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Storia del lavoro in Italia. Vol. 1: L'età romana. Liberi, semiliberi e schiavi in una società premoderna

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Academic year: 2021

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PIANO DELL’OPERA

L’età romana, a cura di Arnaldo Marcone Il Medioevo, a cura di Franco Franceschi L’età moderna, a cura di Renata Ago L’Ottocento, a cura di Germano Maifreda Il Novecento 1896-1945, a cura di Stefano Musso Il Novecento, 1945-2000, a cura di Stefano Musso Le Fonti

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L’ETÀ ROMANA

Liberi, semiliberi e schiavi

in una società premoderna

A cura di Arnaldo Marcone

C A S T E L V E C C H I

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Terminologia e concetto di “lavoro” in età romana

Come va, o Mecenate, questa faccenda? Calcolata scelta ci ha dato una certa sorte: met-tiamo pure che il caso ce l’abbia buttata innanzi; ebbene, nessuno passa i suoi giorni con-tento di quella sorte, e continua a esaltare chi diverse vie prosegue. “Beati i commercianti [mercatores]!” dice il soldato [miles], quando gli pesano gli anni e rotte sono le membra per la molta fatica. All’opposto l’uomo di commercio, mentre la nave è trastullo dei venti del sud: “Vale meglio fare il soldato! È evidente; si va all’assalto; nell’istante di un’ora, viene rapida morte o gioiosa vittoria”. L’uomo di legge [iuris legumque peritus] esalta l’agricoltore [agricola], appena un cliente, prima che il gallo canti, batte alla porta per consulto; c’è anche uno che ha ormai fornito il nome di chi ne garantisce presentazione in giudizio, ed è tirato fuori a forza dalla campagna, e va a Roma; ebbene, costui procla-ma unico felice colui che vive a Roprocla-ma. […] Ammettiamo che qualche Iddio dica: “Son qua; senz’altro farò quello che volete: tu sarai negoziante, tu che poco fa eri soldato; tu, poco fa uomo di legge [consultus], contadino [rusticus]; voi, da una parte; voi, dall’altra, partitevene dopo aver cambiato la vostra parte. E allora? Perché ve ne state immoti?” Non ne vogliono sapere. Eppure, potrebbero esser felici. […] comunque mettiamo da parte il tono di scherzo e indaghiamo seriamente su questo problema: l’uomo che rivolta col duro aratro la pesante terra; quest’imbroglione d’un oste [perfidus hic caupo], soldati, marinai [nautae] che pieni d’audacia corrono attraverso il mare, tutti affermano una cosa: fatica [laborem], essi dicono, la sopportano con una certa intenzione; hanno il fine di ritirarsi da vecchi in pace tranquilla; nel giorno in cui abbiano ammucchiato un po’ di provviste [Satire, I,1,1-32, trad. di E. Turolla].

Da questi notissimi versi di Orazio, che ironizza sulla generale in-soddisfazione del genere umano per la propria condizione (lavorativa: ciascuna contrassegnata dalla rispettiva attività)1, anche se interpreta-bili – nell’esortazione a una vita moderata – come influenzati dal con-sueto, rigido moralismo del poeta, mediato dai modelli greci (come la diatriba stoico-cinica sulla critica alla ricchezza), sembrano emergere con una certa evidenza gli orientamenti diffusi, nella società romana del tempo, a proposito del lavoro e delle attività connesse: anzitutto,

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l’assenza di un termine, in latino, che indichi, come il moderno termine “lavoro”, una professione (come il iuris legumque peritus oraziano) o una generica attività lavorativa (manuale, intellettuale, artistica), svolta individualmente o da un gruppo di persone. In effetti, com’è stato già evidenziato, il termine labor (usato anche da Orazio nei versi sopraci-tati) richiama sostanzialmente «il senso della fatica e della pena»2. In secondo luogo, anche se Orazio sembra alludere a figure sociali più che a lavoratori reali, dai suoi versi si può già fin d’ora osservare come, nella mentalità corrente, non pare sussistessero distinzioni teoriche tra lavo-ro comune-lavolavo-ro specialistico, lavolavo-ro subordinato-lavolavo-ro indipenden-te, insomma fra vero e proprio mestiere e occupazione3, né un atteg-giamento di disprezzo nei confronti di un qualche tipo di attività o di lavoratore. Di conseguenza, poiché nella cultura romana risulta assente un termine generale e astratto per definire il “lavoro” (nella complessa accezione moderna del termine), l’analisi riguardante la terminologia e il concetto di lavoro nell’antichità romana inevitabilmente dipende soprattutto dalle valutazioni specifiche e dalle opinioni espresse da ogni singola fonte.

In effetti, a ben guardare, neppure oggi sembra sussistere una defi-nizione univoca di “lavoro”. Ad esempio, se Alfred Marshall intende per lavoro

ogni sforzo fisico o mentale sostenuto, in tutto o in parte, in vista di qualche bene che non sia il piacere direttamente derivante dal lavoro stesso. E […] sarebbe meglio con-siderare produttivo tutto il lavoro, salvo quello che manchi di raggiungere lo scopo cui era diretto, e che quindi non produca alcuna utilità [Marshall, 1890, trad. it. 1972, pp. 140-141].

Carlo M. Cipolla, per la situazione storico-economica dell’Europa pre-industriale, a proposito dello stesso concetto rileva:

Col termine lavoro è abbastanza chiaro quel che si vuole indicare, ma bisogna ammettere che il termine stesso è esasperatamente generico […] Una distinzione abbastanza rile-vante è quella tra a) lavoro specializzato e b) lavoro non specializzato, ma bisogna tenere presente che una tale distinzione ha un valore puramente relativo, cioè in relazione al

2 Cfr. De Robertis, 1963, pp. 9-18; Negri, 1980, pp. 375-381, in cui sono ricordati altri termini,

anch’essi genericamente attinenti al risultato o all’applicazione del “lavoro” individuale o al complesso dell’intera “attività lavorativa”, come opus/opera, operae e negotium.

3 Cfr. i termini latini, anch’essi tutt’altro che precisi, elencati in De Robertis, 1963, pp. 9-18,

ri-guardanti la figura del lavoratore: mercennarius (lavoratore con retribuzione, merces), operarius,

opifex e così via. Professor è il termine latino adoperato in genere per l’insegnamento-tirocinio

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livello tecnico prevalente in una data società in una data epoca storica [Cipolla, 19945,

pp. 67-68].

Accanto a queste definizioni troviamo, ancora, quella elaborata da Karl Marx nel libro terzo del Capitale:

L’attività produttiva mediante la quale l’uomo media il ricambio organico con la natura; l’attività produttiva umana, non solo spogliata di ogni forma e caratterizzazione sociale specifica, ma vista nella sua mera esistenza naturale, indipendente dalla società, svin-colata da ogni società e, in quanto estrinsecazione e affermazione della vita, comune all’uomo non ancora sociale e all’uomo in un modo o nell’altro socialmente determinato [Marx, 1894; trad. it. 2004, p. 1006].

cui si contrappone direttamente il concetto cristiano di lavoro come una necessità naturale imperniata sulla propria “funzione sociale” all’interno della comunità [cfr. Haessle, 1949].

Per quanto riguarda l’antichità romana, la mancanza di un termine generale e astratto per definire il “lavoro” pregiudica non poco la pos-sibilità di verificare se, e di quale livello, esistesse nella società coeva un generalizzato giudizio favorevole nei confronti dell’attività lavorati-va, pur per singole categorie produttive o occupazionali concrete, così come parzialmente determinante è destinato a risultare anche ogni ten-tativo di effettuare tale valutazione, pur limitata alle fasce di reddito, adoperando come criterio il livello (“minimo”) di salario corrisposto4. A queste difficoltà metodologiche si aggiunge il complesso problema della valutazione dei dati desumibili dalla documentazione letteraria ed epigrafica, in base ai quali si cerca di procedere a una definizione sempre meno generica dei rapporti percentuali intercorrenti tra forza lavoro servile e forza lavoro libera (liberti inclusi), sia in riferimento a particolari contesti urbani come Roma (in cui l’evidenza documentale è particolarmente ricca di riferimenti a determinati tipi di occupazioni cittadine) sia nelle campagne, dove più problematica risulta la quali-ficazione, anche per le specifiche situazioni regionali, della tipologia della forza lavoro impiegata (schiavi, affittuari, lavoratori stagionali li-beri), in rapporto all’insieme della popolazione rurale (in primo luogo, ovviamente, la parte di essa composta da grandi e piccoli proprietari)5.

4 Per la valutazione di paghe, stipendi e indennizzi, suddivisi per livelli salariali e categorie di

lavoro, cfr. Scheidel, Friesen, 2009, pp. 61 ss. (70-71, per le attività lavorative non specializzate).

5 Su tali questioni cfr., p. es., Garnsey, 1980 e Treggiari, 1980. Per altre forme di lavoro agricolo

dipendente in età repubblicana, cfr. Lo Cascio, 2009b, pp. 71-89; più in generale, Marcone, 2009, pp. 115-128.

