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Guarda Democrazia e diritti nelle società multiculturali: verso una "democrazia costituzionale multiculturale"

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Scienza & Politica, 40, 2009

La tesi che sarà esposta nel presente saggio sostiene che la realtà del multiculturalismo può mutare radicalmente il volto delle nostre de-mocrazie costituzionali.

Saranno pertanto sviluppate alcune considerazioni teorico-politi-che sul problema della democrazia, dei diritti e del multiculturalismo per enunciare i lineamenti di una “democrazia costituzionale multi-culturale” e per ricavarne poi precise indicazioni in merito alle poli-tiche del diritto necessarie nelle società multiculturali.

1. Alla fine del secolo XVIII si formarono i modelli di democra-zia che ancora oggi costituiscono i termini di riferimento per una riflessione sul significato della democrazia come forma di governo: la democrazia costituzionale americana sul fondamento della costi-tuzione del 1787 e la democrazia legislativa francese a partire dalla Dichiarazione del 1789.

Il primo modello è incentrato sull’idea di costituzione come “leg-ge suprema” che non può essere violata dai poteri dello Stato; la se-conda è incentrata sul primato del potere legislativo e sulla sovrani-tà del legislatore in cui si esprime la “volonsovrani-tà generale”.

Questi modelli appartengono alla “storia costituzionale occiden-tale” e non possono essere esportati, come ha osservato in un volu-me recente Charles Tilly1. Inoltre occorre osservare che essa non è

società multiculturali: verso una

“democrazia costituzionale multiculturale”*

Gustavo Gozzi

* Il testo è stato presentato in occasione di una conferenza tenuta presso l’Istituto Gramsci di Bologna il 28 febbraio 2008. Viene qui riprodotto con alcune modifi-che. Questo scritto è stato successivamente ripreso in alcune parti e sviluppato nel saggio intitolato In difesa del relativismo, pubblicato nella rivista «il Mulino». In par-ticolare, il paragrafo 5 è stato parzialmente riprodotto nel saggio In difesa del relati-vismo.

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una forma di governo che si sia imposta universalmente: alla fine del 2002 solo il 41% della popolazione mondiale viveva in paesi li-beri e democratici2. Altri autori invece, come Amartya Sen,

attri-buiscono alla democrazia una pretesa di universalità, che non può es-sere pregiudicata dalle differenze culturali3.

La storia costituzionale occidentale dei diritti si incontra con la storia della democrazia dopo un complesso e tormentato svolgi-mento che trova la prima formulazione dei diritti soggettivi nel pen-siero di Ockham nel secolo XIV, poi in età moderna con la formu-lazione dei diritti dei popoli nella prima metà del Cinquecento. Suc-cessivamente – su questo punto il dibattito è stato particolarmente approfondito – si ebbe la fondazione religiosa dei diritti all’epoca delle guerre civili confessionali tra Cinque e Seicento e, in seguito, non essendo possibile definire quale fosse la “vera” religione si im-pose un fondamento giusnaturalistico-razionalistico dei diritti che si protrasse fino all’età delle rivoluzioni di fine Settecento.

La fondazione costituzionalistica dei diritti si ebbe negli Stati Uni-ti con i primi 10 emendamenUni-ti del 1791 e, in Europa, dopo l’età dello Stato di diritto del secolo XIX, con le prime democrazie costi-tuzionali a partire da quella austriaca del 1920.

Qual è il significato dei diritti nelle democrazie costituzionali, os-sia in forme di governo dove i diritti non sono fondati né sul dirit-to naturale, né sulla legge positiva, bensì sulla costituzione? Quesdirit-to è il primo problema teorico e politico che affrontiamo nell’analisi delle democrazie contemporanee.

Il riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali è alla ba-se delle democrazie costituzionali. Ciò significa che nessuna mag-gioranza parlamentare può disporre arbitrariamente dei diritti di li-bertà e degli altri diritti fondamentali. Giungiamo qui ai confini del-la democrazia, evidenziandone il potenziale punto di crisi. Vi è in-fatti nelle democrazie contemporanee la possibilità di un conflitto tra il principio di maggioranza, che rappresenta il principio formale, os-sia procedurale, della democrazia, e i principi sostanziali racchiusi nei diritti fondamentali4. I principi generali espressi nei diritti

ven-gono tradotti in leggi da maggioranze partitiche, ma l’interpretazio-ne dei principi attraverso i valori di una parte politica l’interpretazio-ne riduce e di-storce la portata con il rischio di negarne il carattere universale.

volesse promuovere la democratizzazione, occorrerebbe «resistere alla tentazione di cominciare redigendo una costituzione, organizzando le elezioni e imponendo le strutture formali delle democrazie occidentali» (ivi, p. 349).

