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I volti della poesia operaia

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Academic year: 2021

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ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI

BOLOGNA

SCUOLA DI LINGUE E LETTERATURE, TRADUZIONE E

INTERPRETAZIONE

SEDE DI FORLÌ

CORSO di LAUREA IN

MEDIAZIONE LINGUISTICA INTERCULTURALE

(CLASSE L-12)

ELABORATO FINALE

I VOLTI DELLA POESIA OPERAIA

CANDIDATO

Anna Alongi

Anno Accademico 2016/2017

Primo Appello

RELATORE

Serena Zuccheri

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INDICE

1. INTRODUZIONE ... 1

2. LA POESIA DEGLI OPERAI MIGRANTI IN CINA ... 4

3. COMMENTO TRADUTTOLOGICO DELLE POESIE ... 11

3.1 La solitudine è una malattia incurabile, di Zhang Shaomin 张绍民 (gudu shi zhibuhao de jibing, 孤独是治不好的疾病) ... 11

3.2 Statue dormienti, di Zhang Shaomin 张绍民 (keshui de diaoxiang, 瞌睡的雕 像) ... 16

3.3 Suoni, di Zheng Xiaoqiong 郑小琼 (shengyin, 声音) ... 19

3.4 Addetto alla caldaia, di Bai Qingguo 白庆国 (guolugong, 锅炉工) ... 23

Bibliografia ... 26

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1. INTRODUZIONE

“打工诗人”是“一个异乡人/一个没文凭的人/一个诗歌爱好者/一个 说梦话的人/一个忧郁的影子/一个行走不定的人/一个试用期中的人”

谢湘南《试用期与七重奏》 «“Il poeta operaio” è uno straniero / un uomo senza diploma / un amante della poesia / un sognatore / un’ombra malinconica / un uomo che cammina a passi incerti / un uomo in periodo di prova.» Xie Xiangnan «Periodo di prova e settetto»

La volontà di realizzare questo lavoro scaturisce da due eventi: il primo, un incontro tanto fortuito quanto determinante per la mia iniziazione al mondo della traduzione poetica, il secondo un increscioso fatto di cronaca avvenuto due anni prima. È il primo giorno di lezione del mio periodo di studio nella maestosa città di Pechino e accanto a me è seduto Gabriel, un ragazzo catalano che scopro essere un fervente appassionato di letteratura e grammatica. Mi mostra il suo blog personale e i miei occhi si soffermano su un post che riporta questo titolo: “Xu Lizhi: traduciendo al poeta esclavo que se suicidó”1. Xu Lizhi 许立志 è stato un giovane operaio cinese che, dopo aver lavorato per qualche anno alla Foxconn, un’azienda multimilionaria che fornisce prodotti di elettronica alle più grandi multinazionali del mercato, si è tolto la vita, il 30 settembre del 2014, all’età di 24 anni. Xu Lizhi scriveva anche poesie sulla sua vita e le condizioni in cui era costretto a lavorare, insieme a migliaia di altri come lui. Tuttavia, in Cina, la gente comune sembra non conoscerlo, eppure la sua storia ha tutte le premesse per suscitare grande scalpore. Trovo qualche informazione in più in rete e, approfondendo le ricerche, mi trovo davanti ad un fenomeno molto più ampio e con radici molto più profonde di quanto non avessi immaginato. Il suicidio di Xu Lizhi non è stato il primo e non sarà l’ultimo. Come lui, sono tanti ad aver affidato la propria

1 La proposta di traduzione spagnola avanzata da Gabriel, in maniera ufficiosa, è consultabile sul suo

blog all’indirizzo https://decaminoapekin.com/2016/05/17/traduciendo-a-xu-lizhi-el-poeta-que-se-suicido/ .

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anima alla scrittura, in una realtà dove non è concesso loro esprimerla. Le opere e le vite di questi uomini e di queste donne non hanno probabilmente ricevuto la risonanza mediatica che avrebbero meritato e tutt’oggi le loro storie, con cui il governo non ha mai veramente fatto i conti, sono un argomento estremamente delicato nella Repubblica Popolare Cinese (RPC). Solo negli ultimi anni, grazie al contributo di scrittori, intellettuali e traduttori molti di questi testi sono venuti alla luce, ed è stato loro riconosciuto non solo un indiscusso valore di denuncia sociale, ma anche letterario. Solo un numero esiguo di questi componimenti è stato tradotto in italiano e da ciò nasce il mio desiderio di contribuire, seppure in minima parte, affinché queste storie di resistenza varchino la soglia dei grandi cancelli delle fabbriche e diano voce alle milioni di persone che, dietro ad un braccio metallico, sperano ancora in un futuro migliore.

A partire dal 2014, alcune delle poesie di Xu Lizhi sono state tradotte in inglese e pubblicate online, costituendo un riferimento per le successive traduzioni in altre lingue, come italiano e spagnolo.2 Nel 2016, negli Stati Uniti, è stata data in stampa una raccolta di poesie operaie, dal cinese dagong shige 打工诗歌, tradotta in lingua inglese da Eleanor Goodman, dal titolo Iron Moon: An Anthology of Chinese Migrant Worker Poetry. Si tratta del primo sostanziale tentativo di rendere questi versi accessibili in lingua inglese e prende il nome da una delle poesie più emblematiche di Xu Lizhi (Ho ingoiato una luna di ferro, Wo yanxia yi li tie zuo de yueliang , 我咽下 一 枚 铁 做的 月亮), ma la sua consultazione non mi è stata possibile poiché, al momento della stesura di questo elaborato, l’antologia non è ancora reperibile in Italia. Il secondo capitolo di questa tesi vuole fornire, partendo da un excursus storico, un’introduzione al genere letterario e alla figura del poeta operaio, a cui seguono delle brevi considerazioni sulla strategia da me adottata durante la fase traduttiva. Il terzo capitolo contiene i commenti traduttologici di quattro poesie di tre autori diversi, estratte da due raccolte di poesie operaie scelte intitolate rispettivamente: «2009-2010

2 La traduzione inglese di nove poesie di Xu Lizhi e una scritta in sua memoria del suo compagno

di lavoro Zhou Qizao 周启早 è stata pubblicata nel 2014 sul sito https://libcom.org/blog/xulizhi-foxconn-suicide-poetry. Lo stesso anno, a partire dalla versione inglese, è stata pubblicata una traduzione italiana a cura dell’Istituto Onorato Damen di Catanzaro, consultabile a questo sito: http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/images/stories/libro%20poesie%20mangime%20per%2 0le%20macchine.pdf .

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Poesie scelte di operai migranti cinesi» (2009-2010 Zhongguo dagong shige jingxuan, 2008-2010 中 国 打 工 诗 歌 精 选) e «Poesie scelte di Zheng Xiaoqiong» (Zheng Xiaoqiong shixuan, 郑小琼诗选).

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2. LA POESIA DEGLI OPERAI MIGRANTI IN CINA

All’alba degli anni Novanta, Deng Xiaoping 邓小平 (1904 – 1997), attraverso il viaggio al sud della Cina compiuto nel 1992, riconferma la validità della politica di riforma e apertura (gaige kaifang 改 革 开 放 ) avviata nel 1978, incoraggiando l'iniziativa privata, la cooperazione internazionale e lo slancio verso il progresso, secondo lo slogan “arricchirsi è glorioso” (zhi fu guangrong 致富光荣).

