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11 II MMIICCRROOAARRRRAAYY:: TTEECCNNOOLLOOGGIIAA EE AAPPPPLLIICCAAZZIIOONNII

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Academic year: 2021

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1.1 GENERALITA’

I microarray a DNA rappresentano la più recente di una serie di tecniche che sfruttano le caratteristiche peculiari della doppia elica del DNA, ovvero la complementarità dei due filamenti e la specificità dell’accoppiamento delle basi.

Nel 1975 E. Southern dimostrò che le molecole di acido nucleico marcate selettivamente potevano essere utilizzate per analizzare altre molecole di acido nucleico ancorate a supporti solidi come gel o filtri porosi (Southern, E. M., 1975). Il Southern blot rappresentò di fatto il primo array di materiale genico ed aprì la strada alla possibilità di analizzare i profili di espressione di un intero genoma attraverso l’accoppiamento (ibridizzazione) tra molecole di RNA messaggero (mRNA) e librerie di cDNA ancorate a supporti solidi. L’applicazione su larga scala di questa tecnologia si è però avuta più recentemente grazie all’utilizzo di supporti solidi non porosi, come il vetro, e alla messa a punto di tecniche fotolitografiche per la sintesi di oligonucleotidi ad alta densità spaziale.

Negli anni ’80, R. P. Ekins e collaboratori del Dipartimento di Endocrinologia Molecolare dell’University College di Londra, furono i primi ad utilizzare le tecniche di microspotting per fabbricare array per saggi immunologici ad elevata sensibilità (Ekins, R. P.; 1987). Negli Stati Uniti, un contributo notevole è stato dato da P.A. Fodor e colleghi presso Affymetrix, Inc. (Santa Clara, California) (Fodor, S.P.A., 1991), e da diversi gruppi di ricercatori dell’Università di Stanford, in particolare dall’équipe di P. Brown, del Dipartimento di Biochimica e Biofisica (Brown P.O. and Botstein D., 1999). I protocolli sviluppati dal gruppo di Brown permettevano di depositare automaticamente su vetrini da microscopio ottico circa 10.000 filamenti di cDNA, di ibridizzarli a campioni di mRNA retrotrascritti in cDNA e marcati selettivamente con molecole fluorescenti e di seguire quindi le variazioni nei profili di espressione di colture cellulari in condizioni sperimentali diverse. Parallelamente, sfruttando le tecniche di mascheramento fotolitografico, normalmente

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utilizzate nell’industria dei semiconduttori, Fodor e i suoi collaboratori realizzarono il primo DNA microarray wafer-chip, noto come GeneChip ®, caratterizzato da oltre 400.000 sonde oligonucleotidiche su una superficie di un pollice quadrato.

Dagli anni ‘90 ad oggi, un numero sempre maggiore di enti commerciali e gruppi accademici ha contribuito all’avanzamento nella tecnologia dei microarray.

1.2 LA TECNOLOGIA DEI MICROARRAY A DNA

Nella sua forma più generale un microarray è costituito da un substrato solido (vetro, plastica o silicio) sul quale possono essere immobilizzate centinaia o migliaia di molecole di varia natura in posizioni prefissate e denominate spot. Queste molecole possono essere acidi nucleici (DNA o RNA) o proteine (tipicamente antigeni o anticorpi), capaci di riconoscere e legarsi con molecole ad esse complementari. Essi permettono di eseguire, pertanto, reazioni di ibridizzazione, nel primo caso, o interazioni immunologiche, nel caso dei protein-microarray.

Per comprendere il principio di funzionamento dei microarray a DNA e la tipologia di informazioni che il loro utilizzo rende disponibili, in particolare negli studi di espressione genica, è indispensabile fare una breve premessa di carattere biologico.

1.2.1 Principi di biologia molecolare alla base dei microarray a DNA

Tutte le cellule di un organismo, dal più semplice al più complesso, contengono una copia identica dell’intero genoma sotto forma di molecole di DNA. Cellule dello stesso organismo, tuttavia, possono differire le une dalle altre sia dal punto di vista morfologico che funzionale. Queste differenze sono determinate da una diversa espressione dei geni. Il modo più corretto per sapere quali geni sono espressi da una cellula è identificare le proteine presenti al suo interno. Nella pratica però, data l’elevata instabilità delle proteine e la necessità di utilizzare metodi di identificazione immunologici molto costosi, questo approccio risulta di difficile attuazione, Più semplice è lo studio delle molecole di RNA messaggero (mRNA) che funzionano da stampo per la sintesi delle proteine (fig.1.1), vale a dire lo studio del trascrittoma delle cellule. La corrispondenza tra molecole di mRNA e proteine, in realtà, non è perfetta, perché non tutti i trascritti vengono necessariamente tradotti, alcuni sono eliminati prima di funzionare da stampo per la sintesi proteica. Il trascrittoma, tuttavia, può essere considerato sufficientemente rappresentativo del proteoma di una cellula, e quindi dei geni espressi da quella cellula, dal momento che, nella maggior parte dei casi, la decisione se esprimere o no un dato gene viene attuata prima del processo di trascrizione.

L’analisi del trascrittoma consente quindi di identificare i geni che una cellula sta esprimendo in un dato momento in modo da poter correlare tale informazione con il fenotipo, morfologico o funzionale, della cellula stessa.

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Fig 1.1: Direzione del flusso delle informazioni genetiche

In quest’ottica i microarray a DNA hanno rivoluzionato il modo in cui si studia oggi l’espressione genica, permettendo di analizzare con un solo esperimento tutti gli RNA trascritti da un campione biologico di interesse, ad esempio un clone di cellule o un frammento di tessuto.

