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Alcune considerazioni sulla datazione e sulla lettura di CIG III 4969b (SB 8456)

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G

IANMARIO

C

ATTANEO

A

LCUNE CONSIDERAZIONI SULLA DATAZIONE E SULLA LETTURA

DI

CIG III 4969

B

(SB 8456)

aus: Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 207 (2018) 89–95

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A

LCU N E CONSI DER A Z ION I SU LLA DATA Z ION E E SU LLA LET T U R A DI

CIG III 4969

B

(SB 8456)*

Fino all’inizio del secolo scorso, a pochi chilometri a nord ovest di Padova, presso l’odierno rione di Alti-chiero, sorgeva una villa di campagna appartenuta alla famiglia veneziana dei Querini, nota come Villa Querini o Villa Altichiero. Alla villa, distrutta ad inizio del Novecento, era annesso anche un vasto giar-dino, all’interno del quale si potevano ammirare non solo numerose specie animali e vegetali, ma anche pregevoli statue e manufatti antichi1, molti dei quali furono acquistati quando il proprietario era il sena-tore Angelo Querini (1721–1796)2. Tra il 1780 e il 1781, Querini compì un viaggio in varie città italiane e, durante il suo tour, ebbe occasione di comprare numerosi manufatti, compresa una piccola collezione di antichità egizie3.

Tra questi reperti, vi era anche una tavola delle offerte, o tavola per libagioni, recante un’iscrizione in greco (CIG III 4969b; SB 8456; TM 6345) e oggi conservata presso l’Ägyptisches Museum und Papyrus-sammlung di Berlino (Berlin, Ägyptisches Museum, inv. 2305); la tavola misura 49 × 48 cm ed è in basalto nero. Siccome non possediamo informazioni sul reperto antecedenti all’acquisto da parte di Querini, non se ne conoscono né il luogo né il contesto di rinvenimento.

In Egitto le tavole delle offerte venivano poste presso una tomba e utilizzate dai sacerdoti per offi ciare riti o offrire cibo al morto; infatti, sul bordo delle tavole, veniva spesso tracciato un canaletto che serviva a far defl uire le libagioni. Inoltre, esse venivano decorate con bassorilievi, che solitamente illustravano il banchetto del defunto. In questo caso, all’interno della tavola sono raffi gurate due piante di loto in fi ore e, accanto ad esse, due vasi che venivano usati per le libagioni, da ognuno dei quali sgorgano due rigagnoli che si riversano sull’altare al centro della tavola; sull’altare vi sono alcuni frutti e, al centro, un altro fi ore di loto. Al di sopra dell’altare, vi sono due piccoli ricettacoli realizzati per raccogliere i liquidi delle libagio-ni. Sulla parte superiore, nel punto in cui il canale fa fuoriuscire i liquidi, si trova una statuetta a forma di rana. Il motivo iconografi co qui rappresentato è ampiamente attestato in età antica, tolemaica e imperiale4, e anche la rana è un elemento piuttosto comune in una tavola per libagioni, in quanto animale collegato ai cicli di piena del Nilo e, di conseguenza, al concetto di rinascita5.

A proposito della storia di questa tavola, nel 1787 fu ripubblicato a Padova un opuscolo scritto dalla con-tessa Giustiniana Wynne (1737–1791) intitolato Alticchiero, in cui veniva descritta la villa di Angelo Que-rini; questa riedizione fu affi data ad un amico della contessa, Bartolomeo Benincasa (1746–1816), il quale la corredò di un ricco apparato iconografi co e di alcune note di commento6. Nel testo, Madame Wynne descrive i reperti egizi acquistati da Querini, tra cui la tavola Berlin, Ägyptisches Museum, inv. 23057, e, nelle note di commento, Benincasa discute dell’iscrizione greca, riportando l’interpretazione che ne aveva dato Jean Baptiste Gaspard d’Ansse de Villoison (1750–1805). Secondo Villoison, l’iscrizione riportava * Ringrazio la dott.ssa Olivia Zorn, che mi ha gentilmente fornito la riproduzione del manufatto Berlin, Ägyptisches Museum, inv. 2305 e concesso il permesso di pubblicarla. Ringrazio inoltre i professori Guido Bastianini ed Enrica Culasso per le profi cue discussioni riguardanti questo manufatto, il dott. Herbert Verreth, per l’aiuto bibliografi co, la professoressa Rosa Maria Piccione e il professor Georg Petzl, per i preziosi consigli e la continua assistenza durante l’elaborazione di questo contributo. Rimango l’unico responsabile di quanto scritto e delle conclusioni di questo articolo.