Questo processo di modernizzazione, accompagnato da un’impennata dell’economia nazionale, non si consolida senza avere profonde ripercussioni sociali, riguardanti soprattutto il crescente divario economico tra le zone urbane e quelle rurali, che diventa un problema allarmante in questo decennio e rimane ancora irrisolto in quello successivo. Emerge nuovamente quella stratificazione sociale che il governo maoista aveva preso di mira negli anni precedenti attraverso la lotta di classe. Se, da una parte, la Cina appare invasa da centri commerciali che suscitano l’invidia dei più moderni e ricchi colossi occidentali, dall’altra, i valori, le relazioni e le abitudini quotidiane dei singoli individui sono ancora in parte legati alla tradizione. I grandi cambiamenti a cui i cinesi assistono alimentano le loro speranze di miglioramento, ma al tempo stesso li destabilizzano, poiché incapaci di trovare una nuova collocazione in questa società moderna. In questo quadro si fa strada una categoria sociale, quella dei nonmingong 农民工, oggi maggiormente noti come lavoratori migranti o dagongren 打工人, operai che dalle campagne e dalle città minori della Cina si trasferiscono nei grandi agglomerati metropolitani per essere assunti in fabbrica. Tuttavia, è importante fare una distinzione tra i dagongren contemporanei e gli operai gongren 工人 di epoca maoista, la principale categoria, insieme a quella dei braccianti agricoli e dei soldati, su cui aveva fatto leva, a partire dal 1949, la rivoluzione comunista del presidente Mao. Nella Cina maoista, questi gruppi costituivano il perno della società e godevano di grandi privilegi: alloggio, pasti, finanziamenti per l'educazione dei bambini, servizi sanitari, garanzia di impiego a vita e pensione. Ogni lavoratore veniva assegnato ad un’impresa e ad un’unità di lavoro e una volta arrivato all’età pensionabile poteva spesso trasmettere il suo status ad un membro della famiglia. Godendo di privilegi importanti rispetto al resto della popolazione, la classe operaia aveva per lungo tempo costituito una solida base sociale del regime maoista e, seppure priva di alcuna autonomia politica, contava su una forte coscienza sociale ed era consapevole della

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propria insostituibilità. Con la fine della rivoluzione maoista, si pone fine anche alla lotta di classe e il nuovo modello capitalista cinese porta con sé grandi cambiamenti: nonostante le manovre di Deng Xiaoping abbiano comportato un aumento dei costi dei prodotti di consumo, la stabilità economica è cresciuta, così come la qualità della vita, e i contadini ne sono stati i principali beneficiari (Yu Hua, 2012: 15-16). Con l’avvento e la diffusione dei media anche nelle campagne, molti giovani desiderano cambiare stile di vita e recarsi a studiare e a lavorare in città; questa enorme migrazione interna ha fornito la forza-lavoro per una delle crescite economiche più impressionanti del mondo negli ultimi vent’anni, e allo stesso tempo ha causato grandi mutamenti sociali all’interno della Cina: i giovani che lasciano le loro zone d’origine affidano spesso i loro figli ai nonni o ai genitori rimasti nei villaggi, affrontano viaggi di centinaia di chilometri verso le zone industriali e ritornano a casa poche volte l’anno, spesso solamente per la principale festività del calendario cinese, quella del capodanno lunare. Il loro sfruttamento all’interno dei grandi complessi industriali è facilitato dallo hukou 户口, un sistema di certificazione di residenza della Repubblica Popolare Cinese (RPC) istituito in epoca maoista per evitare flussi incontrollati di spostamento della popolazione, che prevede differenti diritti per cittadini provenienti da diverse aree geografiche, poiché i programmi per l’assicurazione sociale, il benessere sociale e l’assistenza sociale sono finanziati a livello locale. Da ciò ne consegue che, nel momento in cui un cittadino abbandona il luogo di residenza per trasferirsi in un’altra città, lascia nel paese di origine anche i propri diritti. Di fatto, i migranti diventano cittadini di serie B: non risiedendo legalmente nella città in cui lavorano, non possono acquistare una casa né mandare i figli a scuola, non possono accedere al servizio pubblico né ottenere un contratto di lavoro. Per godere di questi diritti un migrante dovrebbe trasferire la sua residenza o ottenere la semi-residenza. Queste pratiche, però, sono spesso inaccessibili perché i migranti, sottopagati e inviando a casa la maggior parte dei loro guadagni, non possono permettersi di soddisfare i costosi requisiti per diventare cittadini.

La storia ci ha costantemente mostrato come in ogni momento di svolta, gli animi più sensibili siano sempre riusciti a trarre dalla propria esperienza di vita personale quegli elementi comuni ad un’intera generazione o gruppo di persone: in questo senso, la scrittura diventa una sorta di catarsi personale, un posto in cui poter riporre le proprie speranze, annotare stati d’animo e registrare il proprio filo di pensiero con grande lucidità. È quindi inevitabile che, in questo periodo di profonde

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trasformazioni sociali e culturali, sotto impulso di alcuni intellettuali, si inizi a parlare del fenomeno di “scrittura dal basso” (diceng xiezuo 底层写作) ed è così che la diseguaglianza sociale diventa questione anche letteraria (Serena Zuccheri, 2016: 40), ponendo al centro della sua analisi il fenomeno degli operai in fabbrica e dei lavoratori migranti, i testimoni più autentici dei tempi moderni.

Chi sono quindi i poeti operai dagong shiren 打工诗人?

Quando parliamo di poesia dagong ci riferiamo a quei componimenti scritti da operai migranti in possesso di un’istruzione di tipo tecnico-specialistico di livello medio-alto rispetto alla maggior parte dei membri della loro comunità, con un’occupazione in fabbrica saltuaria, mal retribuita e precaria, destinati a una breve vita scandita da turni di lavoro estremamente duri. A differenza della maggior parte dei loro colleghi, il cui consumo culturale è rappresentato perlopiù da un uso spasmodico degli smartphone, dall’ascolto della musica pop e dalla partecipazione a lotterie, questi operai dimostrano di avere una discreta conoscenza della letteratura cinese e di quella straniera e passano gran parte del loro esiguo tempo libero a ricercare attività culturali, quali reading di poesia, corsi di scrittura creativa, competizioni letterarie e fiere dell’editoria, per ampliare i loro interessi (Serena Zuccheri, 2016: 146).

Nella poesia operaia, la lingua viva e semplice costituisce la sua componente essenziale. L’autenticità e la forza di questo tipo di componimento non sta nelle abilità poetiche e di scrittura dell’autore, ma «in un linguaggio privo di bizantinismo, estremamente concreto, esplicito, radicato nella realtà e dunque etnografico» (Serena Zuccheri, 2016: 147). Vediamo la relazione fatta di carne e ossa presente tra la poesia e la vita in fabbrica: scrivono della propria vita, delle proprie esperienze e scoperte, del proprio dolore e della propria tristezza, creando una vita e un’esperienza completamente nuove, colme di dettagli presi dalla realtà. Il poeta operaio, immerso nello strato più basso della società, si libera da qualsiasi forma di astrattismo e descrive gli aspetti concreti della vita vera di cui fa esperienza diretta, lasciando che la poesia dia forma alle sue accuse e sfide quotidiane. Nell’indifferenza della città, questa moltitudine di persone trascurate e dimenticate, calpestate, ferite, è vittima e testimone di ingiustizie all’ordine del giorno, in uno stato di preoccupazione e malessere causato da frustrazioni accumulate e da un’afasia che non riescono ad esprimere; ai loro occhi,

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la vita si è ridotta ad una mera sopportazione di ciò che per loro è la vita stessa, una lotta. La causa del loro dolore non risiede solo nell’impossibilità di agire per riscattare se stessi, ma anche e soprattutto nella piena consapevolezza che la società non stia in alcun modo intervenendo a loro favore.

