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Cittadinanza come genere nelle città-stato del Medioevo e del Rinascimento

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Julius Kirshner

Cittadinanza come genere nelle città-stato del Medioevo e del Rinascimento∗ [Relazione tenuta al convegno “Innesti. Storia delle donne, storia di genere, storia sociale”, Siena, 7 -9 febbraio 2003 ©

dell’autore - Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”] In breve, da qualunque angolo guardi a questo argomento, la

ragione e l’esperienza mi convincono che il solo modo per guidare le donne-leaders verso il soddisfare i loro particolari doveri è liberarle da tutte le restrizioni permettendo loro di partecipare ai diritti inerenti l’umanità.

Mary Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Women, 1792

La presente relazione è divisa in cinque parti.

I. La prima parte di questa relazione esamina il quesito se il territorio - ed è questo un territorio che si va progressivamente allargando - dei così detti ‘gender studies’ offra prospettive utili su uno dei più vecchi argomenti della storiografia: quello della cittadinanza. La mia risposta è una mistura di sì e no. ‘Women’s studies’ è un campo di ricerca che emerse negli Stati Uniti negli anni 70. Si prefiggeva di rendere visibile quanto è stato compiuto dalle donne in passato e di dimostrare che le donne parteciparono in attività che solitamente erano ritenute monopolio dei soli maschi. Discutendo sull’educazione universitaria negli Stati Uniti, Martha Nussbaum, una nota docente di diritto ed etica all’Università di Chicago, ha legittimamente dichiarato che i ‘women’s studies’ “come stanno le cose ora, hanno virtualmente trasformato ogni maggiore disciplina compresa nelle scienze sociali, in quelle umanistiche e in quelle della vita non solo alterando il contenuto degli studi ma anche inventando nuove metodologie per la ricerca” (Nussbaum 1998). Nel 1995, nei colleges e nelle università americane v’erano oltre 600 programmi e circa 80 centri di ricerca che si occupavano di ‘women’s studies’ (Messer-Davidow 2002). In aggiunta, nuove riviste, intere collane di libri e associazioni accademiche dedicate specificatamente ai ‘women’s studies’ sono state fondate. La straordinaria crescita dei ‘women’s studies’ negli Stati Uniti è in netto contrasto con le scarse fortune che questo tipo di ricerca ha incontrato in Italia (Di Cori 1991; Mantini 2000).

Nondimeno, come studiosi da destra e da sinistra hanno lamentato, il successo dei ‘women’s studies’ è stato accompagnato da una serie conseguenze negative. Stando a questi studiosi, il ristretto scopo inizialmente prefissosi dai ‘women’s studies’ - uno scopo che talvolta non è andato molto oltre un imbarazzante ‘cheerleading’ - è stato criticato dalle femministe più politicizzate - ad esempio, dalla medievalista Bennett, che ha denunciato questo tipo di studi per aver indiscriminatamente accumulato in una sola, gigantesca e immutabile categoria tutte le donne e le loro innumerevoli e diverse esperienze, ignorando le asimmetrie di classe e potere e la specificit à e variabilità storica (Bennett 1989). Radicato nello “scetticismo marx-socialista”, il programma della seconda generazione di femministe, quella degli anni 60 e 70, era dedicato all’attivismo sociale e mirava a mutare il mondo in cui si viveva. Per questo venivano accentuati i meccanismi istituzionali e ideologici della distribuzione della ricchezza e del potere politico, sociale e economico e si sottolineavano i modi in cui le donne furono oggetto di discriminazione e, conseguentemente, di subordinazione. In altri termini, minando il predominio maschile, le donne avrebbero ottenuto pari accesso alle risorse e al potere e sarebbero state rese capaci di costruire le loro vite in accordo ai loro desideri.

Attualmente, almeno negli Stati Uniti, il movimento femminista si è mutato in un astratto discorso accademico disgiunto dalla partecipazione all’attività socio-politica - una partecipazione che richiede tempo. La stessa Nussbaum ha aspramente biasimato la vasta quantità di energie e di

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forze intellettuali che le teoriche femministe hanno sprecato nella costruzione di ermetici castelli di sabbia (Nussbaum 1999). Infatti, i termini ‘femminismo’ e ‘femminista’ sono divenuti etichette di sostanze tossiche - un sinonimo di disprezzo dei maschi, di vittimizzazione e di corrosiva militanza. Di conseguenza, questi termini vengono ora evitati dalla corrente maggioritaria delle donne che credono ferventemente che una discriminazione fondata nel genere non sia un fenomeno pervasivo e che donne ambiziose ed educate siano ugualmente capaci di giungere agli stessi risultati della loro controparte maschile in molti settori dell’attività umana (Walter 1998).