2 Ivi, p. 338.

3 A. SEN, La democrazia degli altri, Milano 2004, pp. 79-80.

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Il significato dei diritti è duplice: da una parte, essi possono infatti significare il potere di disporre di un bene (per esempio i diritti pa-trimoniali) ma, dall’altra, essi possono consistere nella potestà di se-guire la propria coscienza, ossia i propri principi morali (per esem-pio i diritti alla libertà religiosa o alla libertà di pensiero). In questa seconda accezione essi sono definiti «diritti morali» da Ronald Dworkin. È un’interpretazione nella quale si riconosce facilmente una tradizione assai risalente: si pensi, per esempio, alla Lettera sul-la tolleranza (1689) di John Locke e al diritto ch’egli riconosce di seguire la propria coscienza anche contro una legge dello Stato che imponga precetti che contrastino con i nostri principi morali. È que-sto contenuto morale dei diritti, sancito dalle costituzioni e ricono-sciuto a tutti, che può essere violato dalle leggi dello Stato, in quan-to esse non sono neutrali, giacché esprimono l’interpretazione di una precisa maggioranza partitica5. (Per questo anche Dworkin, come

Locke, ammette la possibilità di non obbedire alle leggi dello Stato). Il problema è di fondamentale importanza nell’interpretazione della democrazia, in quanto riguarda il possibile conflitto tra la fon-dazione, ossia il riconoscimento costituzionale dei diritti – che è un ri-conoscimento universale – e la legge che è invece espressione della vo-lontà di una maggioranza partitica. Questo è certamente uno dei nodi della democrazia, una delle contraddizioni irrisolte della de-mocrazia come forma di governo.

Per comprendere ancor meglio il problema si può ricordare l’«espe-rimento di pensiero» che è stato formulato da Joseph Schumpeter in Capitalismo, Socialismo, Democrazia, un testo del 1942. Schumpe-ter ci invita a rispondere al quesito se sia migliore un’autocrazia il-luminata, che tolleri le minoranze, oppure una democrazia che, in base al principio di maggioranza, stabilisca di perseguitare le mino-ranze6. Si può rispondere che il quesito è privo di senso, in quanto se

una democrazia opprime le minoranze negandone i diritti, si può af-fermare che essa non sia sicuramente una democrazia.

Appare dunque evidente che l’essenza della democrazia, per ri-prendere il titolo di un saggio famoso di Hans Kelsen, non è il prin-cipio di maggioranza, bensì la garanzia dei diritti fondamentali, os-sia dei diritti umani costituzionalizzati.

Un’esemplificazione di questa prospettiva si evince dalla famosa e molto discussa sentenza del Tribunale Costituzionale Federale tede-sco del 1995 che, come è noto, consentì la rimozione del crocefisso dall’aula di una scuola pubblica bavarese, su richiesta di una coppia di genitori non cattolici, ma di orientamento steineriano.

5 R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, Bologna 1982, p. 292.

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La sentenza è rilevante per alcuni aspetti che riguardano diretta-mente l’interpretazione della democrazia:

il Tribunale ha proclamato – secondo una prospettiva fortemente innovativa – che i diritti sono a tutela delle minoranze. In breve: la leg-ge è espressione delle maggioranze; i diritti sono a tutela della mi-noranze.

Occorre inoltre distinguere – e, per questa via, entriamo nell’am-bito problematico del multiculturalismo – tra libertà positiva, che consiste nella possibilità di esporre pubblicamente i segni dell’ap-partenenza ad una confessione religiosa, e la libertà negativa che con-siste invece nella possibilità di potersi sottrarre a quelle manifesta-zioni pubbliche. Anche a livello europeo viene particolarmente tu-telata la libertà negativa di religione. In proposito e con riferimento all’art. 9 della CEDU, si può menzionare un orientamento espresso dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo, che ha affermato che questo articolo garantisce all’individuo il diritto di non essere coinvolto in attività religiose nelle quali non si riconosce7.

Infine lo Stato deve essere neutrale, ma non estraneo alla società civile, ossia deve essere in grado di esprimere una neutralità attiva che consiste nell’intervenire attivamente per assicurare condizioni di uguaglianza tra le diverse posizioni religiose, ideologiche, culturali. La riflessione sul problema dell’uguaglianza ci permette di affron-tare la questione del multiculturalismo. Qual è infatti il significato dell’uguaglianza nelle democrazie contemporanee?

Nella prospettiva del liberalismo l’uguaglianza si identificava con l’uguale trattamento da parte della legge, ma naturalmente questa concezione solo formale dell’uguaglianza comportava la conseguen-za di lasciare inalterate tutte le differenze. Al contrario la democra-zia proclama un ideale di uguaglianza sostandemocra-ziale in grado di supe-rare le differenze che siano fonte di ingiustizia (Si pensi per esempio all’art. 3 della costituzione italiana che impone di «rimuovere gli ostacoli» che, limitando l’uguaglianza, impediscano «il pieno svi-luppo della persona umana»).

Dworkin identifica questo principio di uguaglianza sostanziale con il principio del trattamento come uguali, ossia del trattamento «con la stessa considerazione e rispetto» [with equal concern and re-spect]8.

All’origine di questa interpretazione vi è una «lettura morale del-7 Commissione europea dei diritti dell’uomo, 23.10.1990, Darby c. Svezia. Il

ca-so in questione era quello di un cittadino svedese che non intendeva versare le tasse alla chiesa di Stato alla non apparteneva, in T. GROPPI, Art. 10. Libertà di pensiero,

di coscienza e di religione, in R. BIFULCO– M. CARTABIA– A. CELOTTO(edd),

L’Eu-ropa dei diritti, Bologna 2001, p. 95.