Delle quattro poesie che ho tradotto, le prime due affrontano il tema della nostalgia, dell’amore per i familiari e il villaggio natio, rivelando come questa condizione non gravi esclusivamente sulle vite dei lavoratori stessi, ma anche su quelle dei loro cari. Nelle altre due, invece, il linguaggio del corpo e dell’industria si fondono, le micro-sezioni narrative presenti in alcuni versi, in cui compaiono pezzi di carbone, lastre di ferro e martelli si levano come un potente coro, palesando il legame malato esistente tra la grandiosa prosperità economica e le storie taciute di milioni di uomini e donne che sacrificano la propria salute, giovinezza e benessere per il profitto altrui.3

L’impulso creativo a mettere in versi il proprio dolore, col tempo, è diventato un tentativo di trasformare la propria sopravvivenza in una forma ‘udibile’ di esistenza che spesso trascende la realtà, mostrando la vita di donne e uomini che «impiantano il loro destino nelle trame del loro lavoro»4 (Serena Zuccheri, 2016:149).

A tal proposito Zheng Xiaoqiong 郑小琼, poetessa operaia tra le più influenti e rappresentative della sua generazione e della quale poesia approfondirò nel capitolo seguente, nel discorso da lei pronunciato dopo esserle stato conferito il premio per la saggistica Nuova Ondata (Xin langchao, 新浪潮) promosso dalla rivista Renmin Wenxue (人民文学, letteratura del popolo), afferma:

«Sul delta del Fiume delle Perle ogni anno finiscono più di quarantamila dita spezzate. Spesso ho pensato: e se queste dita venissero allineate, quanto sarebbe lunga la fila che andrebbero a formare? Questa fila continua a crescere interrottamente e la debolezza della mia scrittura non può raccogliere nessun dito spezzato… eppure non smetto di dirmi che ho bisogno di scrivere, scrivere ciò che sento, sentimenti che non appartengono solo a me, ma anche ai miei colleghi e ai miei amici. Non possiamo cambiar

3 http://www.gmw.cn/02sz/2007-09/01/content_709527.htm

4 Zhang Qinghua, Caice Shangdi de Shixue (Ipotesi su di una poesia divina), Beijing daxue chubanshe,

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nulla di questa realtà, ma ne siamo testimoni, penso sia un dovere raccontarla» (Serena Zuccheri, 2013: 42)5.

È così che «riconoscendo pubblicamente i limiti della sua scrittura, Zheng Xiaoqiong conferisce a se stessa il ruolo di testimone di quest’epoca e, nonostante la sua poetica sia ritenuta da alcuni grezza e grossolana, non può non esserle riconosciuto di essere lingua in cui la storia cinese contemporanea si riflette. […]» (Serena Zuccheri, 2013: 42-43).

Confrontarmi con questi testi ha costituito una sfida sotto molti punti di vista. L’idea di rendere da una lingua di partenza a una di arrivo l'incanto particolare di una poesia, di una strofa, di un verso, appare un’impresa impossibile ai più, dato che quell'incanto è affidato al ritmo, al gioco degli accenti, alle pause di varia durata tra parola e parola, all'intreccio dei fonemi, alla suggestione di una rima e a una lunga serie di condizioni che, mutando la lingua, non possono non mutare e perciò perdersi. A ciò si aggiunge, nella lingua cinese, il rapporto altamente problematico con la lingua scritta, costituita da caratteri. A tal proposito, Gu Cheng 顾 城 (1953 – 1996), tormentato esponente della corrente letteraria della poesia oscura6, scriveva:

Nell’utilizzare la scrittura ho rinunciato ad ogni obiettivo aprioristico. Ho così scoperto un fenomeno strano: i caratteri scritti si muovono da sé, schizzano come mercurio, possono spostarsi in qualsiasi direzione o trasformarsi in aria; molti caratteri non rappresentano più la definizione data nei classici; i rapporti sintagmatici, come fossero persone, si dimettono dalle loro funzioni, ripristinano la fisionomia e l’amore originali; sono caratteri che sprigionano magia, si imbattono in altri caratteri, e nel vibrare intrecciano una storia, scivolano su un carattere omofono, su uno dallo stesso tono, sulla componente di un carattere, a volte sono tutti suoni indefiniti, solo dopo

5 Zheng Xiaoqiong citata in “Zheng Xiaoqiong: liushuixian shang zhan qilai de ‘shitan chaonü’” (郑小

琼:流水线上站起 来的诗坛超女 Zheng Xiaoqiong: la ‘super donna della poesia’ si è alzata dalla catena di montaggio), in Shidai qingnian 时代青年, 2008, n. 3, p. 15.

6 Movimento poetico nato clandestinamente sul finire degli anni Settanta sotto l’impulso di giovani

autori ex Guardie Rosse pentite (tra cui Bei Dao 北岛 e Mang Ke 芒克, i quali fondano la famosa rivista Jintian (Oggi)) decisero di non obbedire più alle leggi del socialismo reale e del romanticismo rivoluzionario imposte dal governo, ma di dare libero sfogo a propri sentimenti personali attraverso una nuova forma espressiva. Questi poeti «sradicano la funzione didattica e ideologica che era stata imposta alla poesia e ripuliscono la lingua cinese dal gergo propagandistico che l’aveva disumanizzata. Il grande uso di metafore, che a una prima lettura rendono il testo apparentemente incomprensibile e ‘oscuro’, e il tono magniloquente che spesso investe tali testi poetici abbracciano non solo l’idea di rottura con le dinamiche e le logiche del passato, ma anche la possibilità reale di colmare quel vuoto spirituale lasciato dalla Rivoluzione culturale con un forte desiderio di indipendenza artistica» (Valentina Pedone, Serena Zuccheri, 2015: 113-114).

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molto tempo si riesce a trovare la parola possibile; i mutamenti arbitrari di questi caratteri sono pericolosi, presentano anche intonazioni ed effetti ingiustificati […] (Gu Cheng, in Risposte a un questionario, traduzione di Paolo Galvagni, 1995: 217).

Gu Cheng fa una descrizione del fenomeno “caratteri cinesi” al limite della psicosi e, se nel caso della poesia operaia e in modo particolare dei testi che ho deciso di analizzare, molti degli elementi tipici di una prosa “alta” sono rari o del tutto assenti, permangono le questioni sollevate dall’ “intraducibilità” di tutte quelle componenti che danno vita al carattere stesso. Il 96% dei caratteri cinesi è costituito da una componente semantica e da un composto fonetico: i primi sono segni che risultano dalla combinazione di più elementi che indicano il significato del carattere, i secondi invece sono dei composti di due elementi, uno dei quali indica l’area semantica di appartenenza e l’altro la sua pronuncia; il restante 4% circa dei caratteri, infine, deriva direttamente dai singoli pittogrammi, ossia dei veri e propri segni grafici che rappresento l’oggetto visivamente e fisicamente e non il suono della parola. In traduzione, è inevitabile che la maggior parte di questi dettagli vengano persi, perciò ho tentato di approfondire questi aspetti nel commento traduttologico di ogni singola poesia, affinché anche un lettore che non abbia dimestichezza con la lingua cinese possa comprendere, almeno parzialmente, le trame apparentemente invisibili della lingua.

Come ho accennato, potremmo generalizzare nel dire che il linguaggio utilizzato dai poeti operai è meno rifinito di quello comunemente adottato da scrittori professionisti e, a differenza della prosodia classica, la poesia moderna non si attiene ad uno schema regolare che detta il numero di versi in un componimento o il numero di caratteri per ogni verso. Questa peculiarità determina la mancanza di un vero e proprio equilibrio in termini di tono, lunghezza del verso e ritmo, e solleva una questione da tempo oggetto di dibattito all’interno degli studi del settore, ovvero quella della libertà che il traduttore può concedersi di “migliorare l’originale”, e quali sono i parametri che determinano i casi in cui una modifica può essere considerata un miglioramento. Oltre a questioni di tipo testuale e linguistico, la traduzione spesso implica una riflessione sulle differenze culturali e, come nel caso della poesia operaia, può essere necessario fare delle considerazioni anche di tipo più strettamente politico, sulla funzione della poesia stessa e quindi della sua traduzione. Quando si ha a che fare con due lingue così diametralmente opposte come l’italiano e il cinese, la ricerca di espressioni equivalenti, di termini e forme corrispondenti, la traduzione in versi

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richiede non solo di un certo grado di sofisticatezza linguistica, ma anche una profonda comprensione culturale e un tocco di estro creativo.

