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Pandemia e sanità pubblica

Massimiliano Paniga, L’Alto

commis-sariato per l’igiene e la sanità pubblica, Storia e documenti (1945-1958), Milano, FrancoAngeli, 2020, pp. 128, euro 16.

Il volume poco più di un lungo articolo con documentazione allegata, edito nell’a-prile di quest’anno, è una ricostruzione del funzionamento dell’organo che si occupò — per la prima volta in maniera autonoma rispetto al ministero dell’Interno — di ge-stire i problemi sanitari degli italiani, se-parandoli da quelli di ordine pubblico.

Il libro si organizza in due sezioni: la prima rappresenta una ricostruzione del-la struttura, dell’operato e dei problemi dell’Alto commissariato (Acis) ed è basa-ta, oltre che sulla bibliografia sulla rifor-ma sanitaria nel dopoguerra, su riviste di settore e su fonti parlamentari; la secon-da parte è invece un’appendice documen-taria che riporta, oltre alla strutturazione dell’organo in uffici, anche i principali de-creti legislativi e le proposte di legge che regolarono i cambiamenti principali du-rante gli anni presi in considerazione. A chiudere il volume le foto degli alti com-missari e degli alti comcom-missari aggiunti.

Una parte della documentazione su cui il volume si basa è archivistica, conservata presso l’Acis, e permette di comprendere i principali temi e problemi

igienico-sanita-ri del secondo dopoguerra (particolarmen-te approfondita rispetto agli altri (particolarmen-temi la questione della tubercolosi), così come l’organizzazione dell’ente, le sue prerogati-ve, le personalità che lo presiedettero negli anni, ma anche i suoi limiti nella gestione della tutela della salute in Italia.

Ciò che emerge è che in questa fase l’organizzazione della sanità pubblica fu un percorso in fieri. È infatti noto che la legislazione sanitaria al 1945 era fonda-mentalmente ancora quella ereditata dal periodo liberale, nonostante l’interessa-mento ed alcuni minimi cambiamenti ope-rati dal governo fascista in materia. Ri-spetto a questa, due appuntamenti mancati di riforma del dopoguerra vengono indivi-duati da Paniga nella Commissione D’Ara-gona e nell’esempio alternativo di organiz-zazione della sanità attuata dagli alleati in Sicilia, entrambe questioni note alla sto-riografia del settore.

Un aspetto inedito emerge invece con la questione della commissione istituita presso l’Alto commissariato che, a par-tire dall’esperienza siciliana, elaboras-se uno studio dell’organizzazione sanita-ria italiana, proposta che poi rimase agli atti senza produrre effetti concreti. Si trat-ta di uno dei trat-tanti progetti abortiti di cui si trova testimonianza nelle carte dell’Alto commissariato: alcuni elaborati da primari ospedalieri, altri da commissioni intermi-nisteriali, altri ancora addirittura da asso-“Italia contemporanea”, aprile 2021, n. 295 ISSN 0392-1077, ISSNe 2036-4555, DOI 10.3280/ic295-oa5

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ciazioni cattoliche come quella degli isti-tuti religiosi ospedalieri. Ugualmente nota, sebbene interessante, è la richiesta invia-ta agli Ordini dei medici in merito alle so-luzioni da intraprendere nel settore sani-tario. importante poiché, oltre a spingere per un’unificazione dell’amministrazione del settore, si esprimeva sull’insostenibili-tà economica del finanziamento pubblico dell’assistenza sanitaria, respingendo l’i-dea di una organizzazione universalisti-ca sul modello anglo-suniversalisti-candinavo, che era tuttavia nel dibattito europeo e italiano del periodo, per una percezione di insufficien-te ricchezza del Paese da parinsufficien-te della clas-se medica. A parte queste novità, molto di già noto sta nelle pagine di questo volume.

Per quanto riguarda la ricostruzione de-gli eventi dede-gli anni Cinquanta, l’attenzio-ne si concentra principalmente sulle situa-zioni emergenziali: l’alluvione del Polesine del 1951-52, le proteste a sfondo politi-co del villaggio sanatoriale di Sondalo, la pandemia di influenza asiatica di origine aviaria scatenata dal virus H2N2; la rico-struzione storica si chiude con i problemi relativi all’istituzione del ministero della Sanità, ricostruito sulla base del dibatti-to parlamentare e di una parte della bi-bliografia in merito (senza ricorso quindi a materiale inedito o d’archivio).

Se un pregio del volume è la pubblica-zione di qualche documentapubblica-zione inedi-ta, d’altra parte l’uso di queste fonti appa-re assai minoritario rispetto a quello della pubblicistica e in generale delle fonti se-condarie. Inoltre, appare poco approfondi-to il legame dell’Alapprofondi-to commissariaapprofondi-to con gli altri organi che gestivano il settore ne-gli anni considerati, questione di una rile-vanza tutt’altro che scarsa. La storiografia relativa alla sanità repubblicana riconosce infatti nell’Alto commissariato un orga-no debole, la cui istituzione venne accol-ta con preoccupazione da più parti, anche a causa del pericolo che un vero control-lo statale potesse ledere gli alcontrol-lora vasti in-teressi degli ambienti cattolici nel setto-re assistenziale: un organo quindi che per questo motivo si caratterizzò per la sua

azione cauta, di compromesso tra più po-teri. L’istituzione di questo ente, inoltre, si inserì in un contesto in cui la gestione del-la sanità si trovava frammentata dal punto di vista sia legislativo sia fattuale, a cau-sa dell’interagire di centri di interessi e di controllo di lunghissima durata. Ciò signi-fica essenzialmente che all’Acis mancava-no prerogative fondamentali per garantire non solo la capacità di indirizzo, ma anche il controllo della pratica sanitaria in Ita-lia: prima di tutto, la gestione diretta degli ospedali, che rimase nelle mani del mi-nistero dell’Interno. Il potere territoriale inoltre restava in mano ai prefetti, general-mente poco competenti sulle tematiche sa-nitarie, come spesso lamentato dalla classe medica nelle riviste di settore e attraverso le loro rappresentanze parlamentari. Ulte-riore, e forse principale, limite all’operato dell’Alto commissariato era l’esistenza al-lora in Italia di un dispersivo e confuso in-sieme di istituti mutualistici, che fornivano assistenza ognuno ai propri iscritti e alle loro famiglie secondo un sistema comples-so e dicomples-somogeneo sul territorio nazionale.

Se il volume quindi aggiunge un tassello alla conoscenza del percorso della gestio-ne sanitaria centrale del secondo dopoguer-ra, non è possibile comprendere il funzio-namento della sanità repubblicana se non attraverso la ricostruzione di dinamiche ul-teriori rispetto a quelle dell’Alto commissa-riato, consapevolezza questa che pure tra-spare comunque in più punti del volume, che per tutte queste ragioni non può esse-re considerato un punto d’arrivo ma solo un punto di partenza in una ricerca più com-plessa e più ricca, ancora purtroppo da fare. Sabrina Leo Francesco Cutolo, L’Influenza

spagno-la del 1918-1919. La dimensione globa-le, il quadro nazionale e un caso locale, Introduzione di Roberto Bianchi, Pistoia, Istituto storico della Resistenza di Pistoia, 2020, pp. 319, euro 15.

Quando l’American expeditionary force arrivò a Bordeaux, in Francia, nell’aprile

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del 1918, non portò con sé solo la speranza di abbattere le potenze centrali, ma anche un temibile virus, che soltanto decenni do-po, attraverso il sequenziamento geneti-co, avrebbe mostrato la sua struttura che rivelava una stretta somiglianza con il vi-rus dell’influenza trovato negli uccelli. Nei primi di marzo 1918 la malattia era sta-ta segnalasta-ta a Camp Funston nel Kansas, in un’area adibita all’addestramento mili-tare delle reclute in partenza per l’Europa. Mentre le truppe si allineavano su tutto il Fronte Occidentale, l’infezione si dif-fuse alle altre forze coinvolte nella Gran-de Guerra.

Tra aprile e giugno di quell’anno, “la grippe” (il nome con cui era conosciuta l’influenza), investì diversi paesi europei da entrambi i lati della linea del fronte: Francia, Italia, Germania e Inghilterra.

La malattia non risparmiò la neutra-le Spagna, diffondendosi dalla costa can-tabrica a Madrid — dove colpì un ter-zo della popolazione — propagandosi poi all’intera penisola iberica, il paese desti-nato a essere associato, per sempre, con uno dei maggiori disastri sanitari degli ul-timi secoli, per morbilità e mortalità. Da-ta la censura in atto nei paesi belligeranti, i giornali minimizzarono o nascosero ad-dirittura la notizia dell’influenza che sta-va attraversando sta-vari paesi europei, nel timore che deprimesse “lo spirito pubbli-co”. Così le informazioni sulla prima on-data d’influenza trapelarono dalla neutra-le Spagna, priva di controlli sulla stampa, autorizzando l’idea che fosse stata la cul-la delcul-la macul-lattia, che non aveva risparmia-to il primo ministro e lo stesso re Alfonso XIII. Quella primaverile era solo la prima delle tre ondate della pandemia influenza-le, conosciuta come “Spagnola” che, tra il 1918 e il 1919, attraversò come un uraga-no l’Europa e l’America, arrivando anche in Alaska e nelle più remote comunità in-sulari dell’oceano Pacifico. Metà della po-polazione mondiale fu colpita dalla ma-lattia e un ventesimo non sopravvisse. Le vittime erano per lo più adolescenti e gio-vani adulti, mentre nelle altre pandemie

morivano soprattutto persone molto gio-vani o molto anziane. Eppure, la catastro-fica pandemia, che fece, secondo le stime più caute 50 milioni di vittime, tende a es-sere confinata dalla storiografia e persi-no dagli studiosi della Prima guerra mon-diale in una nota a piè di pagina. Poche le tracce anche negli epistolari, nella diaristi-ca, nella memorialistidiaristi-ca, quasi assente nel-la letteratura e nell’arte. Persino gli storici militari, riservano alla Spagnola solo qual-che cenno, en passant. E questo nonostan-te il suo ruolo nel condizionare l’andamen-to delle operazioni belliche, accelerando, forse, anche la fine della guerra. Lo Sta-to maggiore tedesco attribuì alla malattia — che aveva duramente colpito l’esercito combattente — l’arresto della prima gran-de offensiva sul fronte occigran-dentale.