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In genere, è un celeberrimo passo di Cicerone, relativo ai vari tipi di artificia (“professioni”) e quaestus (“proventi”), a essere convenzio-nalmente considerato come una fondamentale indicazione del modo in cui almeno gli intellettuali romani distinguessero le varie profes-sioni, ossia tra le inammissibili e quelle socialmente accettabili. Al primo gruppo apparterrebbero non solo “professioni” come quella degli esattori (portitores) e degli usurai (feneratores), ma anche tutti i lavori salariati (mercennarii), che procurerebbero guadagni «inde-gni di un uomo libero e sordidi», poiché, in tali casi, del lavoratore si acquista non l’ars, bensì le operae, ossia non la capacità tecnica, ma la prestazione fisica del servizio, come per gli schiavi e/o per i liberti. Dell’elenco fanno parte: rivenduglioli che acquistano dai com-mercianti prodotti da smerciare subito (qui mercantur a mercatoribus,

quod statim vendant), il cui profitto consiste nel saper vendere con la

menzogna e l’inganno; gli operai artigiani (opifices), in quanto nelle

officinae opererebbero solo uomini di condizione non libera6; i lavori finalizzati alla voluttà (pescivendoli, macellai, cuochi, addetti all’in-grasso di pollame e uccelli, pescatori, profumieri, ballerini e atto-ri-mimi di second’ordine). Le professioni cui invece sarebbe connessa tanto l’ars che una rilevante utilitas, e definite da Cicerone honestae, sono costituite da: medicina, architectura, doctrina rerum honestarum («l’insegnamento delle attività rispettabili»), che sarebbero appunto «rispettabili per quelli alla cui condizione sociale esse si addicono». Al termine di questa sorta di distinzione delle attività lavorative, Ci-cerone introduce un’ulteriore chiarificazione:

Il commercio poi, se esercitato alla spicciola, è da considerarsi indecoroso; se poi lo è in grande, importando moltissime merci da ogni dove e distribuendole a molti senza ricorrere a frode non è affatto da biasimare7; se anzi, dopo essere ormai sazi di guadagno,

o, meglio, soddisfatti, ci si ritira dal porto in campagna, come già dall’alto mare si era rientrati in porto, sembra che si possa essere del tutto lodati8. Ma di tutte le occupazioni

rivolte al guadagno nessuna è meglio dell’agricoltura, nessuna più redditizia e piacevole, nessuna più degna di un uomo e di un libero cittadino9.

6 Sull’artigiano romano, cfr., per esempio Morel, 1989, pp. 233-268.

7 Sul passo, nonché sulla figura del mercante e sulla «funzione civica» della «grande mercatura»

nel mondo classico e cristiano, cfr. Giardina, 1993, pp. 5-59.

8 È questa, per esempio, anche la scelta del liberto Trimalchione, il quale avrebbe

ulteriormen-te incrementato il suo patrimonio immobiliare iniziando a far prestiti ai liberti (cfr. Petronio,

Satyricon, 76).

9 Cicerone, I doveri, I,42,150-151; tr. di N. Zorzetti. Il tema della rimunerazione pecuniaria

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La valenza documentaria di questo passo, come indicatore degli «orientamenti dell’ambiente “aulico” di Roma e delle sue classi domi-nanti» [così De Robertis, 1963, pp. 25, 49-97] nei confronti del lavoro e delle varie occupazioni, risulta tuttavia fortemente ridimensionata se si tiene conto del fatto, come è stato osservato, che non tutti i tipi di impiego elencati da Cicerone nel passo sopracitato possono con-siderarsi vere e proprie occupazioni, tanto meno il lavoro salariato, e ciò proprio per le caratteristiche stesse della coeva società romana in cui, ad esempio, proprio il ricco possidente Cicerone aveva, come principale “occupazione”, «la professione forense e la politica» [Fin-ley, 1973, trad. it. 1977, pp. 45-49 (da cui la citazione nel testo), 100], mentre il grammatico Quinto Remmio Palemone, attivo nel corso del I secolo d. C., oltre ai proventi della sua professione, ossia la docenza nella famosissima scuola di grammatica e retorica (per l’istruzione, diciamo così, superiore, dei futuri intellettuali) da lui stesso avvia-ta, poteva contare anche, contemporaneamente, su quelli derivanti dall’attività di una officina, ossia un laboratorio per la produzione di abiti. Per un altro verso, proprio le considerazioni negative verso la piccola mercatura e tutte le attività manuali, nel passo ciceroniano tratto da I doveri, sono state convincentemente interpretate, piuttosto che come considerazioni dispregiative all’interno dei valori condivisi di un determinato gruppo sociale, come il tentativo di far adeguare i «nuovi strati sociali abbienti e politicamente moderati emersi alla vita politica dopo la Guerra Sociale», indicando come «modelli per la capacità economica la grande proprietà agraria […] e poi anche la grande mercatura, vale a dire quella che consente guadagni opulenti senza il coinvolgimento diretto (e quindi nel rispetto delle interdizio-ni legali)» [Gabba, 1980b, pp. 94-95 (da cui la citazione nel testo)], riguardanti proprio il numero e il tipo di imbarcazioni con cui si po-teva avviare un’intrapresa commerciale.

La centralità dell’agricoltura, come l’unica attività lavorativa che si addice allo status sociale di cittadino romano (appartenente all’élite aristocratica al potere) secondo il pensiero ciceroniano, ha decisamente delle specifiche basi culturali e ideologiche, rappresentate dagli ordina-menti sociopolitici che avrebbero avuto luogo nell’età monarchica, così come risultano presentati soprattutto da fonti letterarie greche. Secondo Dionigi da Alicarnasso (retore e storico del I secolo a. C.), infatti, Ro-molo avrebbe assegnato «agli schiavi e agli stranieri i lavori sedentari, quelli manuali e quelli che inducevano turpi desideri», mentre «solo due

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occupazioni furono affidate a persone libere: l’agricoltura e la guerra» [Dionigi da Alicarnasso, Antichità romane, II,28,1-2, trad. E. Guzzi]. Le stesse considerazioni generali sui più opportuni orientamenti politici da seguire, nelle parole attribuite a re Anco Marcio dalla medesima fonte, ribadiscono lo stesso concetto: «Elogiò poi la linea di governo stabilita da Numa per i Romani come funzionale e saggia e capace di assicurare ogni giorno a ciascuno quel benessere che deriva dalle azioni più giuste ed esortava a ripristinare tale sistema politico nel settore dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame» [Ibidem, III,26,3]. In quest’ottica, dun-que, non sorprende che perfino la condanna a morte di Quinto Ovinio a opera di Ottaviano, subito dopo la vittoria ad Azio, possa essere stata giustificata dai medesimi motivi ideologici (questa volta collimanti anche con quelli propagandistici), riconducibili agli orientamenti aristocratici riguardo alla tipologia del lavoro: Ovinio sarebbe stato eliminato «so-prattutto per questa infamia, ossia che non s’era fatto scrupoli lui, un senatore del popolo romano, di soprintendere – fatto spregevolissimo – al lanificio e allo stabilimento di tessitura della regina [Cleopatra]» [Oro-sio, Le storie contro i pagani, VI,19,20].

Per un altro verso, possiamo vedere come Plutarco (storico e morali-sta greco, I-II secolo d. C.) attribuisca a Numa la ripartizione della po-polazione di Roma in base alle attività praticate (che la fonte definisce

technai), ossia proprio quelle che Romolo aveva affidato a non Romani:

«flautisti, orefici, carpentieri, tintori, lavoratori del cuoio, conciatori, fabbri, vasai; riunite poi quelle [attività] che restavano escluse, da tutte formò una compagine unica» [Vita di Numa, 17,3, trad. N. Lombar-di]. Una così definita suddivisione delle attività produttive, e per un periodo arcaico della storia di Roma, suscita qualche perplessità, se si considera che, fino al 1850, l’Italia appariva caratterizzata dall’impie-go di manodopera in grandissima parte ancora reclutata «in maniera saltuaria e stagionale fra giornalieri e braccianti», mentre spesso nelle campagne erano i contadini stessi che, durante l’inverno, si trasforma-vano in tessitori del cotone10. È pur vero però, come sottolineato da Adam Smith, che la divisione del lavoro,

comunque, nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni mestiere un au-mento proporzionale delle capacità produttive del lavoro […] in genere, essa è più spinta nei paesi industriosi che godono di un più alto livello di civiltà: ciò che è opera di un sol

10 Castronovo, 1975, p. 7. Tuttavia, nelle commedie di Plauto, La commedia della pentola (vv.

508-521) e Le tre monete (vv. 251-254; 407-408) sono elencate più di una trentina di figure diverse di artigiani e fabbricanti di “prodotti di lusso”.

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uomo in uno stadio primitivo della società diviene infatti opera di parecchi in una società progredita. In ogni società progredita, generalmente, l’agricoltore non è che un agricolto-re, il manifatturiere non è che un manifatturiere [Smith, 1776, trad. it 1995, p. 67],

per cui un fenomeno del genere non può essere escluso neppure per la Roma d’età arcaica, per il probabile intervento di maestranze esterne. In effetti, Dionigi da Alicarnasso accenna al fatto che, ancora agli inizi del V secolo a. C.11, l’esercizio di un mestiere comune era addirittura inibito ai cittadini romani: «Come emerse dall’ultimo censimento, i cit-tadini adulti erano più di centodiecimila; complessivamente il numero di donne, bambini, servi, mercanti e stranieri che praticavano i mestieri – nessun romano poteva guadagnarsi da vivere né come piccolo com-merciante né come lavoratore manuale – era non meno del triplo di quello dei cittadini» [Antichità romane, IX,25,2, trad. E. Guzzi].

