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Riflessioni geografiche sul bello, il buono, il vero (e il loro contrario) La risposta del paesaggio

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Academic year: 2021

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Riflessioni geografiche sul bello, il

buono, il vero (e il loro contrario)

MARIA LAURA PAPPALARD O B ES O M B ES

Dipartimento TeSIS Università di Verona, Italia,E-mail: maria.pappalardo@univr.it

La risposta del paesaggio

Geography Reflection on the Beauty, the Good, the True (and their Opposites). The answer of the Landscape . Modern society, with its fashions and its models, has taught us that we must abandon the idea that there is one single definition of “beauty”, for such reason we can not know through fixed canons what is beauty; even the “ugly” has its own role, that of causing pain, to be a denunciation of the world as it is now, to represent the other. Convinced that every landscape includes something sensible –from the colors of the fields, to the forms and lines of urban architecture- the knowledge of the landscape itself becomes a kind of detonator of higher emotional charges, which can lead to the sensible beauty, in other terms to unleash the aesthetic sensation, in the direction of the intelligible beauty.

Keywords: beauty, good, true

L a società moder-na, con le sue mode e i suoi modelli, ci ha insegna to che bisogna abbando-nare l’idea che vi sia un’unica definizione di “bello” e che quindi si possa co-noscere attraverso dei canoni fissi che cosa sia “il bello”; anche “il brutto” ha un suo ruolo, quello di far sentire il dolore, di essere denuncia del mon-do, di rappresentazione del diverso. Per far chiarezza occorre ricordare come il concetto di “bello” dipenda dalle varie culture e come in ognuna di esse, ma soprattutto nella nostra, il “bello” sia frutto di una serie di stratificazioni solo in virtù delle quali è possibile definirlo, utilizzando e collegando fra loro le varianti

prin-cipali, le risposte che nel tempo sono state for-nite. I l termine “bello” deriva da l la tino “bellus”, diminutivo dalla radice “duenulus bonulus”, qualcosa di “buono in piccolo”. Il con-cetto di “bello” è unito, quindi, nella nostra come in molte altre culture, a quello di “buo-no”. Anche in Grecia, ad esempio, nell’anti-chità il termine “kalós” – “bello” lo si trovava spesso connesso con il termine “buono”. Nel greco moderno “kalós”, addirittura, non vuol più dire “bello” ma “buono”. N el sapere occi-dentale sin dalla Scuola Pitagorica, nella Ma-gna Grecia del VI-IV secolo a.C., il concetto di “bello” si specificava ed entrava in rapporto con il concetto di “vero” oltre che di “buono”, ve-nendo a costituire una triade nella quale si tro-vano accumunati valori (“il bello, il buono, il vero”) che avevano come caratteristica la “mi-sura”. Con il passare dei secoli ci si accorse però che spesso la bellezza non coincideva con l’ordine e con la regolarità, che vi era “un

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qual-cosa in più” che non era né calcolabile né misurabile, “un non so che”, che contribuiva a stabilire che cos’era il bello, qualcosa che an-dava ad aggiungersi alla normalità: non vi era più un criterio condivisibile a cui appellarsi. Bisognava avere “gusto” per poter apprezzare il “bello”. Per quanto riguarda il “brutto”, esso è sempre stato considerato l’ombra del “bel-lo”, il falso, il male morale, che tuttavia esiste in natura. N ella natura, infatti, da sempre si aveva coscienza che vi era anche l’informe, il deforme, il “brutto ma necessario”.

1. Il ruolo del paesaggio

Convinti che ogni paesaggio comprenda qual-cosa di sensibile - dai colori dei campi coltiva-ti, alle forme e alle linee dell’architettura ur-bana- la conoscenza del paesaggio stesso di-viene, per il semplice spettatore come per l’os-servatore attento, una specie di detonatore di cariche emotive più alte, che può condurre alla bellezza sensibile e, provocando una sensazio-ne estetica, permettere di appropriarsi della bellezza intelligibile. Nei paesaggi tuttavia, in forme e modi differenti e complessi “il brutto e il bello, il male e il bene, l’utile e l’inutile” convivono dando vita ad una realtà composita e complessa. Al centro dell’attività di ricerca di urbanisti, architetti, storici, economisti, sociologi, antropologi - e da sempre anche dei geografi - il paesaggio è ormai riconosciuto come bene primario collettivo e fondamento dei processi virtuosi di costruzione del bene comune. Vi è consapevolezza da parte di molti che le politiche paesistiche attuate secondo le direttive del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e della Convenzione Europea del Paesaggio, oltre che delle leggi urbanistiche re-gionali, per essere efficaci richiedano la costru-zione di un sapere diffuso. Per garantire la re-dazione di piani e programmi di trasformazio-ne e tutela del territorio che siano anche con-divisi dalle collettività locali, si deve sviluppa-re un’adeguata conoscenza del paesaggio come espressione materiale e culturale del territorio urbano e rurale, patrimonio paesistico dai for-ti connotafor-ti idenfor-titari. N el 2007 il collega