A questa realtà, solitamente trascurata — così come al ruolo della malattia nelle trattative di pace — dedica la giusta atten-zione il giovane storico Francesco Cutolo, perfezionando presso la Scuola superiore di Pisa, autore di questo libro, realizzato col supporto dell’Istituto storico della Re-sistenza e dell’età contemporanea in pro-vincia di Pistoia.

Pubblicato alcuni mesi fa, il volume ha intercettato nell’infuriare della pandemia Covid-19, l’interesse crescente per le epi-demie storiche e, in particolare, per l’e-mergenza sanitaria più vicina a noi, la pandemia influenzale del 1918, evocata meccanicamente nei media e accostata a Covid-19: termini come quarantena, isola-mento, cordoni sanitari, misure di conteni-mento — che facevano parte dell’esperien-za delle passate generazioni fino alla fine del XIX secolo — sono ricomparsi sul-la scena. Usati, talora impropriamente, da giornalisti, cultori di storia locale, stori-ci improvvisati che hanno saccheggiato gli studi disponibili. La cui mole è cresciu-ta dopo il fondamencresciu-tale lavoro, pubblica-to nel 1976, America’s forgotten

pande-mic The Influenza of 1918, da Alfred W. Crosby. Lo storico americano aveva rivol-to la sua attenzione all’analisi del perché quella terrificante pandemia non avesse

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la-sciato cicatrici permanenti nella coscienza collettiva: un interrogativo che ha impe-gnato tutti gli studiosi che si sono occu-pati della ‘madre di tutte le influenze’ do-po di lui. Il lavoro di Cutolo — che non perde di vista la dimensione globale del-la spagnodel-la, anche neldel-la parte che riguar-da il caso locale, Pistoia — ricostruisce l’andamento della malattia tra soldati in-deboliti e popolazioni denutrite attingendo a fonti differenti; inoltre il testo si soffer-ma sulle politiche sanitarie e sulle misure di contenimento del governo, sull’impatto della malattia nel privato, sulle cure mes-se in campo dalla medicina ufficiale e da quella popolare. Il libro, che si avvale di un buon apparato di dati, cifre e mappe, oltre che di immagini, annunci pubblicita-ri, vignette satiriche, tratte dai giornali del tempo, è preceduto da un lungo saggio in-troduttivo di Roberto Bianchi. Interessan-te la sua suggestione sulla possibilità che ‘in sede storica’ possano avanzare, dopo la pandemia del 2020, “nuove periodizzazio-ni del Novecento che ci eravamo abituati a leggere come ‘secolo breve’ 1914-1991”. Qualcuno — si chiede — proporrà un No-vecento lungo cent’anni dalla Spagnola al coronavirus?

Eugenia Tognotti

Questioni di metodo e di storiografia

Deborah Paci (a cura di), La storia in

di-gitale. Teorie e metodologie, Milano, Uni-copli, 2019, pp. 366, euro 28.

Non sono numerosi i libri che si pon-gono l’obiettivo di indagare le sfide che gli storici affrontano quotidianamente nel-lo svolgimento della nel-loro professione sulnel-lo sfondo della rivoluzione digitale degli ul-timi decenni, ed è questa una delle ragio-ni che fa del volume curato da Deborah Paci una lettura stimolante. Come giusta-mente messo in luce da Serge Noiret nel-la prefazione, infatti, il digitale modifica continuamente il sapere umanistico, non da ultimo attraverso un rafforzamento

del-la partecipazione individuale aldel-la costru-zione della conoscenza storica — un feno-meno che non può essere ignorato perché direttamente correlato alla sostanza del-la nostra democrazia. Sebbene sia oggi re-lativamente ristretto il numero di coloro che operano nell’ambito della storia digi-tale, che fa specificamente uso di strumen-ti computazionali per il trattamento auto-matico delle informazioni, tutti gli storici sono infatti inevitabilmente coinvolti in at-tività di storia con il digitale. Questo vo-lume collettaneo di portata internazionale mira dunque ad affrontare, in forme ac-cessibili sebbene non prive di qualche tec-nicismo, la questione della trasformazio-ne delle pratiche intellettuali dello storico, sottolineandone le specificità non condivi-se dagli esperti di altri campi.

Nella sua introduzione, Deborah Pa-ci formula apertis verbis la necessità che lo studioso di storia eviti un atteggiamen-to distaccaatteggiamen-to o finanche arrendevole nei confronti dell’aggiornamento della pro-pria disciplina, senza comunque cedere a un’accoglienza entusiastica e acritica del-le occasioni fornite daldel-le nuove tecnologie. In un mondo in cui la frequenza d’uso di termini riguardanti l’aggiornamento è dra-sticamente aumentata, a tal punto da sug-gerire che “il futurismo dei primi decen-ni del dopoguerra, tanto avvezzo all’idea di un progresso ottimistico, [sembra] ce-dere il passo all’ideale incentrato sul pre-sente attraverso l’aggiornamento” (Mateus Pereira-Valdei Araujo, p. 33), lo studio dei

big data ha effettivamente delle conse-guenze sul modo di fare storia, dal mo-mento che esso spinge a guardare non più alle cause, ma alle correlazioni tra i da-ti, confermando come gli strumenti di ri-cerca condizionino la conoscenza storica stessa (Anaclet Pons). Per questa ragione, non è possibile circoscrivere l’analisi dei

big data ai modelli computazionali, ma è doveroso per lo storico rivendicare il ruo-lo dell’interpretazione del dato meramente quantitativo (Deborah Paci).

Gli esempi portati nella seconda parte del volume, relativi ai sistemi informativi

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geografici e alle mappe narrative (Arturo Gallia, Tiago Luís Gil), vanno esattamen-te in questa direzione. I software, che pu-re sono molto utili anche come strumento di narrazioni storiche condivise e parteci-pate, non possano infatti compiere anali-si qualitative sui dati, che sempre spettano agli storici. Il professionista della discipli-na, che si scontra per esempio con la man-canza di uno standard di visualizzazione dei dati (Alexander Maxwell), e che allo stesso tempo ha l’occasione di utilizzare i

big data anche per confermare o mettere in discussione interpretazioni storiografi-che assodate, ma fondate su un corpus ri-stretto di fonti (Francesco Maccelli), ha tuttavia anche responsabilità che riguar-dano l’archiviazione del web per garantire che venga tenuta traccia documentaria di ciò che è stato prodotto a partire dagli an-ni Novanta del secolo scorso — un com-pito rispetto al quale la categoria non si è ancora dimostrata all’altezza, e non so-lo per i problemi tecnici e legali implicati (Federico Mazzini).

Al di là dei mutamenti introdotti per via delle diverse tipologie di fonti dispo-nibili, è chiaro che anche le forme del-la narrazione storica si sono trasformate, divenendo perfino più complesse, per via della necessità di conoscere e assimila-re molti concetti teorici e pratiche speci-fiche quando si opera con metodi compu-tazionali (Corinne Manchio). Laddove si fa uso dell’ipertesto, in particolare, appa-re indispensabile rammentaappa-re le modali-tà secondo le quali il contenuto digitale è fruito, in modo da garantire, con opportu-ni accorgimenti, una lettura agevole e non disorientante (Nasreen Iqbal Kasana-Ami-tabh Vikram Dwivedi), sebbene uno stu-dio condotto sui blog di storia dia prova del fatto che, almeno fino a oggi, la nar-razione storiografica non è mutata in ma-niera statisticamente rilevante (Mario Pra-des Vilar). Il volume presenta poi il caso di studio delle Civiche raccolte storiche di Milano per mostrare come sia possibile ri-creare una struttura narrativa coerente che combatta la frammentarietà insita nelle

ri-cerche sul web (Saverio Almini-Gregorio Taccola). Il delicato tema dei testi scola-stici digitali di storia in Italia rivela, infi-ne, l’ambigua realtà dei fatti: i destinata-ri sono nativi digitali, mentre non lo sono (ancora) gli autori, così che il libro digita-le si conferma profondamente digita-legato, nella struttura e nelle forme di scrittura, al libro cartaceo (Jacopo Bassi).

La pubblicazione del volume rappresen-ta perrappresen-tanto una vera e propria dichiarazio-ne di intenti: riudichiarazio-nendo contributi di autori che manifestano atteggiamenti non del tut-to allineati nei confronti delle novità tec-nologiche e informatiche, il libro solleci-ta a riconosce che per la storia digisolleci-tale è giunto il momento di tracciare un percor-so autonomo nei confronti delle digital

hu-manities, attraverso un progressivo affran-camento delle proprie domande, dei propri metodi e dei propri strumenti rispetto alle sole indagini testuali che hanno finora in-tercettato la gran parte delle ricerche nella sfera del digitale.