Se, dunque, l’atteggiamento di disprezzo delle attività commerciali e manuali che trapela dal passo ciceroniano tratto da I doveri deve con-siderarsi una testimonianza permeata da determinate concezioni poli-tiche ed etico-sociali, anche la altrettanto nota ottantottesima epistola a Lucilio, quella in cui Seneca, uno dei più facoltosi uomini politici e filosofo dell’età neroniana, discute della relazione tra «studi liberali» - «arti liberali» (liberalia studia - liberales artes) e filosofia, non dovrebbe essere frettolosamente interpretata come una sostanziale indicazione di aprioristico disdegno verso le attività di lavoro manuale da parte di questo importantissimo personaggio dell’élite intellettuale di Roma nonché dell’entourage imperiale. A ben vedere, infatti, Seneca pone essenzialmente l’accento sul fatto che le liberales artes cui egli si riferi-sce (scienza “delle lettere”, dell’arte musicale, della geometria, dell’a-stronomia), anch’esse contraddistinte dal guadagno e talvolta esercitate perfino da professores turpissimi omnium («docenti tra i più malvagi e disonesti»), ma comunque alla base degli «studi liberali» (così da lui definiti, perché «degni di un uomo libero»), non rappresentano di per se stesse la virtù, però almeno «preparano l’animo a ricevere la virtù». Le viles ex professo artes, quae manu constant («le arti manuali, manife-stamente vili»), invece, che pur si dimostrano utilissime ad instrumenta

vitae («per tutto ciò su cui si basa la nostra vita») sono viles, appunto,

non in quanto mestieri comuni, ma in quanto, rispetto alle artes

libera-les, neppure predispongono alla virtù. Molto più interessante, se mai,

notare nella medesima lettera come Seneca, contrariamente

all’opinio-11 Tra le accuse che Bruto scaglia contro l’ultimo re di Roma, Tarquinio, compare anche quella

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ne comune del suo tempo, non ritenga siano da annoverarsi, fra le artes

liberales, ad esempio, il mestiere di pittore, di scultore, di marmorario

(insomma, tutti quei lavori «al servizio del lusso»), ma anche i lottatori, gli atleti, i combattenti nelle arene, i “venditori di profumi”

(unguenta-rii), i cuochi «e tutti quelli che si applicano con ingegno a soddisfare i

nostri desideri»12.

Una conferma del fatto che non esistesse negli ambienti intellettua-li, fra tarda Repubblica e prima età imperiale, un rigido orientamento dicotomico e definito riguardo alle varie tipologie di lavoro e di la-voratori13, sembra provenire da alcuni passi del Satyricon di Petronio Arbitro (I secolo d.C.), che ovviamente non possono essere liquidati come espressioni deliberatamente attribuite (da parte dello scrittore)14 a personaggi appartenenti a un contesto socioculturale di liberti parve-nu non acculturati, un contesto cioè per molti aspetti opposto a quello di Cicerone e Seneca, nel quale tuttavia -si badi- non mancano i riferi-menti, e da parte di un intellettuale come Eumolpo, alle pulcherrimae

artes15, oramai cadute quasi tutte in desuetudine nella vita culturale del tempo. Estasiato da un numero di acrobati e funamboli, ingaggiati per vivacizzare la pantagruelica cena e dilettare i suoi ospiti, è proprio Tri-malchione a definire la loro attività come un ingratum artificium («un ingrato “mestiere”» [Satyricon, 53]), ossia il medesimo termine usato da Cicerone per indicare genericamente le varie attività lavorative. Ancora Trimalchione è il protagonista di una discussione pseudoaccademica fi-nalizzata a definire il livello di complessità di un lavoro (anche in questo caso, chiamato artificium): «Quale dovremmo ritenere la più difficile professione dopo quella del letterato? Io ritengo che siano quelle del medico e del cambiavalute» [Satyricon, 56]. Ermero, un liberto ospite

12 Seneca, Lettere a Lucilio, 88. Il concetto che le attività umane devono essere valutate solo

sulla base del comportamento virtuoso di chi le esercita si trova anche nella lettera 87,17-18: «Un uomo può non essere onesto, e tuttavia essere un medico, un pilota, un letterato e – per Bacco – anche un cuoco. Ma quello a cui tocca un bene non comune non può considerarsi un uomo comune» [tr. G. Monti].

13 Il poeta Lucrezio, ad esempio, nella storia evolutiva dell’umanità argomento del quinto libro

della sua opera La natura, alla scoperta del fuoco fa seguire l’invenzione della tessitura [V,1350-1360].

14 Com’è invece il caso dell’avvertimento che Paideia avrebbe rivolto al giovane Luciano, ancora

incerto se dedicarsi o meno alla carriera letteraria, circa i «ridotti e sordidi guadagni» che avreb-be ricavato se avesse scelto di praticare la misera attività di scultore [Il sogno, 9].

15 Cfr. Satyricon, 88-89: queste artes, secondo il punto di vista di Eumolpo, includevano

(notevo-li le assonanze con le problematiche, relative al medesimo argomento, sollevate nella lettera 88 di Seneca), già dalle età più antiche, la scultura, la pittura, la dialettica, l’oratoria, l’astronomia, la filosofia.

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anch’egli di Trimalchione, durante un’accesa disputa vanta di aver fatto lo schiavo per quarant’anni, senza che però nessuno fosse in grado di dire se si trattasse «di uno schiavo o di un uomo libero», nonché di pos-sedere un’istruzione pratica, che noi definiremmo di livello elementare, ma percepita orgogliosamente come aliena dall’influsso nefasto delle (inutili, secondo Ermero) artes liberales: «Non ho appreso la geome-tria, la critica e tutte quelle altre lagne inconcludenti, ma so leggere il testo delle iscrizioni e dividere per cento secondo il tipo di metallo, il peso e la moneta» [Satyricon, 57-58]. Perfino l’attività di un libitinarius (impresario di pompe funebri) presente alla cena, ricchissimo e repen-tinamente caduto in miseria viene definita una honesta negotiatio, «un mestiere rispettabile» [Satyricon, 38].

L’insostenibilità di una implicita pregiudiziale ideologica verso il la-voro manuale, tra gli intellettuali romani, può dirsi in un certo modo avvalorata da quei passi delle Metamorfosi di Apuleio (II secolo d. C.) che, pur con gli indiscutibili condizionamenti della trasposizione narra-tiva, possono tuttavia considerarsi un importante spaccato, per le insite valenze sociologiche, dell’autentica realtà lavorativa coeva all’autore. Il protagonista del “romanzo” apuleiano, Lucio, nelle varie peripezie di cui è vittima-protagonista a causa della sua trasformazione accidentale in asino, si trova a essere, per esempio, testimone del doloroso esodo di massa del personale di una ricca azienda agricola, che decide di spo-starsi dopo la morte degli amati proprietari per cercare lavoro altrove16: «Il guardiano di cavalli […] carica sul dorso a me e alle altre bestie da soma tutto ciò che custodiva di prezioso nella sua casetta, e abbandona quella che sin allora era stata la sua dimora. Portavamo i bambini e le donne, portavamo polli, uccelli, capretti e cuccioli» [VIII,15, tr. C. Annaratone]. Particolarmente vivida la descrizione del personale (com-posto da schiavi) all’opera nell’edificio in cui viene prodotta la farina (attraverso macine a trazione animale) e abbrustolito il grano e/o cotto il pane:

Osservavo com’era governata quell’officina della malora. Buon Dio! Quale compagnia di uomini vili [homunculi]! La loro pelle era screziata di lividure, la schiena piena di cicatrici, e su di essa una veste variopinta di toppe e tutta lacera offriva più ombra che riparo […]. In fronte avevano il marchio degli schiavi, i capelli rasati da una parte, le catene ai piedi; il loro pallore faceva paura, le palpebre eran rosse dal calore e dal fumo

16 Perfino il nonno dell’imperatore Vespasiano, secondo la notizia riportata da Svetonio

[Vespa-siano, 1,4, tr. di G. Gaggero] si guadagnava da vivere reclutando «i braccianti che passavano

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che ottenebrava l’atmosfera e rendeva debole la loro vista. Come dei pugili che prima di combattere si cospargono di polvere assai fine, costoro erano coperti d’un lurido strato di polvere bianca e farinosa» [IX,12, trad. C. Annaratone].

Il boccaccesco episodio che ha luogo in una tintoria (fullonica) presenta altri interessanti riferimenti a quelle che dovevano essere le condizioni correnti dell’ambiente di lavoro in cui operavano, in questo caso, uomini di condizione libera:

Era questa [cupola di vimini] una specie di cupola elevata in altezza con un graticcio circola-re di bacchette che sui fianchi e sulla sommità portava distesi i panni da sbianchicircola-re mediante dei suffumigi di zolfo. Così [la moglie adultera] provvide a nascondere il giovane in un luogo che le pareva assai sicuro […]. Intanto il giovanotto, attossicato dalle emanazioni acri e pene-tranti dello zolfo soffocava e stava per perdere i sensi [IX,15, trad. C. Annaratore].