Q uaini ebbe a scrivere: “Il paesaggio è morto? Ma quale paesaggio? E’ morto o moribondo il paesaggio che era espressione di un modello o sistema economico pre-industriale che, per quanto sopravviva ancora qua e là nel mondo e anche nelle pieghe del territorio di un paese come il nostro … è stato superato o, per me-glio dire, annulla to nella sua c apa cità di autoalimentarsi, non solo dall’industrializzazio-ne ma anche dal dominio sempre più invasivo, anche a livello locale, del capitale finanziario globale. Se il paesaggio è morto, quale capaci-tà di progettare e costruire paesaggi ci rimane, oggi, al di là della conservazione e restauro dei paesaggi ereditati? La risposta prevalente è sta-ta in passato quella di recinsta-tare spazi naturali e umani con l’istituzione dei parchi nazionali, regionali e anche urbani, nella convinzione che il paesaggio, come la natura, potessero vivere solo come spazi eccezionali, di piacere e con-templativi, disgiunti da qualsiasi finalità pro-duttiva. Tutto il resto non doveva essere con-siderato paesaggio, ma apparteneva al regno del funzionale e dell’utile”(Q uaini, 2008). Ri-cordiamo a tal proposito che le norme per la tutela del paesaggio risalgono a meno di un secolo fa con le prime disposizioni del 1922 e la successiva Legge del 1939 nella quale ci si limitava però ad una visione estetic a e percettiva del paesaggio, in virtù della quale si ritenevano degne di tutela esclusivamente le bellezze naturali e panoramiche, le aree natu-rali, i coni ottici, le viste prospettiche di sicuro interesse. Solo con la Legge Galasso degli Anni ’80 si iniziarono ad emanare disposizioni che prevedevano una tutela del paesaggio a più ampio raggio quali le sponde dei fiumi e dei mari, i boschi e le foreste, i vulcani e i ghiac-ciai, le montagne e i laghi. O ccorre tuttavia attendere la Convenzione Europea del Paesag-gio perché la legislazione in materia di tutela del Paesaggio, ed il concetto di Paesaggio stes-so, subiscano una profonda e radicale innova-zione che ha prodotto significativi avanzamenti nei termini delle azioni indirizzate ad una, sino ad allora inconsueta, politica attiva di tutela. Le nuove norme individuate per l’attuazione della Convenzione, introducono infatti un mo-derno concetto che esprime la necessità di

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af-frontare in modo complesso e diretto il tema della qualità dei luoghi nei quali vivono le po-polazioni, qualità riconosciuta come condizio-ne essenziale del becondizio-nessere (inteso non solo in senso fisico, ma anche psicologico ed intellet-tuale) individuale e collettivo, fondamento per uno sviluppo sostenibile e risorsa che favori-sce le attività economiche. D a queste premes-se scaturisce la necessità di considerare il pae-saggio nel suo insieme, senza alcuna distinzio-ne fra aree urbadistinzio-ne, periurbadistinzio-ne, rurali o natura-li, e neppure fra le parti che possono essere considerate eccezionali, quotidiane o deterio-rate. Il paesaggio non deve più essere esami-nato in virtù dei suoi singoli elementi (cultura-li, artificia(cultura-li, naturali), “belli o brutti”, in quan-to costituisce un “unicum” nel quale le diffe-renti realtà che lo raffigurano vanno conside-rate sia singolarmente che nelle relazioni che intessono tra loro. Il Codice Urbani (Dlg.42/ 2004) con gli articoli 135, 146 e 156 individua nel Piano Paesistico lo strumento esclusivo di riferimento per tutti i soggetti istituzionali coin-volti nelle funzioni non solo di tutela, ma an-che di valorizzazione e di gestione del Paesag-gio. Non è più sufficiente promuovere la “con-servazione” dei paesaggi di valore, dei “pae-saggi belli”, occorre infatti incoraggiare sia la “gestione” di tutti i paesaggi attraverso l’ado-zione di misure specifiche volte ad assicurare uno sviluppo sostenibile in grado di equilibra-re tra loro le trasformazioni provocate in essi dalle esigenze sociali, economiche ed ambien-tali, sia una “pianificazione” che valorizzi i paesaggi oggi degradati, “brutti”. L’applicazio-ne sia della C onvenzioL’applicazio-ne E uropea che del Codice ha prodotto diversi segni sul paesaggio. Gli Ecomusei, ad esempio, attraverso percor-si, attività didattiche e ricerche raccontano brani di vita tradizionale, patrimonio naturale, sto-rico, artistico, mentre le Mappe di Comunità offrono alla popolazione la possibilità di rac-contare il proprio paesaggio, i saperi locali, i valori in esso racchiusi. E non dimentichiamo i Parchi fluviali: grazie ad essi si valorizza la varietà dei paesaggi regionali e si realizza un sistema continuo tra urbano e rurale, collina, pianura, montagna, spazi aperti e spazi chiusi. I Contratti di Paesaggio sono, infine,

