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Dimensioni della variazione: la regionalità dell’italiano

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Academic year: 2021

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CRISTINA LAVINIO

Dimensioni della variazione:

la regionalità dell’italiano

Sembra persistere a scuola un’educazione linguistica monolingue che, in particolare, trascura le varietà geografiche dell’italiano. Le grammatiche scolastiche parlano poco e male degli italiani regionali, mentre si potrebbe fare molta grammatica e riflessione sulla lingua proprio a partire dalle forme regionali più ricorrenti negli usi linguistici degli allievi.

Parole chiave: variazione diatopica, italiano regionale, plurilinguismo, gram-matica, polimorfismo dell’italiano.

1. Considerazioni generali

Tra le attenzioni attuali dell’educazione linguistica, sembra minorita-ria quella per la dimensione diatopica della vaminorita-riazione che pure con-tinua ad incidere largamente sugli usi dell’italiano parlato e scritto, e in particolare di quello scolastico: si bada poco all’italiano di volta in volta parzialmente diverso da un’area geografica all’altra, di cui tutti siamo, e in particolare gli alunni sono, portatori e di cui spesso non sono affatto consapevoli.

Sappiamo da tempo che quella dell’italiano (specie parlato) è una regionalità intrinseca e che tratti regionali grammaticali e lessicali pos-sono passare, specie se inconsapevoli, anche nello scritto: non a caso fonte preziosa per lo studio e l’identificazione di tanti regionalismi sono le scritture scolastiche1. E lo sono state anche tra fine Ottocento

1 Si può sottoscrivere in pieno, adattandolo ad altre situazioni regionali, quanto è

sta-to detsta-to per la Val d’Aosta, dove peraltro vige l’insegnamensta-to bilingue italiano-fran-cese: “le scritture scolastiche possono configurarsi anche come materiali per lo studio dell’italiano e del francese regionali in Val d’Aosta, del loro divenire diacronico, dei rapporti di compenetrazione fra di essi e gli altri codici del repertorio locale, delle spe-cifiche caratterizzazioni sub-regionali, regionali o sovraregionali, in rapporto a fasce d’età e contesti d’impiego in cui l’allontanamento dalla “norma” non corrisponde,

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e primo Novecento nei tanti manualetti redatti da insegnanti che, spesso provenienti da altre regioni, li registravano2.

Inoltre oggi, sempre più, regionalismi invece consapevoli entrano abbondantemente nella scrittura letteraria e narrativa. Caratterizzano anche linguisticamente il mondo narrato e i suoi personaggi (Camilleri insegna) e, se questi personaggi sono rappresentati come di provenien-za regionale diversa, le varietà diatopiche di italiano usate in uno stesso testo possono moltiplicarsi, facendolo slittare verso un ancora più evi-dente plurilinguismo, o meglio una più evievi-dente stilizzazione del pluri-linguismo. È quanto sembra di poter cogliere in molta della produzio-ne letteraria più recente; ma si veda anche il Primo tesoro della Lingua

Letteraria italiana del Novecento (De Mauro 2007) istituito a partire

dallo spoglio di 100 romanzi (i 60 vincitori, più altri 40 partecipanti) presentati al Premio Strega negli anni 1946-2007. La stessa cosa vale sempre più anche per il parlato teatrale e cinematografico o per i testi delle canzoni. In questo modo, così come nella rete e nella comunica-zione nei social media, molti regionalismi entrano in circolacomunica-zione e si diffondono molto più rapidamente che in passato. E si possono qui solo evocare i percorsi didattici che potrebbero essere avviati a scuola a parti-re da una considerazione attenta di materiali di questo tipo.

Siamo di fronte inoltre, lo sappiamo, alla costante regressione dei dialetti come lingue esclusive e di casa: dai dati ISTAT più recenti, ri-feriti al 2015 ma resi noti nel 2017, risulta che solo il 14% degli italia-ni (poco più di 8 milioitalia-ni) dichiara di usare prevalentemente (ma non esclusivamente) un dialetto in famiglia, mentre il 32,5% alterna ita-liano e dialetto e il 45,9% usa prevalentemente l’itaita-liano. Gli italiani parlano dunque sempre più l’italiano, anche se si tratta di un italiano ‘locale’ o regionale. Gli italiani regionali (usando il plurale, per scen-dere immediatamente su un piano di maggiore concretezza)3 sono

va-rietà a lungo considerate intermedie per la loro posizione intermedia nel continuum lingua-dialetto (o lingua italiana-altro idioma locale). Essi sono in fondo i veri dialetti dell’italiano, in quanto varietà

ge-per lo meno non ancora, a una scelta strategica o intenzionale, ma è piuttosto dovuto a un [atto] involontario e inconsapevole” (Revelli 2013: 59).