Non manca neppure una breve descrizione dell’attività lavorativa di un piccolo contadino indipendente, di condizioni molto umili

(«pau-perculus quidam hortulanus»), che tuttavia per la cifra (considerata da

lui molto alta) di cinquanta sesterzi aveva acquistato proprio Lucio(-a-sino), per adoperarlo come mezzo di trasporto dei prodotti che rica-vava attraverso la coltivazione di un hortus suburbano, così almeno da procurarsi victum sibi («guadagnarsi la vita»):

Di buon mattino il padrone abitualmente mi conduceva alla vicina città carico di sacchi di legumi, consegnava la merce ai venditori e, a cavalcioni sulla mia schiena, se ne tor-nava al suo orto. Poi, mentre egli zappava, dava l’acqua e attendeva, piegato in due, alle altre fatiche, io, standomene ozioso, mi godevo un tranquillo riposo. […] il mio padrone versava in tanta miseria che, non dico per me, ma neppure per sé poteva rimediare un saccone qualsiasi o una striminzita coperta, ma doveva contentarsi di abitare in una capannuccia col tetto di frasche. […] È infatti vero che io e il mio stesso padrone man-giavamo precisamente al medesimo desco ma […] in tavola apparivano solo lattughe, e di quelle vecchie e aspre» [IX,31-32, trad. C. Annaratore].

Istruttivo il confronto con una narrazione di un contesto simile, pre-sente nell’analogo racconto di Luciano di Samosata, L’asino:

[...] il padrone decise di vendermi e mi cedette a un tale che di mestiere faceva l’ortola-no; difatti costui si era preso un orto da coltivare. Il nostro lavoro era questo: di primo mattino il padrone mi caricava la verdura e la portava al mercato, e, cedutala ai venditori al dettaglio, mi riportava all’orto. Poi lui scavava, piantava, faceva arrivare acqua alle piante [...] [Luciano, L’asino, 43, trad. di C. Consonni].

Anche se il passo di Luciano non contiene riferimenti al prezzo pa-gato per l’asino, la cosa interessante da notare, oltre al fatto che, nel

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racconto lucianeo, l’ortolano sembra aver preso in affitto il piccolo ap-pezzamento suburbano, è il fatto che l’attività dell’ortolano viene defi-nita, in greco, techne, parola pienamente corrispondente al termine

ar-tificium/ars che risulta quello più comunemente adoperato per alludere

all’attività lavorativa tout court o a una specializzazione.

Nell’analisi economica moderna, ogni attività lavorativa richiesta non può prescindere dalla valutazione del costo del lavoro stesso. Per usare le parole di David Ricardo, «il prezzo naturale del lavoro dipende dal prezzo dei viveri, dei beni di prima necessità e di comodo necessari a mantenere il lavoratore e la sua famiglia. Esso aumenterà con l’aumen-to del prezzo dei viveri e dei generi necessari e diminuirà diminuendo il loro prezzo» [Ricardo, 1821, tr. it. 2005, p. 246]. Nell’antichità ro-mana, invece, il contratto di lavoro è rappresentato, sostanzialmente, da un accordo consensuale in cui il locatore mette a disposizione del conduttore la propria attività lavorativa (spesso realizzata nel domicilio del richiedente la prestazione per evitare il rischio di furti e/o mano-missioni) ottenendo per compenso una paga (nella terminologia tecni-ca, un contratto di locatio conductio operarum). Il carattere stesso della paga, ottenuta per il lavoro completato come prestabilito dalle parti, evidenzia come essa, nella mentalità giuridica romana, corrispondesse sostanzialmente non a una remunerazione della professionalità coinvol-ta nell’esecuzione dell’opera, quanto piuttosto alle spese sostenute pro-prio per trasformare concretamente un oggetto o una materia (ovvero, per completarne o perfezionarne l’aspetto o la struttura, per eseguire copie di libri, e così via), che finisce poi per appartenere al conduttore. Per altri versi, con riferimento ai contratti riguardanti la locazione del lavoro degli schiavi, dai testi giuridici sembra emergere una distinzione tra la locatio, ossia l’affitto, di uno schiavo e l’affitto delle sue operae, ossia della sua capacità lavorativa, che inizia così ad acquisire una pro-pria fisionomia di “strumento di reddito”, diverso dall’usufrutto

(usu-sfructus, cioè una rendita su cose o persone), se non quasi di “lavoro

astratto”17.

Altrettanto importante notare, per altri versi, come in alcune fon-ti giuridiche possano isolarsi delle istanze che potremmo interpretare quasi di salvaguardia della figura professionale: ad esempio, non era legalmente ammissibile il cambiamento, imposto e arbitrario, di spe-cifiche figure professionali originarie, tanto meno l’aggiunta di servizi accessori a determinate prestazioni d’opera naturalmente connesse con

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la professione esercitata. Ulpiano (giurista del III secolo d.C.) racco-manda che bisogna rispettare, riguardo all’usufrutto (cioè, al guadagno derivante dal lavoro servile), anche la condicio degli stessi schiavi eredi-tati: «Se si invia in campagna un addetto ai pesi e misure (un librarius) e lo si costringe a trasportare un canestro con la calce, se un ballerino si fa trasformare in assistente ai bagni, o un suonatore in portinaio, o dalla palestra si sposta qualcuno a pulire le latrine, si profila un abuso di proprietà» [Ulpiano, D, VII,1,15,1]. Gaio (giurista del II secolo d. C.) precisa a sua volta che la merces (la paga) di un marinaio, di un albergatore o di uno stalliere, si limita alla prestazione delle rispettive competenze di lavoro (rispettivamente, trasportare passeggeri, ospitare i viandanti, dar ricovero agli animali da soma), e tassativamente non comprende anche il dovere di custodire chi o quanto loro affidato, e così anche nel caso di un tintore o di un rammendatore, dei quali si paga l’ars, non la sorveglianza degli oggetti lasciati loro per l’intervento da effettuare [Gaio, in D, IV,9,5].

Indubbiamente ostile rimase, e fino all’età tardoantica, l’atteggia-mento comune nei riguardi di talune professioni: oltre a quelle vietate e sanzionate (soprattutto nell’impero cristianizzato, come l’attività di mago e di indovino), tale ostilità riguardava anche i mestieri considerati infamanti, come la prostituzione e connessi sfruttatori (lenoni), le atti-vità teatrali (soprattutto gli spettacoli di mimo e pantomimo), il com-battimento esercitato dai gladiatori.

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Imparare un mestiere:

apprendistato, contratti di lavoro e salari

Intorno alla seconda metà del XVIII secolo, nella sua opera La

ric-chezza delle nazioni, l’insigne teorico scozzese di economia Adam Smith

sosteneva, in maniera perentoria, che

l’apprendistato era completamente sconosciuto tra gli antichi. I doveri reciproci del ma-estro e dell’apprendista costituiscono un’importante materia in ogni codice moderno, mentre il diritto romano tace completamente su di essi. Non conosco alcuna parola greca o latina (e credo di poter affermare che non ne esiste alcuna), che esprima l’idea che noi associamo alla parola ‘apprendista’, cioè di un servo, costretto a lavorare in un dato mestiere per un dato numero di anni a beneficio di un maestro, a condizione che questo glielo insegni [Smith, 1776, trad. it. 1995, p. 151].

In realtà, come vedremo, nonostante l’effettiva insussistenza di un termine tecnico astratto denotante, nel lessico giuridico e contrattuale del mondo greco-romano, la condizione di apprendista, l’affermazione di Smith, pur condivisibile da un punto di vista sostanziale per quanto attiene alla condizione giuridica dell’apprendista nella civiltà classica, risulta scarsamente plausibile sul piano storico-sociale.

In effetti, dalla sola lettura della sezione introduttiva al suo trattato tecnico sulle questioni relative all’agricoltura (de agri cultura), si può anzitutto rilevare quanto fosse ricca e articolata, almeno all’interno del-la città di Roma e secondo ovviamente il punto di vista dell’autore, Lucio Giunio Moderato Columella (convenzionalmente collocato nella seconda metà del I secolo d.C.) proprio la varietà teorica di opzioni disponibili per chiunque intendesse apprendere o affinare un’arte o un mestiere:

Veramente io non mi so dar pace di questo fatto: chi desidera parlar bene, sceglie un oratore di cui si propone a modello l’eloquenza; chi vuole impratichirsi di misure e di

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numeri, va dietro ad un maestro della scienza che gli sta a cuore; chi vuole imparare la musica e la danza, cerca con grande zelo chi gli insegni a modular la voce e a muovere con grazia il corpo; e ancora, chi vuol fabbricare, chiama capomastri e architetti; chi vuol mettere navi in mare, cerca provetti marinai; chi vuol far la guerra, si affida agli esperti dell’arte militare; insomma, ciascuno cerca la persona più adatta a istruirlo nella scienza che desidera […]. Ho visto io con i miei occhi non solo scuole di bei parlatori e, come ho detto, di geometri e di musici, ma addirittura scuole delle cose più sciocche e inutili, come del condire nei modi più stuzzicanti i cibi, nell’imbandire nella maniera più lus-suosa i pranzi, del pettinare e ornare artisticamente i capelli; ripeto che le ho viste, e non ne ho solo sentito parlare! Ma finora non ho conosciuto né chi si professasse maestro di agricoltura né chi volesse esserne scolaro [Columella, L’arte dell’agricoltura, praef. 3-5; trad. R. Calzecchi Onesti].