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la costituzione» [moral reading of the constitution], ossia la concezio-ne secondo la quale le costituzioni racchiudono, accanto ai principi giuridici, dei principi morali, come per esempio il divieto di censu-rare o di controllare ciò che i cittadini dicono o pubblicano. Questi principi, che sono a tutela degli individui e delle minoranze, devo-no costituire un limite insuperabile per i governi e le loro maggio-ranze. Si tratta di una concezione costituzionale della democrazia [con-stitutional conception of democracy], che respinge la «premessa mag-gioritaria» [majoritarian premise] e ritiene che «le decisioni colletti-ve debbano essere prese da istituzioni politiche, la cui struttura, com-posizione e pratiche trattino tutti i membri della comunità, come in-dividui, con la stessa considerazione e rispetto»9.

Si tratta di una prospettiva sul cui fondamento possono essere af-fermati i principi di uguaglianza e di giustizia, come mostrano nu-merose sentenze della Corte Suprema americana. Si consideri, per esempio, la sentenza Wisconsin v. Yoder (460 U.S. 205 – 1972), che ha affrontato il caso del rifiuto – dopo l’istruzione elementare di ba-se – dell’istruzione ba-secondaria obbligatoria, imposta dallo Stato del Wisconsin, da parte della comunità religiosa Old Amish e della Con-servative Amish Mennonite Church, che preferivano per i loro figli un’educazione professionale che li preparasse alla vita rurale. Con questa sentenza la Corte Suprema riconobbe che il rifiuto di un’istru-zione superiore da parte di queste comunità era fondato «su pro-fonde convinzioni religiose» e ritenne che l’obbligo imposto dallo Stato «avrebbe messo gravemente in pericolo […] il libero esercizio della fede religiosa dei convenuti» e avrebbe pertanto comportato una violazione del Primo Emendamento. La Corte affrontò poi il problema del rispetto dei diritti degli individui e delle minoranze da parte della maggioranza. Si legge infatti nella sentenza: «Non vi è alcuna prova che la maggioranza di oggi sia nel “giusto” e che gli Amish e altri come loro “sbaglino”. Un modo di vita che è strano e perfino stravagante ma che non interferisce con i diritti e gli interessi degli altri non può essere condannato perché è diverso»10.

Pertanto la Corte Suprema, appellandosi al Primo Emendamento (che garantisce il libero esercizio della religione) e al Quattordicesi-mo Emendamento (che assicura l’uguale protezione delle leggi), ri-tenne che lo Stato del Wisconsin non potesse imporre la frequenza obbligatoria della scuola secondaria alle comunità degli Amish11. 9 Ivi.

10 Wisconsin v. Yoder – 460 U.S. 205 – 1972, in J. GREENBAUM(ed), Giustizia

co-stituzionale e diritti dell’uomo negli Stati Uniti, Milano 1992, p. 276.

11 La sentenza qui commentata viene riportata come esempio della tutela dei diritti

delle minoranze rispetto alla maggioranza, ma sono certamente da condividere le ri-serve avanzate sia da W. Kymlicka che da J. Habermas, che considerano

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inaccetta-Appare così evidente che questa concezione dell’uguaglianza im-plica anche un ridefinizione del concetto di libertà, giacché emerge che la considerazione e il rispetto della diversità possono comporta-re il riconoscimento del diritto a libertà particolari, che non sono in contrasto con il diritto all’uguaglianza, ma che al contrario, come afferma Dworkin, trovano in esso il loro fondamento12. In questi

sviluppi del pensiero di Dworkin vi è sicuramente l’apertura alla pro-spettiva di un pluralismo normativo, che può costituire la forma giu-ridica di una concezione multiculturale dei diritti.

Il problema dell’uguaglianza è il problema della giustizia. Ma co-me interpretare la giustizia in una società multiculturale? Una sen-tenza della Corte suprema canadese ha formulato con chiarezza que-sto principio: «L’accettazione delle differenze è l’essenza della vera uguaglianza», e i diritti differenziati in funzione dell’appartenenza di gruppo servono per accogliere queste differenze.

Già Kelsen, nel riflettere sul problema della giustizia, osservava che «l’esigenza di trattare tutti gli uomini in modo eguale, e cioè di non tener conto di alcuna delle disuguaglianze effettivamente esi-stenti […] conduce a conseguenze assurde»13. Kelsen enunciava

co-sì il «principio di giustizia dell’ineguaglianza», precisando che «non è possibile non prendere in considerazione tutte le disuguaglianze, in ogni tipo di trattamento: di certe si deve anzi assolutamente te-ner conto»14.

Il riconoscimento giuridico delle differenze culturali è dunque il problema del multiculturalismo15e delle democrazie contemporanee.

Come ricorda Zagrebelsky, «multiculturalismo» è un termine comparso per la prima volta nel 1982 nella Carta dei diritti e delle libertà del Canada (art. 27: «patrimonio multiculturale dei Cana-desi»). Il riferimento originario era alla realtà federale canadese e ai diritti di comunità originarie. Successivamente Charles Taylor nel 1992 «ha introdotto la parola in un dibattito che investe ormai l’in-tero mondo occidentale, sotto la pressione crescente dell’emigrazio-ne da paesi lontani […] Il multiculturalismo è diventato una sfida alla convivenza tra gli esseri umani di portata globale»16. Esso

rap-presenta un fenomeno che può modificare profondamente il volto delle democrazie costituzionali.

bili i vincoli imposti da queste comunità ai loro membri circa la possibilità di fuo-riuscire dal gruppo di appartenenza.