È solo da poco tempo che studiose femministe hanno preso seriamente la sfida della concettualizzazione del ruolo della donna nello stato (Squires 2000). Studiose femministe si sono mostrate critiche di fronte agli appelli alla sacra triade del liberalismo contemporaneo che comprende: universalità, imparzialità e bene comune. Questi apparentemente elevati ideali, si dice, lasciano poco spazio ad una “politica della differenza” - cioè, per quei temi che sono di vitale importanza per particolari gruppi di interesse (Young 1989; Mancina 2002). Tra i temi che sono specifici della cittadinanza delle donne si possono enumerare: i diritti della riproduzione, la cosiddetta ‘affirmative action’, la parità di salari, le molestie sessuali (sexual harassment) e via dicendo. Similmente, al liberalismo contemporaneo studiose femministe muovono l’obiezione che questo ignora il fatto che il ‘gendered time’ svantaggia il ruolo di agente politico e sociale delle donne.

Tra le altre studiose, Ruth Lister ha attaccato “la rigida separazione tra la sfera del privato, o del domestico, e quella del pubblico, ove la prima ha rappresentato la particolarità, la cura (care) e la dipendenza, e la seconda l’universalismo, la giustizia e l’indipendenza” (Lister 1997, p. 22). Sia a livello teorico che pratico la dicotomia pubblico/privato ha servito a relegare nella sfera privata interdipendenti relazioni umane e, di conseguenza, ad escludere le donne dalla vita politica. Posso forse errare, ma ho l’impressione che le studiose femministe non hanno ancora affrontato sistematicamente un nodo centrale del contemporaneo comunitarismo: le obbligazioni politiche delle donne. Su questo argomento, vedi il recente lavoro di Hirschman (1992) e l’illuminante lavoro di Kerber che getta luce sulla storia dei doveri delle donne cittadine, come il non commettere alto tradimento, non darsi al vagabondaggio, pagare le tasse, prestare servizio nelle giurie e prestare aiuto ai militari (Kerber 1998).

Oggi, ‘women’s studies’ e ‘feminist studies’ si sono trasformati in ‘gender studies’ - un campo che è molto più inclusivo. Inoltre, quest’ultimo termine, comprendendo sia l’omosessualità che le relazioni tra i due sessi, è politicamente corretto. Come venne concepita da Davis nel 1976, la ricerca storica che ha per suo oggetto il ‘gender’ si propone di rivelare l’estensione dei ruoli sessuali e il loro funzionamento nel preservare e nel cambiare la società. Scott, nel suo noto saggio del 1986 ‘Gender: A Useful Category of Historical Analysis’, ispirato dal post-strutturalismo di Foucault e dall’antropologia di Geertz, insiste sul fatto che ‘gender’ è una categoria culturale e simbolica, non biologica, e una categoria che è costitutiva delle relazioni sociali. Se ‘gender’ è una categoria universale, nel senso che questa esiste in ogni tempo e luogo, i comportamenti e i significati che la società gli attribuisce sono sempre storicamente specifici. Il compito dello storico del ‘gender’ è dunque quello di analizzare i modi di produzione e l’operatività del ‘gender’ nel passato. Sebbene Scott abbia preso le giuste distanze dalla riduzione del ‘gender’ a donne e femminilità, ho l’impressione che questo termine sia divenuto una voce di moda che spesso maschera il vecchio modo in cui veniva scritta la ‘storia delle donne’. Questo termine, in aggiunta, è divenuto una sorta di bacchetta magica capace di impartire la forza di una spiegazione a quella che è fondamentalmente storia narrativa, positivista e basata sulla ricerca d’archivio. Peggio ancora, l’invocazione di questo termine ha talvolta sostituto la rigorosa analisi filologica e la concreta conoscenza delle istituzioni - una conoscenza che è necessaria in un campo come quello della storia d’Italia medievale e moderna. Infine, mentre si possono indicare fruttuosi esempi di studi

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che hanno per loro oggetto il ‘gender’ (ad esempio, Bellavitis [2001], Calvi [1994], Chabot [1999], Chojnacki [2000], Klapish-Zuber [1988], Guzzetti [1998], Klapish-Zuber [1988], e Kuehn [1998]), occorre dire che, in genere, sono tutti studi limitati alla storia sociale.