Fabio Guidali Ian Gregory, Donald A. DeBats, Donald Lafreniere (a cura di), The

Routledge companion to spatial history, London-New York, Routledge, 2018, pp. 666, euro 52.

Nella fiorente e qualitativamente mol-to diseguale offerta di strumenti scientifici di base — introduzioni, manuali, antologie — pubblicata dalle case editrici di lingua inglese, compare ora un utile companion sulla storia “spazializzata”.

A dispetto dall’enfasi sulle “svolte” (turn) degli ultimi vent’anni in storiogra-fia e nelle altre scienze sociali, non si trat-ta di un campo di nuova definizione. Ba-sti pensare alla grande tradizione francese di dialogo fra geografia e storia (si veda la rassegna di Nicolas Verdier in “Storica”, n. 40, 2008), che ha trovato una prima sinte-si, quasi un secolo fa, nella classica “intro-duzione geografica alla storia” di Lucien Febvre (La terra e l’evoluzione umana,

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Einaudi, 1980), oltre che nell’abbinamento delle due discipline nell’insegnamento. In tempi più recenti quella tradizione è stata ravvivata dalla lezione di Bernard Lepetit, ispiratrice, nell’incontro con la microsto-ria italiana, della proposta dei “giochi di scala” (l’omonimo volume del 1996 è stato tradotto da Viella dieci anni dopo) e dalle ricerche del Ladéhis-Ehess, ben rappresen-tate dal felice volume di Maurizio Gribau-di, Paris, ville ouvrière. Une histoire

oc-cultée: 1789-1848 (La Découverte, 2014, discusso su “Quaderni storici”, n. 2, 2016). Per l’Italia è sufficiente qui menzionare la figura di Lucio Gambi (Una geografia

per la storia, Einaudi, 1973) e l’attenzio-ne di Edoardo Grendi alla “local history”, che ha ispirato molti fascicoli di “Quader-ni storici” e un ricco laboratorio genovese, fino ai recenti esiti di Angelo Torre

(Luo-ghi. La produzione di località in età mo-derna e contemporanea, Donzelli, 2011).

Se dunque esisteva da tempo un ter-reno comune, gli sviluppi dei “sistemi di informazione geografica” (noti con l’a-cronimo inglese Gis) hanno prodotto un rilancio del dialogo fra storici e geogra-fi, nel quadro più ampio della rinnovata at-tenzione alla dimensione spaziale da par-te delle scienze sociali e umane. Il Gis permette approfondite analisi della con-nessione fra ogni sorta di informazione processabile come base di dati alla car-tografia storica digitalizzata e geo-riferi-ta (cioè, all’ingrosso, sovrapponibile con grande precisione a quella attuale) ed è oggi fruibile da parte di utenti minima-mente formati su normali personal compu-ter (al programma proprietario Arc-Gis si affiancano valide alternative gratuite, co-me QuantumGis).

Questo ponderoso Companion non è un vero manuale o un testo introduttivo, ma si compone di sei sezioni nelle quali si di-stribuiscono ventitré saggi, in gran parte dedicati a illustrare i pregi della prospetti-va “spaziale” nei cantieri di ricerca più di-sparati (storia delle popolazioni e delle mi-grazioni, storia urbana, storia economica, storia politica, storia ambientale e

rura-le), fino a lambire nella partizione finale il continente ancora più vasto delle “spatial humanities” (che include anche la lettera-tura). L’introduzione dei curatori celebra il ruolo centrale del Gis, ma invita a supera-re la focalizzazione sul singolo strumento, nel quadro di una geografia storica allar-gata e rinnovata. Lo straordinario succes-so del nuovo approccio, inimmaginabile quindici anni fa, non deve infatti far tra-scurare i problemi tuttora persistenti, che i curatori riconducono ad alcune grandi questioni: i Gis producono, quasi natural-mente, risultati innovativi, ma spesso non viene adeguatamente illustrato o valoriz-zato il loro effettivo rilievo storiografico; un discorso analogo vale per la potenza dello strumento cartografico, che richiede uno sforzo ulteriore rispetto alle suggesti-ve tecniche di visualizzazione, in direzio-ne di efficaci spiegazioni e misurazioni; come tutti gli strumenti quantitativi, inol-tre, il Gis ha sollevato critiche analoghe a quelle mosse delle “nuove storie” (nel sen-so statunitense) degli anni Sessanta-Set-tanta, che hanno generato una crisi e infi-ne un affinamento della storia quantitativa; la non indifferente fatica della creazione delle infrastrutture necessarie all’analisi (mappe e basi di dati), non viene mai va-lutata in termini accademici (così come re-sta il problema della pubblicazione delle mappe a stampa); infine, è tuttora irrisolta, se non a livello tecnico (testi e immagini sono una frontiera della ricerca Gis), certo nel senso comune storiografico, la questio-ne dell’integrazioquestio-ne fra quantitativo e fonti qualitative. Quest’ultimo tema è cruciale: nei settori ove già si fa ampio uso di fon-ti quanfon-titafon-tive (o rese tali) il Gis si è impo-sto più facilmente, ma è restato ai margini delle pratiche dominanti.

Questo Companion rappresenta dunque un appello a studi umanistici “spazializza-ti”, per mobilitare altre fonti e altri stru-menti (accanto al Gis) e per spingere l’at-tenzione degli studiosi verso le vite degli agenti concreti, al di là del riferimento a categorie aggregate. Su questa prospetti-va insiste da anni (si veda Toward

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tial humanities. Historical GIS and spa-tial history, edited by Ian N. Gregory and Alistair Geddes, Indiana University Press, 2014) uno dei curatori, Ian Gregory, già autore, con Paul S. Ell, di una pionieristi-ca e tuttora utile prima introduzione

(Hi-storical Gis. Technologies, methodologies and scholarship, Cambridge, Cambridge University Press 2007). Gli studiosi ita-liani troveranno nel volume molte sugge-stioni e altrettanti esempi tecnici. Non è possibile descrivere tutti i saggi e nemme-no elencarli (si rimanda all’indice, dispo-nibile in rete), ma basterà menzionare al-cuni esempi: si va dalle nuove prospettive di storia delle migrazioni (Samuel M. Ot-terstrom e Brian E. Bunker sulle “geo-grafie genealogiche” della California; Kurt Schlichting sulla topografia dell’immigra-zione newyorchese) alla connessione di storia socio-demografica e politiche sani-tarie (Humphrey Southall sulle determi-nanti di lungo periodo dello stato di sa-lute della popolazione anziana del Regno Unito); dallo studio dei proprietari di casa (Franz Zephyr sulla Rio de Janeiro otto-centesca) alle aperture che il Gis consente in campi apparentemente consolidati del-la storia urbana (Jean-Luc Pinol sul caso parigino); dall’esame dell’evoluzione del-le diseguaglianze sociali a più scadel-le (Di-mitris Ballas e Danny Dorling su Manche-ster, la Gran Bretagna e il mondo) fino alle prospettive “longitudinali” per una proso-pografia di massa centrata sugli individui storici (con contributi di Sherry Olsson, Don Lafreniere, Jason Gilliland e altri sul fertile laboratorio canadese).

Stando al catalogo Sbn, a due anni dal-la stampa questo testo non è stato acquisi-to da nessuna biblioteca italiana, un sinacquisi-to- sinto-mo della disattenzione a questi problemi e prospettive. Forse la pubblicazione di un volume in italiano che, analogamente a questo companion, raccogliesse gli studi della nuova generazione di studiosi e stu-diose attenti alle dimensioni spaziali della storia del Bel Paese (non se ne menziona-no in questa sede per menziona-non far torti),

po-trebbe essere utile a diffondere questa im-prescindibile sensibilità.

Michele Nani Mario Bracci, Carte sparse. Riflessioni,

pagine di diario, relazioni, discorsi (1934-1945), Introduzione, edizione e note a cura di Stefano Moscadelli, Siena, Accademia senese degli Intronati, 2020, pp. 270, s.i.p.

Il volume curato da Stefano Moscadelli si colloca al crocevia tra la forte attenzio-ne che attenzio-nell’ultimo ventennio la storiogra-fia d’ambito documentario e letterario ha dedicato alla natura degli archivi di perso-na e il ricco filone di studi dedicati al giu-rista e uomo politico senese Mario Brac-ci. Ne è scaturita un’intensa attività che si è sviluppata intorno al suo archivio donato nel 2008 dagli eredi all’Archivio di Stato di Siena e della quale Stefano Moscadel-li è stato protagonista attendendo all’in-ventariazione delle carte Bracci, tuttora in corso, e alla pubblicazione di alcuni studi recenti che fanno da pendant al volume di cui si discorre in questa sede (S. Fruzzetti-S. Moscadelli, L’archivio di Mario

Brac-ci, “Studi senesi”, 127, 2015, pp. 197-220 e S. Moscadelli, Mario Bracci allo

spec-chio delle sue carte. Una nota archivistica e alcuni documenti a 60 anni dalla morte, “Bullettino senese di storia patria”, 126, 2019, pp. 355-429). Il loro legame è pro-fondo: se infatti i saggi aiutano compren-dere il contesto e i caratteri di produzione, selezione, trasmissione ed utilizzo dell’ar-chivio Bracci, il volume contribuisce a lu-meggiarne non poco la ricchezza di con-tenuti, in relazione soprattutto alla parte meno nota (e documentata) delle vicen-de umane e professionali di Bracci, ante-riori alla metà degli anni Quaranta, grazie all’accuratissima edizione di 11 documen-ti sui quali torneremo più avandocumen-ti. A tale

corpus è premessa una densa introduzio-ne, il primo capitolo della quale è dedi-cato a una sintetica nota biografica che è assai utile ripercorrere rapidamente (pp. 7-11): nato a Siena nel 1900 e laureato-si in Giurisprudenza, Bracci laureato-si avvia