1 Sul giardino di Villa Altichiero bastino i rimandi a Ericani 1983; Azzi Visentini 1991; Catucci 2010.

2 Sulla vita e l’attività di collezionista di Angelo Querini si vedano in particolare Catucci 2000; Varin 2002, 213–214;

Catucci 2010; Trebbi 2016.

3 Su questa collezione si vedano Catucci 2000; Varin 2002; Catucci 2010.

4 Cfr. Ritner 1994, in cui sono raccolti numerosi esempi di tavole per le offerte così decorate. 5 Cfr. Hornung–Staehelin 1976, 112–113; Masson 2013–2015, 13–14.

6 Sul contributo di Benincasa a questa riedizione e il suo rapporto con Giustiniana Wynne si veda Catucci 2000, 370–371. 7 Cfr. Wynne 1787, 17.

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ΘΩΥΘΗ ΙΣΙ∆Ι ΘΕΑ ΜΕΓΙΣΤΗ ΦΑΡΣΟΣ ΑΝΕΘΗΚΕ, ovvero «A Toth, a Iside dea massima Pharsos dedi-cò». Egli non riuscì ad identifi care la prima lettera dell’iscrizione e interpretò il simbolo tra ΜΕΓΙΣΤΗ e ΦΑΡΣΟΣ come l’abbreviazione della parola IOZ, con cui gli Egizi indicavano la luna8; a questo proposito, rimandava ad una pagina del Pantheon Aegyptiorum di Paul Ernst Jablonski9.

Dopo la proposta di Villoison, questa iscrizione fu citata anche nell’edizione di Niels Iversen Schow (1754–1830) della Charta Borgiana, a proposito dell’uso della lingua egizia di apporre davanti alle parole gli articoli Φ, Π, Θ e Ϯ, uso che secondo Schow sarebbe testimoniato anche in iscrizioni greco-copte come quella sulla tavola di Villa Querini. Infatti, Schow sostiene che la parola ΦΑΡΣΟΣ sia il nome copto della tavola scritto in caratteri greci, e che il segno che Villoison interpretava come IOZ sia la lettera copta Ϩ, inserita prima di ΦΑΡΣΟΣ per esprimere il suono della lettera Φ nella pronuncia egizia10. La prima serie di lettere viene invece interpretata come il nome proprio ΦΘΩΥΘΗ, in cui la prima lettera, l’occlusiva aspirata bilabiale, non sarebbe stata segnalata con il carattere greco Φ, ma con la lettera copta Ϥ11. L’iscrizione

8 Cfr. Wynne 1787, 72–73.

9 Jablonski 1752, 4: «Lunam Aegyptii vernaculo sermone appellant IOϨ, Ioh, et praeposito articulo generis masculini,

ΠΙ- IO».

10 Schow 1788, 59: «Indicant haec omnia, quod eiusmodi ara sive mensa sacris solemnibus, nobis ceteroquin incognitis,

dicata fuerit, quae autem ex indole theologiae Aegyptiae effusionem sive distributionem aquae Niliacae fuisse haud improbabi-le est: eiusmodi instrumentum voce, quae in inscriptione huius monumenti ordine quinta est, nempe φαρσος commode exprimi potuit, cuius vocis, ex lingua Copt. deductae, signifi catus hic esset: instrumentum effusorium sive fons effusionis (ΕΡ origo,

fons ϪΟϢ effundere, effusio et art. Φ). […] Character 7 aliquantum similis Aegyptiorum literae adspirat. Ϩ, voce φαρσος

praefi gitur, ad exprimendum sonum genuinum pronunciationis Aegyptiae, quae literis Graecis reddi non potest».