Nella mia versione, ho cercato di utilizzare un registro linguistico e lessicale che rispecchiasse quello degli autori, senza ricorrere a particolare artifici poetici laddove non fossero presenti, riconoscendo il valore dei componimenti proprio nelle parole semplici e crude, a tratti quasi fredde, scelte dagli autori. Ai fini di una resa in italiano chiara, non è sempre stato possibile rispettare la lunghezza del verso originale o l’assenza di punteggiatura. L’italiano si presenta come una lingua ben strutturata morfologicamente, e tale strutturazione è data da un’articolata coniugazione delle forme verbali, che eredita dal latino, ma anche da una chiara flessione nominale e aggettivale (Rocco Ragone, 2003: 58). Al contrario, il cinese è una lingua invariabile, in cui spesso il tempo verbale, il genere, il numero e il soggetto di una frase non vengono specificati. La sua brevità espressiva, data dalla forza evocativa dei caratteri e da una grammatica essenziale, si contrappone alla necessità di articolarsi dell’italiano, la cui ricchezza sta proprio nella sua capacità di espandersi, processo che contribuisce grandemente a dare compattezza e regolarità al discorso. È per questo che, nel rispetto dell’originale, sono intervenuta in alcuni passaggi, opportunamente giustificati nella sezione del commento, per dare al lettore italiano il senso della forma, del ritmo, della dizione e dello stile a tratti elusivo dell’originale senza sacrificare la leggibilità.

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3. COMMENTO TRADUTTOLOGICO DELLE POESIE

3.1 La solitudine è una malattia incurabile, di Zhang Shaomin 张绍民 (gudu shi zhibuhao de jibing, 孤独是治不好的疾病)

Una delle parole chiavi del componimento è senza dubbio liushou 留守, ritengo dunque necessario prima di tutto approfondire l’origine di questo termine per comprendere come la sua radice etimologica ne giustifichi l’utilizzo in un contesto decisamente contemporaneo. Liushou ha il significato di liuzhi zhushou 留置驻守, “rimanere in un posto a fare la guardia”. In Cina, a partire dalla dinastia Sui 隋 (581-617), indicava coloro che, in assenza dell’imperatore, venivano temporaneamente collocati nella capitale o in zone strategiche di difficile accesso con il compito di difendere il territorio avvalendosi dell’esercito, per questo venivano momentaneamente conferiti loro responsabilità e potere esecutivo. Questa figura si affermò sotto Sui Yangdi 隋炀帝, secondo imperatore della dinastia Sui, diventando una carica ufficiale all’interno dell’amministrazione imperiale. Le mansioni principali di questi ufficiali erano quelle di difendere la capitale e al tempo stesso condurre l’esercito, occuparsi della popolazione civile e gestire gli affari finanziari.

Gli archivi storici ci forniscono qualche testimonianza, citando per esempio l’imperatore Taizong 太宗 della dinastia Tang 唐朝 (599-649) che, durante una spedizione punitiva contro Goguryeo 高句丽 (37 A.C - 668 D.C), uno dei Tre regni di Corea, lasciò che Fang Xuanling 房玄齡 (579-648), storico della dinastia Tang e autore della Jinshu 晋书, «Storia della dinastia Jin», restasse ad amministrare la capitale. Più tardi, nel 723, durante l’epoca Kaiyuan 开元之治 (713-741), sotto Xuanzong 玄宗, settimo imperatore Tang, a Yin venne dato l’incarico di amministrare la capitale del nord Taiyuan nell’attuale provincia dello Shanxi, insieme a Luoyang, capitale occidentale e Chang’an (attuale Xi’an), capitale orientale; per questo era chiamato san du liushou 三都留守, una sorta di “amministratore delle tre capitali.” Durante la dinastia Song del Nord, la carica di shumishi 枢 密 使 , commissario dell’esercito, coincideva con quella di liushou ed era chiamata shixiang 使相. Anche

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nei primi anni dopo l’istaurazione della Repubblica Popolare Cinese fu istituita la carica di liushou, ma venne abolita poco dopo.7

Sebbene oggi questo termine venga utilizzato in contesti del tutto diversi e abbia perso la connotazione strettamente politica di un tempo, il suo significato intrinseco è rimasto invariato e trova impiego nella descrizione di un fenomeno sociale dilagante nella Cina contemporanea, quello dei cosiddetti “bambini lasciati indietro”. È sufficiente analizzare singolarmente i due caratteri per rendersi conto che la rideterminazione semantica di questo termine in riferimento alla condizione in cui si trovano quasi 60 milioni di bambini cinesi non è affatto un atto casuale: liu 留, dal verbo liuxia 留下, “lasciare, rimanere”, in questo caso lasciati nei villaggi, shou 守, dal verbo shouwang 守望, “fare la guardia”, ad indicare lo stato di allerta di questi bambini in attesa del ritorno dei propri genitori. I liushou ertong 留守儿童 sono i “bambini lasciati indietro” nel luogo di origine alle cure di nonni o altri parenti, nella maggior parte dei casi si tratta di villaggi rurali, dai genitori emigrati in città lontane in cerca di lavoro.

L’intero componimento si snoda attorno al concetto di liushou, carattere talmente pregno di significato che, nella versione originale, si regge in piedi da solo, non ha bisogno di essere accompagnato da alcuna spiegazione poiché porta con se un chiaro riferimento culturale che ne permette l’immediata decodifica. Un solo determinante basta a modificare e caratterizzare tutti i nomi a cui viene accostato: si tratta di nomi ordinari, semplici, appartenenti alla quotidianità, e ognuno di loro, dai nipoti alle rughe, viene pervaso dal senso di estremo disagio a cui oggi viene associato il termine liushou in questo preciso contesto. Data la mancanza nella nostra lingua d’arrivo di un corrispondente diretto altrettanto evocativo, la sua traduzione ha sollevato non poche difficoltà, che ho deciso di risolvere ricorrendo alla soluzione forse più semplice, ma a mio avviso più efficace. L’espressione “bambini lasciati indietro”, dall’inglese “left-behind children”, si è affermata da qualche anno nel mondo giornalistico per designare i bambini cinesi vittime di questa realtà. Di fronte alla traduzione inglese già attestata, da cui poi è derivata quella italiana, mi sono trovata a dover compiere una scelta: optare per una traduzione «“target-oriented” – che spinge il testo verso il lettore straniero “naturalizzandoglielo” nel contesto linguistico e culturale di arrivo, fino a non fargli capire che si tratta di un testo tradotto […]» oppure « “source-oriented” – che trascina