II. La seconda parte della mia relazione intende spiegare perché la storia politica, e in specie quella della cittadinanza, a parte qualche notevole eccezione, come Pitkin (1984) e la sua decostruzione del concetto di ‘fortuna’ in Machiavelli, Jordan (1990) e il suo lavoro sui dibattiti sul ‘gender’ nel Rinascimento che hanno dato vita alla nozione femminista di autorità e di resistenza all’autorità, Klapisch-Zuber (1991) e il suo studio sull’importanza critica delle distinzione basate sul ‘gender’ nella prassi della cittadinanza nell’Atene classica e nella Firenze del Rinascimento, e Najemy (2002) e la sua analisi del patriarcato nel Rinascimento, è rimasta immune da un approccio basato sul concetto di ‘gender’. Sintomatico di questo stato di cose è l’assenza di un saggio sul ‘gender’ e politica in Women of the Renaissance (King 1991) e in Feminism and Renaissance Studies (Hutson 2000). Infatti, non si può trovare una discussione su ‘gender’ e politica nel, peraltro un eccellente volume, Origini dello Stato: processo di formazione statale in Italia fra medioevo ed

età moderna (Chittolini, Molho, e Schiera, 1994), in Mensch und Bürger di Meier (1994), e nel

monumentale studio sulla cittadinanza di Costa (1999). Questi sono solo alcuni esempi, tra molti altri che si potrebbero citare, di studi in cui si presume che le donne non siano mai state attivamente e pubblicamente presenti nelle città-stato italiane.

Una spiegazione di questa assenza risiede nel continuo predominio di paradigmi aristotelici, machiavelliani, straussiani e skinneriani che riducono la cittadinanza alla detenzione di un ufficio pubblico e all’esecuzione di pubbliche funzioni. Questi paradigmi sono totalmente maschilisti e fanno dell’attività politica, del pensiero e della virtù un tutt’uno con il maschio. In aggiunta, eliminano pure la necessità di considerare il problema del ‘gender’, le esperienze e le attività delle donne perché tutti questi aspetti sono relegati nella sfera privata e nello spazio domestico. Questi paradigmi maschilisti derivano da Aristotele (Politica, 1275b) che fa della capacità e dell’abilità di partecipare alla deliberativa e giudiziale amministrazione della polis il tratto saliente della cittadinanza. La cittadinanza può sì variare in accordo al regime politico, cioè se questo sia una democrazia o una oligarchia, ma è una regola invariabile che le donne non possano essere cittadine nel senso aristotelico del termine, perché è nella natura dell’uomo il comandare e in quella della donna l’obbedire (Politica, 1260a). Come Benhabib fa notare, “nell’opera di Aristotele vediamo precisamente come questa comprensione degli aspetti sociali della cittadinanza va alla pari con l’esclusiva visione dei socialmente costruiti aspetti psico-sessuali della cittadinanza. Anche se il tipo di regime determina chi sia cittadino/a, solo alcune persone, secondo Aristotele, sono state dotate dalla natura per esercitare le virtù della cittadinanza. Gli altri sono esclusi. Schiavi, donne, non-greci non solo sono esclusi dai privilegi statutari della cittadinanza ma la loro esclusione è vista come razionale perché questi individui non sono ritenuti possedere le virtù della mente, del corpo e del carattere necessarie all’esercizio della cittadinanza” (Benhabib 2002, p. 163).

La monumentale Storia della filosofia rinascimentale, edita da Schmitt e da Skinner e pubblicata nel 1988, non solo omette ogni riferimento al ‘gender’ ma anche alle donne, con una singola eccezione: la nota n. 23 a p. 306, che rimanda allo studio di Maclean (1980) sul concetto di donna nel Rinascimento. Di recente, quando Skinner ha ripubblicato con qualche revisione il suo saggio sulla filosofia politica del Rinascimento, apparso nel già citato volume, ha aggiunto un nuovo paragrafo in cui, seguendo la storica americana Joan Kelly, che asserisce che le donne non condivisero le opportunità di autorealizzarsi creativamente e di autoesprimersi che la cultura urbana rinascimentale offriva agli uomini, si chiede: “se virtus è l’eponima qualità del vir, l’uomo veramente virile, che cosa accade alle donne in questo schema morale di cose” (Skinner 2002, p. 125)? Per natura, le donne sono escluse dalla partecipazione alla vita politica e sono relegate nel