11 Schow 1788, 59: «Prima inscriptionis vox videtur esse nomen proprium cuiusdam Aegyptii, quod literis Graecis ita

exprimendum est: Φθωυθη sive Φαθωυθη (eiusdem terminationis ac nom. Ερμη in charta Borgiana col. VII. 17.). Nam primus Berlin, Ägyptisches Museum und Papyrussammlung, inv. 2305

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Alcune considerazioni sulla datazione e sulla lettura di CIG III 4969b 91

viene perciò così trascritta: «Φθωυθη Ισιδι, θεᾳ μεγιστῃ, Ϩφαρσος ανεθηκε (sic). Phathoythe Isidi, deae maximae, mensam effusionis dedicavit»12.

In un momento imprecisato dopo la morte di Querini, la tavola confl uì nella collezione di antichità egizie del conte tedesco Johann Heinrich Karl Menu von Minutoli (1772–1846), che nel 1823 fu acquistata dal Re di Prussia Federico Guglielmo III e che diventò il nucleo fondante della raccolta di manufatti egizi dell’Ägyptisches Museum di Berlino. Nel 1825, Konrad Levezow registrava anche questo reperto all’inter-no della collezione del Re di Prussia e riprendeva la lettura proposta di Villoison13.

Nel 1829, Ulrich Friedrich Kopp rilesse l’iscrizione in questo modo: «θωυθ Ηισιδι θεᾳ μεγιστῃ ζʹ φαρσος ἀνεθηκε (sic) “… thoyth Isidi, deae maximae, septem velamina dedicavit”»14. Egli riteneva θωυθ l’ultima parte del nome del dedicatario dell’iscrizione, Ηισιδι un errore di itacismo per Ισιδι, φαρσος il nome comune che in greco signifi ca “porzione”, ma anche “pezzo di stoffa”15, e interpretò il segno dopo μεγίστῃ come il numero ζ16. All’obiezione che φάρσος non fosse concordato con il numerale, Kopp rispondeva dicendo che i Copti non declinano mai le parole greche17.

Il contributo decisivo per quanto riguarda la decifrazione di questa iscrizione è rappresentato dall’edi-zione di Johannes Franz del 1853, in CIG III 4969b. L’iscridall’edi-zione è trascritta in questo modo: Lιʹ, Θωῢθ ηʹ, Ἴσιδι θεᾷ μεγίστῃ Φάρσος ἀνέθηκε, ovvero «Nell’anno decimo, ottavo giorno del mese di Toth, Pharsos dedicò a Iside dea massima». L’editore interpretava il primo segno come l’abbreviazione per ἔτους in lega-tura con numero ιʹ, e il segno tra μεγίστῃ e Φάρσος come un «siglum interpunctionis»18. Attraverso questa proposta di lettura, egli proponeva di collocare l’iscrizione in età imperiale, interpretando (ἔτους) ιʹ come l’anno di regno di un imperatore. Questo rappresenta il primo tentativo di datare l’iscrizione, anche se è probabile che Schow, interpretando alcuni segni come lettere dell’alfabeto copto, ritenesse questa iscrizione databile almeno alla media-tarda età imperiale.

Tre anni prima della pubblicazione del terzo volume del CIG, era uscito uno studio di Heinrich Brugsch sui reperti del Museo Egizio di Berlino, in cui veniva segnalata e trascritta anche questa iscrizione. La let-tura e l’interpretazione di Brugsch sono identiche a quella del CIG19.