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il lettore straniero vero il testo, cercando costantemente di accendergli spie relative alla fonte, affinché non si dimentichi mai che quel testo è tradotto» (Franco Buffoni, 2004: 16). Una traduzione a mio parere valida e affine alla scuola traduttologica naturalizzante sarebbe stata, per esempio, “bambini abbandonati”. È una collocazione che ci è familiare e, senza dubbio, adatta a descrivere questi bambini che, in fondo, sono stati abbandonati a loro stessi. Tuttavia, ho deciso di agire seguendo la direzione opposta per due motivi. Il primo è che “bambini abbandonati”, oltre ad essere privo di alcun riferimento culturale specifico, estremamente tangibile invece nel testo originale, a parer mio non avrebbe nemmeno suscitato nel lettore la reazione che l’autore voleva chiaramente innescare attraverso la scelta lessicale del testo di partenza: un rimando diretto ad una categoria specifica di “bambini abbandonati”. Il secondo motivo è la connotazione decisamente negativa attribuita al verbo “abbandonare”, di per sé assente nel termine liushou che, se decontestualizzato, nel cinese moderno viene percepito dal parlante nativo in maniera del tutto neutrale e potrebbe essere usato per descrivere, ad esempio, una moglie che rimane a casa a prendersi cura dei figli mentre il marito è in viaggio d’affari. Non c’è dubbio invece che l’italiano “abbandonare”, estrapolato o meno dalla circostanza a cui si riferisce, presuppone un certo grado di disinteressamento da parte di chi compie il gesto che sicuramente non è riscontrabile nelle madri e nei padri che si sono visti costretti a lasciare i propri figli spinti da motivi, seppur discutibili, tutt’altro che egoistici, primi tra i quali la volontà di assicurare loro un futuro con più opportunità. Infatti, come sottolinea un articolo del «Beijing Youth Daily», il fatto che i genitori non portino con sé i figli non è dovuto a deliberato disinteresse, quanto alla mancanza delle condizioni necessarie, in primo luogo un sistema di welfare che garantisca efficacemente i servizi di base (scuola, sanità) ai figli degli “immigrati”.8 Come ho accennato nel capitolo precedente, a causa della complessa legislazione dello hukou, ai bambini che decidono di seguire i genitori, spostandosi dalla campagna alla metropoli, non verrebbero garantiti servizi pubblici, come la sanità e l’istruzione. Un altro problema è quello tecnico della mancanza di alloggi, in un contesto nel quale il lavoratore operaio di norma vive nei dormitori predisposti nelle fabbriche o nei cantieri, rigidamente riservati al personale.

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I “bambini lasciati indietro” non sono l’unico focus dell’autore. Già nel secondo verso viene presentata la figura dei bambini che hanno seguito i genitori nelle grandi città ma, come spiega il già citato articolo del «Beijing Youth Daily», se il loro status è cambiato, le loro condizioni di vita non hanno subito alcun miglioramento sostanziale. Le difficoltà ad integrarsi nella società di queste metropoli moderne li costringe a vivere in uno stato di “semi urbanizzazione”. Dopo essersi trasferiti in città, quelli che una volta erano “bambini lasciati indietro” vengono nuovamente “abbandonati” a causa della precarietà del lavoro dei genitori, spesso costretti a cambiarlo o a trasferirsi in un altro stabilimento che, pur trovandosi all’interno della stessa città, è molto lontano dalla scuola dei propri figli, rendendo la condivisione familiare altrettanto difficile.

È opportuno riflettere sulla scelta lessicale dell’autore nel descrivere la vita di questi bambini catapultati nella dimensione metropolitana: dapin 打拼 “lottare”, da da 打 “lavorare con tutte le proprie forze” e pin 拼 “mettendo a rischio la propria vita”. Anche in questo caso, una resa letterale mi è sembrata la più consona, poiché quella affrontata ogni giorno da queste nuove generazioni è una vera e propria lotta per la sopravvivenza, aggravata da un senso di solitudine e disorientamento quando vengono private dei punti di riferimento non solo familiari ma anche culturali. Come i funzionari imperiali lasciati ad amministrare il territorio in assenza del sovrano, questi bambini già adulti, in campagna o in città, vengono investiti di responsabilità e doveri dai quali non possono esimersi.

In tali circostanze, a prevalere è il sentimento di solitudine espresso dal termine gudu 孤独 che, insieme a liushou, è il protagonista incontrastato della poesia. È formato da due caratteri, gu 孤 e du 独, entrambi aventi significato di “solo, solitario” e vale la pena soffermarsi su alcuni dei loro aspetti, in primis dei loro componenti. Il radicale di gu 孤 è zi 子, “figlio, bambino” e, infatti, il primo significato di gu è proprio quello di “orfano” (specialmente di padre). La solitudine diventa così imprescindibilmente legata al concetto di famiglia, intesa come conseguenza diretta della mancanza di essa. Questa correlazione ha radici profonde ed era già presente in espressioni risalenti al cinese medio zhonggu hanyu 中古汉语, che si riferisce alla lingua cinese parlata durante le Dinastie del Nord e del Sud 南北朝 e le Dinastie Sui

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随, Tang 唐 e Song 宋 (VI-X secolo), per esempio nel chengyu 成语9guangua gudu 鳏寡孤独, che nel sul significato letterale si riferisce ai “vedovi, vedove, orfani, senza figli”, ma che in senso più figurato indica chi è “solo al mondo”, chi è rimasto senza nessuno su cui poter fare affidamento, in un paese in cui ancora oggi la famiglia tradizionale rappresenta il pilastro della società. Alla luce di queste considerazioni, è chiaro come questi soggetti non siano afflitti solo da una solitudine fisica data dall’assenza di una figura che li accompagni durante il loro percorso di vita, ma anche e soprattutto da una solitudine interiore, profonda e incolmabile.

I seguenti tre versi, in cui non sono presenti particolari problemi lessicali, sono stati però una sfida dal punto di vista della sintassi e dello stile.

在自己的家里孤独 在自己的村庄

在自己的故乡都孤独

Prima di procedere, è necessario soffermarsi su un aspetto fondamentale della grammatica cinese che talvolta può costituire un ostacolo per gli italofoni intenti a tradurre verso la lingua madre. Letteralmente, la sequenza del testo originale, che si ripete in tutti e tre i versi, è la seguente “Nella propria casa soli, nel proprio villaggio, nel proprio luogo natio tutti soli”. Come si può vedere, l’ordine dei componenti della frase risulta invertito rispetto all’italiano, in cui il soggetto o argomento viene normalmente posto all’inizio della frase, seguito da tutti gli altri elementi “accessori”. In cinese accade il contrario, per cui tutti gli elementi subordinati che fungono da determinante (nominale o verbale) precedono sempre, senza eccezione, il costituente da cui sono retti. Il rapporto di determinazione nominale può essere esplicitato attraverso l’inserimento della particella strutturale de 的 tra determinante e determinato (Abbiati, 1998: 101). In pratica, se in italiano abbiamo la struttura oggetto possessore, in cinese avremo possessore de oggetto. La particella de funziona da spartiacque tra due funzioni della frase: il “determinante”, alla sua sinistra, e il “determinato”, alla sua

9 I chengyu sono delle particolari espressioni idiomatiche cinesi a quattro caratteri, con o senza

apparente significato logico, che racchiudono al loro interno un significato molto più profondo. Hanno una struttura fissa e coincisa, e i cinesi li usano spesso per comunicare un concetto sotto forma di analogia.

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destra. Tutto quello che precede de modifica il nome finale: può esserne, cioè, una sua descrizione. Da ciò deriva l’impossibilità, nella versione italiana, di mantenere la struttura sintattica originale che prevede la ripetizione dell’elemento subordinato zai ziji 在自己 ad inizio frase. Tuttavia, riformulare la frase in italiano mantenendo gli stessi elementi forniti dall’autore mi avrebbe costretta ad eliminare la figura enfatica della ripetizione da lui scelta, ho quindi ritenuto opportuno prendermi la piccola libertà di aggiungere un elemento che non è presente nel testo originale, ma che mi ha permesso di mantenere la struttura ritmica del componimento: l’inserimento di un ulteriore “soli”, traduzione del cinese gudu, che nell’originale non appare tre volte, ma soltanto due. Ho ritenuto giusto, in questo caso, sacrificare l’aderenza al testo per conservarne la resa ritmica. Un’ultima breve considerazione sul verbo liutang 流淌 a chiusura della poesia, che come è possibile evincere dalla presenza del radicale dell’acqua 氵(shui 水) collocato a sinistra di entrambi i caratteri che lo compongono, indica il fluire di liquidi. Dover prendere in considerazione da una parte il concetto astratto della solitudine, di per sé non libera di “scorrere”, e dall’altra la necessità di mantenere il senso di fluidità che l’autore ha voluto esprimere attraverso questa scelta terminologica inusuale, mi ha portato ad una continua revisione del verso tradotto. Mi ha aiutato nella formulazione di una resa soddisfacente la “luce del sole”, yangguang 阳光, presentata nel verso precedente. Il sole, in questa speculazione, non è altro che una metafora del tempo: visti da questa prospettiva, appaiono giustificati il parallelismo effettuato dall’autore e una traduzione che ne rispetti l’interpretazione figurata, in questo caso dello scorrere del tempo. Alla luce di questa riflessione, mi è sembrato accettabile tradurre liutang come “passare”, che risponde sia ad un’esigenza di significato che a una di stile, mantenendo inalterata l’idea di movimento presente nel testo di partenza.

