato alla selva anche nelle Egloghe: la stessa

associazione compare nella Colonna, ma con significative variazioni.

In primo luogo nelle Egloghe l'orrore è associato alla piacevolezza

ispirata dal luogo naturale, mentre nella rima epistolare si tratta di un

orrore spirituale che opprime il cuore del dedicatario, conferendo

all'immagine della selva una suggestione molto più cupa.

(24)

«Quando io dal caro scoglio guardo intorno»: le

metafore marinaresche tra la poesia e il soggiorno

ischitano.

La metafora marinaresca viene sviluppata all'interno del corpus dei

sonetti seguendo molteplici linee di pensiero e passando attraverso le

immagini della barca, della tempesta e dello scoglio.

Di particolare rilevanza appare il sonetto A1:53, all'interno del quale

la metafora marinaresca si snoda:

Provo tra duri scogli e fiero vento l'onde di questa vita in fragil legno;

l'alto presidio e 'l mio fido sostegno tolse l'acerba morte in un momento.

Veggio il mio male e 'l mio remedio spento, il mar turbato e l'aer d'ira pregno,

d'atra tempesta un infallibil segno, e 'l valor proprio al mio soccorso lento. Non ch'io sommerga in le commosse arene

temo, né rompa in perigliose sponde, ma duolmi il navigar priva di speme. Almen se morte il ver porto m'asconde,

mostrimi il falso suo, ché chiare amene ne parran le sue irate e turbide onde.

La nave in balìa della tempesta diventa metafora della condizione di

Vittoria Colonna, in un vasto apparato simbolico nel quale la poetessa

rappresenta se stessa come una barchetta sballottata dalle onde della

vita; come spesso accade nella Colonna, il turbamento spirituale è

adombrato da un'immagine che evoca la potenza della natura, «il mar

turbato e l'aer d'ira pregno, / d'atra tempesta un infallibil segno».

Compare nel sonetto la metafora tradizionale della morte come porto,

ultimo approdo dell'essere umano, sollievo al quale la poetessa non

può ancora attingere, se non in quell'imitazione della morte che è il

sonno, durante il quale gli affanni, che agitano la vita come un mare in

tempesta, si placano e danno l'illusione di una distesa marina chiara e

(25)

amena: di nuovo la Colonna si serve di descrizioni naturali per

adombrare uno stato dell'anima. Il rapporto tra il sonno e la morte

deriva già dalla letteratura latina

19

, dalla quale viene mutuata anche dai

Rerum Vulgarium Fragmenta, in particolare nel sonetto 226, 9-11:

Il sonno è veramente, qual uomo dice, parente de la morte, e 'l cor sottragge

a quel dolce penser ch 'n vita il tene.

La metafora della vita come navigazione è materia anche petrarchesca,

basti pensare alla canzone 80 dei Rerum vulgarium fragmenta, nella

quale il “legno” (piccol, cieco, fraile, acceso) è la navicella della vita,

incerta del proprio fine, sbattuta fra scogli e un porto ancora lontano

20

.

Strettamente connessa alla metafora marinaresca della barca è

l'immagine della tempesta, presente in tale sonetto colonniano,

veicolata dai sintagmi “mar turbato” e “l'aer d'ira pregno”.

Le immagini della barca e della tempesta ricorrono anche in un altro

sonetto della Marchesa di Pescara, A1:9, che riporto integralmente qui

sotto:

Oh che tranquillo mar, che placide onde solcavo un tempo in ben spalmata barca Di bei presidi e d'util merce carca

l'aer sereno avea, l'aure seconde;

il ciel, ch'or suoi benigni lumi asconde, dava luce di nubi d'ombre scarca;

non de' creder alcun che sicur varca mentre al principio il fin non corrisponde.

L'aversa stella mia, l'empia fortuna scoverser poi l'irate inique fronti dal cui furor cruda procella insorge;

venti, piogge, saette il ciel aduna, mostri d'intorno a divorarmi pronti,

19 Secondo Rinaldo Corso in Tutte le rime della Illustriss. et Eccellentiss. Signora Vittoria Colonna, Marchesana di

Pescara. Con l'espositione del Signor Rinaldo Corso, Girolamo Ruscelli, Venezia, 1558, l'immagine del sonno

assimilabile alla morte è ripresa dal Cato Maior de senectute di Cicerone: “Iam vero videtis nihil esse morti tam

simile quam somnum”. Inoltre, il paragone tra morte e sonno è ripreso, sempre secondo il Corso, da Virgilio, Aen VI,

278: “tum consanguineus Leti Sopor et mala mentis”.