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ra-pidamente alla carriera accademica, dap-prima a Sassari nel 1927, poi a Siena ove rimarrà, principalmente quale ordinario di Diritto amministrativo, non senza tempo-ranee gerenze delle cattedre di altri inse-gnamenti di diritto. Eletto rettore dell’A-teneo senese nel novembre 1944, Bracci mantiene la carica fino al 1955, svolgendo nel contempo un’intensa attività politica a livello nazionale e locale. Già firmata-rio del manifesto degli intellettuali antifa-scisti voluto da Croce nel 1925, in dispar-te durandispar-te la lunga ‘traversata del deserto’ negli anni del Regime, nel 1944 aderisce al Partito d’azione entrando nella Consul-ta nazionale l’anno successivo e rivesten-do la carica di ministro del Commercio con l’estero nel primo governo De Gaspe-ri (in caGaspe-rica dal dicembre 1945 al luglio 1946). L’esperienza di governo avvia un sodalizio tecnico-giuridico con lo statista trentino che vede coinvolto Bracci nell’e-laborazione del provvedimento di amni-stia del giugno 1946 e nella definizione delle procedure per il passaggio dei pote-ri dalla monarchia agli organi del nascen-te Stato repubblicano. Nel 1947, sciolto il Partito d’azione, Bracci aderisce al Parti-to socialista, stringendo un forte legame di amicizia con Pietro Nenni: in quella sta-gione Bracci è nominato membro dell’Al-ta corte per la Regione siciliana, in segui-to, nel 1955, dopo una lunga schermaglia parlamentare, viene eletto alla Corte co-stituzionale finalmente insediata, quale componente espressione della “Sinistra”. Bracci muore improvvisamente a Siena nel 1959, lasciando un ricco archivio e una fitta schiera di allievi, diretti e indiretti, che con costanza, in virtù dall’insegna-mento da lui profuso nell’ambito universi-tario, ha comportato “frequenti occasioni di rilettura dei suoi scritti”. Tali occasio-ni, puntualmente illustrate, sono state as-sai significative, come segnala Moscadel-li, anche in riferimento all’utilizzazione e alla configurazione attuale dell’archivio di Bracci in alcune sue porzioni. Nel secon-do paragrafo (Alcuni elementi di

periodiz-zazione, pp. 11-16) Moscadelli intrapren-de un percorso tra le carte e, lasciandosi

guidare dalle sopravvivenze dell’archivio, constata come quest’ultimo possa “dir-si ‘avaro’ di materiali anteriori alla me-tà degli anni Quaranta o, più esattamente, precedenti il 1944”, ipotizzando scarti in

itinere compiuti dallo stesso Bracci. “L’a-desione al Partito d’azione di Bracci (fi-ne luglio 1944) e la volontà di partecipa-re alla ricostruzione post-fascista”, oltpartecipa-re a rappresentare un tornante nella sua bio-grafia, corrispondono a una e vera e pro-pria “epifania” archivistica per il giurista senese, al centro degli interessi della sto-riografia per i ruoli pubblici ricoperti dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta. Il volume di Moscadelli opera invece una precisa scelta, esplicitata nel terzo capito-lo dell’“Introduzione”, Un’antocapito-logia di

do-cumenti (pp. 16-41), quella “di portare l’at-tenzione su riflessioni lasciate da Bracci a partire dagli anni Trenta — epoca cui ri-salgono alcuni dei documenti più ‘antichi’ ritracciati nel suo archivio personale — fi-no ad arrivare a testimonianze della me-tà degli anni Quaranta, quest’ultime in-tese cioè non come avvio del successivo e luminoso percorso politico, bensì come punto di approdo di una lunga fase di ma-turazione”. Ne consegue la possibilità di cogliere Bracci in almeno quattro dimen-sioni meno note attraverso i documenti del suo archivio che, illustrati da Moscadel-li, sono poi editi con la perizia e l’acri-bia dell’archivista nell’ultima parte del vo-lume (pp. 45-247). La prima è quella del commentatore della situazione politica in-ternazionale nel corso degli anni Trenta in merito alla questione balcanica e alla dotta francese nell’area (doc. 1), alle con-seguenze della guerra di Spagna (doc. 2), all’imminenza dello scoppio del secondo conflitto mondiale nell’estate 1939 (doc. 3) e alla non belligeranza italiana nell’inver-no seguente (doc. 4). La seconda dimen-sione di Bracci che emerge dai suoi docu-menti è quella del testimone delle vicende della guerra sia in riferimento ai fatti lo-cali sia a quelli di portata nazionale attra-verso le annotazioni in forma di diario dal settembre 1943 al giugno 1944 (doc. 5). La terza veste in cui Bracci appare è

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quel-la di interprete delle condizioni del tertorio senese, tanto nelle sue relazioni ri-volte alle autorità alleate e al SIM dopo la liberazione (docc. 6-7), quanto nei suoi di-scorsi tenuti in alcuni centri della provin-cia fra l’estate e l’autunno 1945 per la se-zione senese del Partito d’ase-zione (doc. 8), la cui situazione è oggetto di una relazione del novembre di quell’anno (doc. 9). L’ul-tima dimensione, infine, all’indomani del-la caduta del governo Parri, è queldel-la di osservatore della politica nazionale, della quale dal 1946 sarebbe stato un protago-nista o quanto meno un acuto commenta-tore (doc. 10). Termina questa antologia di scritti un documento riconducibile intorno al 1945 che chiude idealmente la selezione e nel quale Bracci riflette sui caratteri di-scriminatori che consentano di distingue-re, valutando i comportamenti di quanti identificati come ‘fascisti’, le responsabili-tà morali da quelle penali, tema senz’altro à la page in quel tormentato torno di anni (doc. 11). Fanno da corredo al volume una ricca bibliografia (Opere citate, pp. 249-260) e l’indice analitico (pp. 261-270).

Dal lavoro condotto da Moscadelli tra-spare una profonda finezza nel descrivere i processi di formazione e trasmissione del-le carte, coniugata alla sensibilità nel deli-neare al meglio la dimensione documen-taria della ricerca storiografica su Bracci. Un dialogo senz’altro riuscito che sostan-zia, per dirla riprendendo le parole di un illustre archivista del passato, la natura dell’archivistica come euristica delle fonti e che lascia senz’altro intravedere percorsi ulteriori di possibili ricerche.

Leonardo Mineo Marc Bloch, Il salario e le

fluttuazio-ni economiche di lungo periodo, introdu-zione di Maria Luisa Pesante, postfaintrodu-zione di Francesco Mores, Palermo, New Digital Frontiers, Edizioni SISLav, Palermo 2019, pp. 121, euro 15 (scaricabile gratuitamen-te come pdf).

Non è semplice dialogare attraverso una recensione. In particolare, non lo è

quando la controparte presenta le forme di un saggio e i contenuti di una riflessio-ne di metodo. Eppure, il lavoro di Maria Luisa Pesante, Francesco Mores e Bruno Settis attorno a Il salario e le

fluttuazio-ni economiche di lungo periodo di Marc Bloch non ha solo il merito di aver valo-rizzato una nota poco conosciuta del gran-de storico francese, ma anche quello di aver colto le “possibilità che la definizione di ricerca storica contenuta [nel testo] por-ta con sé” (p. 117).

Durante la primavera del 1933, a Stra-sburgo, Bloch fu raggiunto da una richie-sta della “Revue Historique”: recensire l’ultimo volume di François Simiand, Le

salaire, l’évolution sociale et la monnaie.

Essai de théorie expérimentale du salai-re (1932). Il fondatore delle “Annales” col-se l’invito con entusiasmo e un “qualche imbarazzo” (p. 7): le sirene del Collège de France avevano calamitato la sua atten-zione, e Simiand, che vi insegnava Sto-ria del lavoro, era tra “coloro che doveva-no decidere sulla disciplina da mettere a concorso e sulla chiamata” (p. 7). La cor-sa al Collège non si concretizzò; dal pri-mo novembre 1937, Bloch divenne invece professore di Storia economica alla Sor-bona. Tuttavia, la recensione si rivelò ben più che un fitto dialogo con la corposa opera dell’economista se, come sottoline-ato da Bruno Settis (autore di una tradu-zione eccellente, arricchita con puntuali annotazioni), egli ne approfittò per “ela-borare una più vasta agenda di ricerca che passa[va] per l’esame critico del metodo di Simiand e del rapporto tra storia, so-ciologia, economia” (p. 51). Nel tentati-vo di fornire un quadro di questo primo volume della Biblioteca SISLav, di fatto, quello del méthode emerge come uno de-gli aspetti centrali su cui soffermarsi. Sa-rà anche il primo dei due punti che affron-terò in questa scheda, lasciando il secondo — breve — spazio alla connessione speci-fica tra il metodo suggerito da Bloch e le storie del lavoro.

Come recensore, Bloch poteva essere durissimo. Lo era soprattutto nei

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confron-ti dei quei libri che reputava privi di inter-rogativi di fondo. Viceversa, sapeva mo-strarsi assai benevolo nel discutere lavori intelligenti: in questi casi era solito analiz-zare più il metodo che i contenuti, anche qualora destassero in lui dubbi e perples-sità. Fu questa seconda veste a caratteriz-zare la sua lettura dello studio di Simiand.