Marziale (X,62,1-5), ad esempio, allude all’attività di un maestro di scuola romano (ludi magister), attorniato già da un buon numero di studenti, che il poeta auspica si riveli superiore anche a quello degli allievi di un calculator (‘maestro di calcolo’) o di un notarius (‘maestro di stenografia’). All’opposto, ancora dalla Roma dei Flavi proviene il severo provvedimento tardodomizianeo tendente a reprimere l’attività didattica di medici e maestri-istruttori la cui ars, per avidità, «viene venduta» a schiavi, che frequentano i loro corsi in luogo dei giovanetti di nascita libera (cfr. FIRA, I,77).

Quantunque non si debba generalizzare l’idea che l’acquisizione di una qualifica professionale derivasse, nella società romana, esclusiva-mente dall’esperienza maturata durante un periodo di formale appren-distato, né che la manodopera impiegata, fatta eccezione per talune specifiche attività ‘tecnico-scientifiche’ o artistiche connesse a un sep-pur minimo ma necessario tirocinio, fosse esclusivamente quella specia-lizzata, il quadro d’insieme fornito dal passo di Columella non appare affatto inverosimile. Già Plauto (c. metà III-inizi II secolo a.C.), nono-stante la coloritura grecanica delle sue commedie, sembra ribadire sulla scena un concetto che doveva essere notorio al suo pubblico, ossia il fatto che non tutti i tipi di lavoro potevano essere svolti, nell’immedia-to, da chi fino a quel momento si era dedicato a un’altra attività:

Certo non ti potrai mettere a praticare tutti i mestieri che ti saltano in testa; che pretendi, puzzone, d’essere al tempo stesso pescatore e fabbricante di panieri? (Plauto, La

gome-na, 989-990, trad. E. Paratore).

Perfino nella Roma agli inizi del XVII secolo, con una popolazio-ne ridotta a poco più di un decimo (circa 100.000 abitanti) di quella dell’Urbe durante il Principato, si ha notizia di circa una sessantina

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di corporazioni professionali diverse (tra cui, per esempio, quelle rap-presentanti agricoltori [bovari], barcaioli, locandieri, banchieri, bottai, calzolai, calzettieri, salumieri, rigattieri, notai capitolini, tipografi, tes-sitori), con circa 17.500 apprendisti dipendenti da poco più di seimila padroni, cioè il 20,85% della popolazione urbana a quella data [Delu-meau, 1979, p. 96]. Per quanto riguarda la Roma imperiale, in effetti, l’esistenza di un’ampia gamma di specializzazioni professionali sembra indiscutibilmente comprovata dai risultati di un recente studio sulle attività lavorative attestate dalle (circa 1500) iscrizioni (in stragrande maggioranza funerarie) provenienti dall’Urbe e dal suo immediato cir-condario: risultano registrate addirittura ben oltre 250 tipologie di pro-fessioni, esercitate in maggioranza da schiavi e liberti, ma anche da libe-ri cittadini (in moltissimi casi, senza la possibilità da parte degli studiosi di stabilirne sicuramente l’appartenenza a uno dei tre status sociali), in contesti (strettamente) privati quanto ‘pubblici’, e riconducibili a non meno di nove settori lavorativi generali: edilizia, manifattura, smercio, attività ‘di banca’, servizi professionali, servizi domestici, trasporto, amministrazione [cfr. Joshel, 1992, capp. 2 e 4]1. Per un periodo più tardo, il IV secolo, troviamo ufficialmente menzionate, nell’Editto sui

prezzi massimi delle merci in vendita promulgato da Diocleziano e i

te-trarchi, più di venti figure di lavoratori (accompagnate dalla rispettiva retribuzione), per alcuni dei quali bisogna indubbiamente presupporre un profilo professionale derivante da un tirocinio o da un corso di stu-di: contadini, imbianchini, carrettieri, muratori, fonditori, fornai, scal-pellini, stuccatori-decoratori, barbieri, tosatori, carpentieri, pastori, ve-terinari, fonditori di rame, acquaioli, armaioli, operai esperti nella pro-duzione di pergamena, impiegati, maestri, sellai, orefici e ricamatori, avvocati, bagnini, lavandai e tintori. Infine, un altro studio sulle epigrafi funerarie di Roma ha portato a individuare ben sedici diverse ‘categorie professionali’ riconducibili alla figura di schiave o di liberte [Treggiari, 1976]. Val la pena precisare però, premesso che in genere un liberto/ una liberta continuava, ovviamente, a esercitare il mestiere2 di cui si era occupato/a quando era ancora schiavo/a, che la maggior parte di

que-1 Delle circa 10.000 iscrizioni latine provenienti dalla Spagna romana, solo un settantina

men-zionano otto categorie di attività lavorative specializzate, con in testa tessitori (27%), seguiti da orafi e fonditori (22 %), marmisti (17%), muratori (13%), cuoiai/pellicciai (7%), operatori nel settore alimentare (5%); nella cura della persona (5%); ceramisti (1%) [cfr. Gimeno Pascual, 1988].

2 Utile rassegna delle attestazioni epigrafiche riguardanti le professioni svolte essenzialmente da

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sto genere di attestazioni epigrafiche può anche interpretarsi come ri-feribile ad altrettante qualifiche ottenute attraverso un addestramento, caratterizzato sostanzialmente dalla trasmissione endogena e diretta3 (e, perciò, praticamente gratuita) dei rudimenti professionali da un liber-to/a a un altro, o da uno schiavo/a all’altro/a (oppure da interi gruppi di schiavi più esperti a quelli principianti), già in servizio presso una certa famiglia di agiati proprietari ovvero impiegati in una ‘impresa’ o atelier loro appartenente.

In sostanza, senza praticamente neppure vivere una vera e propria adolescenza, fin da piccoli i Romani di nascita libera non appartenenti a una élite politica-economica, e che, pertanto, molto probabilmente non erano destinati a seguire un curriculum di studi superiori in una qualche importante città dell’Italia (come fu il caso di Virgilio e di Orazio) o, almeno a partire dall’inizio del I secolo a.C., in un affermato centro culturale di lingua greca (Atene, Rodi, città dell’Asia Minore), per divenire avvocato o medico4, solitamente venivano coinvolti, in alcuni casi dopo un periodo preliminare di addestramento pratico in uno specifico mestiere, nella attività produttiva. Tale coinvolgimento, specie se si trattava di famiglie contadine5 (considerato che, nel mon-do antico, l’agricoltura costituiva la principale occupazione lavorativa e fonte di reddito) o con attività artigianali, doveva essere ancor più diretto, e addirittura anticipato fin dai 9-12 anni, di modo che, all’in-terno di questi nuclei familiari, a quella dei genitori potesse sommar-si la forza lavorativa sussommar-sidiaria della prole. Ancora nell’Italia tra fine ’800 e primi del ’900, nonostante la promulgazione di rigidi divieti normativi, era consuetudine che dalle aree collinari-montane emigras-sero verso paesi, città e aree agricole dell’Italia o del centro-Europa gruppi di piccoli apprendisti e lavoratori itineranti (d’età compresa tra i 9 e i 16/18 anni), utilizzati per vari mestieri umili, quali decora-tori ambulanti, vendidecora-tori di merci varie, garzoni muradecora-tori, scalpellini, manovali, lustrascarpe, calderai, arrotini [cfr. Protasi, 2008]. In questo stesso periodo, nelle miniere siciliane di zolfo, presenti nelle province di Agrigento e di Caltanissetta, il minerale veniva scavato e portato in

3 Come nel caso degli stuccatori d’età imperiale [Blanc, 1983, pp. 895-905].

4 Sul concetto di ‘absence of adolescence’ nella società greco-romana, e per una valenza –

piuttosto rigida, peraltro – dell’istruzione, specie in età imperiale, come ‘status-determinant’ (‘discriminante di categoria sociale’) tra aristocrazia e ceti inferiori, cfr. Kleijwegt [1991, pp. 83-88]. Sul lavoro infantile vd. il contributo di Porena in questo volume.

5 Ne Il mercante plautino, la meretrix Pasicompsa vanta di non aver dovuto apprendere «a

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superficie da ragazzi d’età compresa tra gli 8 e i 20 anni [Pareto, 1896, tr. it. 1971, p. 308].

Le modalità attraverso cui era possibile, nel mondo romano, appren-dere un mestiere o un’arte6 risultavano, ovviamente, le più disparate, non necessariamente connesse alla frequenza di un – per così dire – corso regolare, tanto meno in un determinato luogo fisico, assimilabile a un’aula o a un laboratorio moderni. La scelta del maestro-istruttore, che avrebbe dovuto fornire al giovane l’addestramento tecnico neces-sario alla futura professione, veniva ovviamente effettuata anzitutto all’interno della cerchia familiare e dei conoscenti7. A tal proposito, l’e-pisodio forse più celebre che può illustrare al meglio simili procedure appare senz’altro quello narrato, pur nella sua indubbia trasposizione letteraria, dallo scrittore Luciano (II secolo d.C.) nel racconto autobio-grafico Il sogno [1-3, trad. C. Consonni]:

Da poco avevo terminato di frequentare la scuola primaria, ero ormai sulla soglia dell’a-dolescenza e mio padre discuteva con i suoi conoscenti sull’educazione da impartirmi. La maggioranza ritenne che le lettere, in verità, abbisognassero di grande impegno, mol-to tempo, spesa non piccola, e di uno status sociale all’altezza; la situazione della nostra famiglia, peraltro, era modesta, e tale da aspettarsi un mio contributo in tempi brevi. Nel caso, invece, che apprendessi un comune mestiere artigianale, dal lavoro avrei avuto subito un reddito sufficiente senza più essere – all’età che avevo – a carico della casa; e, in breve tempo, avrei fatto felice mio padre offrendogli di volta in volta i risparmi accumulati.