20 FRANCESCO PETRARCA, Rerum Vulgarium Fragmenta, 80, vv. 3, 13, 28, 35: «[…] scevro da morte con un picciol

legno, […]». // «Chiuso gran tempo in questo cieco legno […]». // «[…] poi temo, ché mi veggio in fraile legno, […]». // «Se non ch'i' ardo come acceso legno, […]».

(26)

ma l'alma ancor sua tramontana scorge.

In tale sonetto, come afferma Rinaldo Corso, è descritta quella che

Aristotele, nella sua Poetica, chiama peripetia, ovvero il mutamento

della situazione da uno stato allo stato contrario

21

.

Nelle due quartine è presente quella condizione interiore di tranquillità

e di sicurezza di quando il marito era sempre in vita: Vittoria Colonna

solcava le onde in una barca resa impermeabile con la pece, e quindi

sicura; anche il cielo illuminava il percorso della poetessa.

Nelle terzine si presenta, invece, la condizione attuale vissuta dalla

Marchesa, ovvero una condizione di crudele e orribile tempesta, di

cielo colmo di saette e pioggia e, addirittura, di mostri pronti a

divorarla. Ciononostante, la chiusa del sonetto fa intravedere un

barlume di speranza: la Colonna asserisce di riuscire ugualmente a

non perdere l'orientamento.

L'immagine del legno spalmato di pece si ritrova innanzitutto in

Petrarca, nei Rerum Vulgarium Fragmenta, nel sonetto 312, del quale

riporto qui sotto la prima quartina:

Né per sereno ciel ir vaghe stelle, né per tranquillo mar legni spalmati, né per campagne cavalieri armati, né per bei boschi allegre fere e snelle;

In secondo luogo, l'immagine della barca spalmata di pece si ritrova

anche nel sonetto III delle Rime di Isabella di Morra, del quale riporto,

anche in questo caso, la prima quartina:

D'un alto monte onde si scorge il mare miro sovente io, tua figlia Isabella,

s'alcun legno spalmato in quello appare, che di te, padre, a me doni novella.

21 ARISTOTELE, Poetica, 10, traduzione di DIEGO LANZA, BUR, Milano, 2011: «Chiamo semplice un'azione nel cui

svolgimento, come si è definito, continuo e unitario, ha luogo il mutamento senza rovesciamento o riconoscimento; complessa invece quella dalla quale il mutamento ha luogo insieme con riconoscimento, rovesciamento o entrambi. […]».

(27)

L'immagine delle chiglie spalmate di pece delle navi è già, però,

virgiliana, come è possibile evincere dal passo tratto dal IV libro

dell'Eneide in cui la flotta troiana si appresta a lasciare Cartagine e

Didone, tradita dall'amato Enea e beffata dal Fato, rimane a guardare

lo strazio della partenza con infinita mestizia nel cuore:

Natat uncta carina

frondentisque ferunt remos et robora silvis infabricata fugae studio.

(PUBLIO VIRGILIO MARONE, Eneide, IV, 398-400)

Particolare rilevanza, proprio in merito all'uso che fa Vittoria Colonna

delle metafore marinaresche della nave, della tempesta e dello scoglio,

possiede la canzone 89, della quale riporto la prima strofa:

Mentre la nave mia, lungi dal porto, priva del suo nocchier che vive in Cielo, fugge l'onde turbate in questo scoglio;

per dar al lungo mal breve conforto vorrei narrar con puro acceso zelo parte de la cagion ond'io mi doglio,

di nimica Fortuna e d'Amor empio ebber più chiaro nome e maggior danno

col mio più grave affanno

paragonar, acciò che 'l duro scempio conosca il mondo non aver exempio.

Anche in questi versi, come in A1:9 ed in A1:53, la metafora

marinaresca della nave in balìa delle onde, priva di sostegno e lontana

dal “suo nocchier” è utilizzata per esprimere la condizione interiore

della poetessa, una condizione ormai definitiva da quando il marito

vive in cielo.

Per quanto riguarda le “onde turbate”, i gravi pericoli dello scoglio del

mondano vivere, emblematica è la canzone 80 dei Rerum Vulgarium

Fragmenta, della quale riporto la prima stanza qui sotto:

(28)

Chi è fermato di menar sua vita su per l'onde fallaci e per gli scogli scevro da morte con un picciol legno, non pò molto lontan esser dal fine:

però sarebbe da ritirarsi in porto mentre al governo ancor crede la vela.