12 R. DWORKIN, I diritti presi sul serio, cit., p. 325.

13 H. KELSEN, Il problema della giustizia (1960), Torino 1965, p. 53. 14 Ivi.

15 W. KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, Bologna 1999, p. 189. 16 G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, Roma-Bari 2007, pp. 110-111.

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2. In primo luogo, il multiculturalismo implica il riconoscimen-to dell’esistenza di diritti collettivi, che debbono essere interpretati se-condo un rapporto di complementarietà rispetto ai diritti indivi-duali. Questa è una prospettiva di grande rilievo, in quanto intro-duce – rispetto alla prevalente concezione occidentale dei diritti sog-gettivi – anche i diritti delle collettività culturali. Nel General Com-ment dell’8/04/94 della Commissione per i diritti umani delle Na-zioni Unite all’art. 27 del Patto del 1966 sui diritti civili e politici de-dicato ai diritti delle minoranze, si legge che: «sebbene i diritti pro-tetti dall’art. 27 siano diritti individuali, essi dipendono a loro vol-ta dalla capacità del gruppo di minoranza di mantenere la sua cul-tura, il suo linguaggio o religione». In breve: i diritti individuali so-no tanto più tutelati quanto più soso-no garantiti i diritti delle collet-tività.

Il multiculturalismo riconosce il pluralismo dei valori ed esclude che tutti i valori possano essere ridotti a un unico sistema. Ciò im-plica il riconoscimento dell’uguale condizione di tutte le comunità culturali esistenti nella società civile e, dunque, la conseguenza che, in questa prospettiva, non vi è più spazio per parlare di un proble-ma delle minoranze o per una proble-maggioranza che debba tollerare le minoranze. In altri termini: il multiculturalismo implica il supera-mento del principio di maggioranza17.

Questo primo punto della dottrina del multiculturalismo è di fon-damentale importanza e di difficile realizzabilità, in quanto implica il definitivo abbandono della proterva concezione della superiorità della nostra civiltà rispetto alle altre civiltà, che appare invece ben ra-dicato nella nostra tradizione occidentale del pensiero liberal-de-mocratico come, ad esempio, in alcuni classici quali Alexis de Toc-queville e John Stuart Mill.

Si consideri, per esempio, l’interpretazione tocquevilleiana della realtà del mondo musulmano all’epoca della conquista francese del-l’Algeria, che viene formulata secondo la prospettiva della superiore civiltà occidentale. Ciò emerge in particolare dalla seconda Lettre sur l’Algérie del 1837, dove Tocqueville sottolinea la differenza tra il po-polo francese «puissant et civilisé» e le popolazioni arabe che erano ai suoi occhi «à peu près barbares» e che avrebbero dovuto essere progressivamente integrate fino a fare di due razze un solo popolo. Questa trasformazione si sarebbe compiuta nel contesto di un’im-posizione alla colonia della concezione occidentale dello Stato am-ministrativo. Vi è la concezione di uno sviluppo unilineare e univo-co della civiltà che esclude alternative allo sviluppo di quella occi-dentale.

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Questa prospettiva viene sviluppata negli scritti successivi, in par-ticolare nel Travail sur l’Algérie (ottobre 1841), dove emerge la filo-sofia di Tocqueville che equipara la condizione della colonia a quel-la delquel-la «petite enfance des sociétés», alquel-la quale sono ancora inadat-te le grandi istituzioni politiche della Francia. Egli ritiene infatti che queste istituzioni possano essere introdotte solo quando le popola-zioni “barbare” dell’Algeria raggiungeranno un più elevato livello di sviluppo.

3. In secondo luogo, il riconoscimento della pluralismo culturale implica la necessità – come è stato precedentemente affermato – del pluralismo normativo, ossia di una trattamento giuridico differen-ziato a tutela della molteplicità culturale. Gli esempi che si possono fornire sono numerosi: essi esprimono il riconoscimento delle di-verse identità culturali nel quadro dell’esistente ordinamento costi-tuzionale. Sul piano nazionale si pensi ad esempio alla legge del 1999 che ha introdotto norme a tutela delle minoranze linguistiche stori-che, ammettendo nelle scuole «accanto all’uso della lingua italiana anche l’uso della lingua della minoranza per lo svolgimento delle at-tività educative» o, ancora, al decreto del Ministero dell’interno del febbraio 2002 che ha riconosciuto il calendario delle festività ebrai-che considerando giustificate le assenze scolastiebrai-che nei giorni di sa-bato e invitando le autorità competenti a tenere conto, nelle prove di concorso, dell’esigenza del riposo nel giorno del sabato18.