2 Al cui riguardo cfr. ad esempio Gensini (1995).

3 Sia il singolare italiano regionale, sia il plurale italiani regionali sono etichette che

hanno ambedue una loro legittimità e che possono coesistere implicando uno sguar-do generale e di insieme la prima, uno più specifico e dettagliato la seconda.

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ografiche interne all’italiano. Gli italiani regionali sono però varietà rispetto alle quali neanche le persone colte hanno un’idea ben chiara, e quando se ne parla, anche nei media, li si confonde con i dialetti italiani tout court (cioè con quelli che in Italia chiamiamo dialetti, ma t

che sono in realtà lingue sorelle dell’italiano a base toscana) oppure li si denomina in modo confuso come ‘lingue regionali’, le quali peral-tro starebbero scomparendo e si riverserebbero semmai nella comicità televisivaaa .4

Gli italiani regionali sono insomma varietà misconosciute, né si sospetta che non siano fatte né di soli dialettalismi né di sole ‘infles-sioni’ intonazionali. Sono, certo, varietà ‘sfrangiate’, dai confini pro-blematici, vengono delimitati ora in modo ‘macro’, in corrispondenza di macroaree territoriali (es. settentrionale, centrale, meridionale) ora più minutamente in corrispondenza di aree regionali meno estese (es: toscano, abruzzese), ma con l’avvertenza che la denominazione è fuorviante perché essi non coincidono con le regioni amministrative. Inoltre, spesso – in una sorta di senso comune in cui possono cascare anche i più avveduti – si pretende che, per poter definire ‘regionale’ un singolo fenomeno, esso sia addebitabile in esclusiva a una singola regione. Invece ci sono anche regionalismi di area più estesa, condivisi da più italiani regionali.

Comunque, come ha scritto appena qualche anno fa Tullio De Mauro (2015: 476), quella di “Italia delle Italie è una formula sintetica e

che ancora si impone”5: “La pluralità intrinseca della realtà italiana è 4 Si vedano ad esempio titolo e occhiello di un articolo di Stefano Bartezzaghi apparso

su “Repubblica” il 28 dicembre 2017. Mentre il testo dell’articolo non si prestava a grandi equivoci, titolo e occhiello, di evidente marca redazionale, introducevano una serie di confuse dissonanze rispetto al medesimo articolo: Dialetti addio ormai li

par-lano solo i comici tv ne era il titolo, inesatto e sciatto anche per mancanza di qualunque

interpunzione, mentre il sottotitolo recitava: “Le lingue regionali stanno scomparen-do. E ora il Paese scopre di averne nostalgia”, suggerendo una confusa coreferenzialità tra le lingue regionali e i dialetti evocati in precedenza e ignorando il fatto che poi, nel testo, si parlasse in realtà delle “inflessioni” regionali nel parlare l’italiano e si dicesse che “anche nei tg chi ha un forte accento non pare far più nulla per neutralizzarlo […] il fatto non è motivo di preoccupazione per alcuno […e] l’inflessione marcata ‘fa’ soprattutto schiettezza, spontaneità, mancanza di artificiosità”. Si potrà intravedere in queste parole un po’ di rimpianto per i corsi di dizione dei lettori dei tg di una volta, ma si sta certo parlando di italiano.

5 Il titolo di De Mauro (1987), Italia delle Italie, è ripreso dunque in De Mauro

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rivisita-un dato storico e antropologico più forte della tendenza ad ignorarlo”. Eppure, questa tendenza – se non a ignorarlo – a dimenticarlo sembra purtroppo diffusa anche in ambito linguistico e, cosa ancora più gra-ve, in ambito educativo.