Anche in questo caso è presente la topica della vita come navigazione

di una piccola barca, che il buon cristiano deve saper governare per un

mare agitato verso il porto di salvezza.

Di particolare rilevanza appare la scelta delle due figure inserite in

apertura della strofa successiva: Penelope e Laodamia, l'una moglie di

Ulisse di Itaca, l'altra moglie di Protesilao di Tessaglia.

Penelope e Laodamia un casto ardente

pensier mi rappresenta, e veggio l'una aspettar molto in dolorosa tempre, e l'altra aver, con le speranze spente,

il desir vivo, e d'ogni ben digiuna convenirle di mal nudrirsi sempre;

ma par la speme a quella il duol contempre, quest'il fin lieto fa beata, ond'io

non veggio il danno lor mostrarsi eterno, e 'l mio tormento interno

sperar non fa minor, né toglie oblio, ma col tempo il duol cresce, arde il desio.

Penelope, infatti, ha dovuto aspettare venti anni, prima di vedere il

marito, mentre Laodamia, come afferma Rinaldo Corso, “vede serbare

vivo il desiderio con le speranze spente, cioè morte

22

”, dal momento

che il marito dovette partire per condurre le navi a Troia dopo solo una

notte trascorsa con la moglie e che quest'ultima, aspettando il ritorno

di Protesilao, non poté mai godere di alcun piacere giovanile.

Per quanto concerne la metafora marinaresca delle onde turbate o del

turbato mare raffiguranti il vivere mondano, emblematico è il sonetto

(29)

S1:82, che riporto integralmente qui sotto:

Quando il turbato mar s'alza e circonda con impeto e furor fermo scoglio,

se saldo il trova il procelloso orgoglio si frange, e cade in se medesma l'onda;

tal io, s'incontra a me vien la profonda

acqua mondana irata, come soglio

levo al Ciel gli occhi, e tanto più la spoglio del suo vigor quanto più forte abonda.

E se talor il vento del desio ritenta nova guerra io corro al lido, e d'un laccio d'amor con fede attorto

lego il mio legno a quella in cui mi fido viva pietra, Gesù, sì che quand'io

voglio posso ad ognor ritrarmi in porto.

La prima quartina di tale sonetto è interamente incentrata sulla

descrizione del mare in agitazione, il quale porta le onde ad

infrangersi continuamente su uno scoglio saldo e immobile.

Nella seconda quartina si appura che il “turbato mar” non è altro che

la società mondana ed il “fermo scoglio” della strofa precedente

rappresenta l'anima della poetessa; è interessante, appunto, notare

l'accostamento dei due aggettivi “turbato” al mare e “fermo” allo

scoglio, proprio ad indicare come la fede della Marchesa non vacilli.

Laddove l'“irata acqua mondana” insista, infatti, Vittoria Colonna lega

il suo “legno” a quella viva pietra che è la fede in Gesù, in modo tale

che trovi sempre in quest'ultimo un rifugio sicuro e confortevole per

l'anima.

Significativo per quanto riguarda l'immagine dello scoglio è anche il

sonetto A2:13, che riporto integralmente qui sotto:

Quando io dal caro scoglio guardo intorno la terra e 'l mar, ne la vermiglia aurora, quante nebbie nel ciel son nate alora scaccia la vaga vista, il chiaro giorno.

(30)

al mio, che 'l Ciel di maggior luce onora; e da questo alto par che ad or ad ora

richiami l'alma al suo dolce soggiorno. Per l'exempio d'Elia non con l'ardente celeste carro ma col proprio aurato

venir se 'l finge l'amorosa mente a cambiarmi 'l mio mal doglioso stato con l'altro sereno; in quel momento sente lo spirto un raggio de l'ardor beato.

In tale sonetto la Marchesa si immagina che un fenomeno simile a

quello accaduto al profeta Elia

23

possa avvenire anche con lei; alla

poetessa pare che il suo Sole possa scendere a prenderla, come già

fece Dio col profeta.

La scelta della Marchesa, la quale opta per attribuire al suo Sole

l'aurato carro e non quello '“ardente” e “celeste”, è giustificata,

secondo Rinaldo Corso, da alcune motivazioni: la prima di esse è che

Vittoria Colonna non voglia reputare i suoi meriti al pari di quelli di

Elia, il quale fu rapito dal carro di fuoco per la sua ardente carità; la

seconda è probabilmente in riferimento alla gloria terrena del marito

ed anche al fatto che, secondo un'antica usanza, gli imperatori romani

trionfassero su un carro dorato; la terza motivazione si riferirebbe al

mito di Fetonte narrato da Ovidio ed al fatto che, proprio secondo tali

versi, il carro dei poeti sarebbe tutto d'oro

24

.