3.2 Statue dormienti, di Zhang Shaomin 张绍民 (keshui de diaoxiang, 瞌睡

的雕像)

Dello stesso autore, questo componimento ha come protagonista una delle tante figure coinvolte nel fenomeno dei mingong 民工, gli “operai-contadini” che hanno lasciato il loro villaggio per lavorare in città: i nonni rimasti nel paese natale, coloro che spesso si occupano di crescere i nipoti “lasciati indietro” dai genitori. Nonostante molti siano contadini con un grado di alfabetizzazione non elevato, i parenti anziani

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sono spesso gli unici punti di riferimento di questi bambini e per questo svolgono un ruolo fondamentale nella crescita dei loro nipoti e cercano, come meglio possono, di compensare alle mancate cure dei genitori. Svolgono da una parte il ruolo educativo ed autorevole di madri e padri, dall’altro offrono loro supporto psicologico per affrontare la condizione di “orfani” in cui si ritrovano, rafforzandone la cosiddetta “resilienza”, la capacità psichica di resistere agli eventi negativi e stressanti. La poesia esprime chiaramente l’intensità del legame che unisce il nonno al nipote, che traspare anche da alcune scelte grammaticali effettuate dall’autore. Prima di passare ad un’analisi della struttura di frase è opportuno, data la necessità della lingua cinese di riflettere sulle sue componenti, visibili nella costituzione dei caratteri, e invisibili nei giochi delle omofonie e sonorità, soffermarsi sulla forma stessa di uno dei verbi chiave del componimento, han 喊. Tra i suoi componenti troviamo due bocche spalancate kou 口 (di cui una ne costituisce il radicale), il suo significato originale è infatti “urlare”. Viene usato anche nell’accezione di jin qi suoyou 尽其所有, “dare tutto se stesso”, perciò viene spesso impiegato nell’espressione “gridare con tutte le proprie forze”. Nel nostro caso specifico, han è sempre accompagnato da un altro verbo importante: xing 醒, svegliarsi. Ci troviamo di fronte ad una costruzione aspettuale potenziale, ovvero ad una struttura in cui viene inserita, tra il verbo reggente e il suo complemento risultativo o direzionale, la particella aspettuale de 得 o la negazione bu 不, le quali segnano la possibilità o meno che l’azione descritta si svolga con il risultato o nella direzione specificati. Han bu xing 喊不醒 indica quindi la mancata riuscita dell’azione: nessuna delle voci acute provenienti dalla tv riesce a svegliare il vecchio assorto nel proprio sonno. Ho scelto di tradurre il verbo han xing con “destare” perché penso vada interpretato oltre il suo significato base di “svegliarsi” in opposizione ad uno stato di assopimento: il ronzio della televisione non solo non viene percepito dal vecchio, ma non desta nemmeno la sua attenzione. La tranquillità del suo riposo non viene minimamente turbata da nessuno dei personaggi che, quasi per ordire di importanza, si susseguono all’interno del piccolo schermo. Al di sopra di tutto e di tutti compare il nipote, l’unica immagine che riesce a suscitare la reazione del nonno. Questa scena, presentata negli ultimi tre versi, viene descritta tramite l’utilizzo della costruzione con ba 把, che evidenzia come l’agente agisca sul paziente e come l’azione compiuta abbia su di esso reali ripercussioni. L’agente è presentato di norma come tema, e il tema di norma costituisce il soggetto: il paziente, formato da un gruppo nominale definito

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viene introdotto dalla preposizione ba e posto a sinistra del verbo con funzione di determinante verbale; il verbo esprime il trasferimento dell’azione dall’agente al paziente ed è in genere seguito da un qualche elemento che connota l’azione come realizzata, oltre a precisarne eventualmente, in modo esplicito, gli effetti (Abbiati, 1998: 158). È il nipote l’agente che si manifesta nei sogni del nonno, paziente, svegliandolo e provocandone il pianto (effetto esplicito). Quest’ultimo verso aveva fatto sorgere delle ambiguità in fase di traduzione iniziale, come può accadere quando ci si cimenta nella lettura di una lingua come il cinese in cui spesso, specie in un testo condensato come quello poetico, i legami morfologici e sintattici risultano meno palesi agli occhi di chi proviene da una lingua come l’italiano in cui le concordanze e le forme verbali non lasciano spazio ad alcun dubbio. Nella lingua cinese, come sottolinea l’Abbiati, «il verbo non ha contrassegni che ne indichino la voce, attiva o passiva. L’accezione attiva o passiva di una frase può essere compresa solo considerandone l’assetto complessivo». Da ciò se ne deduce che, a livello pratico, data la costruzione agente – ba + paziente – verbo – altri elementi, la funzione di han chu 喊出 viene esplicitata proprio dalla sua posizione all’interno della frase e non può che essere intesa come azione dell’agente, in questo caso il nipote, che ha una ricaduta diretta sul paziente, il quale subisce gli effetti in prima persona. Come spesso accade nella traduzione dal cinese, si assiste a un’inversione nell’ordine dei costituenti di una frase nell’osservanza della sintassi italiana, fenomeno particolarmente visibile nel penultimo verso, letteralmente “con genitori in città lavoro manuale di unico nipote”, che ho reso come “Il suo unico nipote trascinato in città dai genitori operai”. Un elemento che in traduzione differisce dall’originale è l’aggettivo possessivo “suo”. È nata qui la seconda ambiguità su cui ho dovuto prendere una decisione non tanto lessicale, quanto di trasposizione del significato stesso. Weiyi 唯一 significa “unico, solo”, ma tradurre come “l’unico nipote” avrebbe dato luogo ad un’ambiguità di senso: si tratta dell’unico nipote del nonno o, tra i nipoti, è l’unico ad aver lasciato il villaggio per seguire i genitori in città? La componente sociale è talmente viva negli autori contemporanei che ne risulta impossibile la comprensione senza considerare il contesto storico di appartenenza, che spesso fornisce la chiave di lettura necessaria ad una corretta interpretazione della volontà dello scrittore. Sebbene entrambe le opzioni siano plausibili, ho seguito la scelta traduttiva a mio parere più conforme alla situazione sociale della Cina contemporanea, conseguenza delle politiche di cui la

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Cina stessa è stata oggetto in tempi moderni, prima tra queste la politica di controllo delle nascite. A partire dagli anni ’70, infatti, il governo cinese ha fortemente promosso una campagna di educazione per le donne e le coppie il cui motto era wan xi shao 晚 稀少, ovvero il matrimonio e la gravidanza in età avanzata (wan), un intervallo più lungo tra un figlio e l'altro (xi), e soprattutto meno figli (shao), due per coppia. Nel 1979 viene introdotta la Politica del Figlio Unico che, per fronteggiare il forte aumento demografico ed assicurare il benessere economico del Paese, limitava le coppie ad avere un solo bambino, con qualche eccezione per le famiglie residenti nelle zone rurali, alle quali era permesso avere un secondo bambino se il primo era una femmina. A seguito di tragici risvolti sociali, la normativa rimasta in vigore per oltre trent’anni è stata abolita nel 2013, e adesso in Cina si possono avere due figli. In questo quadro è lecito presumere che le famiglie descritte in questi testi non siano affatto numerose, e non è da escludere l’ipotesi che sia i genitori che i figli appartengano alla generazione dei figli unici: in questo quadro familiare, al bambino, oltre ai genitori, non restano che i nonni.