Nell’ambito degli stessi studi sociolinguistici sull’italiano la varia-zione diatopica è molto spesso data come ovvia, soggiacente a qualun-que altra variazione (come da tempo ha sottolineato Berruto 1987). Ma questa ovvietà sembra avere indotto molti a metterla come tra parentesi, senza quasi più considerarla o studiarla, per lasciare invece molto più spazio a lavori su varietà diafasiche e diastratiche (linguaggi speciali o specialistici, linguaggi giovanili, ecc.), mentre nell’ambito dell’educazione linguistica la cura delle quattro abilità a livello macro-testuale ha forse finito per lasciare in ombra o, peggio, in balia delle correzioni da matita rossoblu tradizionale gli aspetti microlinguistici, che vedono l’affiorare in continuazione di regionalismi lessicali e sin-tattici inconsapevoli. E invece, come dice persino Bartezzaghi (2017), oggi la “vera battaglia non è […] quella della lingua contro i dialet-ti e contro l’inglesorum più o meno maccheronico che ci assedia. La vera battaglia è tra gli usi consapevoli e quelli inconsapevoli dei propri mezzi espressivi”.

2. Contro il monolitismo linguistico

Parlando e scrivendo, come si è detto, gli allievi producono testi in cui anche le forme locali dovrebbero essere oggetto di grande attenzione. Non curarsene debitamente dimostra ancora una volta che, aldilà del-la teorica e condivisa centralità dell’allievo di cui si pardel-la tanto anche in glottodidattica, l’insegnamento linguistico non si innesta sui suoi reali bisogni di crescita e sviluppo della competenza linguistica a par-tire da quanto sa già e sa già fare con la lingua. E si ripropone invece quel monolinguismo o monolitismo linguistico che da tanto tempo combattiamo in nome di una didattica aperta al plurilinguismo6 che,

oltre che includere l’insegnamento di più lingue straniere e persino

re e aggiornare i termini della questione, con i contributi di Tullio Telmon, Alberto Sobrero, Mari D’Agostino, Salvatore C. Sgroi & Carla Marello e altri.

6 “Con plurilinguismo intendiamo qui anzitutto la compresenza sia di tipi diversi d

semiòsi, sia di idiomi diversi, sia di diverse norme di realizzazione d’un medesimo idioma” (De Mauro 1977: 87).

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l’attenzione a codici linguistici diversi da quello meramente verbale, dovrebbe comprendere una considerazione attenta delle varietà inter-ne allo stesso italiano, lingua della scuola e dell’educaziointer-ne, centrale nel repertorio linguistico complessivo degli allievi e nello spazio lin-guistico da loro abitato, da non ignorare.

Inoltre, se regionalismi, dialettalismi e localismi intridono il parla-to e la scrittura (persino di chi non sia italiano d’origine), non si può dimenticare che essi rinviano all’asse di una variazione diatopica com-binata spesso, nella medesima zona, con l’asse diastratico: è possibile dunque distinguere un italiano regionale ‘standard’ condiviso da tutti i parlanti di una data area e un italiano regionale e insieme popolare la cui particolare marcatezza sarebbe opportuno considerare attenta-mente a scuola (per esempio, nell’italiano regionale sardo si usano più che altrove le forme progressive con il gerundio, ma questa regionalità per frequenza non infrange alcuna norma dell’italiano. Ma quando al posto di sto arrivando si trova sono arrivando, con la scelta dell’au-siliare essere per stare, si è di fronte a una forma regionale e popolare insieme).

2.1 Uno sguardo alle grammatiche

Per non ripetere considerazioni fatte di recente (Lavinio 2018), lascia-te qui sullo sfondo o riprese solo in parlascia-te, si è proceduto a un controllo su grammatiche scolastiche attualmente in uso per scoprire quanto e se vi si parli di italiani regionali. È emersa, come vedremo, la conferma del fatto che l’attenzione nei loro confronti è in alcune inesistente, in altre non sufficientemente articolata o, peggio, fatta di considerazioni discutibili.