Nel 1899, nel catalogo delle antichità del Museo Egizio di Berlino, la tavola viene registrata con il numero di inventario 2305, con l’indicazione: «Mit griechischer Inschrift: Im Jahre 10 (eines Kaisers) am 9. Thoth weihte Pharsos (dieses) der sehr grossen Göttin Isis»20. L’errore di traduzione del numerale ηʹ potrebbe essere una svista di poca importanza, se non fosse riprodotta anche in una recente pubblicazione di Eric Varin riguardante questo manufatto: «L’an 10, le 9 Toth, Pharsos consacre à la grande déesse Isis.»21

L’ultima edizione disponibile dell’epigrafe è inserita nel quinto volume del Sammelbuch: «Basaltstein

(Altar oder Opfertisch). Weihung. CIG III 4969b. Fundort? (jetzt Berliner Museen). Ptolemäerzeit (ἔτους) ιʹ, character simillimus est lit. Copt. Ϥ, qua Graeco-Aegyptii literam φ exprimunt, ita quidem ut hisce duabus literis promiscue utantur.»

12 Schow 1788, 60. Nel trascrivere l’iscrizione, Schow non segnala né spiriti né accenti. 13 Levezow 1825, 227: «ΘΩΥΘΗ ΙΣΙ∆Ι ΘΕΑ ΜΕΓΙΣΤΗ ΦΑΡΣΟΣ ΑΝΕΘΗΚΕ.» 14 Kopp 1829, 200. Come Schow, Kopp non indica né spiriti né accenti. 15 Cfr. Liddell–Scott–Jones, s.v. φάρσος, εος, ους, τό. 2.

16 Cfr. Kopp 1829, 199–200.

17 Kopp 1829, 200: «Sed ne quis forte in το φαρσος, quia cum plurali numero conjunctum est, offendat, meminerit a

Coptis vocabula Graeca neutiquam infl ecti.»

18 La proposta di lettura è così giustifi cata: «Male Villoisonus legebat Θωύθῃ (i e. Mercurio) characteres vocibus Θωύθῃ

et Φάρσος praemissos sculpturae ornamenta esse censens. Haec partim recte refutavit Schowius, in eo tamen falsus, quod characteres illos ex lingua Coptica explicandos putavit. 7̅ vel, ut ego dispicio, Ζ̅ , siglum interpunctionis videtur esse. Φάρσος nomen proprium est. Sed quod ante Θωύθ scriptum est, vix alius esse potest, quam LI colligatum. Notatur annus x. nescio cuius Imperatoris. Ceterum titulum satis recentem esse ex forma litterarum apparet.»

19 Brugsch 1850, 32: «LI Θωῢθ ηʹ Ἴσιδι θεᾷ μεγίστῃ Φάρσος | ἀνέθηκε auf Deutsch: “Im Jahre 10 (irgend welches

Kaisers) am 8. des Monats Toth weihte (diesen Stein) der Isis, der sehr grossen Göttin, Pharsus”. Die Form der griechischen Buchstaben lehrt, dass die Inschrift aus später Zeit ist.»

20 Ausführliches Verzeichnis, 334. 21 Varin 2002, 219.

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Θωῢθ ηʹ. Ἴσιδι, θεᾷ μεγίστηι, Φάρσος | ἀνέθηκε»22. Le novità introdotte dall’editore Friedrich Bilabel rispetto ai precedenti studi sono una nuova proposta di datazione, giacché si suggerisce l’età tolemaica anziché quella imperiale, e l’interpretazione del segno dopo μεγίστη come uno iota ascritto.

Dopo aver passato brevemente in rassegna le vicende editoriali dell’iscrizione, è necessario ora procedere ad un nuovo studio dell’oggetto e dell’epigrafe, che ci consenta innanzitutto di proporre una nuova datazio-ne, e conseguentemente di decifrare i loci critici dell’iscrizione.

Sebbene non se ne conosca il contesto di ritrovamento, l’oggetto proviene sicuramente dall’Egitto, giacché si tratta di un manufatto che possiede tutte le caratteristiche materiali e iconografi che di una tavola funeraria per libagioni egizia23. Tuttavia, le nostre ipotesi devono immediatamente arrestarsi: infatti, nes-sun’altra deduzione è possibile trarre da dati come l’iconografi a e il materiale, giacché i manufatti in basalto erano molto diffusi in tutto l’Egitto, sebbene il numero di cave di basalto fosse ridotto24.