innova-tivi strumenti di programmazione territoriale in quanto consentono di individuare gli obiet-tivi per uno sviluppo territoria le paesag-gistic amente sostenibile preved endo il coinvolgimento di tutti gli “attori”, siano essi economici, sociali, istituzionali, pubblici o pri-vati.

2. Conclusioni

A conclusione di questa breve nota si ritiene interessante soffermarsi proprio su un termi-ne, richiamato nelle righe precedenti, né bello né brutto ma che certamente rende utile anche ciò che troppo spesso viene ritenuto inutile: “sostenibile”, che si può sostenere. E’ questo un concetto divenuto purtroppo ormai estra-neo all’uomo, unica creatura sul pianeta che non agisce secondo natura, che non segue quel-le quel-leggi invisibili che governano il mondo af-finché si mantenga l’equilibrio tra gli esseri vi-venti e l’ambiente circostante. Sono sotto gli occhi di tutti i continui scempi operati in nome “del bello, del giusto, dell’utile” ma non del “necessario”; quotidianamente assistiamo a gesti di accanimento contro la Terra, fintamente incoscienti del fatto che le risorse non sono inesauribili. M entre infatti gli uomini cresco-no, sia per quanto riguarda il loro numero sia le loro necessità, e le fonti energetiche prima-rie tradizionali sono sempre le stesse e si stan-no drammaticamente assottigliando, il paesag-gio porta sempre più impressi i segni di questo comportamento irresponsabile, siano essi rap-presentati dalle frane, dagli inquinamenti di diverso genere dell’aria, dell’acqua del suolo, e più in generale dai differenti e complessi stress che le nostre società producono sulla Terra. E da queste affermazioni scaturisce un’ul-teriore conferma “dell’utilità dell’inutile”, non solo di tutti quei saperi il cui valore essenziale è completamente libero da qualsiasi finalità utilitaristica, ma anche e soprattutto della geo-grafia che, per sua natura gratuita e disinteres-sata, lontana da ogni vincolo pratico e com-merciale, ha un ruolo fondamentale nella sal-vaguardia del nostro pianeta (O rdine, 2013). E’ stato scritto: “La vita è diffusa? O la Terra è speciale, non soltanto per noi che ci abitiamo,

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ma per il cosmo nel senso più ampio? Fintanto che conosciamo soltanto una biosfera, la no-stra, non possiamo escludere che sia unica: la vita complessa potrebbe essere il risultato di una catena di eventi così improbabile da aver avuto luogo un’unica volta in tutto l’universo osservabile, sul pianeta che è diventato il no-stro. D ’altro canto, la vita potrebbe essere molto diffusa ed essere sviluppata su ogni pia-neta simile alla Terra (e forse in molti altri am-bienti cosmici). Sappiamo ancora troppo poco di come la vita sia iniziata e si evolve per deci-dere tra queste due possibilità estreme …” (Rees, 2004). N on si tratta quindi solamente di rispondere alla domanda su quanto petrolio sia rimasto da sfruttare o se saremo in grado di arrestare il riscaldamento globale, se vincerà il “bello artistico” o se anche il “brutto” avrà la sua rivincita! Q uando si considera un proble-ma così vasto è facile sentirsi confusi, incapaci di effettuare qualsiasi cambiamento. M a si deve evitare di reagire in questo modo, tutte le crisi e quindi anche quella che sta vivendo il nostro pianeta e della quale i segni sul paesag-gio ne sono testimonianza, va risolta solo se gli individui se ne assumono, almeno in parte, la responsabilità. Solo educando noi stessi e gli altri, facendo la nostra parte per ridurre il degrado e l’inquinamento, valorizzando “l’uti-le”, geograficamente inteso, si può fare la dif-ferenza. La geografia, con il suo metodo di analisi della realtà, ci può aiutare a guarire da quella parziale cecità nel modo di considerare l’effetto delle nostre decisioni sul mondo na-turale che rappresenta un grande ostacolo agli sforzi che vengono compiuti di formulare ri-sposte sensate alle minacce cui l’ambiente si trova attualmente di fronte. Studiare il paesag-gio e leggere gli oggetti in esso presenti non in chiave di mero “bello e utile” economicamen-te ineconomicamen-teso, bensì come il economicamen-teatro dell’agire uma-no souma-no condizione vitale per trovare il giusto equilibrio nel rapporto tra l’uomo e il proprio ambiente di vita, per invertire quella tendenza ormai diffusa che ci vede decisi solo ad essere indecisi, risoluti solo ad essere irresoluti, im-mobili nei movimenti, saldi nell’instabilità, onnipotenti nella determinazione di essere impotenti (Turri, 1998; Gore, 2007).