Per cui si discusse, in seconda istanza, per vedere quale, tra i mestieri, fosse il più valido, di più facile apprendimento, confacente a un uomo di nascita libera, con il necessario a portata di mano ed entrate adeguate. È naturale che ciascuno, a seconda della propria mentalità o esperienza nella pratica, ne promuovesse uno diverso; mio padre, rivoltosi allo zio – era presente lo zio materno, il quale aveva rinomanza d’eccellente scultore – gli disse: “Sarebbe un delitto avere qui te, e far prevalere un’arte differente dalla tua: anzi, portalo via”, e indicava me “prendilo con te e insegnagli a essere un bravo lavoratore con la pietra, a saperne combinare tipi diversi, a scolpirla. Ne possiede le potenzialità: la natura – sai – è stata propizia”.

Questa convinzione gli era nata dalle cose che i bambini fanno per gioco con la cera. Dovete sapere che, quando terminavo la lezione, raschiando la cera usavo creare figure di buoi, cavalli, anche – proprio così – persone: una riproduzione piuttosto fedele, tale la considerava mio padre. Le figure, che mi erano costate botte dai maestri di scuola, in quel momento divennero dunque anch’esse motivo di esprimersi con favore sulle mie doti naturali, e mi si accreditava con buone speranze che avrei imparato in breve il mestiere. Così almeno a partire da quei lavoretti con la cera.

6 Per il valore semantico del termine latino ars, come ‘attività professionale specializzata’, negli

orientamenti culturali elevati d’età romana, cfr. Gavoille [2003, pp. 49-60].

7 Su tutti questi aspetti (distinzione della forza lavoro giovanile in base alla fascia d’età; modalità

di apprendimento-insegnamento di un mestiere; tipologie di attività), cfr. Wiedemann [1989, pp. 143-175].

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Non appena il giorno fu ritenuto opportuno perché fossi iniziato all’arte, eccomi conse-gnato allo zio, senza che – Zeus è testimone! – la cosa mi disturbasse particolarmente, anzi mi sembrava un gioco non spiacevole, nonché un modo per mettermi in mostra con i miei coetanei, come quello che scolpisce immagini di dèi e crea piccole statuine per sé e per quanti ha prescelto. L’inizio fu quello solito per i principianti; lo zio mi diede un piccolo scalpello e mi assegnò il compito di battere su una lastra di pietra posta di fronte, con giudizio. E aggiunse: “Il principio è metà del tutto”, come si usa dire. Io per inesperienza colpii troppo forte, la lastra restò spezzata, lo zio, in preda all’ira, tirò su un randello appoggiato lì vicino e mi consacrò all’arte lasciando stare le gentilezze e le esortazioni benevole. La mia attività di scultore si apriva fra le lacrime.

L’effettivo valore testimoniale del lungo brano ora riportato può me-glio cogliersi, da una parte, attraverso il confronto con le analoghe atti-tudini di un qualche altro adolescente della Roma imperiale, senz’altro più noto dello stesso Luciano. A proposito di Nerone, infatti, Tacito narra (XIII,3,3) che da ragazzo avrebbe rivolto il proprio ingegno verso passioni alquanto aliene dall’interesse per gli affari di Stato, fino alme-no a quando Seneca alme-non divenne per qualche tempo la guida intellet-tuale e politica del giovane imperatore: «intagliare, dipingere, cantare, cavalcare; talvolta, nel comporre versi, mostrava di possedere semi di dottrina». Per un altro verso, alcuni passi di giuristi, confluiti nei

Dige-sta giustinianei, confermano la centralità della discussione relativa alla

definizione dei limiti legali della castigatio, ovvero la punizione, conven-zionalmente ammessa se levis (leggera), inflitta da parte del datore di lavoro-istruttore (magister) ai danni dell’apprendista (non solo schiavo, ma anche di nascita libera), fino a provocargli danni fisici, talvolta gravi, o la fuga dalla sede del tirocinio. A tal proposito, il giurista Ulpiano, rifacendosi alla fattispecie e al giudizio tecnico di un altro esperto di diritto, Giuliano, vissuto prima di lui, scrive su tale argomento:

Un calzolaio ha colpito alla testa con una forma per scarpe, al punto da danneggiargli un occhio, un fanciullo di nascita libera, filius familiae, il quale, a bottega da lui, stava rea-lizzando con pessimi risultati quanto prodotto. Giuliano sostiene che non si ha luogo a procedere con l’accusa di danneggiamento (iniuria) [contro questo calzolaio], in quanto non avrebbe colpito [il fanciullo] per recargli danno, bensì per dargli una lezione [che risultasse utile] a farlo apprendere [D, IX,2,5 Ulp.; cfr. D, XIX,2,13,4 Ulp.]8.

Se, almeno nel caso di Luciano, l’intesa tra chi inviava il proprio figlio a imparare un mestiere e il ‘maestro di bottega’ che lo prendeva

8 Un parere simile era stato espresso, nel II secolo d. C., anche dal giurista Claudio

Satur-nino [cfr. D, XLVIII,19,16,2]. Il giurista Viviano (II secolo d.C.), invece, accenna alla fatti-specie dell’apprendista fuggito per l’eccessiva crudeltà del proprio praeceptor-istruttore [D, XXI,1,117,3].

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in carico era di carattere sostanzialmente privato e informale, per altri versi esiste (anche se soprattutto per l’età imperiale e principalmente papiracea, dalla provincia di Egitto) una pur esigua, ma importantissi-ma documentazione grazie alla quale possiamo apprendere la tipologia degli accordi contrattuali, stipulati pubblicamente e per iscritto fra i genitori del ragazzo/a-apprendista e l’artigiano-tirocinante stesso. Si ha notizia di contratti egiziani per fanciulli messi a bottega presso impren-ditori edili, ramai, fabbricanti di stuoie, chiodai, suonatori di flauto, cardatori e tosatori. Una delle più rilevanti ed esclusive corporazioni egiziane era ad esempio quella dei tessitori, nelle cui botteghe artigia-nali, oltre che a essere praticate attività specializzate o meno, potevano essere istruiti giovani apprendisti, ragazzi e ragazze tanto di nascita li-bera quanto di condizione servile. Dai contratti, pare ricavarsi che gli apprendisti iniziavano a stare a bottega tra i dieci e i tredici anni, per un periodo di tirocinio che poteva variare, in genere, da uno a tre anni, con massimi di cinque, con poche ferie e una giornata lavorativa dal mattino presto fino alla sera. A volte, tra le clausole, viene anche speci-ficato non solo a chi spetti il pagamento dell’imposta fissa individuale sull’esercizio di un mestiere, in particolare dell’artigianato tessile, ma anche il versamento del salario per il lavoro prodotto nell’apprendista-to, nonché i costi della fornitura di vesti e cibo al tirocinante, oppure dell’equivalente in denaro per tali spese, se vesti e cibo venivano fornite direttamente dal maestro-tirocinante9.

Sono pervenuti contratti dalla tipologia meno circostanziata, come quello trasmesso (con le lacune qui contrassegnate attraverso […]) dal

Papiro di Tebtunis 385, del 117 d.C.:

Nel ventesimo anno [di governo] dell’imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto Ger-manico Dacico, nel mese di Paunì […] a Tebtunis, nella circoscrizione di Polèmone, del nomo Arsinoitico, Tefersais, figlia di Eracleo il vecchio, figlio di […], dell’età di circa [.]7 anni, con una cicatrice sulla parte sinistra del collo, insieme al proprio tutore, il fratello Eracleo, di circa […] anni, ha affidato suo figlio Cronione, figlio di Cronione figlio di Areo, a Erone figlio di Orseo, tessitore di circa 27 anni, con una cicatrice in mezzo alla fronte, perché impari tutta la suddetta arte completamente come la sa lo stes-so Erone, in due anni, dal primo del mese di Sebastos del prossimo ventunesimo anno [imperiale romano], restando il ragazzo nutrito dalla madre, mentre il predetto Erone verserà a essa ogni mese per le cibarie l’ammontare di 4 dracme; lo stesso Erone vestirà il fanciullo, essendo anche responsabile per le tasse poste su di lui durante questi due

9 Su tutti questi aspetti cfr. Bieżuńska-Małowist [1988, capp. 7 e 9] e Lewis [1999, pp. 134-136].

In generale, per gli aspetti giuridici relativi ai contratti di lavoro e alla particolare posizione di dipendenza, quasi servile, del lavoratore-apprendista rispetto al maestro-tirocinante cfr. De Robertis [1963, cap. 3].