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mondo sotterraneo dello spazio negativo, perché, dice Skinner, “dato che la virtus è immaginata dagli umanisti non solo come una qualità specificatamente maschile ma anche come l’indispensabile mezzo per ottenere gloria pubblica e fama tra i postumi, ... le donne quasi per definizione sono escluse dalla partecipazione alla vita politica e pubblica” (p. 126). Skinner riconosce che, dopotutto, alcune donne, almeno come scrittrici e governanti, conquistarono fama e riconosce pure che l’immaginazione degli umanisti non concedeva spazio a metà dell’umanità. Ma questo riconoscimento non va oltre un tardo cenno di assenso alla correttezza politica. Ammetto che sarebbe alquanto ingiusto rimproverare Skinner, dichiaratamente storicista, per aver omesso le donne, il femminismo e il ‘gender’ dalle molte e importanti pubblicazioni che ha dedicato al pensiero politico rinascimentale. Nondimeno, credo che sia ragionevole criticare Skinner, per la sua incessante e acritica accettazione dell’esclusione delle donne dall’attività politica nella sua lettura della maschiocentrica mappa della vita politica disegnata dagli umanisti.

Sebbene non sia indelebile, lo stampo maschilista-Cambrigense sulla rappresentazione del politico e della cittadinanza nell’Italia tardo medievale e rinascimentale rimane influente. Canning (1987), nel suo ammirato studio sul pensiero politico del giurista perugino Baldo degli Ubaldi ha intitolato il capitolo sulla cittadinanza “Appartenenza alla comunità cittadina: Uomo politico e cittadino” e nella sua monografia sulla storia del pensiero politico medievale ha riciclato questa formulazione (1996). Al centro della concezione baldesca della cittadinanza sta quanto Canning chiama “l’uomo politico naturale” - una costruzione di provenienza aristotelica. Accettando acriticamente l’assunzione della cittadinanza aristotelico-naturale-maschilista che egli attribuisce a Baldo, Canning impiega costantemente il pronome maschile “lui” e il termine “uomo-maschio” nel tradurre civis che appare nei commentari e nei consulti di Baldo. Questa tattica traduttiva produce una distorta comprensione del notevole contributo apportato da Baldo allo sviluppo della dottrina della cittadinanza, perché quando questo giurista parla di cittadini (cives) e di cittadinanza (civilitas) in genere, indubbiamente include anche le donne cittadine in queste comprensive categorie. A mio parere, nel suo approccio alla cittadinanza, Baldo era meno sessista di quanto Canning lasci intendere. In altra sede ho criticato Canning per non aver preso seriamente in considerazione lo stato delle donne come cittadine e non occorre ora ritornare su questo argomento (Kirshner 1999).

III. Con qualche rara eccezione (Guerra Medici, 1996a, 1996b), nemmeno gli storici italiani del diritto hanno prestato molta attenzione al tema delle donne come cittadine. Tra le diverse ragioni di questa riflessa omissione vorrei porne in evidenza due, che mi sembrano prioritarie e correlate. Primo, dati gli assunti intellettuali e la cultura accademica degli storici del diritto comune (una materia eminentemente dedicata all’esegesi dogmatica di testi giuridici), non occorre trattenere il fiato aspettando la comparsa di un scuola di storici del diritto che siano paladini di un approccio al diritto privato che ha per suo oggetto il ‘gender’, lasciando stare quello pubblico, che è il territorio che ospita la storia della cittadinanza. Questo è un peccato, perché i giuristi medievali erano coscientemente interessati al ‘gender’ quando delineavano i criteri per l’appartenenza alla comunità politica e le principali prerogative di questa appartenenza. Inoltre, i loro testi sono saturi di analisi che hanno per oggetto il ‘gender’.

Secondo, gli storici del diritto, non dissimilmente dagli storici del pensiero politico medievale e rinascimentale, anziché interrogare i giuristi stessi, riportano semplicemente i clichés misogini usati per giustificare le barriere formali erette a prevenire che le donne funzionassero come pubblici ufficiali e che detenessero pubblica autorità. Il più importante cliché deriva dal Corpus

iuris di Giustiniano e dal diritto canonico. La lex Feminae (Digesto 50. 17. 2) dichiara

incondizionatamente che “le donne sono escluse da tutti gli uffici pubblici e civili e, di conseguenza, non possono essere giudici, assumere una magistratura, iniziare una causa, intercedere in favore di

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altri o esercitare la funzione di procuratore”. Le donne erano paragonate ai minori, che, per non avere ancora ottenuto la maggiore età (impubes), erano esclusi da tutti gli uffici civili. Basti dire che, nelle società gerarchiche sia del Medioevo che del Rinascimento, la dimostrazione di obbedienza di un subordinato al suo legittimo superiore era necessariamente e universalmente considerata come un atto di virtù.