Si potrebbe anche ricordare la specifica normativa che mira a fa-vorire l’integrazione scolastica dei figli degli immigrati. Si può men-zionare in proposito il Testo unico delle disposizioni concernenti la di-sciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (De-creto Legislativo 25 luglio 1998 – “Turco-Napolitano”) che riserva molta attenzione all’educazione interculturale (art. 38, non modifi-cato dalla “Bossi-Fini”) non solo prevedendo, a cura delle regioni e degli enti locali, corsi per l’apprendimento della lingua italiana a ga-ranzia del diritto allo studio, ma anche stabilendo che la comunità 18 Al fondamento di questo decreto vi è l’intesa stipulata il 27 febbraio 1987 tra

lo Stato italiano e l’Unione delle comunità ebraiche italiane. Non vi è invece un’in-tesa tra lo Stato italiano e le comunità musulmane, in quanto esse non hanno sa-puto esprimere una rappresentanza unitaria. Ciò è avvenuto solo in Spagna, in quanto la comunità musulmana è essenzialmente di origine marocchina e ha saputo esprimere una rappresentanza unitaria che ha siglato un accordo nel 1992. In base a questo accordo vengono riconosciuti gli effetti civili del matrimonio celebrato se-condo le regole del diritto coranico; è garantito l’insegnamento della religione mu-sulmana nelle scuole su richiesta delle famiglie o degli studenti; viene riconosciuta la figura dell’imam quale rappresentante della comunità; infine è riconosciuto il diritto dei musulmani di assentarsi il venerdì o in occasione di altre feste del ca-lendario religioso.

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scolastica deve accogliere le differenze culturali «come valore da por-re a fondamento del rispetto por-reciproco, dello scambio tra cultupor-re e della tolleranza» e promovendo la realizzazione di «attività intercul-turali comuni».

In proposito è importante sottolineare il rilievo di una prospetti-va interculturale, che consenta di mettere in luce il diverso rappor-to con l’istruzione scolastica che si può riscontrare nelle differenti culture. Si può così facilmente osservare che, in alcune tradizioni culturali come, ad esempio, in quella senegalese, si giudica positiva-mente e si considera intelligente il bambino che tace e ascolta ri-spetto a quello che interviene e pone domande, considerato invece negativamente. Nella nostra cultura è vero l’esatto opposto19. Una

prospettiva interculturale ci può permettere pertanto di relativizzare i nostri criteri valutativi.

Il nostro ordinamento giuridico consente dunque di applicare i principi costituzionali (per esempio gli artt. 6 sulle minoranze lin-guistiche e 8 sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica) adat-tandoli al pluralismo culturale. È, come osserva Habermas, il dop-pio livello dell’integrazione: le norme giuridiche assicurano il rico-noscimento delle diverse identità culturali (integrazione etico-cultu-rale) nel quadro dell’accettazione dei principi costituzionali (inte-grazione politico-costituzionale). Si profila, come scrive Zagrebelsky, una nuova epoca del diritto20.

4. In terzo luogo, occorre considerare il rapporto tra diritti collet-tivi e diritti soggetcollet-tivi. Fino a che punto è lecito tutelare le identità culturali diverse dalla nostra? Dobbiamo accettare pratiche e con-suetudini che contrastino radicalmente con i principi che sono al fondamento delle nostre società occidentali? Ciò vale principalmente per le comunità musulmane che sempre più numerose fanno parte delle nostre società civili occidentali.

Una risposta convincente da parte di un importante teorico del multiculturalismo, come Will Kymlicka, sostiene che, secondo la nostra tradizione liberal-democratica, dovremmo garantire ai grup-pi culturali di minoranza delle tutele esterne, ma non fino al punto da consentire delle restrizioni interne, ossia delle violazioni all’eser-cizio dei diritti individuali. È una posizione apparentemente chiara, ma essa racchiude, in realtà, contraddizioni e ambiguità, che ri-guardano alcuni concetti fondamentali come quello di popolo e quello di costituzione.

Consideriamo per esempio la legge del 9 gennaio 2006 concer-19 Cfr. M.R. MORO, Bambini immigrati in cerca di aiuto, Torino 2005.

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nente il «divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile», che vengono punite sulla base dell’introduzione di un nuovo speci-fico articolo del codice penale, l’art. 583-bis. Si potrebbe affermare che questa legge esemplifichi i limiti al pluralismo normativo, in quanto esclude pratiche che si rivelano delle violazioni dei diritti in-dividuali. La legge richiama infatti gli artt. 2 (sui diritti inviolabili dell’uomo), 3 (sulla rimozione degli ostacoli che limitino la libertà e l’uguaglianza) e 32 (sulla tutela della salute). In realtà esiste già un art. del codice penale – l’art. 583 – che punisce lesioni personali «gravi» e «gravissime» con la reclusione da 6 a 12 anni. Ma il nuovo articolo, 583-bis, aumenta la pena di un terzo «quando le pratiche […] sono commesse a danno di un minore». Poiché le pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili riguardano essenzial-mente minori, si può affermare che questa legge finisca in realtà con il punire la diversità culturale ponendola come aggravante e non co-me attenuante.

Ciò appare evidente se confrontiamo questa soluzione con altre situazioni del passato, come il cosiddetto “delitto d’onore” (le di-sposizioni relative al delitto d’onore sono state abrogate solo nel 1981), dove la tradizione culturale veniva addotta come attenuante o addirittura come giustificazione21. Nel caso in questione invece la

diversità è diventata un’aggravante da stigmatizzare e sanzionare in maniera molto grave.

La vie da seguire sono piuttosto, oltre a quella della repressione di ciò che il nostro codice penale configura come il reato della lesione gravissima contro la persona, anche quella di un paziente confron-to ed educazione interculturale. Queste considerazioni ci inducono pertanto a tentare di definire il limite all’esercizio di un diritto con-nesso all’affermazione dell’identità culturale in una società multi-culturale.