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anni. Delle 46 dracme pattuite per i due anni, Tefersais ha ricevuto da Erone 14 dracme, 12 ne riceverà il mese Sebastos del prossimo anno, e le restanti 20 nel medesimo mese del ventiduesimo anno [imperiale romano]. Al termine del periodo [di apprendistato], Erone riconsegnerà il giovane istruito nel mestiere [di tessitore], e, al momento del con-gedo, gli consegnerà […], ma per ogni giorno ࢭche il ragazzo non dovesse presentarsi o non lavoreràࢮ, una dracma […]. Io, Erone figlio di Orseo, istruirò questo fanciullo […] e adempirò a ogni obbligo, come qui previsto. [Seguono le firme delle parti e dell’esten-sore del contratto].

Altri contratti presentano invece una struttura più articolata, come quello trasmesso, pur con qualche piccola lacuna iniziale, dal Papiro di

Ossirinco 725, del 183 d.C.:

Ischyrion, figlio di Heradion e di […] di Ossirinco, e Heraklas, figlio di Sarapio, noto anche come Leon figlio di Eraklides, la cui madre essendo […], della sopraddetta città, tessitore, convengono reciprocamente su quanto segue:

che Ischyrion, per parte sua, ha collocato come apprendista presso Heraklas (il tes-sitore) […] Thonis, ancora fanciullo, perché gli venga insegnata l’arte della tessitura per un periodo di cinque anni, a iniziare dal primo giorno del mese prossimo, Pha-ophì, e che lo condurrà a presentarsi al proprio maestro-istruttore ogni giorno, per il suddetto periodo, dall’alba al tramonto, obbedendo a tutti gli ordini che gli vengano impartiti dal suddetto istruttore, nei medesimi termini degli altri tirocinanti, e nutrito da Ischyrion.

Che per i primi due anni e sette mesi del terzo anno [di apprendistato], Heraklas non pagherà alcunché per il salario di questo ragazzo, ma per i restanti cinque mesi del sud-detto terzo anno, Heraklas pagherà, come spese per il salario del giovane apprendista, 12 dracme al mese e parimenti, nel quarto anno, 16 dracme al mese, sempre per il salario, mentre nel quinto anno ne pagherà 24.

Che Heraklas fornirà per il suddetto giovane apprendista, per l’anno romano corrente, una tunica del valore di 16 dracme, per l’anno prossimo una tunica del valore di 20 drac-me e, allo stesso modo, per i tre anni a venire dopo questi due, una tunica di 24 dracdrac-me, una di 28 e, infine, una di 32 dracme.

Che al fanciullo apprendista siano riconosciuti venti giorni di ferie, in corrispondenza di festività, senza detrazioni dall’ammontare del suo stipendio, dopo che il versamento per esso ha avuto inizio.

Che nel caso in cui il numero di giorni venga superato, per pigrizia, malattia, disubbi-dienza o qualsiasi altro motivo, Ischyrion è tenuto a portare il fanciullo dal maestro-i-struttore per un numero di giorni corrispondente a quelli persi, durante i quali resterà a disposizione per portare a termine, come specificato, i suoi obblighi, ma senza percepire la paga e nutrito a spese dello stesso Ischyrion, perché il contratto è stato stabilito in questi termini.

Che Heraklas, per parte sua, concorda con tutte queste disposizioni, e accondiscende a istruire in maniera esaustiva nell’arte suddetta questo fanciullo, apprendista presso di lui, per cinque anni, e a pagargli il salario mensile, a partire dall’ottavo mese del terzo anno di apprendistato.

Che a nessuna delle due parti è consentito di violare le suddette disposizioni, pena un’ammenda di 100 dracme alla parte che si è attenuta fedelmente al contratto, e una somma equivalente sarà pagata al pubblico erario.

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Nel ventiquattresimo anno di regno dell’imperatore Cesare Marco Aurelio Commodo Antonino Augusto [segue la formula giuridica di chiusura del documento, ‘controfirma-to’ dai contraenti].

Del tutto analoghi risultano essere i (pur pochi) contratti per l’ap-prendistato di schiavi, con le spese vive, per il vestiario, il mantenimen-to e l’alloggio dei praticanti, a carico dei proprietari, nonché un salario corrisposto al tirocinante nel caso di accordi contrattuali stipulati per più anni. Interessante notare che, se un adulto di condizione non libera risultava privo di una specializzazione (o di una determinata attività la-vorativa: caso comunque tutt’altro che raro nell’Egitto greco-romano), egli veniva esplicitamente indicato come schiavo ‘atechnos’ (‘privo di un’arte’)10. Dalla documentazione in nostro possesso, risulta che la pro-fessione più ambita dai tirocinanti di condizione servile, come per i li-beri, era la tessitura, mentre altre attestazioni si riferiscono a periodi di apprendistato presso cardatori, stenografi, musicisti. Una volta impara-to un mestiere, i proprietari degli schiavi non solo potevano continuare a utilizzarli per i servizi domestici o d’altro genere, ma anche lucrare sia dalla vendita diretta dei prodotti realizzati grazie all’attività lavora-tiva appresa attraverso l’apprendistato sia affittando ad altri lo schiavo specializzato sia, infine, dalla riscossione di parte dei proventi connessi all’esercizio autonomo di quel dato mestiere, come probabilmente nel caso degli schiavi tessitori [Bieżuńska-Małowist, 1988, pp. 192-211; cfr. anche Bergamasco, 1998].

Dunque anche gli schiavi, per lo meno quelli più meritevoli, pote-vano ricevere, per propria iniziativa o (soprattutto) per volontà dei ri-spettivi proprietari, non solo una formazione tecnica ma anche un’edu-cazione che, dal livello base (ludus litterarius), poteva successivamente, in maniera selettiva, arrivare perfino a un grado di (relativa) specia-lizzazione, ovviamente in rapporto alle doti intellettuali dell’allievo/a. Tra costoro, solo i più intraprendenti e i più abili, generalmente dopo esser divenuti liberti, addirittura riuscivano a diventare a loro volta in-segnanti (paedagogi), in taluni casi fortunati, dei piccoli dell’aristocrazia se non, addirittura, della famiglia imperiale11. Di tutti, la più istruttiva, oltre che fenomenale, sembra essere senz’altro la vicenda del grammati-co (ossia, l’equivalente di un moderno critigrammati-co letterario e, al grammati-contempo, poeta) vicentino Quinto Remmio Palemone, attivo nel corso del I

seco-10 In genere, il dato si evince dalle denunce di morte [Bieżuńska-Małowist, 1988, pp. 145-146]. 11 Cfr., per esempio, CIL, VI, 8969 = ILS, 1829; CIL, VI, 8970 = ILS, 1831; CIL, VI, 8976 = ILS,

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lo d.C. Costui, da verna (schiavo nato in casa), fu inizialmente istruito nella professione di tessitore. Successivamente, poiché accompagnava a lezione il figlio della padrona, riuscì a conseguire una sua istruzione letteraria e, divenuto liberto, a Roma aprì una famosissima scuola (tra i suoi allievi, il poeta Persio e il retore Quintiliano), che gli fruttava ben 400.000 sesterzi l’anno, ossia, tanto per avere un’idea, l’equivalente del patrimonio necessario per rientrare, a partire dall’età augustea, nella classe degli equites, i cavalieri. Ma la sua intraprendenza negli affari, nonché l’esperienza acquisita durante il periodo di apprendistato come tessitore, gli permise non solo di gestire, contemporaneamente, un la-boratorio di abiti, per così dire, prêt-à-porter, ma anche di rivendere a Seneca a quattro volte il valore iniziale di 600.000 sesterzi un bel vi-gneto nella zona di Nomentum (nei pressi di Roma), dal quale, grazie a nuove tecniche di coltivazione e un altrettanto abile amministratore, egli era riuscito a ottenere una vendemmia valutata, da sola, 400.000 sesterzi [cfr. Plinio, Storia Naturale, XIV,48-51; Svetonio, I grammatici

e i retori, 23,1-2].

La pratica di istruire gli schiavi sembra risalire almeno al II secolo a.C. Secondo un accenno di Plutarco (Vita di Catone il Censore, 21,7), con i soldi prestati da Catone stesso i suoi schiavi potevano permet-tersi di comprare «dei bambini, che educavano e istruivano e, di lì a un anno, rivendevano. Catone stesso ne tratteneva molti, mettendo in conto la cifra più alta offerta per la vendita» (trad. L. Ghilli). Altre testimonianze letterarie indicano chiaramente come i proprietari di schiavi fossero non solo consapevoli delle diverse abilità professionali del proprio personale (con schiavi e/o ex-schiavi spesso esperti, e con destrezza, in più di una attività contemporaneamente), ma anche di come – attraverso l’insegnamento – risultasse possibile a singoli schiavi promettenti perfino un salto di categoria professionale e, conseguen-temente, di status economico e sociale. Notissimo, grazie all’orazione ciceroniana relativa alla causa in difesa di Quinto Roscio, è il caso di Panurgo, schiavo di C. Fannio. Poiché appariva dotato di una naturale disposizione, egli era stato affidato dal proprietario a Roscio, un valente attore di teatro, molto noto e apprezzato nella Roma della prima metà di I secolo a.C., impegnato proprio nella istruzione e formazione dei giovani talenti. Dal testo dell’orazione (gravemente mutila), relativa alla causa tra Roscio e Fannio per il contratto di condivisione dei profitti derivanti proprio dalle performance artistiche di Panurgo, risulta che il valore di questo schiavo sarebbe addirittura passato, grazie alle abilità

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formative di Roscio, da 1.000 a 150.000 sesterzi (almeno, questo sem-brerebbe essere l’ammontare dei profitti dell’attività teatrale di Panur-go, che le due parti in causa dovevano spartirsi).