3.3 Suoni, di Zheng Xiaoqiong 郑小琼 (shengyin, 声音)

Zheng Xiaoqiong 郑小琼 è una poetessa nata nel 1980 in un villaggio della provincia del Sichuan, nella Cina Sud-occidentale. Nel 1996 viene ammessa alla facoltà di Medicina di Nanchang e, dopo la laurea, riesce finalmente a realizzare il suo sogno di lavorare in ospedale come infermiera. Tuttavia, lo stipendio che percepisce non basta per saldare i debiti che la sua famiglia aveva contratto per permetterle di perseguire gli studi e decide così di lasciare l’impiego alla clinica per recarsi in una zona manifatturiera nella provincia del Guandong, dove inizia la sua vita da ‘dagongmei’ (打工妹), giovane operaia migrante:

«Avrò messo piede in quindici, sedici fabbriche. In alcune ho lavorato un mese, due settimane, alcuni giorni, un paio di mesi. I posti in cui ho lavorato sono disparati: industrie per la fabbricazione di utensili in metallo, industrie tessili, tipografie, fabbriche di giocattoli, di fusione per la plastica. Avrò fatto una decina di lavori diversi.10 »

10 Zheng Xiaoqiong citata in Zhang Li 张莉 (2011), “Ziben, laodong, nüxing: lun Zheng Xiaoqiong

zuowei dagongmei zhuti shehui/wenxue xinxiang de fuxian” (资本,劳动,女性:论 郑小琼作为打 工妹主体社会/文学形象的浮现 “Capitale, manodopera, donna: la comparsa di Zheng Xiaoqiong come soggetto ‘dagong’ e immagine letteraria”, in Nanfan wentan, n. 2, p. 42.

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In seguito, lavorerà per quattro anni in pianta stabile nella fabbrica di metalli di Huangma Ling, che farà da sfondo a moltissime delle sue poesie. I ritmi lavorativi sono estremamente faticosi e le condizioni in cui vive molto precarie: dodici ore di lavoro al giorno, senza contare gli straordinari, per un salario di venti yuan al giorno. L’unica fonte di sostentamento è il cavolo bollito e l’unico contatto umano all’interno delle mura dello stabilimento è rappresentato dalle sue colleghe, con cui condivide lo stesso destino e con le quali forma un grande legame di solidarietà. A Huangma Ling, così come in altre fabbriche, l’identità di ogni nuovo operaio assunto è rimpiazzata da un numero ed è così che Zheng Xiaoqiong passa ad essere il numero 245. Se da una parte l’identità di gruppo è molto forte, dall’altra si rischia di cadere vittima di un processo di massificazione in cui l’individuo viene derubato della propria umanità e stenta o scientemente decide di non reagire più. La disumanizzazione è un processo che pian piano logora, annienta, cancella, automizza. La mansione che è stata affidata a Zhen Xiaoqiong è molto precisa: «stendere su un tavolo da lavoro due, tre ‘jin’ circa di lastre di ferro, da battere, spianare e levigare con una macchina a ultrasuoni (Serena Zuccheri, 2016: 4)» ed è proprio con questa immagine che si apre il suo componimento.

Questa giovane ‘dagongmei’ osserva le sue mani, spaccate dal duro lavoro, le dita delle sue colleghe finire per sbaglio nei macchinari, ascolta il dolore silenzioso e notturno di queste donne che, distese sulle loro brandine, tentano a fatica di reprimere la sofferenza dei loro corpi che si lacerano, deperiscono giorno dopo giorno. È nell’amplificarsi di suoni e immagini che quotidianamente registra, che Zheng Xiaoqiong sente crescere in lei il bisogno di scrivere, di non perdere nulla di ciò che vive: la solitudine, il distacco, la sofferenza, il dolore (Serena Zuccheri, 2016: 41-42).

L’elemento che ricorre in gran parte delle poesie di Zheng Xiaoqiong è il ferro,

tie 铁. Zhang Qinghua 张清华, nel suo saggio «Shei chumodao le shidai de tie: lun

Zheng Xiaoqiong de shige» (谁触摸到了时代的铁: 论 郑小琼的诗歌, Chi ha toccato il ferro di quest’epoca: sulla poesia di Zheng Xiaoqiong), descrive così la forza dell’immaginario e dello stile di Zheng, il quale non solo porta in superficie queste vite ai margini della società, ma cattura le caratteristiche dell’era contemporanea attraverso quella che è da lui chiamata “la nuova estetica del ferro”11:

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'Ferro', una parola dalle radici antiche che compare frequentemente in tutti i componimenti di Zheng, divenendo il simbolo e il centro della sua poesia. Si presenta come simbolo della fredda e dura esistenza industrializzata, come metafora delle catene di montaggio nella produzione di massa, come potenza aliena in netto contrasto con la vulnerabilità dei corpi umani e la natura; il ferro esprime "l'estetica dell'era industriale" e il suo valore è insostituibile... Il valore unico della poesia di Zheng risiede proprio nell'estensione metaforica attraverso cui ci presenta questa nuova, dura e fredda estetica del ferro (Zhang Qinghua, 2010: 35).

Le sue poesie, come “Suoni”, mostrano come la componente materiale dell’ambiente industriale ha penetrato i corpi e le menti dei lavoratori, modellando la loro percezione di se stessi così come le loro prospettive future. Zheng Xiaoqiong utilizza il ferro fuso come analogia della sua vita da lavoratrice migrante. Anche se la donna lavoratrice, diventata muta come un pezzo di ferro, non si lamenta, la poesia stessa rappresenta, attraverso gli strati di significati incastonati nelle immagini, una potente protesta contro le ingiustizie dello sfruttamento disumanizzante. Gli operai si trasformano in componenti dei macchinari di produzione e profitto ma, a differenza di questi, sono vittime di una stanchezza perenne, dei mali dell’industria, della violazione dei propri diritti e della nostalgia di casa, intrappolati in una vita che appare insensata e priva di speranza.

Dal punto di vista linguistico, troviamo all’interno del componimento la presenza di onomatopee, che evocano una certa atmosfera e imitano i rumori di oggetti attraverso l’uso di sillabe prive di significato. In cinese, vengono spesso usate con funzione avverbiale, modificando verbi o aggettivi, ma assolvono anche ad altre funzioni all’interno della frase. Le onomatopee possono essere divise in due sotto gruppi. Il primo è costituito da parole che derivano dal cinese classico e che sono state tramandate in forma scritta. Il loro utilizzo è di solito confinato alla lingua letteraria. Il secondo tipo di onomatopee ha origine nel cinese moderno parlato e ha una forma molto simile a quella degli aggettivi; questa similitudine ha portato molti studiosi di grammatica a classificarle come vere e proprie parole concrete, piuttosto che come parole funzionali. A seconda della loro forma, le onomatopee possono essere classificate in diverse categorie, ma in questa sede vorrei soffermarmi sulla prima, quella delle onomatopee semplici, alla quale appartiene l’onomatopea presente nella

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poesia “dong, dong” 咚,咚. Si tratta di onomatopee monosillabiche, come: pa 啪 (bang, che indica un colpo), peng 砰 (thump, un tonfo), ca 嚓 (screech, stridio) e dong 咚 (un rumore martellante). Queste parole a volte vengono allungate per un effetto auditorio e questo allungamento viene espresso, in forma scritta, con l’aggiunta di un trattino dopo la sillaba: Da gongji, o -- o – ti, 大公鸡,喔—喔—嘀 (Il gallo fece chicchirichì), (Yin Binyong, 1990: 451-453). I caratteri della maggioranza delle onomatopee cinesi, con poche eccezioni, sono costituiti da due parti, di cui una fissa: è il radicale kou 口, bocca, che viene posto sempre a sinistra dell’altro componente, quello fonetico, che ne indica la pronuncia.