Le salaire et les fluctuations économiques à longue période si presenta infatti co-me una disamina tanto favorevole quan-to critica al “nucleo ordinaquan-tore dell’inte-ra teoria” dell’allievo di Durkheim: da un lato, nelle prime venticinque pagine, Bloch riconosce alla sociologia economi-ca di Simiand il merito di aver introdotto la dimensione del tempo storico in una di-sciplina che ne sottovalutava l’importan-za; dall’altro, nella parte conclusiva, non risparmia però un attacco al modo in cui aveva scelto di affrontare il “primum

mo-bile della sua teoria, la moneta” (p. 19). Alla base del dissenso di Bloch si col-loca un problema di metodo. A suo av-viso, Le salaire era un volume orfano di documenti in grado di informare sul-le “preoccupazioni degli ‘attori umani’” (p. 93), decisivi per comprendere — nel caso specifico — sia il modo in cui i “bi-sogni profondi di una società che soffri-va periodicamente di fame di moneta” (p. 93) avessero già stimolato in passato una ricerca di soluzioni (contrastando la lettura “accidentale” di Simiand), sia la re-ale rappresentazione — tutt’altro che no-minale — della propria retribuzione da parte degli operai. In particolare, all’inter-no di un discorso sul metodo “che teneva accuratamente distinti i presupposti dalle conclusioni” (p. 108), egli introdusse una “distinzione tra esperienza e esperimen-to”: a Bloch interessavano certamente le regolarità, le leggi e i cicli ma, “in quanto studioso di storia, non era disposto a pri-varsi dell’esperienza dell’inatteso” (p. 111). Doveva essere quest’ultima, assieme alle esperienze dell’osservatore e ad una “sto-ria sperimentale […] composta da una se-rie di osservazioni ripetute […] aventi per oggetto le esperienze naturali”, a

defini-re l’esistenza di leggi generali solo come “idea regolativa” e non in quanto “soluzio-ni con applicazio“soluzio-ni pratiche” (p. 116).

È qui che si colloca il secondo punto, quello inerente alla relazione tra il meto-do suggerito da Bloch e le storie del lavo-ro. Recuperando le considerazioni di Fran-cesco Mores, non è un caso che siano stati due storici del lavoro quali Gérard Noi-riel e Madeleine Réberioiux a cogliere le “implicazioni più profonde” del rappor-to tra Bloch e Simiand. Mentre il primo ha sottolineato come la pratica di “ausi-liarizzazione delle discipline vicine” ca-ra a Bloch e a Febvre urtasse con la con-cezione di una scienza sociale capace di “integrare tutti i saperi costituiti” (p. 116), l’altra ha ricollocato la discussione in una fase storica in cui la “discussione europea sulla storia come scienza e sul particola-re statuto della storia nel contesto france-se” era ancora lontana da un punto d’ap-prodo (p. 116). Invero, Bloch aveva già affrontato parte di questi nodi problemati-ci in un’altra nota, pubblicata nel 1933 sul quinto numero delle “Annales” col titolo:

La morale economica, il diritto e la pra-tica: azioni e reazioni. L’autore de

L’apo-logia della storia, ammonendo dalla ten-tazione di applicare meccanicamente — in un’ottica di storia comparata — “un pro-blema e la sua soluzione circostanziata a luoghi e momenti molto distanti tra loro” (p. 109), vi aveva tracciato importanti in-dicazioni destinate a confluire pochi mesi dopo ne Il salario e le fluttuazioni

econo-miche di lungo periodo.

La dimensione di Marc Bloch co-me storico del lavoro eco-merge così ancora più nitidamente: la sua riflessione sul me-stiere fu infatti un “flusso all’interno del quale […] si immerse fin dagli anni del-la sua formazione” (p. 117). Ben oltre ope-re del calibro di Rois et serfs (1921) e de

La société féodale (1939-1940), il legame tra pratica ed esperienza che accompagnò queste fluttuazioni teoriche è tutt’oggi evi-dente. E lo è ancora di più in un momen-to in cui — segnala Maria Luisa Pesante — è scomparsa la “centralità della storia

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operaia industriale” e le storie del lavo-ro si tlavo-rovano a scontare — nonostante l’e-stensione del concetto di lavoro — letture spesso impoverite in quanto “storie di co-struzione di culture, di motivi di conflitto, di lotte” (p. 9).

Dal canto suo, la Società italiana di sto-ria del lavoro sembra aver colto e accet-tato questa sfida, come dimostra anche la recente pubblicazione — a cura di Fabri-zio Loreto, nuovo presidente della Società — degli scritti di Lucien Febvre: Lavoro e

Storia. Scritti e lezioni, 1909-1948 (Don-zelli, 2020). A ogni modo, resta aperta la necessità di spingere le storie del lavoro su piani più ampi e costruttivi, lontani da for-zature interpretative e dotati di uno sguar-do di lungo periosguar-do.

Federico Creatini Antonio Bonatesta, Europa

“poten-za civile” e Mediterraneo. La politica co-munitaria di Carlo Scarascia Mugnozza (1961-1977), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2019, pp. 240, euro 28.

In un filone storiografico dedicato al-lo studio dell’evoluzione istituzionale del-la Comunità europea, il volume di Anto-nio Bonatesta concentra l’attenzione sulle relazioni della Cee con il Mediterraneo analizzando l’azione politica di Carlo Sca-rascia-Mugnozza (1920-2004), figura po-co nota di democristiano, deputato per un ventennio a partire dagli anni Cinquanta, sottosegretario in un paio di governi e so-prattutto commissario europeo alla metà degli anni Settanta.

Il genere biografico non è privo di insi-die, ma in questo caso risulta funzionale. Come afferma l’autore, e ribadisce Carlo Spagnolo nella prefazione, l’approccio uti-lizzato vuole evitare certe angustie degli studi diplomatico-istituzionali che trala-sciano le dinamiche regionali e locali. Bo-natesta indaga infatti le spinose questioni che riguardano il Mediterraneo, le strut-ture regionali e il commercio con i paesi terzi. Lo fa partendo dall’esame delle

esi-genze locali e analizzando così la risposta comunitaria. La ricerca si fonda su docu-mentazione proveniente dagli Archivi sto-rici dell’Unione europea, presso cui sono conservate anche le carte del fondo Scara-scia-Mugnozza.

Il primo capitolo copre un arco crono-logico di circa dieci anni, dall’avvio del-la carriera politica di Scarascia-Mugnozza, fino al suo approdo a Strasburgo. L’autore ripercorrere le tappe del costituirsi di un ‘sentimento europeo’ in Puglia nel partito democristiano locale (molti sono i riferi-menti al Centro internazionale di alti studi agronomici del Mediterraneo e al Centro studi e informazioni sulle comunità euro-pee di Bari) e cenni alle controversie le-gate al commercio del tabacco, dell’olio e dei prodotti ortofrutticoli. Come è noto, il Mec, almeno in un primo momento, non inserì sotto la tutela della preferenza co-munitaria i prodotti del sud dell’Europa, preferendo quelli continentali.

Il secondo capitolo fa da ponte tra gli eventi che coinvolsero Carlo Scarascia-Mugnozza in Italia e in Europa. Vi so-no narrati gli anni più complessi a caval-lo tra Sessanta e Settanta: il passaggio da Charles De Gaulle a George Pompidou in Francia, il cancelliere Brandt e la politica dell’Ostpolitik, la proiezione francese nel Mediterraneo, la crisi monetaria e quel-la petrolifera e il riquel-lancio europeo con quel-la Conferenza dell’Aja del 1969.

Nel terzo importante capitolo, l’auto-re ci pl’auto-resenta i primi accordi commercia-li stipulati tra Cee e paesi extraeuropei (il primo fu Israele) insieme alle loro critici-tà. Sebbene l’autore sia allineato con una letteratura che vede negli accordi com-merciali una certa stabilizzazione per gli equilibri vacillanti nel Mediterraneo de-gli anni Settanta, non nasconde la preca-rietà che questi apportarono alle econo-mie europee più deboli, per non dire di certe complicazioni giuridiche. Fu come nel caso dell’adesione del Regno Unito e dell’adeguamento dei trattati comunitari ai paesi del Commonwealth, oppure negli ac-cordi stipulati nel corso della

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conferen-za di Unctad di New Delhi (1968) che vi-dero l’avvio della preferenza generalizzata (1971), un meccanismo di parziale disar-mo tariffario per la prodisar-mozione della cre-scita dei paesi terzi. L’instabilità provocata da queste scelte commerciali portò diver-si politici europei a interrogardiver-si sullo stato del Cee e sugli squilibri creati in ambito economico. In ogni caso tutte le proposte rimasero vaghe a causa della grave crisi provocata dalla guerra dello Yom Kippur.

Tutto ciò fa da cornice al quarto capi-tolo dedicato ai provvedimenti comunita-ri. Alla crisi monetaria si rispose con un ‘serpente monetario’ cui non tutti i paesi membri seppero adeguarsi. Francia, Italia e Gran Bretagna ne uscirono ben presto, a causa dell’assenza di uno strumento che sostenesse gli aggiustamenti dei rispetti-vi cambi. Le varie crisi che ne sortiro-no provarosortiro-no però la coesione comunita-ria nonostante le richieste di cambiamento nutrite dopo la Conferenza dell’Aja. Alla già grande instabilità politica della Comu-nità, si aggiunse l’interruzione anticipata della presidenza Malfatti alla Commissio-ne europea Commissio-nel 1972. In questo frangen-te Scarascia-Mugnozza si fece avanti per ottenere il posto vacante, senza riuscir-ci. Ottenne in cambio la vicepresidenza della Commissione agricoltura (la presi-denza della Commissione europea andò a Sicco Mansholt). Inoltre, la prematura in-terruzione del mandato di Malfatti, provo-cò un’ulteriore crisi nella leadership demo-cristiana, già entrata in rotta di collisione per l’avvicinamento al Pci.