Con “caro scoglio”, Vittoria Colonna si riferisce in questo caso, come

anche in A2:1, 58-72, al Castello Aragonese di Ischia, dove la poetessa

23 2RE 2,1.6-14: «Quando il Signore stava per far salire al cielo in un turbine Elia, questi partì da Gàlgala con Eliseo.

Elia gli disse: “Rimani qui, perché il Signore mi manda al Giordano”. Egli rispose: “Per la vita del Signore e per la tua stessa vita, non ti lascerò”. E procedettero insieme. Cinquanta uomini, tra i figli dei profeti, li seguirono e si fermarono di fronte, a distanza; loro due si fermarono al Giordano. Elia prese il suo mantello, l'arrotolò e percosse le acque, che si divisero di qua e di là; loro due passarono sull'asciutto. Appena furono passati, Elia disse a Eliseo: “Domanda che cosa io debba fare per te, prima che sia portato via da te”. Eliseo rispose: “Due terzi del tuo spirito siano in me”. Egli soggiunse: “Tu pretendi una cosa difficile! Sia per te così, se mi vedrai quando sarò portato via da te; altrimenti non avverrà”. Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di

fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo. Eliseo guardava e gridava: “Padre mio, padre

mio, carro d'Israele e suoi destrieri!”. E non lo vide più. Allora afferrò le proprie vesti e le lacerò in due pezzi. Quindi raccolse il mantello, che era caduto a Elia, e tornò indietro, fermandosi sulla riva del Giordano. Prese il mantello, che era caduto a Elia, e percosse le acque, dicendo: “Dov'è il Signore, Dio di Elia?”. Quando anch'egli ebbe percosso le acque, queste si divisero di qua e di là, ed Eliseo le attraversò».

24 PUBLIO OVIDIO NASONE, Metamorfosi, II, 107-108: «Aureus axis erat, temo aureus, aurea summae / curvatura

(31)

dimora dal 1509 al 1536, per poi trasferirsi nel 1537 a Ferrara

25

:

[…] quando, ad un punto, il scoglio dove posa il corpo mio, che già lo spirto è teco,

vidi coprir di nebbia tenebrosa, e l'aria tutta mi pareva un speco di caligine nera; il mal bubone

cantò in quel giorno tenebroso e cieco. Il lago a cui Tifeo le membra oppone

boglieva tutto, oh spaventevol mostro! Il dì di Pasca in la gentil stagione;

era coi venti Eulo al lito nostro, piangeano le sirene e li delfini,

i pesci ancor; il mar pareva inchiostro; piangean intorno a quel i dei marini,

sentend'ad Ischia dir: «Oggi, Vittoria, sei stata disgrazia a li confini, […].

In questo caso, gli elementi naturali appaiono come portatori di foschi

presagi, basti pensare alla “nebbia tenebrosa”, all'aria come “caligine

nera” e al mare simile a “inchiostro”; tali elementi si stanno

abbattendo sullo “scoglio”.

Compare anche l'immagine di Tifeo, il gigante ribelle confinato da

Zeus sotto l'isola di Pithecusae, menzionato da Virgilio nell'Eneide

26

e

da Esiodo nella Teogonia

27

: la figura mitica di Tifeo è ricorrente nei

25 AA.VV., A companion to Vittoria Colonna, BRILL, Boston, 2016, XI.

26 PUBLIO VIRGILIO MARONE, Eneide, IX, 715-716: «tum sonitu Prochyta alta tremit durumque cubile / Inarime Iovis

imperiis imposta Typhoëo».