Inoltre, i poeti cinesi sono inclini all’uso di punti esclamativi e di interiezioni, suoni pronunciati per esprimere un sentimento o un moto improvviso dell’animo, come gioia o meraviglia. Sono elementi indipendenti che si possono usare da soli, all’inizio o alla fine di un enunciato, ma non hanno alcuna relazione sintattica con la frase. Sono forme atone appartenenti alla categoria grammaticale delle particelle modali: il loro impiego a volte è obbligatorio, ma spesso è frutto di una scelta per mezzo della quale il parlante manifesta il proprio modo di vedere, sentire e concepire ciò che viene detto. Dato il loro importante ruolo espressivo, vengono ampliamente utilizzate soprattutto nella lingua orale. La particella a 啊 posta ad inizio frase esprime sorpresa o ammirazione, e può essere esplicitata con le forme “Ah!” o “Oh!”, ma i suoi usi sono molteplici: nella frasi interrogative, a a fine frase sottintende un dubbio e una richiesta di conferma (ni bu lai a? 你不来啊?, allora non vieni?); nelle frasi iussive (imperative ed esortative) introduce un tono di incoraggiamento, con una sfumatura di avvertimento, conferendo al comando un tono meno imperioso, che viene piuttosto presentato come un amichevole consiglio (ni yao xiaoxin a! 你要小心啊! Stai attento!). Le frasi esclamative, a volte introdotte da interiezioni, sono spesso chiuse dalla particella modale a, che rafforza l’esclamazione introducendo una sfumatura di sorpresa, impazienza o disappunto (hao a! 好啊!Bene!) (Abbiati, 1998: 58-72). Riportare queste esclamazioni nella traduzione italiana può risultare talvolta in un tono ostentatore e sentimentale, per questo il traduttore può compiere la scelta di ometterle o di limitarsi all’uso del punto esclamativo per rendere l’intonazione. In questo caso, trovandosi all’inizio del verso, separata dal resto con una virgola, la particella a ha una chiara funzione enfatica e marca la frase con pathos, perciò mi è sembrato opportuno riproporla anche in traduzione.

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Un’altra riflessione andrebbe fatta sui segni di interpunzione, ampiamente utilizzati dall’autrice, e che in alcuni casi presentano differenze grafiche o d’uso rispetto a quelli utilizzati nella nostra lingua. Il punto, il punto e virgola e la virgola segnalano, come da noi, pause di maggiore o minore durata e rilevanza. Esistono dei casi in cui la virgola, contrariamente alle nostre consuetudini, viene utilizzata con una certa frequenza per sottolineare le pause che separano il tema dal commento, il soggetto dal predicato e il verbo dall’oggetto, qualora quest’ultimo sia in una frase. Un’altra differenza, questa volta dal punto di vista grafico, è presentata dai puntini di sospensione, che occupano una posizione più alta rispetto a quella per noi normale, e che ricorrono in una serie di tre, susseguendosi spesso in due serie, per un totale di sei puntini (Abbiati, 1998: 193-195). Nella mia traduzione, ho rispettato la punteggiatura originale poiché si adattava perfettamente anche alla sintassi italiana.

3.4 Addetto alla caldaia, di Bai Qingguo 白庆国 (guolugong, 锅炉工)

Il titolo di questo componimento introduce il guolugong 锅炉工, una figura specializzata nell’ambito dell’industria siderurgica, che traduce l’italiano “fochista”, secondo la definizione riportata dal portale Treccani:

fochista (o fuochista) s. m. [der. di fuoco] (pl. -i). – 1. a. In ferrovia, chi alimenta e sorveglia il fuoco nelle locomotive a vapore e coadiuva il macchinista nelle mansioni di minore importanza. b. In marina, qualifica del personale addetto alle caldaie e alle macchine, alle dipendenze degli ufficiali macchinisti. c. Nell’industria siderurgica, chi carica il carbone nei forni o manovra e sorveglia le caldaie a nafta e a vapore. d. Nei lavori stradali, chi provvede all’alimentazione della caldaia del rullo compressore. 12

Tutte i profili hanno in comune la mansione della manutenzione e dell’attivazione delle caldaie, ma il guolugong protagonista della poesia, conosciuto in Cina anche con il nome di silugong 司炉 工 , si identifica con la terza definizione suggerita dal dizionario, quella di operaio dell’industria siderurgica che lavora a stretto contatto con il carbone. Questa materia prima ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo della Cina, con la quale ha un legame da sempre: la Cina è infatti stato uno dei primi paesi a scoprire il carbone, tra 6.000 e 7.000 anni fa, e le sue proprietà erano inizialmente

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sfruttate in campo artistico, nella creazione di opere d’arte in carbone. Tutt’oggi ci sono molti artisti impegnati nella scultura della lignite, la cosiddetta ambra nera, mijing 煤精, concentrati soprattutto nella zona di Fushun, una delle più ricche zone minerarie del paese. Il suo utilizzo non è stato mai messo da parte, ha subito anzi un incremento sbalorditivo: nel diciottesimo secolo il carbone è diventato il carburante essenziale nel processo dei motori a vapore, favorendo una rapida industrializzazione del paese, attraverso il fiorire di industrie metallurgiche, chimiche ed elettriche, alimentate dall’energia derivante dal carbone.13 Tuttavia, le conseguenze disastrose di un uso spasmodico e incontrollato di questa risorsa sono visibili soprattutto nell’atmosfera: moltissime città cinesi sono ad oggi tristemente famose per i mantelli di smog che le ricoprono, che hanno avuto ripercussioni gravissime sulla salute della popolazione e sull’ambiente. Attualmente, nonostante gli sforzi degli ultimi anni da parte del governo di arginare il fenomeno, il carbone è ancora largamente utilizzato nel settore industriale, in particolare nell’industria del ferro e dell’acciaio. La Cina ha subito negli ultimi decenni una trasformazione senza precedenti, ed è in questo senso che gli sforzi del guolugong diventano emblematici: l’energia prodotta dall’alimentazione della caldaia è la linfa vitale di cui si nutre l’intera nazione.

Nella seconda strofa del componimento sono presenti due espressioni idiomatiche: yeshen renjing 夜深人静 e di dong san chi 地冻三尺. I primi due caratteri che compongono la prima espressione indicano la notte: ye, notte, sera e shen, profondo; i due a seguire sono ren, persona e jing, un aggettivo che ha il significato di calmo, tranquillo, immobile. La seconda espressione è piuttosto particolare, poiché la sua traduzione letterale è “Il suolo è gelato per tre chi”. Il chi 尺 è un’unità di misura di lunghezza cinese che corrisponde all’incirca a 30 centimetri, per questo viene spesso paragonata al foot anglosassone. È una metafora che sta ad indicare il freddo di una giornata invernale, alludendo allo spesso strato ghiacciato che si forma sotto la superficie alle temperature più rigide. Questa espressione a quattro caratteri richiama un altro chengyu, bing dong san chi, fei yi ri zhi han 冰冻三尺,非一日之寒, ovvero “tre chi di ghiaccio non si formano in un solo giorno freddo”. Viene usato metaforicamente per indicare certe situazioni losche, frutto di un lungo complotto. Significa anche che il raggiungimento di un traguardo straordinario è il risultato di un

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lungo processo di studio e esercizio, e in questo troverebbe un suo corrispondente nel proverbio italiano “Roma non fu fatta in un giorno”. Il contenuto della poesia, comunque, non rimanda ad un contesto nel quale tale significato possa trovare una collocazione plausibile, perciò la mia traduzione si limita a rispettare la funzione puramente descrittiva dell’espressione scelta dall’autore. Nello specifico, ho trovato che “freddo gelido” potesse costituire una buona resa perché rinvia al secondo carattere che forma l’espressione originale, dong 冻, che ha il significato di “congelare, gelarsi”.

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