Per quanto riguarda l’iscrizione, partendo dai dati paleografi ci, bisogna sottolineare il differente grado di formalità impiegato nel realizzare ἀνέθηκε, che è inciso sul bordo destro della tavola, e il resto della frase, che si trova sul bordo inferiore; infatti, il verbo di dedica appare inciso con un ductus più posato, con le lettere pressoché dello stesso modulo, mentre la prima parte dell’iscrizione sembra stata realizzata in maniera molto più informale, tanto che è possibile che l’autore dell’iscrizione o abbia inciso le due porzioni di testo in due momenti distinti, oppure più probabilmente si sia premurato di evidenziare il verbo di dedica con una grafi a più formale.

Le principali caratteristiche delle lettere sono le seguenti: gli alpha non sono realizzati senza tratto orizzontale, eccetto l’alpha di ἀνέθηκε con il tratto orizzontale spezzato; l’epsilon, il sigma e l’omega sono sempre realizzati in forma lunata; il tratto centrale del theta è realizzato non come un punto, ma come un trattino orizzontale, legato a sinistra con il corpo della lettera; il tratto verticale del kappa è staccato dai due tratti obliqui; il my si presenta in forma tondeggiante. Inoltre, le lettere sono decorate piuttosto regolarmente con apicature e tratti ornamentali (molto evidenti in delta). Le caratteristiche qui enucleate sono indice di seriorità e collocano l’iscrizione in un orizzonte temporale posteriore a quello ipotizzato nel SB. In partico-lare, la presenza di lettere tondeggianti – le cui forme denunciano l’infl uenza delle scritture corsive di età imperiale – anche dove l’iscrizione è realizzata in maniera più formale (ἀνέθηκε) ci suggerisce di collocare l’iscrizione non prima del II/III secolo d.C. L’indicazione ἔτους ιʹ potrebbe quindi riferirsi effettivamente all’anno di un imperatore, come già sospettato da Franz e da Brugsch.

Alla datazione è strettamente legata la decifrazione del locus criticus dell’epigrafe, ovvero il segno tra ΜΕΓΙΣΤΗ e ΦΑΡΣΟΣ; ad oggi, la trascrizione più attendibile rimane quella del CIG: (ἔτους) ιʹ, Θωῢθ ηʹ, Ἴσιδι θεᾷ μεγίστῃ Φάρσος ἀνέθηκε.

Rispetto ai precedenti studi, segnaliamo che, sopra la lettera η che segue Θωΰθ, l’incisore ha realizzato un tratto orizzontale per segnalare il numerale cardinale ηʹ25. Un tratto quasi identico si trova anche sopra il segno presente tra ΜΕΓΙΣΤΗ e ΦΑΡΣΟΣ, e che da Franz viene così interpretato: « 7̅ vel, ut ego dispicio, Ζ̅ ».

A questo proposito, è da respingere la lettura μεγίστηι data dal Sammelbuch, in quanto esso non può essere interpretato come uno iota ascritto. Più ragionevole appare la proposta contenuta nel CIG, nel quale si suggerisce di identifi carlo con un «siglum interpunctionis»: infatti, nelle iscrizioni greche tardorepub-blicane e imperiali talvolta viene utilizzato un segno divisorio a forma di semicerchio tagliato da un tratto orizzontale, segno già presente in iscrizioni di età classica26; tuttavia, in questo caso i tratti orizzontali nella parte superiore sono due, nonché uno nella parte inferiore.

22 SB 5 8456.

23 Cfr. la descrizione del reperto a p. 89.

24 Cfr. Lucas 1962, 61–62; Aston–Harrell–Shaw 2000, 23–24.

25 Invece, per quanto riguarda il numerale ι, l’incisore ha realizzato un breve tratto verticale tra il numero e

l’abbrevia-zione di ἔτους.

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Alcune considerazioni sulla datazione e sulla lettura di CIG III 4969b 93

Questo segno appare invero come uno “zeta corsivo”, segno che iniziò ad essere utilizzato nelle epigrafi già in età ellenistica per poi conoscere ampio uso in età imperiale. Questo dettaglio ben si accorderebbe con la proposta di datazione27 e, data la presenza di un tratto orizzontale al di sopra di esso come quello usato per ηʹ, è altamente probabile che l’incisore abbia voluto qui indicare il numero ζʹ, come già sosteneva Kopp28. Tuttavia, non abbiamo trovato altre iscrizioni di dedica in cui il nome della dea Iside sia accompa-gnato dal numero ζʹ, né, in generale, da un numero.