Più in generale, sembra di essere tornati (o forse rimasti) alla situa-zione già illustrata da Berruto (1979), che constatava come la socio-linguistica non entrasse nelle grammatiche scolastiche, perennemente attestate su una visione monolitica della lingua che porta a conside-rarne le forme solo in termini dicotomici di giusto o sbagliato. Certo, quasi vent’anni dopo, nel convegno GISCEL palermitano sui libri di testo, Sobrero (1997) denunciava la propensione di molte gram-matiche a una crescita abnorme in numero di pagine e di contenuti, in un accumulo difficilmente gestibile in cui entravano anche molti aspetti sociolinguistici. Ma non sappiamo come e quanto questi fosse-ro davvefosse-ro oggetto di attenzione a scuola, se le poche volte che si sono

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fatte indagini presso gli insegnanti si è scoperto che in particolare il pregiudizio dialettale non era morto e che le parlate locali (fossero esse dialetti o altre lingue) venivano considerate semplicemente come fonte di errori7.

Oggi i manuali scolastici sono meno corposi, anche perché spesso corredati da CD oppure, più di recente, associati alla possibilità di accedere con una password a siti o a ebook, dove trovare esercizi e ma-teriali di approfondimento. Ma si scopre anche, con grande sconcerto, che ogni manuale è corredato in genere di una Guida per l’insegnante (tanto più corposa quanto più l’impostazione della grammatica è be-ceramente tradizionale) che contiene la soluzione di tutti i numerosi esercizi grammaticali, di analisi logica ecc. presenti nei libri di testo per gli studenti. Competenza e didattica per competenze sono le paro-e

line magiche che vanno per la maggiore nei titoli e sottotitoli e nelle sezioni interne di molti di questi manuali, che non dimenticano di presentarsi come gli strumenti più idonei per superare le temute pro-ve Invalsi. Ma viene il sospetto che autori ed editori pensino in realtà che di scarsa competenza soffrano per primi gli insegnanti, se non li si ritiene capaci di trovare da soli la soluzione anche per i più banali esercizi grammaticali.

Dal rapido esame di una decina di grammatiche destinate alla scuola secondaria di secondo grado, si è poi avuta conferma di quan-to era in precedenza una semplice impressione: in alcuni casi gli ita-liani regionali sono del tutto ignorati, in altri, relegati a pochissimi accenni, sono considerati fonte di errori e citati quasi come curiosità da cui estrapolare considerazioni linguistiche rapsodiche (ad esempio a proposito del piuttosto che di marca settentrionale o dell’accusativoe

preposizionale, bollato senza troppi complimenti come “errore do-vuto a interferenza dialettale”, tipico “dell’italiano parlato in alcune regioni del Sud”) (Serianni et al. 2016: 4718). Mentre i manuali che

dedicano all’italiano regionale un po’ più di spazio, lo fanno in modo

7 Per esempio, nel convegno di Modena sullo svantaggio linguistico, il GISCEL Sicilia

(1996) presentava i risultati di un’indagine tra i docenti e il 45% degli intervistati si dichiarava totalmente d’accordo (cui sommare un 38% di parzialmente d’accordo) con la seguente affermazione: “La dialettofonia prevalente o esclusiva è un fattore di grave svantaggio linguistico”.

8 C’è inoltre un breve cenno alle pronunce regionali che possono generare “errori

ortografici” (ivi: 36) e a regionalismi e dialettismi, considerati “prestiti interni”, che arricchiscono l’italiano diffondendo i nomi di prodotti locali, specie gastronomici.

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impreciso e confuso. E si perdono tante buone occasioni per accen-nare almeno a fenomeni grammaticali che marcano notevolmente la regionalità dell’italiano che parliamo e che vanno dall’uso dei tempi verbali, specie del passato, a quello delle interiezioni e del loro valo-re semantico avalo-realmente molto diffevalo-renziato (queste ultime, assieme alle onomatopee, sono semmai, in qualche caso, oggetto di attenzione trasversale in micro-confronti con lingue diverse – inglese in primis, naturalmente)9.