Fu proprio Scarascia-Mugnozza ad av-vertire la necessità di rinnovamento della Cee (e siamo nel quinto capitolo), soprat-tutto dopo la pubblicazione del rapporto Tindemans sull’Europa a “due velocità” nel 1975 (con un possibile direttorio a con-duzione franco-tedesca con rotazione di un terzo membro). Il politico pugliese, con un memorandum presentato l’anno succes-sivo, si rese promotore di soluzioni volte a dare più garanzie negli scambi coni pae-si terzi e contravvenire alle falle generate nella competizione commerciale che

com-promettevano di continuo l’economia delle regioni meridionali d’Europa. Scarascia-Mugnozza aveva ben compreso che dalla promozione di buoni accordi commerciali sarebbe potuta scaturire una maggiore co-esione comunitaria.

L’autore conclude con una nota criti-ca nei confronti delle contraddizioni della Comunità nel suo rapporto con l’esterno e, allo stesso tempo, riesce a offrire un qua-dro politico-diplomatico del ruolo dell’Ita-lia nella Comunità.

Il punto di forza del volume pare pro-prio l’approccio biografico, che fa emer-gere — attraverso il profilo di un politico sino a qui poco noto — i meccanismi di funzionamento della Cee, e insieme, ana-lizza la partecipazione italiana all’impresa comunitaria attraverso le idee allora circo-lanti, non dimenticando gli interessi perso-nali, politici ed economici, particolarmen-te variati, che la costituirono.

Emanuela Lupo Amedeo Feniello, I nemici degli

ita-liani, Laterza, Roma-Bari, 2020, pp. 113, euro 12.

Il libro di Amedeo Feniello è breve, agile e brillantemente scritto. Diretto al grande pubblico, non si assume l’onere ac-cademico di un elenco critico e dettaglia-to di ogni invasione o influenza straniera sul nostro paese. Si propone invece di far emergere l’elemento di continuità dalla no-stra storia, frammentata e plasmata dai più diversi influssi etnici e culturali. Il libro ha la forma di una serie di ritratti del contat-to con lo straniero/invasore, ritratti definiti in poche ma efficaci pagine di piglio quasi narrativo. Feniello introduce l’invasore nel contesto dell’Italia con cui in quel momen-to si confronta. Questa impostazione, fat-ta di rapide ed incisive raffigurazioni, cor-re il rischio di cor-rendecor-re in qualche modo frammentaria la narrazione e di trascurare elementi di continuità che si sarebbero for-se potuti sottolineare. Per efor-sempio, dopo un esauriente capitolo sull’austriaco

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qua-le nemico, l’autore si concentra sull’ameri-cano durante la Seconda guerra mondiale, senza sottolineare come l’occupante tede-sco/nazista — forse la più viva figura di nemico nell’imaginario dell’Italia di con-temporanea — riconfermasse tutti i trat-ti negatrat-tivi solitamente associatrat-ti all’austria-co (‘il tedesall’austria-co’). Va però riall’austria-cordato che è l’autore stesso a ricordare che l’elenco dei nemici descritti è incompleto, sottoline-ando come il loro stesso numero rendesse impossibile analizzarli tutti in un volume breve. Interessante è come tre dei ‘nemi-ci degli Italiani’ provengano dall’interno della penisola. In particolare, chi è abitua-to alla tradizionale narrazione della prima unificazione della penisola sotto il pote-re di Roma, apppote-rezzerà il cambiamento di prospettiva, che prova a dar voce ai popoli italici conquistati uno ad un uno dall’ine-sorabile macchina da guerra romana. Pur con le scarse fonti a disposizione, l’autore riesce a rievocare la disperazione e lo sgo-mento di popoli che progressivamente si rendevano conto di non avere scampo.

Disperazione e sgomento che si ripeto-no a ogni apparire di un nemico esterripeto-no sul suolo italiano. Misti però al disprezzo: riassunto nel termine ricorrente di barba-ro. “Barbaro” è lo straniero estraneo alla propria civiltà, di conseguenza cultural-mente quasi sempre inferiore, sempre alie-no. Il greco della Magna Grecia conside-ra il romano un semicivilizzato, il romano giudica il cartaginese è sleale e crudele, il longobardo è un selvaggio pagano, in contatto con il demonio. Un capitolo mol-to interessante descrive la percezione dei Normanni da parte degli Arabi di Sicilia, che Feniello, autore di una storia dell’Ita-lia musulmana conosce bene. Il norman-no è descritto come lento di comprendo-nio, violento, fisicamente spettrale, quasi un essere di un altro mondo. Quanto al-la percezione del musulmano e del turco, l’elemento religioso arriva a porre in di-scussione la loro stessa umanità. Se il lan-zichenecco anticattolico ricorda il barbaro del quarto-sesto secolo, il francese si pre-senta come liberatore, per poi

conferma-re, agli occhi dell’italiano, la sua natura di predatore, di estraneo, mentre l’austria-co della Grande guerra, è il rappresentan-te di una barbarie ‘istruita e armata’. L’u-so del concetto di barbarie si accentua con la Seconda guerra mondiale. L’America in particolare (minor spazio viene riservato dall’autore alla Gran Bretagna) viene per-cepita dai fascisti quale paese privo di spi-rito, una cultura sterile e giudaizzata, fon-data su di un Moloch, in questo caso l’oro. La musica ‘negroide’, l’alcolismo, la man-canza di moralità, tutto viene guardato con orrore. Quando gli alleati bombardano ed invadono l’Italia, l’esercito americano viene descritto come un nemico brutale, criminale e inquinato da razze ‘inferiori’.

E tuttavia, qualcosa rimane di tutti que-sti invasori, nelle parole, nei costumi, nei tratti somatici. L’assimilazione romana dell’Italia è lunga e completa, i Goti imi-tano la civiltà romana e provano a rico-struirne gli aspetti formali e materiali; i Longobardi, da capi militari riescono a trasformarsi in veri sovrani di un popo-lo, attraverso la conversione al cattolice-simo, all’acquisizione del latino come lin-gua ufficiale e giuridica, arricchendo però il parlato di un gran numero di vocabo-li. Così, i Longobardi, dice l’autore, “era-no diventati, semplicemente, degli Italiani come tutti gli altri. Pronti per nuovi ag-gressori” (p. 39). La pur breve permanenza di massa degli Americani in Italia quello che l’autore descrive come una sorpren-dente “mutazione antropologica” (p. 101). L’impatto culturale su di una società con-tadina arretrata come quella italiana è pro-fondo ed immediato, tanto da contribuire a trasformare gli invasori in liberatori nella coscienza nazionale e ad affermare il lo-ro modello di società e di vita come quel-lo vincente in un’Italia in via di industria-lizzazione.

La trama di fondo del libro è dunque l’assimilazione: da queste successive stra-tificazioni emerge l’italiano di oggi, figu-ra non statica ma in continua tfigu-rasforma- trasforma-zione. Parte dell’Italia appena unificata vede il piemontese come nemico. Dopo

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aver demistificato l’idea di una immagi-naria “Borbonia Felix”, l’autore descrive lo scontro violento che prese la forma del brigantaggio come una rivolta sociale im-pregnata di elementi religiosi, etnici e mi-soneistici. Un secolo dopo arriva un ulti-mo invasore: è il meridionale, percepito come culturalmente estraneo, sporco, vio-lento, incivile, in definitiva anche lui un “barbaro”. Ma, dice l’autore, “l’emigran-te diviene tutt’uno con il nemico set“l’emigran-ten- setten-trionale” (p. 111). Questa rappresenta l’ul-tima e forse la più profonda stratificazione descritta, quella che ancora una volta crea qualcosa di nuovo in un ennesimo proces-so di ibridazione. “I Nemici degli Italia-ni”, terminando su questa nota, suggerisce, senza dirlo, che l’attuale crisi migratoria non è a suo modo che una riedizione di un copione che il nostro paese, ad ogni cam-bio di scena, recita da millenni.

Jacopo Pili

Storia della prostituzione

Annalisa Cegna, Natascia Mattuc-ci, Alessio Ponzio (a cura di), La

pro-stituzione nell’Italia contemporanea. Tra storia, politiche e diritti, Macerata, Eum, 2019, pp. 142, euro 14.