Nell’importante Patto sui diritti civili e politici del 1966 è enun-ciato chiaramente, all’art. 18, il diritto all’esercizio della libertà di religione: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di co-scienza e di religione. Tale diritto include la libertà di avere o di adot-tare una religione o un credo di sua scelta, nonché la libertà di ma-nifestare, individualmente o in comune con altri, e sia in pubblico sia in privato, la propria religione o il proprio credo nel culto e nel-la osservanza dei riti, nelle pratiche e nell’insegnamento»22.

L’artico-21 Ringrazio la Dr.ssa Francesca Faenza per avermi fornito queste importanti

con-siderazioni.

22 Cfr. Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, in E.

VITTA- V. GREMENTIERI(edd), Codice degli atti internazionali sui diritti dell’uomo,

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lo indica tuttavia anche i limiti all’esercizio di questo diritto, giacché stabilisce nel secondo comma: «La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere sottoposta unicamente alle restrizioni previste dalla legge e che siano necessarie per la tutela del-la sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico e deldel-la sanità pubblica, della morale pubblica ecc.».

In un commento all’art. 18 l’Alta Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani ha fornito un’interpretazione di questo articolo, che può essere ritenuta particolarmente adeguata per com-prendere l’odierno significato del diritto alla libertà religiosa e, più in generale, dei diritti culturali nelle società multiculturali. In pri-mo luogo, la Commissione precisa: «L’art. 18 protegge le credenze teistiche, non-teistiche e ateistiche, così come il diritto di non pro-fessare alcuna religione o alcun credo»23. La libertà religiosa deve

dunque essere estesa fino a tutelare il diritto a professare l’ateismo o il diritto a non professare alcuna fede religiosa o alcun credo ideo-logico. La Commissione affronta poi anche le espressioni esteriori della libertà religiosa, ossia le forme di manifestazione del culto. Esse comprendono il diritto «di costruire luoghi di culto, l’uso di formule e oggetti rituali […] l’osservanza di festività e giorni di ri-poso». Questo diritto può estendersi fino a comprendere la garan-zia del rispetto di costumi come «l’osservanza di regole alimentari, l’indossare abiti distintivi o copricapo, la partecipazione a rituali associati a certe fasi della vita ecc.». Queste considerazioni ci con-sentono di comprendere quale debba essere il ruolo dello Stato ri-spetto alla pluralità delle confessioni religiose: non solo una neu-tralità indifferente, ma un intervento attivo volto a garantire, at-traverso norme speciali, la manifestazione delle diverse forme di fe-de e di culto.

Infine, coerentemente con queste premesse, la Commissione af-fronta il problema dei limiti. Come interpretarli in una società com-plessa multiculturale, strutturata secondo rapporto di maggioranza e minoranza? La risposta fornita dalla Commissione enuncia un cri-terio di portata sicuramente generale.

La Commissione precisa infatti a proposito del concetto di mora-le pubblica: «il concetto di moramora-le deriva da molte tradizioni socia-li, filosofiche e religiose: di conseguenza le limitazioni alla libertà di manifestare una religione o un credo allo scopo di proteggere la morale non possono basarsi su principi che derivino esclusivamente da una so-la tradizione». È un criterio di estremo rilievo che esclude che le tra-23 United Nations High Commissioner for Human Rights, The Right to Freedom

of Thought, Conscience and Religion (Article 18): 30/07/93. General comment 22, p. 1.

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dizioni religiose o gli orientamenti ideologici di una maggioranza possano limitare l’esercizio della libertà religiosa delle molteplici mi-noranze confessionali presenti nelle odierne società complesse. È un criterio che può essere interpretato come criterio generale anche per l’esercizio dei diritti culturali.

Questo possibile incontro nelle società occidentali, ed europee in particolare, tra coscienza laica, coscienza religiosa e diverse tradizio-ni culturali potrebbe riverberarsi anche a livello internazionale of-frendo una possibile via d’uscita all’odierno lacerante “scontro di ci-viltà”.

Ma al fondo del problema del multiculturalismo vi è un nodo an-cora da sciogliere, in quanto non anan-cora adeguatamente considera-to, né appropriatamente analizzato e sviluppato. Come ha ben os-servato Seyla Benhabib, in I diritti degli altri, il problema irrisolto al fondo del multiculturalismo è il concetto di popolo, che viene as-sunto acriticamente come omogeneo culturalmente. La cultura de-ve essere al contrario concepita storicamente come una realtà pro-cessuale e in continuo divenire e mutamento (si tratta di una tesi che Benhabib condivide con Zygmunt Baumann).

Ciò significa che il problema fondamentale del multiculturalismo, ossia il nodo dell’integrazione, non potrà essere risolto fino a quan-do non si sottoporrà a critica il concetto di popolo omogeneo cul-turalmente, che è all’origine delle norme giuridiche culturalmente discriminanti o del divieto, in Germania, ad un’insegnante afgana, di cittadinanza tedesca, di indossare il velo islamico in una scuola pubblica, in quanto si trattava di una modalità identitaria che è sta-ta considerasta-ta estranea alla tradizione del popolo tedesco.

In breve: nella storia costituzionale occidentale si sono separati Stato e chiese, ma non si è ancora separato lo Stato dall’etnia.