La confusione massima sulle varietà geografiche dell’italiano re-gna sovrana, in particolare, nella grammatica di Marcello Sensini (tra le più adottate – da tempo – nella scuola italiana10) che, al di là del

vezzo di cambiare titolo e grafica quasi ogni anno, resta identica pur nel variare della posizione di qualche capitolo o nella ‘fisarmonica’ di alcune aggiunte o potature e presta una complessiva attenzione, mag-giore che in tutti gli altri manuali, alle varietà dell’italiano11. Per

esem-pio, Sensini (2010: 7-31), nel volume intitolato al lessico, che affianca quello ben più corposo su fonologia, morfologia e sintassi, dedica un capitolo (con esercizi) alle varietà linguistiche dell’italiano, distinte in geografiche (comprensive di dialetti (sic!) e italiani regionali); geo-grafico-sociali (italiano standard e italiano popolare); secondo l’argo-mento (i linguaggi settoriali, le intenzioni comunicative – un altro sic! qui ci sta bene, data l’eterogeneità delle partizioni). Sono più di una ventina di pagine, dove dei dialetti, considerati varietà dell’italiano assieme agli italiani regionali, si dice poi, contraddittoriamente, che sono vere e proprie lingue a sé stanti. A parte vengono considerati i dialetti sardi e quelli ladini, si dice che gli italiani regionali sono ridu-cibili a quattro (settentrionale, toscano, centrale e romano, meridio-nale) e infine si afferma che “l’italiano popolare è una varietà di

ita-9 È il caso, ad esempio, di Arciello & Maiorano (2016: 300) e di Battaglia & Corno

(2014: 288).

10 Pur essendo attualmente molto difficile ottenere dati precisi sui testi scolastici più

adottati, sembra che, in tutta Italia, non ci sia insegnante di italiano che non conosca “il Sensini”, i cui manuali risultano adottati quasi in esclusiva, per esempio, nelle scuo-le secondarie cagliaritane.

11 Come hanno notato anche Baratto et al. (2014) a proposito di un’edizione del

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liano intermedia tra i diversi italiani regionali e l’estremo linguistico costituito dai dialetti” (Sensini 2010: 15)12.

Analoga confusione sta negli esercizi relativi, improntati a una discutibile separazione netta tra italiano regionale, italiano popolare e registri: nessun sospetto del fatto che in realtà le cose non stiano così; mentre manca qualunque riferimento alla variazione in diame-sia. Confrontando poi il medesimo manuale con una sua versione più recente (Sensini 2016) si nota che il capitolo di cui si è detto, ora inti-tolato “L’italiano: una lingua tante lingue”, è stato notevolmente pro-sciugato, condensato in due pagine (56-57) in cui però sembra ci si sia messi d’impegno per mantenere i medesimi errori di fondo, presen-tando i dialetti come varietà dell’italiano e l’italiano popolare come varietà intermedia tra italiano regionale e dialetto. Questa riduzione drastica più recente fa sospettare che si sia ritenuto quasi superfluo dilungarsi troppo sulla variazione, non lasciandole dunque nemmeno lo stesso spazio che aveva in precedenza13.

3. Perché tanta disattenzione verso gli italiani regionali?

Ci si può ora chiedere a cosa sia dovuta questa ridotta o mancata at-tenzione verso gli italiani regionali, sia nei manuali scolastici sia, anco-ra più probabilmente, nella didattica. E ci si può chiedere se oggi ciò si giustifichi con le mutate condizioni sociolinguistiche del nostro paese relativamente alla dinamica tra le varietà del repertorio e in particolare tra lingua italiana e parlate locali, che sembrano non costituire più un grosso problema se “l’indialetto” sembra non avere più “la faccia

12 Altra grande confusione sulle varietà linguistiche impronta il manuale di Arciello

& Maiorano (2016: 521) che, dopo aver detto che il linguaggio “viene influenzato da vari elementi” tra cui la “zona di provenienza”, conclude sommariamente affermando che “le varianti [sic!] linguistiche che derivano da questi tipi di influenza sono dette registri stilistici e linguaggi specialistici”; e più avanti (530) continua a inserire tra “re-gistri e linguaggi specifici” (p. 530) italiano colto, standard e popolare. Una felice ec-cezione è rappresentata invece da Savigliano (2015: 465), che cita varietà geografiche e dialetti e, per quanto succintamente, distingue correttamente tra italiano standard, regionale e popolare, proponendo poi esercizi di riconoscimento o riscrittura di testi dialettali diversi.

13 I manuali di italiano L2, qui non considerati, sembrano invece essere

mediamen-te più atmediamen-tenti alla variazione (anche diatopica), pur con tutti i limiti evidenziati da Benucci (2018).