Il volume è il frutto di due giornate di studio organizzate dall’Istituto Storico e dall’Università di Macerata. I sette con-tributi raccolti coprono un arco cronologi-co che si estende dalla fine dell’Ottocento all’attualità e affrontano il tema della pro-stituzione secondo una prospettiva inter-disciplinare, che incrocia storiografia (con i saggi di Laura Savelli, Annalisa Cegna e Alessio Ponzio), filosofia (Giorgia Seru-ghetti e Natascia Mattucci) e sociologia (Cirus Rinaldi e Emanuela Abbatecola). Quella proposta è una riflessione ampia sulla marginalità/devianza e sulla relati-va gestione politica, sulle relazioni tra ge-nere e cittadinanza simbolica, nonché sui mutamenti e sulle continuità del

paesag-gio sociale e mentale dell’Italia contem-poranea. Il saggio di Savelli apre il lavoro concentrandosi sul rapporto tra abolizio-nismo e femmiabolizio-nismo/emancipazioabolizio-nismo nella seconda metà del XIX secolo. Trac-ciate le coordinate generali della regola-mentazione, l’autrice approfondisce il caso dell’abolizionismo italiano evidenziando il ruolo di spicco da esso assunto all’inter-no del dibattito politico grazie al connu-bio tra l’Estrema e le emancipazioniste. Emerge l’attività di Anna Maria Mozzoni e del Comitato centrale italiano della Bri-tish, continental and general federation for the abolition of government regulation of prostitution. Negli anni Ottanta le eman-cipazioniste si allontanano dalle battaglie politiche della Sinistra e l’abolizionismo perde gran parte del suo carattere riven-dicativo. Cegna, dopo un excursus sulla prostituzione nell’età liberale, si concentra sul periodo del Regime e sull’internamen-to delle prostitute durante il secondo con-flitto mondiale, interpretando il meretricio come tassello dell’etica genderizzata dello stato fascista. Nel Ventennio la necessità di una regolamentazione non fu mai mes-sa in discussione e il controllo sulle sex workers trovò un nuovo strumento nel si-stema di spionaggio messo a punto con-tro gli oppositori politici. Con la guerra le prostitute conobbero l’esperienza dell’in-ternamento civile, che Cegna ricostruisce con una lettura suggestiva di fonti archi-vistiche relative al campo di Solofra, fa-cendo emergere il vissuto di donne prove-nienti da contesti di marginalità e segnate infine da uno stigma indelebile. Serughet-ti ripercorre la decennale battaglia aboli-zionista sfociata nella legge Merlin (1948-1958) e ne mette a confronto argomenti e obiettivi con le proposte di riforma pre-sentate al Parlamento tra il 2013 e il 2018. Emergono alcune discontinuità: l’accento si muove dalla sfera della moralità a quel-la dei diritti; si nota quel-la recezione, seppu-re parziale, delle istanze del femminismo degli anni Settanta e Ottanta; compare la questione della responsabilità dei clienti; perde importanza la riflessione sulle

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cau-se socioeconomiche della prostituzione e si insiste sulle origini straniere delle pro-stitute. Al contempo non si può considera-re “del tutto superata la polarizzazione tra la visione della prostituta come donna pe-ricolosa da controllare, e quella della vitti-ma innocente da salvare” (p. 71). Il saggio di Mattucci prende spunto dal dibattito in-nescato dalla risoluzione per la protezio-ne dei diritti umani delle e dei sex wor-kers approvata da Amnesty international nel 2015. Oltre a focalizzare gli argomen-ti portanargomen-ti di tale dibatargomen-tito, Mattucci mo-stra come la prostituzione abbia interro-gato il movimento femminista fin dagli anni Settanta e si sofferma sulle tesi del femminismo giuridico radicale, per con-cludere che la tutela di chi è coinvolto nel lavoro sessuale intreccia necessariamen-te diritti civili e diritti sociali: ciò appa-re evidente superando la dicotomia stappa-retta tra fronte libertario e repressivo, e osser-vando i “contesti di scelta” e le “discrimi-nazioni multiple/intersezionali che li attra-versano” (p. 85). I contributi di Rinaldi e Ponzio hanno il merito di soffermarsi sui sex workers. Se il tema della prostituzione femminile in età contemporanea continua ad essere poco battuto dalla storiografia italiana, lo studio della prostituzione ma-schile può dirsi ancora in una fase aurora-le. I due autori, pur da prospettive diverse, mostrano le implicazioni del lavoro ses-suale maschile sulla categoria di virilità e sull’identità di genere. Le argomentazio-ni di Rinaldi sono il risultato di un’etno-grafia sul sex work di strada — compiuta in Sicilia nel 2016 — da cui emergono una serie di pratiche, vincolate ai modelli di genere, che permettono ai lavoratori coin-volti in scambi omosessuali di preserva-re la propria preserva-reputazione maschile e “neu-tralizzare lo stigma sessuale associato” (p. 87). Ponzio si concentra su alcuni esempi letterari (Tennessee Williams, Pier Paolo Pasolini, Giuseppe Patroni Griffi) degli anni Cinquanta e Sessanta; in questo periodo, infatti, furono pubblicati roman-zi e racconti brevi nei quali la prostituroman-zio- prostituzio-ne uomo-uomo emergeva come fenomeno

diffuso. In assenza di fonti documenta-rie che descrivano il fenomeno, l’autore si confronta dunque con le rappresentazioni fornite da alcune produzioni intellettuali, pur pervenendo a conclusioni che esulano dal versante dell’immaginario. A partire dagli scritti esaminati egli trova nella ca-tegoria queer una caca-tegoria interpretativa più adatta a descrivere l’identità dei pro-stituti rispetto a quelle di eterosessuale o omosessuale. Abbatecola chiude il volu-me volu-mettendo a confronto il discorso sul-le e delsul-le prostitute che vissero l’esperien-za delle case chiuse e quello relativo alla attuale tratta delle migranti. Preso atto di una stratificazione del mercato del sesso per la quale non tutte le lavoratrici vivo-no il medesimo livello di autodetermina-zione, l’autrice mostra decisi punti di con-tatto tra i due fenomeni: la provenienza delle prostitute dall’area della marginalità sociale, l’assoggettamento delle stesse ad abusi e sfruttamento, la declinazione del fenomeno come questione di pubblica si-curezza e di decoro. La convincente pro-posta interpretativa di Abbatecola rimanda le continuità osservate alla permanenza di “grammatiche sessuali tese a riprodurre, difendere e consolidare un ordine di ge-nere binario ed eteronormativo di tipo tra-dizionale” (p. 124) e le inscrive nella sfera della cittadinanza simbolica: mentre una vigorosa sessualità maschile è veicolo di cittadinanza, l’analogo femminile è pre-supposto di un’esclusione dalla stessa.

Chiara Fantozzi Laura Schettini, Turpi traffici:

Prosti-tuzione e migrazioni globali, 1890-1940, Roma, Biblink, 2019, pp. 232, euro 18.

Gli studiosi s’interrogano da molto tem-po a protem-posito di una questione fonda-mentale: le donne si dedicano alla pro-stituzione anche per una libera scelta o esclusivamente per coercizione? Il dibatti-to su questa domanda empirica è sempre stato controverso, perché l’interesse del-la storiografia contemporaneistica per del-la

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prostituzione ha coinciso, e in parte è sta-to indotsta-to, dalla nascita della cosiddetta seconda ondata del femminismo, che ha vissuto dibattiti estremamente divisivi su questioni legate alla sessualità delle donne.

Negli anni Settanta e Ottanta, nume-rosi storici europei e statunitensi, impe-gnati in studi pionieriestici, rifiutarono le tradizionali teorie biologiche e psicologi-che psicologi-che patologizzavano le prostitute, in-serendole nella categoria delle “degenera-te”, preferendo piuttosto tener conto della loro agency nel decidere la professione. Da questo punto di vista, l’isteria vittoriana sulla “tratta delle bianche”, o il rapimen-to forzarapimen-to di ragazze innocenti a scopo di prostituzione, era un mito esagerato. Men-tre la questione politica del traffico sessua-le assumeva una dimensione internazio-nale, alcuni studi sociologici più recenti hanno individuato la coercizione da par-te dei soupar-teneurs (propar-tettori) come la cau-sa principale della prostituzione e quin-di hanno caratterizzato le prostitute come vittime del crimine.

Questo volume di Laura Schettini ci consegna una risposta sofisticata e più complessa, contestualizzando la tratta del-le donne nella storia dell’emigrazione ita-liana di epoca liberale e fascista.

La prima e più corposa parte del li-bro esplora l’impiego delle donne italia-ne migranti che si inserivano italia-nel mercato della prostituzione in tutto il Mediterra-neo e nelle Americhe. Piuttosto che mi-nimizzare la portata della “tratta delle bianche”, Schettini sostiene che la prosti-tuzione è diventata un fenomeno globale alla fine dell’Ottocento. La mobilità delle prostitute attraverso le frontiere era facili-tata dalla modernizzazione dei trasporti e dall’aumento della domanda da parte de-gli uomini europei, che migravano in gran numero per trovare lavoro o per servire negli eserciti coloniali.

I bordelli di paesi come Malta, Egitto e Argentina facevano parte di un circuito di scambio gestito da tenutarie italiane e

so-uteneurs (protettori), figure di intermedia-ri che in passato hanno intermedia-ricevuto scarsa

at-tenzione dalla ricerca storica. Nonostante i collegamenti organizzati tra l’Italia e l’e-stero, tuttavia, la maggior parte delle pro-stitute non venivano ingannate o costrette; erano piuttosto migranti per scelta, finora invisibili alla storia.

Molte donne in cerca di lavoro in bor-delli stranieri avevano già lavorato come prostitute in Italia o avevano scelto la pro-stituzione come professione più remunera-tiva una volta emigrate. Schettini presen-ta così uno scenario sfumato che verifica l’importanza del mercato internazionale della prostituzione prima del primo con-flitto mondiale ma allo stesso tempo sotto-linea l’agency delle donne che sceglievano di sfruttare questa opportunità di lavoro.