Mentre le donne dell’aristocrazia potevano tenere un certo tipo di feudi, erano escluse dal tenerne altri. Con ragione, il grande giurista perugino Baldo degli Ubaldi (1327-1400) spiega che le donne non hanno la forza di portare armi, e in nome dell’onore non devono mescolarsi con uomini, specialmente se questi sono uomini d’onore. Poiché le donne sono creature alterocentriche e, di conseguenza, sono emozionalmente e mentalmente incapaci a mantenere un segreto, mancano della capacità di dare consiglio in materia di politica (Danusso 1992, pp. 183-185). Citando sant’Ambrogio come autorità, il Decretum di Graziano (C.33 q.5 c.17, Mulierem) stabilisce che una donna rimane soggetta al potere (dominium) del marito ed è priva di autorità (auctoritas). Questo cliché era usato per giustificare l’esclusione delle donne dal potere gerarchico, giurisdizionale e sacramentale nella chiesa e, per analogia, a giustificare la loro esclusione da posizioni civili e pubbliche nel mondo laico.

IV. L’approccio che mi trovo a praticare e che trovo produttivo è interdisciplinare e combina la storia socio-istituzionale con quella legale. L’approccio socio-legale rigetta l’ingenua assunzione che il diritto stabilisca confini sulla carta, facili da aggirare, e che sono irrilevanti per la prassi sociale. Mette invece a fuoco il diritto come discorso attivo e performativo che simultaneamente costruisce e cancella le identità, incoraggia l’altruismo e l’interesse personale, genera consenso e opposizione, e universalizza e naturalizza prassi sociali e valori culturali. Tratta uomini e donne come attori strategicamente competenti. Si oppone alla tendenza di restringere la cittadinanza alla detenzione di un ufficio e all’appartenenza a corpi legislativi e esecutivi, particolarmente nel Medioevo e nel Rinascimento dove la riproduzione della famiglia, reti sociali e modelli di detenzione della proprietà - tutti settori in cui le donne svolgono un ruolo essenziale e dinamico - sono elementi cruciali per la distribuzione del potere e per la formazione di identità politiche. Non ultimo, come Costa ha recentemente mostrato, la cittadinanza comprende un alto grado di soggettività in cui singoli cittadini, maschi e femmine, stanno costantemente rappresentando se stessi e definendo la loro posizione in un data comunità e in relazione uno all’altro (Costa 2002). Lasciatemi ritornare al tema che gli organizzatori di questo convegno mi hanno chiesto di affrontare: l’impatto di un’analisi imperniata sul ‘gender’ negli studi sulla cittadinanza come venne praticata e teorizzata nel tardo Medioevo e nel Rinascimento. Come vi potrete facilmente immaginare dalla mia precedente valutazione negativa, in quest’area gli studi imperniati sul ‘gender’ sono scarsi e anemici in paragone al ruolo che questo concetto svolge nella storia della letteratura, nella storia dell’arte e nella storia sociale. Ci sono, comunque, diversi contributi che hanno introdotto un conscio legame tra ‘gender’ e cittadinanza nelle città-stato e che offrono nuove prospettive per la ricerca.

Nel suo saggio “Sfera pubblica e privata: Il posto della donna nella società del comune medievale” Guerra-Medici, accentuando l’esclusione delle donne dalla vita civile di centri urbani provvisti di istituzioni relativamente complesse, presenta un quadro a tinte fosche. In questo quadro, le donne non prestano giuramento, non partecipano ad assemblee pubbliche e, in genere, sono escluse dall’accesso agli uffici pubblici. Ma Guerra Medici fa anche notare che nei centri rurali c’erano già maggiori opportunità di partecipazione delle donne alla vita collettiva (Guerra Medici 1996a, pp. 13-28). È istruttivo paragonare il fosco ritratto del paesaggio urbano medievale presentato da Guerra-Medici con la rappresentazione proposta da Kittell delle eterosociali Fiandre, dove “le donne, agendo in proprio, partecipano nella pubblica arena non solo come membri di un uditorio

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la cui presenza conferisce validità ad atti pubblici ma anche come esecutrici le cui presentazioni di suppliche orali formano e informano la società fiamminga” (Kittell 1998, p. 74).