5. Queste trasformazioni delle democrazie costituzionali indotte dal multiculturalismo (il riconoscimento dei diritti collettivi e il su-peramento del principio di maggioranza, il pluralismo normativo, la reinterpretazione del concetto di popolo) dovrebbero inoltre risol-versi in una riconsiderazione dei principi del costituzionalismo occi-dentale. Un teorico del multiculturalismo, James Tully, ha osservato che l’universalità del linguaggio del costituzionalismo soffoca in re-altà le differenze culturali. Egli propone invece una «teoria interturale della costituzione», in base alla considerazione che ogni cul-tura si forma in un processo continuo di interscambio e commi-stione con le altre culture.

In questa prospettiva, gli individui acconsentono alla forma asso-ciativa delineata dalla costituzione in virtù del riconoscimento co-stituzionale della loro sostanziale diversità culturale. In altri

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termi-ni: la costituzione deve essere la «forma di compromesso» della di-versità culturale24.

In breve il linguaggio della costituzione non dovrebbe escludere la di-versità culturale. Al contrario: 1) il concetto di sovranità popolare rappresenta il popolo sovrano come culturalmente omogeneo25e 2)

la costituzione, politicamente e giuridicamente uniforme, vale per cittadini formalmente uguali che sono trattati in modo identico, piuttosto che in modo equo26.

Occorrerebbe invece pensare ad una sovranità genuinamente inter-culturale e le costituzioni dovrebbero basarsi sulla sovranità di citta-dini culturalmente diversi, piuttosto che su astratte falsificazioni di in-dividui, comunità e nazioni culturalmente omogenee27. Si profila

così la possibilità di un nuovo volto delle nostre democrazie, che po-trebbero essere definite democrazie costituzionali multiculturali.

Indubbiamente la nostra costituzione racchiude alcuni principi compatibili con il multiculturalismo, per esempio, come si è osser-vato precedentemente, gli artt. 6 sulle minoranze linguistiche e 8 sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, ma dovrebbero es-sere riconosciuti anche i diritti culturali, che possono eses-sere definiti come il diritto all’espressione dell’identità culturale nei limiti dell’ordi-ne pubblico e della morale pubblica28. I diritti culturali sono diritti

individuali (Jürgen Habermas), che mirano ad affermare un’egua-glianza sostanziale degli individui rispetto alle leggi generali proprie della concezione liberale dello Stato contemporaneo. Per esempio, in Gran Bretagna, il conferimento ai sikh del diritto di indossare il tur-bante invece del casco o il diritto di portare il velo conferito in Ger-mania alle donne musulmane sul posto di lavoro o alle studentesse nelle scuole, possono contribuire a superare gli effetti asimmetrici prodotti dalle leggi che, venendo imposte come “generali”, non trat-terebbero in modo equo soggetti appartenenti a diverse realtà cul-turali. I diritti culturali sono diritti soggettivi e non vanno pertanto identificati o confusi con i diritti collettivi, in quanto, in caso con-trario, si affermerebbe la concezione della cultura come titolare di di-ritti al di sopra delle istanze individuali. In breve: «I didi-ritti di un gruppo sono legittimi soltanto se si possono intendere come diritti 24 J. TULLY, Strange Multiplicity. Constitutionalism in an Age of Diversity,

Cambrid-ge 1997, p. 30. In proposito cfr. F. BELVISI, Società multiculturale, diritti,

costituzio-ne, Bologna 2000, pp. 112 ss.

25 J. TULLY, cit., p. 63. 26 Ivi, p. 66. 27 Ivi, p. 183.

28 Cfr. le analisi precedentemente sviluppate in merito al problema della libertà

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derivati – nel senso di una derivazione dai diritti culturali dei singoli membri del gruppo»29. Dovrebbero inoltre essere modificati gli artt.

16 (diritto di circolazione), 17 (diritto di riunione), 18 (diritto di as-sociazione), in quanto riservano i diritti ai soli cittadini appartenenti alla comunità nazionale etnicamente e culturalmente considerata e non a tutti gli individui, uomini e donne. Infine la concezione del-la sovranità del popolo enunciata all’art. 1 deldel-la nostra costituzione («La sovranità appartiene al popolo») dovrebbe essere interpretata non come la sovranità di un popolo culturalmente ed etnicamente omogeneo, bensì come quella di un popolo considerato nella plura-lità delle sue componenti culturali.

Questo nuovo costituzionalismo, sul fondamento del riconosci-mento del carattere multiculturale delle nostre società occidentali, dovrebbe ripensare la costituzione democratica come «una proposta di soluzioni e di coesistenze possibili, cioè come un “compromesso delle possibilità”»30, in grado di assicurare la compatibilità tra diversi

mondi di vita e sistemi di valori31.

Le nostre costituzioni, scrive G. Zagrebelsky, «devono rigenerarsi in vista di un costituzionalismo per “Stati costituzionali aperti” […] Per i costituzionalisti si tratta di dedicarsi con spirito nuovo e aper-to al tema della cittadinanza e dei diritti e doveri che ne costitui-scono il contenuto […] di riconsiderare la nozione di legge, teorizza-ta originariamente in funzione del comando sovrano che impera, divi-dendoli, sui buoni e i cattivi, oggi da ripensare soprattutto in funzione della coesistenza e della interazione tra diversi»32.