In tal senso, risultano indicativi anche alcuni passi del Satyricon di Petronio (autore del I secolo d.C.). Il centonarius (‘commerciante di stracci’) Euchione, un parvenu proprietario di una villa rustica con di-pendenze e di schiavi, presente tra gli invitati di Trimalchione, vanta la bravura proprio di uno di costoro, un giovinetto che, grazie al proprio

ingenium e all’istruzione impartita da due magistri che si recavano a

casa del padrone, avrebbe potuto in futuro (evidentemente, dopo la manomissione) trovare un impiego più idoneo (come manager finanzia-rio o segretafinanzia-rio personale) presso altri cittadini romani, anche facoltosi, grazie alla propria istruzione:

Sa già la divisione per quattro. […] Non appena ha un po’ di tempo libero, non solleva la testa dal tavolo di studio. […] Ha l’animo tutto preso per la pittura, al momento. Disde-gna ormai il greco di base, e ha iniziato a studiare con qualche buon risultato le lettere latine, anche se il suo maestro sembra un narcisista: non si sofferma su una materia sola, viene qui a casa, conosce sì le cose, gli argomenti, ma non si spreca. Insieme a lui ne viene anche un altro, non tanto colto, ma zelante, che insegna più di quanto sappia. Dunque, si presenta a casa nostra nei giorni di festa e si accontenta di qualsiasi compenso gli diamo. Perciò, adesso ho comprato per questo mio schiavetto qualche libro di diritto, quelli coi testi in rosso, perché ho desiderio che apprenda un po’ di giurisprudenza, per la gestione della casa. È questa la sostanza che ti frutta il pane. Infatti, si è già ammorbato abbastanza con la letteratura: che se poi dovesse tirarsi indietro, ho già stabilito di fargli imparare un mestiere, come il parrucchiere, il banditore pubblico o di sicuro l’avvocato, ossia qualcosa che potrà togliergli solo la morte. Per questo, ogni giorno gli ripeto da vicino a voce alta: “Mio figliolo prediletto, dammi retta: tutto quello che apprendi, lo fai per te. Guarda l’avvocato Filerone: se non avesse studiato, ora non camperebbe. Fino a qualche tempo fa, faceva il facchino ai mercati, e ora è allo stesso livello di prestigio di Norbano. La cultura è un tesoro, è un mestiere imperituro!” [Satyricon, 46].

Per altri versi, l’assenza o la presenza di una vera e propria istru-zione/educazione, in aggiunta alle necessarie competenze professiona-li o ai requisiti di base per una determinata attività, poteva risultare come un fattore accessorio determinante, tanto nel caso delle reclute12, quanto per il proprietario in uno schiavo. Ad esempio, l’autorevole e facoltoso liberto Habinna, lapidarius (marmista specializzato nella rea-lizzazione di monumenti funebri) nonché seviro (una sorta di sacerdote addetto ai culti ufficiali legati alla figura dell’imperatore), così presenta

12 Vegezio [II,19] consiglia infatti di individuare, per l’assegnazione ai rispettivi ‘uffici di fureria’

dei reparti, soprattutto quelle reclute in grado, poi, di redigere un rapporto, conteggiare le paghe e computare l’anzianità di servizio della truppa.

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il proprio giovane schiavo che, durante la cena di Trimalchione, si era cimentato nella declamazione, peraltro pessima per il mancato rispetto delle norme prosodico-metriche, di versi dell’Eneide [Satyricon, 68]:

Non ha mai seguito lezioni, ma lo acculturavo mandandolo a osservare i girovaghi in strada. Per questo, quando imita mulattieri e saltimbanchi, non ha eguali. Possiede però capacità da far paura: sa fare il calzolaio, il cuoco13, il panettiere! Insomma, padroneggia

ogni arte.

Assai più difficile risulta stabilire, per le caratteristiche peculiari della società romana, fortemente condizionata dal lavoro degli schiavi, quali fossero i livelli salariali del lavoro libero, anche in relazione al costo del-la vita, tanto per le attività generiche quanto per quelle che presuppo-nevano una ‘qualifica’ professionale, soprattutto perché rimunerazioni e pagamenti, così come intendiamo oggi tali termini e le correlate di-namiche socioeconomiche, non erano predominanti nel mondo antico, considerato soprattutto che accanto alla retribuzione in moneta conti-nuavano a sussistere forme di compenso costituite da quote del raccol-to o da scambi di beni e servizi, in forme peraltro non comuni a tutti i mestieri. Ad una simile eterogeneità di retribuzione corrispondono, in effetti, diversi termini tecnici (merces, salarium, honoraria, commoda, da cui originano quelli italiani coevi), ciascuno dei quali sembra essere caratterizzato da un campo di applicazione disomogeneo14.

In mancanza di dati quantitativi utilizzabili, possiamo stabilire solo un confronto molto approssimativo tra il nostro sistema dei salari (ca-ratterizzati da un’entità fissa, corrisposta periodicamente) e quello d’età romana attraverso le due principali componenti dell’apparato statale, l’esercito e i magistrati-funzionari che, a partire dal governo di Augusto, iniziarono a essere indennizzate con compensi monetari determinati e costanti. Dal livello base, le paghe aumentavano in rapporto al reparto d’arruolamento e servizio (legionari, truppe ausiliarie, pretoriani) e al grado raggiunto, con uno stipendio standard di base fissato intorno a novecento sesterzi per un semplice legionario, contro i tremila annui di un pretoriano. Anche i responsabili dell’amministrazione dell’Impero (appartenenti all’ordine senatorio, ma soprattutto all’equestre; in talu-ni casi anche schiavi e liberti dell’imperatore), a partire dal principato augusteo, al posto degli indennizzi in natura (cibaria) prevalenti nell’età

13 Val la pena osservare come i cuochi, nelle commedie plautine, venivano per lo più affittati a

giornata o a ore [Plauto, Mercator, 747].

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repubblicana, in base alle responsabilità legate alla funzione ricoper-ta (governatorato provinciale; grandi e minori prefetture; procuratele di carattere finanziario, uffici centrali dell’amministrazione imperiale) iniziarono a percepire stipendi diversificati, dall’ammontare progressi-vamente più elevato. In particolare, in rapporto al trattamento econo-mico, le quasi centottanta procuratele attive sotto Settimio Severo, ca-ratterizzanti la carriera equestre, risultavano suddivise in quattro livelli di stipendio. Ad esempio, mentre un ‘segretario’ (scriba), al servizio dei duoviri, i due magistrati che amministravano la decentrata colonia cesariana di Urso (l’attuale città spagnola di Osuna), guadagnava 1200 sesterzi l’anno15, tutti gli impiegati superiori dell’amministrazione cen-trale di Roma costituivano l’insieme dei sexagenarii, ossia quelli che percepivano sessantamila sesterzi all’anno come retribuzione iniziale. Seguivano poi i centenarii, ossia i procuratori di grado e con responsa-bilità più elevate in campo per lo più finanziario (sia in Italia che nelle province), il cui stipendio toccava i centomila sesterzi annui; pratica-mente doppio, pari a duecentomila sesterzi, lo stipendio annuo dei

du-cenarii, ossia i procuratori a capo di un’intera struttura

finanziaria-am-ministrativa (anche in questo caso, presente in Italia e nelle province). Un livello ancora superiore sarebbe stato successivamente (dopo l’età di Marco Aurelio) rappresentato dalla categoria dei trecenarii, cioè quei procuratori a capo dell’intera amministrazione centrale, che guadagna-vano annualmente trecentomila sesterzi.

Dati sparsi, desumibili da fonti epigrafiche e letterarie, attestano l’e-sistenza di commoda (un indennizzo misto in denaro e beni), percepiti da schiavi e liberti imperiali che lavoravano al servizio del procurator delle miniere di Vipasca (corrispondente all’attuale località mineraria portoghese di Aljustrel [CIL, II, 5181 = ILS, 6891]), mentre dalle regi-strazioni rinvenute su frammenti ceramici (ostraka) recuperati nell’area desertica sud-orientale dell’Egitto, dove erano site le cave di granito del

Mons Claudianus, e datati perlopiù al II secolo d.C., si rileva che parte

del personale (composto da lavoratori generici e specializzati, liberi e schiavi) ivi impiegato riceveva, verso la fine del mese, uno stipendio di poco meno di cinquanta dracme (equivalenti allora a circa dodici

de-narii), ossia un totale di circa 560 dracme all’anno, integrate da

mode-ste razioni di cibo e di vino, anch’esse mensili. Interessante notare che

15 Cfr. Lex coloniae Genitivae Iuliae, c. LXII (44 a.C.) [FIRA, I2, n. 21, p. 180, 35]. Dunque,

in pratica, uno scriba guadagnava poco più di tre sesterzi al giorno, una paga poco più alta di quella di un operaio.

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