L’interpretazione di tale segno potrebbe allora essere collegata alla parola seguente, ovvero Φάρσος, che dal CIG in avanti è stato interpretato come il nome del dedicatario. Il nome proprio Φάρσος è attestato unicamente in questa epigrafe, al quale rimandano tutti i repertori che registrano questo nome29. Secondo i dizionari, il nome non è di origine greca30: il Pape lo indica come egizio31, mentre nel Namenbuch viene inserito tra i nomi di origine araba, ma senza alcun commento a riguardo32.

Si potrebbe perciò ragionare sulla possibilità che questo segno sia parte del nome del dedicatario. Un’iscrizione datata dagli studiosi all’inizio dell’età imperiale33, rivenuta a Samo e studiata da Françoise Dunand34 e Miroslav Marcovich35 contiene una dedica del sacerdote Auxos a svariati dei, tra cui Iside:

Σαράπιδι · Εἴσιδι · Ἀνούβιδι | Ἀλφοκράτῃ · Αὖξος ∆ημοκλέ|ους · Σάμιος ὁ καὶ Τήνιος · ἱερα-φό|ρος, ἑπτάστολος, σὺν καὶ τῇ γυναι|κὶ Ἑορτῇ καθιέρωσεν εἰς τὰ ἴδια 36

Sebbene questo sia un tema troppo complesso per essere esaurito in poche parole, si può dire che in età imperiale il culto di Iside, che in età tolemaica aveva conosciuto un notevole sviluppo all’interno dell’E-gitto37, iniziò a diffondersi capillarmente in tutto l’Impero Romano, con declinazioni cultuali di volta in volta differenti38. Nell’epigrafe, Auxos si defi nisce ἱεραφόρος ἑπτάστολος, ovvero sacerdote portatore di oggetti sacri “che indossa sette stole”; questo epiteto sarebbe legato al culto di Iside dai sette veli39, i quali rappresenterebbero le sette orbite dei pianeti governate da Iside stessa40.

In questo senso, il numerale ζʹ che si legge sulla tavola potrebbe trovare una spiegazione, soprattutto se pensiamo che φάρσος in greco signifi ca anche, come abbiamo già visto, “pezzo di stoffa”. Dietro a ζʹ φάρσος, potrebbe quindi celarsi il nome *Ἑπτάφαρσος, che potrebbe avere un signifi cato simile

all’agget-27 Cfr. Guarducci 1967, 381. 28 Cfr. supra, p. 91.

29 Pape–Benseler, 1604: «Φάρσος, m., Aegypter, Inscr. 3, 4969, b»; Namenbuch, 456: «Φάρσος CIG III 4969b»;

Onomas-ticon, 328: «Φάρσος SB 8456 (Ptol.)».

30 Il nome non è attestato nei volumi fi nora pubblicati del Lexicon of Greek Personal Names e non è presente neppure tra

i nomi demotici traslitterati in greco registrati nel Demotisches Namenbuch. Cfr. anche Clarysse 1997; Clarysse 2012.

31 Pape–Benseler, 1604.

32 Cfr. Namenbuch, 516, Arabische Namen: «*Φαρσος Φαρης, Φαρις = Faris.» 33 Cfr. Dunand 1973, III, 64; RICIS 205/0104.

34 Cfr. Dunand 1973, III, 64. 35 Cfr. Marcovich 1986.

36 IG XII, 6, 2, 600 (Sylloge inscriptionum religionis Isiacae et Sarapiacae 254; RICIS 205/0104).

37 Cfr. Dunand 1973, I, 22: «Il semble donc bien que la personnalité d’Isis, à l’origine assez limitée, ait connu au cours des

siècles un développement considérable; si au Nouvel Empire elle apparaît déjà comme une divinité connue dans toute l’Égypte, à l’époque ptolémaïque il n’est guère de déesse dont elle n’ait absorbé les noms et les fonctions, tout en conservant sa person-nalité propre et les attributions qui la caractérisent à une époque très ancienne.»