6. La riconsiderazione dei principi delle nostre democrazie costi-tuzionali potrebbe così garantire una accettabile integrazione delle numerose comunità etniche, religiose, culturali che abitano ormai le nostre società occidentali. Il risultato di questo processo di integrazio-ne sarebbe allora una democrazia che non dovrebbe più essere “esporta-ta”, ma che potrebbe diventare la valida interlocutrice di altre civiltà e culture, in quanto sarebbe il risultato dell’interazione con altre civiltà e culture.

Sono in particolare i processi di integrazione dei musulmani in Europa che possono rappresentare il modello di un dialogo tra ci-viltà. Si tratta di un incontro ancora problematico che appare tuttora esposto a rischi e incertezze. Deve trattarsi di un processo di inte-grazione e di adattamento, ossia di compatibilità con le realtà costi-29 J. HABERMAS, Tra scienza e fede, Roma-Bari 2006, p. 200.

30 G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino 1992, p. 10

31 Cfr. F. BELVISI, Società multiculturale, diritti, costituzione, cit., p. 164. 32 G. ZAGREBELSKY, La virtù del dubbio, cit., p. 126.

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tuzionali dei paesi europei piuttosto che di assimilazione. È la pro-spettiva di un euro-islam33che deriva dalla concezione dell’islam

co-me realtà aperta politicaco-mente, in quanto interpretabile in modi di-versi. È inoltre una soluzione che si oppone alla concezione di un in-sieme di società parallele, separate tra loro in base al principio etni-co34. Al contrario la visione dell’integrazione corrisponde alla realtà

di un pluralismo culturale, composto da realtà diverse culturalmen-te che coesistono sulla base del consenso sui principi della costitu-zione35.

Altri autori sottolineano invece che l’integrazione non può pre-scindere dalla necessità di formare una cultura islamica europea, che corrisponde al tentativo di dar vita a un radicamento dell’identità musulmana in Europa36. Appartengono all’identità musulmana le

due dimensioni dell’essere attivo come individuo e dell’essere parte-cipe, come essere sociale, alla vita della società civile. Ciò compor-ta, da una parte, la necessità di sviluppare la propria vita spirituale e, dall’altra, l’impegno per una maggiore giustizia e solidarietà nel-la vita sociale.

In questa prospettiva non si tratta tanto di adottare principi co-stituzionali europei, quanto piuttosto di individuare una forma eu-ropea adatta all’identità musulmana. Le organizzazioni musulmane 33 B. TIBI, Euro-Islam. L’integrazione mancata, Venezia 2003, p. 103. La nozione di

euro-islam indica un islam integrato nelle società europee, come alternativa alla co-struzione di società parallele dell’islam in Europa. In proposito cfr. anche B. TIBI, Les conditions d’un “euro-islam”, in R. Bistolfi – F. Zabbal (edd), Islams d’Europe. Inté-gration ou insertion communautaire?, Paris 1995, pp. 230 ss.

34 È necessario tuttavia precisare che l’interpretazione del multiculturalismo, come

la concezione di società separate su base etnica, non è condivisa dalla maggior par-te dei par-teorici del multiculturalismo, che lo inpar-terpretano invece come la dottrina del-la tolleranza, ossia dell’integrazione e del riconoscimento reciproco tra gruppi etni-camente o confessionalmente distinti in una società pluralistica all’interno di uno stesso territorio. Cfr. per esempio, J. RAZ, Multiculturalism: a Liberal Perspective, cit., pp. 67 ss.

35 B. TIBI, Euro-Islam, cit., p. 112. Tibi fa riferimento ai principi della democrazia,

tolleranza, diritti umani, società civile, laicismo e pluralismo religioso. In proposito J. Habermas distingue più precisamente tra un’integrazione politico-costituzionale, ossia l’accettazione delle procedure di formazione della volontà politica (che può es-sere chiesta agli immigrati), e un’integrazione etico-culturale, ossia il rispetto delle forme di vita delle diverse culture, che deve essere garantito a chi entra a far parte delle società occidentali. Cfr. J. HABERMAS, Lotte per il riconoscimento nello Stato

de-mocratico di diritto, in «Ragion Pratica», 2/1994, p. 154.

36 T. RAMADAN, Essere musulmano europeo. Studio delle fonti islamiche alla luce del

contesto europeo, Troina 2002, p. 264. Ramadan indica con chiarezza i quattro pila-stri dell’identità musulmana: 1) la fede nell’unicità di Dio; 2) la comprensione delle fonti (il Corano e la Sunna) e del contesto nel quale si vive; 3) l’educazione e la tra-smissione di ciò che è stato rivelato al Profeta; 4) infine l’azione e la partecipazione al-la vita sociale in conformità agli insegnamenti dell’Isal-lam (p. 269).

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debbono pertanto impegnarsi per individuare le forme sociali ade-guate per proteggere l’identità musulmana, consentendole di basar-si sui propri fondamenti senza dissolverbasar-si totalmente nell’ambiente europeo e senza opporsi ad esso radicalmente. Per questa via si po-trà raggiungere un’integrazione da un punto di vista musulmano.

L’Islam in Europa è dunque alla ricerca, per vie diverse, di una propria identità che potrà essere raggiunta attraverso una profonda contaminazione delle civiltà e delle culture che appartengono alle due rive del Mediterraneo.

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