Howell nel suo saggio su ‘gender’ e cittadinanza in cinque città dell’Europa del Nord (Bruges, Lille, Francoforte, Leiden e Colonia) osserva che nelle città tardo medievali le donne vengono a perdere il loro ruolo di partecipazione al governo - un ruolo che potevano svolgere grazie alla loro appartenenza a corporazioni gravitanti intorno alla famiglia. Stando a Howell, le città del Nord producono una nuova e univoca definizione dello spazio politico. In questa ridefinizione dello spazio l’autorità politica è riservata a singoli maschi, anziché alle famiglie. In altri termini, nel tardo medioevo l’eclisse della famiglia e del clan da parte di gruppi o di corporazioni destina all’oblio l’attività pubblica delle donne che dipendeva dalle connessioni familiari (Howell 1988). Pur riconoscendo che nella Germania del Rinascimento le donne erano totalmente escluse dai governi municipali, Weisner (1986) ha mostrato che la moglie spesso espletava il lavoro del marito, che poteva essere quello di un ufficiale minore (ad esempio, di gabelliere e di guardiano delle porte), e che un certo numero di donne esercitavano un ufficio in proprio - ad esempio, come ispettrici, pesatrici al mercato municipale e curatrici di istituzioni di beneficenza. In un recente studio, Studer (2002) ha mosso alcune obiezioni al saggio di Howell per essere ‘modernista (present-minded)’, proprio per aver voluto legare la funzionalità e il valore della cittadinanza delle donne alla partecipazione al governo della città e per avere presentato prove non convincenti a suffragio della tesi proposta. In una rigorosa analisi dei registri dei nuovi cittadini (Neubürgerbücher) tenuti da 43 città in territorio tedesco e che si estendono dal 1288 al 1550, Studer mostra che più di 2, 000 donne, non sposate e vedove, acquistarono la cittadinanza. Molte di queste nuove cittadine erano delle autonome (selbständige) artigiane che esercitavano professioni nell’ambito dell’industria tessile e il cui stato civile non dipendeva dalle loro famiglie, in contrasto a quanto asserito da Howell. La tesi di Howell che le donne cittadine nel tardo medioevo partecipavano con i loro colleghi maschi all’attività delle corporazioni viene corretta. Inoltre, secondo Studer, Howell erra nel concludere che la forte presenza femminile nelle arti del Nord comincia a declinare con la fine del quattordicesimo secolo. Il declino della presenza delle donne nelle corporazioni e la conseguente erosione del loro stato civile incomincia nel primo periodo dell’età moderna - cioè, dopo il 1500.

Non dimentichiamo che la concezione, secondo cui la cittadinanza nelle città medievali italiane e nelle città-stato era fondata sulla distinzione tra i sessi, deriva dal diritto romano. Di conseguenza, figli e figlie, se nati legittimamente, acquistano la cittadinanza del luogo d’origine (origo) del pater

familias. Sebbene i figli gemelli di Baldo degli Ubaldi siano nati a Firenze, ove il padre insegnava al

locale Studio, non divennero cittadini della città dell’Arno in virtù della loro nascita a Firenze, ma della città di origo del padre, Perugia. Notate l’incrollabile principio per cui la cittadinanza si trasmette per linea maschile. I figli non acquistano la cittadinanza della madre - questa viene trasmessa ai soli figli nati fuori del matrimonio. Mentre la cittadinanza di una figlia legittima viene presa dal padre, questa non viene trasmessa ai figli della figlia, eccetto che in caso di figli illegittimi (Kirshner, 1973).

Ho sottolineato che in Italia le donne acquistano un’autonoma cittadinanza con capacità legali uguali a quelle dei maschi, inclusa la capacità di trasmettere la cittadinanza ai figli (siano questi legittimi, illegittimi o adottivi), solo molto tardi, nel 1975. Prima di questa data, la cittadinanza della donna derivava dal padre e mutava se la donna avesse sposato uno straniero. La mia ricerca sulla mulier alibi nupta, cioè sul cambiamento di stato civile delle donne sposate a stranieri, diverrà una monografia. In questo studio mi propongo di pubblicare una cinquantina di consilia, o opinioni legali, legati a questo concreto tema che spaziano dal 1250 al 1550. Nei due studi già pubblicati ho posto in evidenza gli effetti dell’unipersonalità delle coppie di sposi sullo stato civile della donna, le contraddizioni che derivano dalla perdita della cittadinanza subita dalla donna a

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causa del matrimonio con uno straniero e la sua assunzione della cittadinanza del marito.