38 Cfr. Dunand 1973, II, 130–218; III, passim; Tiradritti 1997. 39 Cfr. Dunand 1973, III, 64; Marcovich 1986, 296.

40 Il termine ἑπτάστολος è attestato solamente due volte in tutta la letteratura greca, entrambe in un passo d i Ippolito di

Roma in cui si parla di questo culto (Hipp. Refutatio omnium haeresium V, 7, 23: τὰ δ’ εἰσὶν οὐκ ἄλλο τι ἢ ⟨τὸ⟩ ἡρπασμένον καὶ ζητούμενον ὑπὸ τῆς ἑπταστόλου καὶ μελανείμονος, ⟨ὅπερ ἐστὶν⟩ αἰσχύνη Ὀσίριδος. Ὄσιριν δὲ λέγουσιν ὕδωρ· ἡ δὲ Ἶσις ἑπτάστολος, περὶ αὑτὴν ἔχουσα καὶ ἐστολισμένη ἑπτὰ στολὰς αἰθ⟨ε⟩ρίους – τοὺς πλάνητας γὰρ ἀστέρας οὕτω προσαγορεύουσιν ἀλληγοροῦντες καὶ ⟨διὰ τοῦτο⟩ αἰθ⟨ε⟩ρίους καλοῦντες, καθὼς ⟨*⟩). Segnaliamo che ἡ δὲ Ἶσις è una cor-rezione apportata dallo stesso Marcovich in Hippolyti Romani Refutatio omnium haeresium, Berolini 1986, al posto di ἡ δὲ φύσις tramandato dell’unico manoscritto che contiene il quinto libro della Refutatio, ovvero il Paris, Bibliothèque nationale de France, suppl. gr. 464.

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tivo ἑπτάστολος dell’epigrafe samia. Questa proposta creerebbe sì un hapax (come del resto lo è il nome proprio Φάρσος), ma potrebbe avere due vantaggi, ovvero da una parte spiegare il signifi cato del segno che precede φάρσος, dall’altra ricondurre il dedicatario ad una sfera cultuale isiaca, come dimostrerebbe la sua dedica ad Iside di una tavola per libagioni. A tal proposito, già Eric Varin osservava: «cette courte inscription pourrait peut-être orienter nos recherches vers une prêtrise d’Isis»41. Secondo Marcovich, l’Au-xos dell’epigrafe samia sarebbe un sacerdote incaricato di portare gli oggetti sacri ad Iside (ἱεραφόρος), che indossa «his seven stoles just because his cosmic goddess does so» (ἑπτάστολος)42, e questa potrebbe essere la stessa condizione in cui si trovava il dedicatario della tavola di Berlino.

Tuttavia, vi sono alcuni argomenti che sono di ostacolo a questa interpretazione: se ἑπτάστολος è un composto aggettivale in -στολος, *Ἑπτάφαρσος è necessariamente un composto nominale; tuttavia in greco non esiste un suffi sso denominale -φαρσος né non sono attestati composti nominali o nomi propri composti in -φαρσος43. Inoltre, se anche accettassimo questa interpretazione, data la brevità dell’iscrizio-ne, non si potrebbe comunque sapere se *Ἑπτάφαρσος sia un nome proprio, un epiteto, oppure indichi un ruolo all’interno del sacerdozio di Iside. L’ipotesi più economica sarebbe ritenere *Ἑπτάφαρσος come un nome proprio di persona collegato alla professione del padre (un sacerdote di Iside?), sul modello dei nomi propri Ἱερεύς o Στράτηγoς44, ma non vi sono prove che possano supportare questa congettura.