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scura”, come invece diceva un bambino nell’indagine avviata nel 1995 da Ruffino (2006) sui pregiudizi antidialettali degli alunni di scuola elementare di tutta Italia. Presso molti insegnanti il pregiudizio dialet-tofobo è forse da tempo entrato in crisi, ma soprattutto sembra oppor-tuno ricordare la raggiunta sicurezza linguistica che la maggior parte dei parlanti italiani sembra ormai possedere, dato che l’italiano, sep-pure in una varietà regionale più o meno marcata, è diventato ormai la lingua di casa, davvero materna, soppiantando in ciò i vecchi dialetti. Già nel 2003 a Palermo, festeggiando i quarant’anni dalla pubblica-zione di De Mauro (1963), salutavamo la novità del trovarci di fronte per la prima volta a una generazione di italiani per la maggior parte dei quali la lingua appresa in casa era proprio l’italiano (Lo Piparo & Ruffino 2005). E i dialetti sembrano essere visti oggi un po’ meno ne-gativamente, se ci si può permettere il lusso di riscoprirli e reimpararli, dato che si registra spesso, tra i giovani, un recupero di attenzione nei loro confronti, con la voglia di riappropriarsene14.

Ma ecco che, parlando di lingua-dialetto, o meglio di italiano e lingue locali, rischiamo di cadere ancora una volta nella trappola della disattenzione verso gli italiani regionali. Su italiano e dialetti a scuola, c’è stata in passato una notevole attenzione, quando si invocava maga-ri una didattica contrastiva che evidenziasse le interferenze tra lingua e parlate locali15. Però minore attenzione sembra essere stata prestata

in particolare a italiani regionali e scuola: vengono in mente solo le descrizioni di alcuni italiani regionali uscite qualche decennio fa su

14 Comunque, non crede troppo al superamento dei pregiudizi dialettofobi Ruffino

(2013), che, chiudendo il suo bilancio, ricorda poi che “– piaccia o non piaccia – in classe ormai c’è il mondo intero. […] È la nuova Italia delle Italie con cui domani – ma e

già oggi – dovremo fare i conti”. E senza avere imparato del tutto a fare i conti con la vecchia, potremmo aggiungere.

15 Si possono ricordare al riguardo alcuni dei contributi disseminati in vari atti di

Congressi SLI, a partire da L’insegnamento dell’italiano in Italia e all’estero (Medici & Simone 1971): per esempio, non mancano lavori attenti alla didattica e alla scuo-la nei volumi Aspetti sociolinguistici dell’Italia contemporanea (Simone & Ruggiero 1977), I dialetti e le lingue di minoranza di fronte all’italiano (Albano Leoni 1979),

Linguistica contrastiva (Calleri & Marello 1982). Un tempo nella SLI l’attenzione

per una curvatura anche educativa dei temi dei congressi annuali era costante e non c’erano workshop gestiti separatamente dal GISCEL su temi differenti da quelli con-gressuali.

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“Italiano & oltre”16, un capitolo del volume di Solarino (2009),

alcu-ni contributi leccesi (come Sobrero & Miglietta 2006) o sardi (Milia 2006; Lavinio & Lanero 2008) e poco altro.

Insomma, complessivamente, sembra ci sia ben poco per una di-dattica che faccia i conti in pieno con gli italiani regionali assunti nella loro relativa autonomia, come varietà linguistiche possedute – atten-zione – anche da chi non abbia alcuna competenza, neanche passiva, delle parlate locali.

4. Regionalismi e polimorfismo dell’italiano

È poi riduttivo o fuorviante considerare gli italiani regionali come totalmente inseriti entro il continuum lingua-dialetto, dal momento che non tutte le forme regionali hanno a che fare, direttamente o in-direttamente (per transfer positivo o negativo) con le parlate locali. Si dimentica, infatti, che essi hanno a che fare anche con il polimorfismo dell’italiano, dove coesistono forme equivalenti le quali poi, in sin-gole aree regionali, vengono selezionate in modo preferenzialmente differente.