Lo stesso Stato italiano riconosceva lo stretto rapporto tra prostituzione e migra-zione, come risulta dalle fonti archivisti-che usate nel volume. Sarchivisti-chettini esplora in modo originale la corrispondenza diplo-matica, i rapporti di polizia e i documenti del Commissariato generale dell’Emigra-zione per documentare non solo le traiet-torie geografiche delle singole prostitute, ma anche la politica ufficiale italiana, al-quanto contraddittoria, nei confronti del-la ‘tratta delle bianche’. Da un verso, del-la polizia riceveva l’ordine di aumentare la sorveglianza sulla mobilità delle prostitute nell’ambito di una più ampia iniziativa di regolamentazione di tutti i tipi di emigra-zione. Per difendere la buona reputazione dell’Italia, la polizia cercava di arrestare le donne che partivano sole, presupponen-do che fossero dirette in bordelli stranieri, dove la loro presenza avrebbe portato cat-tiva pubblicità.

Da un altro verso, lo stato tollerava la presenza di prostitute italiane proprie nel-le aree del Mediterraneo dove risiedeva-no ampi gruppi di coloni bianchi maschi, mercanti e soldati, allo scopo di prevenire la mescolanza razziale con le donne locali. A livello internazionale, il governo ita-liano durante il periodo liberale sembrò collaborare con organizzazioni come l’In-ternational bureau for the suppression of the white slave trade per interrompere le

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reti di approvvigionamento. Questa politi-ca continuò nel periodo tra le due guerre, quando la dittatura fascista partecipò alla sottocommissione antitratta della Società delle nazioni presentando rapporti annua-li sull’attività di poannua-lizia. A differenza del-la maggior parte delle altre nazioni, tut-tavia, il regime di Mussolini si rifiutò di abolire le case chiuse, che la sottocommis-sione accusò di essere la fonte della tratta delle donne.

La seconda parte del libro si concen-tra sulla migrazione delle prostitute sconcen-tra- stra-niere in Italia nel più ampio contesto del-la partecipazione dell’Italia aldel-la campagna internazionale per combattere la tratta e, in secondo luogo, per promuovere l’aboli-zionismo come meta future e globale. Nel periodo antecedente la Prima guerra mon-diale, lo Stato sostanzialmente si disinte-ressava alle donne, per lo più provenienti da altri Paesi europei, che attraversavano il confine e si registravano presso le ca-se chiuca-se.

Nel 1913, tuttavia, la polizia iniziò a interrogare le prostitute straniere in con-formità con gli accordi internazionali del 1904 e del 1910, cercando di sopprime-re la ‘tratta delle bianche’. Il sopprime-regime fasci-sta inasprì la sorveglianza sulle prostitute straniere con il pretesto di attuare la poli-tica antitratta della Società delle Nazioni.

In pratica, lo Stato effettuò pochissimi arresti di madame o souteneurs e utilizza i suoi poteri di polizia per identificare ed espellere le prostitute clandestine. Nei rap-porti italiani alla Società delle Nazioni, le donne straniere impiegte nelle case chiuse che collaboravano con le autorità di poli-zia dichiaravano invariabilmente di essere giunte in Italia di loro spontanea volon-tà. In questo modo, lo Stato usò la retori-ca anti-tratta per controllare piuttosto che assistere le donne straniere e per rafforza-re, piuttosto che abolirafforza-re, il sistema di rego-lamentazione.

Questo libro merita l’attenzione degli studiosi di molti campi di ricerca. È, in-fatti, stimolante per studiosi e studiose di storia delle donne, del genere e della

ses-sualità. Turpi traffici mostra le complica-te traiettorie incomplica-ternazionali delle donne del passato, che cercavano lavoro in un mondo in via di industrializzazione che offriva lo-ro meno scelte e salari nettamente inferio-ri inferio-rispetto agli uomini. È una sfida anche all’interpretazione standard dell’emigra-zione italiana come fenomeno a prevalen-za maschile, concentrandosi su un grup-po di donne che spesso sono state ignorate a causa del loro status illegale o per esser-si mosse all’interno del nucleo familiare.

Sebbene Schettini esamini un nume-ro rilevante di paesi in cui le pnume-rostitute emigrarono, sarebbe utile in futuro trova-re fonti quantitative per documentarne il numero. Altre ricerche saranno necessarie anche per districare il rapporto tra i codi-ci di mascolinità fascodi-cisti e le politiche uf-ficiali dello Stato verso la prostituzione. Schettini ha gettato solide basi per tali in-dagini andando oltre la prospettiva nazio-nale e portando l’Italia nel vivace campo degli studi transnazionali sulla prostitu-zione.

Mary Gibson

1943-1945

Cristina Tassi, Quarantuno di noi.

Sto-ria e storie degli ebrei di Cotignola, Ra-venna, Longo, 2020, pp. 365, euro 18.

Di Cotignola “Paese dei Giusti”, comu-ne romagnolo di qualche migliaio di abi-tanti nell’entroterra ravennate, fisicamente a cavallo del Senio e fra altri corsi d’acqua naturali e artificiali che negli ultimi me-si della Seconda guerra mondiale hanno catturato l’attenzione dei comandi sia del-la Wehrmacht, sia delle truppe alleate, era già stato raccontato, e scritto, in più occa-sioni. Un percorso di recupero e valorizza-zione della memoria che prende avvio nel 1965, nel ventennale della Liberazione, ri-petendo perciò uno schema tutt’altro che inconsueto per la memoria della Seconda guerra mondiale nel nostro paese. Da lì in

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poi, a cadenza periodica, una serie di al-tre tappe arricchisce un panorama che ini-zia anche a materializzarsi nel 1987, con l’inaugurazione del “Giardino dei Giusti”, proseguendo all’inizio del nuovo millennio con il riconoscimento del titolo di “Giu-sti fra le Nazioni” a Vittorio Zanzi e Lui-gi Varoli, i due principali artefici della re-te salvifica sre-tesa a Cotignola fra l’autunno 1943 e l’aprile 1945. Ancora, in anni suc-cessivi, una sezione del locale Museo ci-vico, che a Luigi Varoli è intitolato, viene dedicata a queste vicende (segno eviden-te del compimento di una serie significati-va di ricerche), che sono proposte anche al grande pubblico grazie a due documenta-ri uno dei quali, a firma del regista Nevio Casadio, è ospitato nel 2013 in una punta-ta de La storia siamo noi.

Un compito perciò tutt’altro che sem-plice quello che si è assunto l’autrice, che non poteva essere (e infatti non è) di mero riordino ragionato di quanto scritto finora, magari arricchendolo con qualche nuova risultanza archivistica e certe testimonian-ze, finora inedite o comunque poco no-te. Cerca perciò, senza dubbio riuscendo-ci, di proporre uno studio che si distacchi dalla cronistoria locale (e localistica), va-lorizzando la struttura della narrazione co-rale senza però privarla del vaglio scienti-fico. Il tutto arricchito da qualche “pillola” di memorie inedite, che illustrano il qua-dro e il contesto e permettono, a loro vol-ta, di leggere in maniera ancora più chia-ra ed esaustiva quanto già noto da anni o decenni.

Dopo l’apertura a firma dell’Ammini-strazione locale e una prefazione di Guido Ottolenghi (memoria di seconda genera-zione di questi eventi), il volume si artico-la in due parti. Nelartico-la prima l’autrice inizia tratteggiando il contesto generale e va poi a delineare il quadro degli eventi che ha caratterizzato questa città a partire dalle settimane successive all’Armistizio, quan-do diverse categorie di persone — fra cui coloro che sin dall’autunno 1938 rientrava-no nella categoria degli “appartenenti alla razza ebraica” — si trovano nell’urgenza

di fuggire, cercare un rifugio, salvarsi da nazisti, fascisti repubblicani e spie. È però soprattutto la componente ebraica, di cui a Cotignola non vi era stata traccia fino a quel momento, a segnare con la propria presenza la vita clandestina cittadina, e le scelte di chi si è posto dalla loro parte. Di-verse vicende e traiettorie personali por-tano alcune famiglie a cercare la salvezza proprio in questo paese, che dal dicem-bre 1944 ricade precisamente sulla linea del fronte, subendone tutti i più drammati-ci contraccolpi; e, caso non unico ma cer-to molcer-to raro nell’Italia occupata, a trovar-la: non uno degli ebrei riparati a Cotignola ha qui subito tradimento, violenza, cattura e successiva deportazione.

Nei due successivi capitoli della prima parte del volume, l’autrice dedica ampio spazio e dettagli ai due massimi artefici di questa oasi di salvezza: il macellaio Vitto-rio Zanzi, repubblicano, interventista plu-ridecorato nella Grande guerra, impegna-to in politica a inizio anni Venti, sempre pronto a spendersi per il suo paese e i suoi concittadini, infine podestà e poi commis-sario prefettizio di Cotignola; il professore Luigi Varoli, docente di disegno e storia dell’arte, artista eclettico, anche musici-sta diplomato e collezionimusici-sta. Si tratta sen-za dubbio di un passaggio necessario nella struttura del volume, oltre che interessante e (come il resto del lavoro) piacevole alla lettura. Si ravvisa tuttavia una dilatazione forse eccessiva nello spazio e nel nume-ro di pagine dedicate, tale che potrebbe in-durre nel lettore un’interruzione nella fru-izione del filo narrativo; altrimenti chiaro, logico, coerente e scorrevole.

Nella parte seconda si rientra nel cuo-re della tematica centrale, dedicando un capitolo a ciascuno degli undici nuclei fa-miliari, di varia grandezza (e differente le-game con la cultura, la tradizione e la fe-de ebraica) e non di rado misti, che hanno trovato riparo a Cotignola; l’ordine in cui vengono proposti è quello cronologico del loro arrivo in questo lembo di Romagna. Ne esce un racconto non disarmonico seb-bene talvolta troppo “affollato”,

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