Per tale motivi, in sede di edizione, non si può accettare a testo né *Ἑπτάφαρσος né un’altra proposta suggerita dai precedenti editori, ma è più prudente mantenereΖ̅ e stampare: (ἔτους) ιʹ, Θωῢθ ηʹ, Ἴσιδι θεᾷ μεγίστῃ Ζ̅ Φάρσος | ἀνέθηκε.

Bibliografi a

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41 Varin 2002, 219. 42 Marcovich 1986, 296.

43 Sui nomi propri composti nelle iscrizioni greche ellenistiche e imperiali cf. McLean 2002, 80–82, 85–86. 44 Cfr. Clarysse 1997, 181; McLean 2002, 83–84.

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Alcune considerazioni sulla datazione e sulla lettura di CIG III 4969b 95

Ericani 1983: G. Ericani, La storia e l’utopia nel giardino del senatore Querini ad Altichiero, in Piranesi e la

cultu-ra antiquaria. Gli antecedenti e il contesto. Atti del Convegno 14–17 novembre 1979, a cucultu-ra di A. Lo Bianco,

Roma 1983, 171–185.

Guarducci 1967: M. Guarducci, Epigrafi a greca. I. Caratteri e storia della disciplina. La scrittura greca dalle

ori-gini all’età imperiale, Roma 1967.

Hornung–Staehelin 1976: E. Hornung, E. Staehelin, Skarabäen und andere Siegelamulette aus Basler Sammlungen, Basel–Mainz 1976.

Jablonski 1752: P. E. Jablonski, Pantheon Aegyptiorum, sive de diis eorum commentarius. Pars II, Francofurti ad Viadrum 1752.

Kopp 1829: U. F. Kopp, Palaeographia critica. Pars tertia, Mannhemii 1829.

Levezow 1825: K. Levezow, Über die Königlich-Preußischen Sammlungen der Denkmäler alter Kunst. Erster Nachtrag, in Amalthea oder Museum der Kunstmythologie und bildlichen Alterthumskunde, III, hrsg. von C. A. Böttiger, Leipzig 1825, 213–240.

Lucas 1962: A. Lucas, Ancient Egyptian Materials and Industries, ed. by J. R. Harris, London 19624.

Marcovich 1986: M. Marcovich, The Isis with Seven Robes, ZPE 64 (1986), 295–296 (repr. in M. Marcovich, Studies

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Masson 2013–2015: A. Masson, Bronze Votive Offerings, in Naukratis: Greek in Egypt. Online Catalogue, ed. by A. Villing, M. Bergeron, G. Bourogiannis, A. Johnston, F. Leclère, A. Masson, R. Thomas, 2013–2015 [https:// www.britishmuseum.org/pdf/Masson_Bronze_votive_SF_AV.pdf].

McLean 2002: B. H. McLean, An Introduction to Greek Epigraphy of the Hellenistic and Roman Periods from

Alexander the Great down to the Reign of Constantine (323 B.C. – A.D. 337), Ann Arbor 2002.

Ritner 1994: R. K. Ritner, An Unusual Offering Table in Dallas, in Acta Demotica: Acts of Fifth International

Con-ference for Demotists: Pisa, 4th–8th September 1993, ed. by E. Bresciani, Pisa 1994, 265–273.

Schow 1788: N. I. Schow, Charta papyracea Graece scripta Musei Borgiani Velitris, Romae 1788.

Tiradritti 1997: F. Tiradritti, La diffusione del culto di Iside in Oriente e in Nord Africa, in Iside. Il mito, il mistero,

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Trebbi 2016: G. Trebbi, Querini, Angelo, in Dizionario Biografi co degli Italiani, 2016 [voce consultabile online all’indirizzo http://www.treccani.it/enciclopedia/angelo-querini_(Dizionario-Biografi co)/].

Varin 2002: E. Varin, Notes sur la dispersion de quelques objets égyptiens provenant de la ville Querini à Alticchié-ro, Revue d’Égyptologie 53 (2002), 213–234.

Wynne 1787: J. Wynne, Alticchiero, Padoue 1787.

Gianmario Cattaneo, Università di Firenze, Borgata San Giuseppe 18, 10083 Favria (TO), Italy gianmario.cattaneo@unifi .it

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