Bellavitis, nel suo abstract presentato a questo convegno e ricco di suggerimenti, pone il quesito se la cittadinanza si acquisti tramite il matrimonio, con una “cittadina”. Questa domanda merita un approfondimento, “se non altro perché ripropone la questione dell’identità della ‘cittadina’: che cosa vuol dire ‘sposare una cittadina’? Si tratta di una donna che gode del privilegio della cittadinanza, come sembra essere il caso di Amsterdam, o di una figlia di un cittadino o, ancora, semplicemente di una nativa o di una residente che viene definita ‘cittadina’ solo nel momento in cui il marito deve presentare la propria richiesta di privilegio alle autorità (e questa è l’impressione che si ricava dall’esame delle fonti veneziane)?” È vero che nel 1407 e nel tentativo di aumentare la popolazione dopo il forte calo causato dalla peste e da una protratta guerra, Venezia invita stranieri maschi a divenire cives civitatis Venetiarum de intus sposando delle native. Da quanto conosco, la legislazione veneziana non può essere intesa nel senso che il legislatore intenda che un qualsiasi straniero che sposi una veneziana sia per diritto intitolato alla cittadinanza della moglie - un privilegio questo che poteva essere conferito a delle singole persone da un atto del governo. In altri termini, la cittadinanza delle veneziane native non è mai trasferibile al marito straniero in virtù del mero matrimonio.

Sono d’accordo con Bellavitis sul fatto che a Venezia, Lucca, Roma, Siracusa, Palermo, Napoli e altrove, la ‘gendered policy’ che offre la cittadinanza a uomini (solitamente mercanti) che sposano donne locali merita di essere studiata (Kirshner, 1995). Nella mia ricerca ho messo in primo piano la competenza strategica delle donne cittadine nel perseguire i loro scopi in quello che, apparentemente, sembra un rigido sistema di regole che lascia poco spazio per manovrare. Ho posto in evidenza la lunga durata del tema della mulier alibi nupta, a dispetto dei profondi mutamenti socioeconomici occorsi - mutamenti per i quali non ho ancora elaborato una soddisfacente spiegazione. Sono riluttante ad attribuire la relativa assenza di mutamenti al deus ex

machina degli imperativi culturali o del ‘gender’ (Kirshner, 1999).

Ricchi di suggerimenti sono pure gli studi di Stanley Chojnacki (1998, 2000) sul ‘gender’ e lo Stato veneziano, in particolare il suo saggio sul ruolo della patrizia-madre e della ricchezza nell’avvantaggiare la posizione sociale e la carriera politica dei figli. Sono d’accordo con la tesi di Chojnacki che la ricchezza delle donne, nella forma della dote, ha un profondo impatto nel formare le dinastie del patriziato e la loro articolazione nella vita civile. Gli stessi risultati si possono ben applicare ad altri luoghi.

V. In questa sezione conclusiva vorrei incoraggiare gli storici ad intraprendere, per meglio comprendere quanto la cittadinanza nell’Italia medievale sia legata al ‘gender’, ricerche interdisciplinari e comparative. L’intersezione tra cittadinanza e ‘gender’ può essere osservata in una miriade di situazioni che non coincidono necessariamente con la detenzione di una carica o ufficio politico. Per brevità, presento solo tre esempi.

Le pacificazioni tra famiglie, fazioni e città in lotta tra loro sono il primo esempio. Un caso tra i tanti che mi è capitato di incontrare. Nel 1306, il legato papale Guglielmo Durante, il giovane, sceglie proprio il matrimonio come mezzo per concludere una pax firma et perpetua amicitia et

concordia tra la città di Camerino e i comuni di San Severino, Fabriano e Matelica (tutti situati

nello Stato della Chiesa) in lotta tra di loro. Minacciando scomuniche, interdetti e multe salate, ordina agli abitanti di Camerino di far sposare quaranta native di diverso stato sociale con gli avversari: dieci con gli uomini di San Severino, altre dieci con quelli di Fabriano e le rimanenti venti con quelli di Matelica. In base al matrimonio, le donne sono da considerarsi come abitanti (castellani) di quei comuni e i detti comuni sono da considerarsi come se fossero il loro luogo di origine. In cambio, quaranta donne dei tre comuni devono diventare mogli in Camerino, dove devono essere considerate come ‘cittadine della città’. Non è noto se questo scambio diretto di