Come sappiamo, la regionalità investe una miriade di nozioni, o meglio di significati, realizzati con voci diverse (geosinonimi) da una regione all’altra oppure attribuiti in modo diverso allo stesso signi-ficante (geoomonimi). Entro quella regionalità che siamo abituati a considerare guardando soprattutto a fatti lessicali (subito dopo quelli prosodici)17, anche questi possono essere visti come esempi di

poli-morfismo in senso lato. Ma ci sono pure numerosi fatti morfosintatti-ci: si pensi, per esempio,

all’uso quasi esclusivo del passato prossimo (a scapito del passato re-moto) nell’italiano settentrionale, all’altissima preferenza per forme progressive con il gerundio nell’italiano di Sardegna (es.: sto studian-do piuttosto che studio), alla particolare diffusione del suffisso -ello (rispetto a -ino, -etto) nell’italiano meridionale e nei suoi toponimi,

16 Destinata agli insegnanti, questa rivista, grazie all’autorizzazione di Raffaele

Simone, che ne fu il direttore, è ora integralmente reperibile sul sito www.giscel.it

17 Mentre ancora poco studiata è la regionalità che investe la produzione testuale e

co-municativa vista nella sua multimodalità (del parlato in particolare) e nei suoi aspetti pragmatici. Pochi sono inoltre i tentativi di misurare il tasso di regionalità dei testi che si producono (ma cfr. Pandolfi 2006).

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all’uso prevalente nell’area settentrionale e in Sardegna di cosa? (o che cosa?) rispetto a che? in apertura di interrogative (es: ? che cosa fai?) (Lavinio 2018: 122)18.

Insomma, rispetto alle possibili scelte equivalenti, gli italiani regionali riducono il polimorfismo, semplificandolo nell’opzione quasi esclusi-va per una sola forma. È utile rendersi conto di tale semplificazione, per di più senza dimenticare che, nel passaggio all’italiano regionale, si semplificano indubbiamente anche le forme suggerite dai dialetti. Non possiamo però vedere gli italiani regionali, come qualcuno ha proposto, come pidgin, dato che essi nascono dall’incontro tra sistemi linguistici affini (italiano e dialetti), non distanti linguisticamente tra loro quanto invece le lingue implicate nei processi di pidginizzazio-ne. Inoltre, badando solo al contatto tra italiano e dialetti, si corre il rischio di non cogliere o di sottovalutare la presenza dei cosiddetti regionalismi atipici, non dovuti all’azione del dialetto: non tutti i re-gionalismi sono dialettalismi, anche se la distinzione è sottile e spesso neppure i dizionari sono d’aiuto, se marcano come generici regiona-lismi voci o accezioni di cui sarebbe meglio precisare gli ambiti regio-nali d’uso.

5. Grammatica e regionalismi

I pronomi clitici – questi (quasi) sconosciuti – necessiterebbero di un’attenzione particolare a scuola. Gli stessi studenti universitari hanno spesso al riguardo idee molto confuse e si assiste, anche nella scrittura giornalistica, a una perdita di consapevolezza dei valori del

ne pronome (se leggiamo sempre più spesso espressioni comee ne ho studiato il suo andamento), dove il ne è usato come una sorta di zeppa,e

forse per conferire un tono più elevato al discorso. E si pensi ai modi più vari con cui lo si scrive, specie quando si cumula con ce (nei social

18 Altri fenomeni di polimorfismo sono soggetti invece a scelte sensibili alla diamesia

piuttosto che non alla diatopia, come avviene tipicamente per le due serie dei relativi: la serie aperta da il quale è meno usata nel parlato, a tutto vantaggio della serie aperta e

da che (dove si semplifica ulteriormente facendo cadere spesso i casi indiretti (di cui,

a cui). Mentre, a livello di parlato popolare, in chi vuole darsi un tono senza avere la

cultura linguistica adeguata, si sente emergere una sorta di la quale polivalente (cioèe

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network anche persone insospettabili scrivono per esempio c’è ne [o

ce n’è] andiamo…).