Prendia-mo atto sempre più spesso che il nostro pae-saggio, quello “brutto” (a seguito di una con-statazione di tipo estetico) delle enormi peri-ferie, delle vecchie e diroccate case contadine inglobate dallo sviluppo edilizio, delle zone ar-tigianali e commerciali che hanno invaso co-ste, fiumi e montagne, delle strade che hanno trapassato valli, boschi e alvei dei fiumi, quel-lo invaso dal troppo (eccessivo numero di co-struzioni, di cose, di persone) ci spaventa. Ma il paesaggio, soprattutto quello “brutto” o “inu-tile”, non è una semplice scatola vuota da riem-pire o un oggetto abbandonato da rigenerare con un qualsiasi cambio d’uso! O ccorre avvia-re delle proposte equilibrate e ragionevoli che, in primo luogo, prendano atto che non esiste più il paesaggio preindustriale, il “bel paesag-gio” di bucolica memoria, almeno nella mag-gior parte del territorio dove la gente vive e lavora; abbiamo questo paesaggio, quello che abbiamo contribuito a costruire nelle ultime decadi. Inutile quindi illudersi di ricostruire isole felici di paesaggio preindustriale, molto più utile e urgente è riprendere il controllo sul paesaggio “comune” così come ci ricorda la Convenzione del Paesaggio, secondo cui non è più possibile continuare a pensare che il ter-ritorio sia fatto di parti “belle” e di parti “brut-te”, curando solo le prime, salvaguardando i centri storici e nel frattempo costruendo, ad esempio, periferie senza valore. E ’ necessario muoversi per una riqualificazione sostenibile che da un lato offra regole proprio là dove fi-nora sono mancate (dando quindi luoghi cen-trali alle periferie, spazi pubblici, servizi di li-vello urbano per migliorare non solo la qualità ambientale ma anche quella sociale), dall’al-tro intervenga “riciclando” le aree dismesse e abbandonate nella quali il passato affianchi il presente, l’identità locale sia preservata, la-sciando spazio alla fantasia e alla creatività per realizzare “cose” nuove che siano da stimolo e ispirazione per lo sviluppo sostenibile dei ter-ritori (Poli, Incerti, 2014).

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Summary

The term “beauty” comes from the Latin “bellus”. The concept of beauty is united, then, in our civilization as in many other ones, to that of “good”. Even in Greece

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the term “kalós” is “beauty”, but is often connected with the term “good”. In modern Greek “kalós”, among other things, no longer means “beauty”, but “good”. In our Western civilization since the Pythagorean School, in Megálç H ellàs of the sixth and fourth centuries BC, the concept of beauty is specified and enters into relationship with the concept of true and good , coming to form a triad in which there are united values (the beauty, the good and the true) tha t have as characteristic the regularity. O ver the centuries, however, we realize that the beauty often does not coin-cide with order and regularity, that there is something extra “an indefinable something”, which helps to determine what is beauty, something that it is neither calculable nor measurable, something that is added, there is no longer a shareable criterion to which one can appeal. O ne must have a “taste” in order to appreciate the beauty. As for the “ugly”, it has always

Bibliografia

Da Poli M.; Incerti G. (2014),Atlante dei paesaggi riciclati. Milano, Skira E d.

Gore A. (2007),La terra in bilico. Milano, Bompiani. O rdine N . (2013), L’util ità del l’ inutile. Milano, Bompiani.

Q uai ni M . (2008), I l paesaggio: un percorso tra mercificazione e convivialità, in Bonesio L.; Micotti L., Pae-saggio: l’anima dei luoghi, Reggio Emilia, D iabasis, pp. 27-48.

Rees M. (2004),Il secolo finale. Milano, Mondadori. Turri E. (1998), Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato. Venezia, Marsilio.

been considered as the shadow of beauty, the false, the moral evil, but it exists in nature. In nature there is something shapeless, deformed.

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