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donne tra dieci uomini di quattro diverse comunità - un’alleanza simmetrica, nel linguaggio di Lévi-Strauss - ebbe luogo o se le future spose, come fecero le figlie di Danao, rifiutarono il piano proposto da Durante (per il testo del decreto di Durante, vedi Schutte, 1909, p. 30). Sta di fatto che c’è un ricco materiale d’archivio ancora da esplorare sulle pacificazioni imperniate sul ‘gender’ Il bando è un’altro esempio ricco di possibilità per una ricerca centrata sul ‘gender’. Ad eccezione della ricerca di Susannah Baxendale (1991) sugli Alberti di Firenze, gran parte degli studi compiuti sull’esilio hanno prestato poca attenzione al ‘gender’ che, in ogni modo, è un fattore determinante nel bando. In base al diritto comune, la moglie e i figli dell’esiliato sono normalmente obbligati a seguirlo nell’esilio. Se il marito è condannato all’esilio perpetuo, alla moglie è vietato il ritorno nella città da cui il marito è stato esiliato, anche se questa è cittadina della medesima città. Nel corso del quattordicesimo secolo questa dottrina cambia e alla moglie viene permesso di ritornare nella città da cui il marito venne esiliato, almeno dopo la morte di quest’ultimo. Viene anche permesso alle mogli degli esiliati di rimanere in città per prendersi cura degli affari di famiglia. Stando alle norme del diritto comune e alla legislazione municipale, le mogli dei banditi potevano richiedere, e di fatto lo fecero con successo, ai governanti cittadini la restituzione della propria dote usando i beni appartenenti, ma confiscati, al marito esiliato. Il bando degli Alberti da Firenze, scrive Baxendale, “offre un’occasione per osservare le donne degli Alberti nel loro attivo contributo al mantenimento della famiglia, sia sotto l’aspetto pratico che dinastico. Il benessere dei maschi fuori Firenze non poteva comperare ciò di cui che le famiglie necessitavano: è la presenza fisica delle donne in Firenze che conta al momento di proteggere gli interessi familiari” (p. 751).

Fino a questo momento gli esempi da me proposti hanno messo a fuoco le relazioni tra uomini e donne. Il mio ultimo esempio guarda alla relazione tra padri e figli. Incominciamo con una domanda: i figli come esercitano le loro responsabilità civili sotto il regime della perdurante patria

potestas? Nel repertorio delle istituzioni dello ius commune inerenti la famiglia nessuna è più

importante della patria potestas: l’indivisibile, inalienabile e perpetua autorità esercitata dal pater

familias su figli/e e discendenti diretti e legittimi in linea mascolina - in genere, si tratta dei figli e

dei figli dei figli. Le capacità patrimoniali dei figli sottoposti alla patria potestas sono ristrette. Un contratto tra un figlio in potestate e terzi è invalido senza il consenso del padre. Un figlio in

potestate non può fare testamento. Il pater familias ha il diritto di amministrare i doni e i legati

che i figli ricevono dalle loro madri, da parenti e da altre persone. Qualsiasi profitto che il figlio accumula con il proprio lavoro e usando queste risorse (bona adventitia) appartiene al padre. Ma il pater familias può trattenere metà dei profitti se il capitale e i beni sono bona profectitia (Fayer 1994, pp. 123-289). C’è un’area, largamente inesplorata, in cui un figlio può disporre di propria volontà e con una relativa libertà. Un figlio per essere abile agli uffici non necessita del consenso paterno, questo perché lo ius commune tratta padri e figli aventi un ufficio come cittadini. Nel nostro periodo, è vero che la maggioranza degli uomini che contrae matrimonio (in media tra i venti e i trent’anni) sono già emancipati a causa della morte del padre. Nondimeno, sarebbe errato, almeno per la maggioranza delle regioni dove si segue il diritto comune, inferire che da queste mitiganti circostanze la patria potestas ha solo conseguenze marginali per le famiglie della realtà e i loro membri. Molta più ricerca è necessaria sulla diade padre-figlio.

Per concludere, ho indicato alcuni degli ostacoli intellettuali che impediscono la ricerca sulla ‘gendered nature’ della cittadinanza tardomedievale e indicato ciò che credo siano alcune vie produttive di ricerca storicistica e politicamente impegnata che possono essere imboccate per incominciare un progetto di revisione della narrativa di una cittadinanza centrata essenzialmente sui maschi e che è profondamente radicata nella nostra coscienza. Oggi e in futuro, la nostra capacità di creare una cittadinanza più inclusiva - in particolare in relazione allo status e prassi, e diritti e obbligazioni - credo dipenda in parte da una più ampia e profonda comprensione della prassi centrata sul ‘gender’ e dei fondamenti concettuali della cittadinanza nel passato.

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