Quanto al polimorfismo, esso nei clitici investe la loro posizione, che in molti casi può essere indifferentemente pre- o postverbale: non

lo fare o non farlo, lo posso dire o posso dirlo, non ci voglio fare niente o non voglio farci niente, mi viene a vedere o viene a vedermi, si sta lavan-do o sta lavanlavan-dosi. Però, con una lente attenta agli usi regionali, si

sco-pre che nelle singole aree emergono scelte sco-preferenziali, quando non esclusive, per l’una o per l’altra delle due posizioni, facendo anch’es-se, dunque, ‘regionalità’. E si sa per esempio che è di marca romana e meridionale la cosiddetta risalita dei clitici (in posizione anteposta al verbo), mentre in Sardegna la posizione prevalente, come risulta dalla ricerca LinCi (Nesi & Poggi Salani 2013) è quella enclitica: non

far-lo, posso dirfar-lo, non voglio farci niente, viene a vedermi. Si preferisce la

proclisi solo in si sta lavando. Sono scelte operate ovunque quasi in esclusiva dagli informatori sardi intervistati al riguardo, che scartano le alternative in cui i clitici occupano una posizione simile a quella delle corrispettive espressioni sarde: no ddu fetzas, ddu potzu nai, non

ci potzu fai nudda, è sciakuendisì. La scelta avviene dunque per transfer

negativo, e si ha enclisi quando in sardo si ha proclisi, e viceversa pro-clisi se in sardo c’è enpro-clisi.

Ma questo è solo un esempio, che permette, tra l’altro, di insistere sul fatto che si debba sgombrare il campo dall’idea che ogni regiona-lismo sia da considerarsi errore. I regionalismi morfosintattici sono più numerosi di quanto si creda: investono l’ordine delle parole nella frase, la scelta di tempi e modi verbali, l’emergere di costrutti partico-lari ecc., tanto da rendere possibile fare a scuola grammatica, o meglio riflessione sulla lingua, a partire da una lente di ingrandimento appli-cata per prima cosa alle forme regionali di italiano e alle scelte lingui-stiche più sistematicamente presenti nelle produzioni degli studenti: un punto di partenza per scoprirne la genesi, per sondarne la maggiore o minore diffusione e accettabilità, per scoprire che si può trattare an-che solo di scelte preferenziali an-che ‘colorano’ l’italiano diversamente da un’area all’altra, senza necessariamente violare alcuna norma, e così via. Può essere facile raggrupparle in singole schede ricche di esempi dello stesso tipo desunti dallo scritto e/o dal parlato degli studenti di una classe: una sorta di banca-dati (come in passato molti studiosi già proponevano) da esaminare in modo attento, non ‘errori’ da

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reprime-re sempreprime-re e ovunque, ma forme da porreprime-re al vaglio della “bussola co-municativa” di cui parlano le Dieci Tesi GISCEL e da usare con quella consapevolezza che talvolta manca agli stessi parlanti colti19.

Forse, per ogni italiano regionale, mancano descrizioni accurate, accessibili al di fuori degli ambiti specialistici, di forme locali cui at-tingere in una didattica dell’italiano attenta anche a questi fenomeni; indubbiamente tale lavoro di (ri)scoperta dei regionalismi sarebbe facilitato da una adeguata formazione linguistica, sociolinguistica e dialettologica degli insegnanti, ben maggiore di quella consentita dagli attuali ordinamenti universitari. Ma ogni piccola sperimenta-zione del tipo sopra accennato conferma che, ragionando con gruppi di studenti che imparino a badare prima di tutto al parlare proprio e a quello corrente nel loro ambiente, l’insegnante stesso può fare (ed essere stimolato a fare) ipotesi e scoperte, rendendo vivo, interessan-te e coinvolgeninteressan-te un insegnamento, anche grammaticale, atinteressan-tento alla variazione, che finalmente attivi il ragionamento ed esca dalle secche arcigne del giusto/sbagliato in cui la scuola – almeno a guardare molte grammatiche in uso – sembra ricaduta o da cui non è forse mai uscita, aldilà delle raccomandazioni ufficiali delle varie Indicazioni naziona-li, spesso rimaste ignote a molti docenti.

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19 In Sardegna, per esempio, si può non avere contezza del fatto che, in un’espressione

come l’ho visto correndo, l’italiano standard non prevede che a correre sia una persona diversa dalla prima persona che vede (come invece nell’italiano regionale sardo, dove molti costrutti, anche con l’infinito, restano impliciti pur nel cambio di soggetto ri-spetto a quello della principale. Es.: il vecchio mi ferma per fargli l’elemosina). E si pen-si alla ricchezza e utilità delle lezioni di grammatica che potrebbero farpen-si al riguardo.

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