27 ESIODO, Teogonia, 820-868, traduzione di GRAZIANO ARRIGHETTI, BUR, Milano, 1984: «Dopo che i Titani dal cielo

Zeus cacciò via, / come ultimo figlio Gaia prodigiosa generò Tifeo, / di Tartaro in amore, per causa dell'aurea Afrodite; / le sue braccia son fatte per opere di forza / e i piedi sono instancabili, di quel forte dio; e dalle spalle / nascono cento teste di serpe, di terribile drago, / di lingue nere vibranti; e dagli occhi / nelle terribili teste, sotto le ciglia, splendeva un ardore di fuoco; / da tutte le teste fuoco bruciava insieme allo sguardo / e voci s'alzavano da tutte le terribili teste, / che suoni d'ogni sorta emettevano, indicibili: ora infatti / risuonanti come solo agli dèi è comprensibile, ora invece / voce di toro superbo, alto muggente, dalla forza infrenabile; / ora ancora di leone dal cuore spietato; / ora poi somigliante alla voce di cani, meraviglia ad ascoltarsi; / ora infine fischiava e ne echeggiavano le grandi montagne. / E quel giorno si sarebbe compiuto un evento tremendo / e costui sarebbe divenuto signore dei mortali e degli immortali / se di ciò non si fosse subito accorto il padre degli uomini e degli dèi: / tuonò forte e terribile, e attorno la terra / tremendamente suonò, e il cielo ampio di sopra / e il mare e i flutti d'Oceano e il Tartaro della terra. / E tremò il grande Olimpo sotto i piedi immortali / del signore che si levava alla guerra; la terra gemeva. / Da una parte e dall'altra avvolgeva il mare viola la vampa / del tuono e del lampo e del fuoco del mostro, / dei venti infuocati e del fulmine ardente; / bolliva la terra tutta, e il cielo e il mare. / Onde grandi infuriavano intorno alle rive e dovunque / all'impeto degli immortali, e un tremore irrefrenabile sorse: / tremava Ade, signore dell'ombre dei morti, / e i Titani sotto la terra, che stanno intorno a Crono, / all'inestinguibile strepito e allo scontro tremendo. / Ma Zeus quand'ebbe raccolto la forza e prese le armi, / il tuono e il lampo e la folgore

(32)

sonetti della Marchesa, in quanto legato al mito di fondazione

dell'isola di Ischia, luogo nel quale la poetessa trascorse un'ampia

parte della sua vita

28

. Secondo alcuni interpreti, il fiorire di metafore

marinaresche potrebbe essere stato ispirato proprio dall'ambiente

ischitano: una suggestiva ipotesi identifica lo scoglio, simbolo di

fermezza e stabilità, con la dimora del Castello Aragonese, teatro del

soggiorno della Marchesa

29

.

Sempre inerente a quello “scoglio”, che regalò alla Colonna momenti

lieti con il marito, sono gli ultimi tre versi del sonetto A2:29:

Non cangerò la fe' né questo scoglio ch'al mio Sol piacque, ove fornire spero come le dolci già quest'amare ore.

Come la Marchesa asserisce di non voler cambiare quella fede salda e

ferma, esattamente come uno scoglio rimane forte e solido all'impeto

dell'onda marina.

È la stessa poetessa ad affermare di sperare che, come un tempo tale

scoglio le fece passare dolci ore con il marito, una volta morto

quest'ultimo, possa permetterle di trascorrere parimenti “amare ore”. È

possibile, dunque, notare l'avvenuto passaggio da uno stato di gioia e

letizia ad uno cupo e colmo di mestizia.

La chiusa di A2:29, secondo Rinaldo Corso, rimanderebbe all'Orlando

furioso ariostesco:

[…] immobil son di vera fede scoglio che d'ogn'intorno il vento e il mar percuote:

fiammeggiante, / colpi, balzando dall'Olimpo, e tutte / bruciò le terribili teste del mostro tremendo. / E quando quello fu vinto, raggiunto dai colpi / e ferito crollò, gemeva la terra prodigiosa: / una fiamma scaturì via dal

fulminato signore / negli oscuri recessi dell'erto monte / colpito; per grande estensione, prodigiosa, bruciava la terra / al vapore tremendo, e fondeva come stagno, / per l'arte di uomini giovani, dal perforato crogiuolo / dove è stato scaldato, oppure come ferro, il più forte, / nei recessi del monte, domato dal fuoco che arde / si liquefà nella terra divina sotto le mani di Efesto; / così dunque si scioglieva la terra alla vampa del fuoco splendente; / e lo gettò, irato nel cuore, nel Tartaro ampio».

28 A2:3, 1-4: «Vid'io la cima, il grembo e l'ampie falde / del monte alter che 'l gran Tifeo n'asconde / fiammeggiar liete, e le vezzose sponde / del lito bel di lumi ornate e calde […]». // A2:4, 5-8: «È degno che 'l passato duol contempre / il presente gioir, ché Tifeo nacque / per alte imprese, e a forza in terra giacque; / non convien bel desir tempo distempre».

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