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Fig. 1.2: Meccanismo di ibridizzazione degli acidi nucleici

1.2.2 Descrizione di un esperimento microarray

Fisicamente i microarray a DNA sono costituiti da un supporto in vetro o silicio, su cui sono ancorate decine di migliaia di sequenze nucleotidiche, chiamate sonde, rappresentative nel loro insieme di tutte le sequenze espresse dal genoma di un dato organismo.

Il principio su cui si basano i microarray a DNA è dato dalla specificità con cui ibridizzano due sequenze nucleotidiche complementari. Una sequenza, la cui estremità è fissata al supporto, funge da sonda per l'identificazione dell'altra (il target) che corrisponde ad uno specifico mRNA.

Nell’analisi dei profili di espressione genica, tipicamente vengono confrontati due campioni (es: controllo/trattato, cellule sane/malate, cellule di un tipo/cellule di un altro tipo,…).

Sperimentalmente la procedura prevede l’estrazione dell’RNA dalle cellule di interesse, che deve essere il più possibile di ottima qualità, ossia puro e integro.

La verifica della purezza viene effettuata mediante lettura spettrofotometrica a 260 nm (lunghezza d’onda alla quale assorbono gli acidi nucleici), a 280 nm (lunghezza d’onda alla quale assorbono le proteine) e a 230 nm (lunghezza d’onda alla quale assorbono le sostanze

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organiche). Rapporti di assorbimento 260/280 e 260/230 maggiori di 2 sono indice di un RNA sufficientemente purificato da proteine e da sostanze organiche contaminanti.

Per quanto riguarda l’integrità dell’RNA essa può essere verificata o mediante corsa elettroforetica su gel di agarosio (metodica classica) oppure facendo ricorso a strumenti più sofisticati come il Bioanalyzer, che, grazie ad un sistema di corsa elettroforetica capillare e ad un software di analisi, attribuisce a ciascun campione un valore numerico, il cosiddetto RIN (RNA Integrity Number), indicativo dell’integrità dell’RNA.

A partire dall’RNA totale estratto dai campioni in esame, solo le molecole di RNA messaggero vengono retrotrascritte in cDNA (DNA complementare), grazie all’impiego di primer di innesco per la trascrittasi inversa poli-T, complementari alle code di poli-A degli mRNA. Le sequenze di cDNA ottenute vengono successivamente marcate con molecole fluorescenti. La soluzione contenente le sequenze marcate viene poi depositata sul vetrino, in modo da consentire l’ibridizzazione fra sonde e molecole “target”.

In relazione al tipo di marcatura e di ibridizzazione è possibile distinguere due protocolli sperimentali indicati in letteratura come “one-color” e “two-color”.

La procedura “one-color” prevede l’ibridizzazione di un singolo campione su ogni array (ibridizzazione assoluta) e l’utilizzo di un solo tipo di fluorocromo.

Al termine dell’ibridizzazione l’array, opportunamente lavato per eliminare le sequenze legate in maniera non specifica, viene quindi esposto a una sorgente di luce laser di lunghezza d’onda tale da fornire energia e indurre la fluorescenza delle molecole di marcatore. Le intensità di segnale emesse dai vari spot vengono acquisite dalla matrice a CCD di uno scanner e tradotte in immagine. L’intensità di uno spot è proporzionale al numero di molecole di fluorocromo presenti su di esso e quindi al numero di molecole di acido nucleico che si sono ibridizzate con la sonda ancorata al supporto. In questo caso, il dato di intensità fornisce una misura assoluta della quantità di mRNA presente nel campione, cioè del livello di espressione del gene corrispondente.

Quanto detto implica che negli esperimenti “one-color” sono necessari due vetrini per poter confrontare i livelli di espressione dei geni nelle due condizioni di interesse. Questo confronto può essere soggetto ad errore a causa di differenze nella forma degli spot corrispondenti sui due array.

Il protocollo “two-color” si basa, invece, sull’utilizzo di due campioni di mRNA diversi marcati con due fluorocromi differenti (tipicamente il rosso e il verde) e ibridizzati sullo stesso array. Questo tipo di ibridizzazione è detta competitiva poiché i due target competono per il legame con le sonde. Dopo l’ibridizzazione si procede alla scansione del vetrino utilizzando uno scanner a doppio canale in grado di eccitare distintamente i due fluorocromi ed acquisire separatamente i segnali da essi emessi. Si producono in questo modo due immagini sovrapponibili costituite da una matrice di spot fluorescenti, ognuno corrispondente ad un gene diverso, le cui intensità sono proporzionali al numero di molecole target ibridizzatesi con le sonde sul vetrino. Il rapporto fra le intensità di fluorescenza del rosso e del verde, denominato “fold-change”, è una misura della concentrazione relativa di ogni mRNA nei due campioni a confronto. Spot tendenti al giallo indicano una uguale

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espressione dei geni corrispondenti nei due campioni; spot tendenti al verde o al rosso indicano una aumentata espressione in un campione rispetto all’altro.

Rispetto alla procedura “one-color”, il protocollo “two-color” consente di eliminare gli errori dovuti alla forma diversa degli spot su array distinti dal momento che entrambi i campioni sono ibridizzati sugli stessi spot.

Fig. 1.3: Schema di un esperimento “two-color”

1.2.3 Tipologie di microarray

1.2.3.1 “Spotted” Array

Nei microarray di questo tipo le sonde sono costituite da molecole di cDNA di lunghezza compresa tra le 200 e le 400 paia di basi, amplificate mediante PCR (Polymerase Chain Reaction) e successivamente depositate sul vetrino.

Le sonde vengono scelte direttamente da banche dati genomiche (GenBank, dbEST, UniGene), benché sia possibile usare anche librerie proprietarie costituite da cDNA non ancora completamente sequenziato.

Le sonde sono fissate al vetrino per deposizione meccanica mediante un braccio robotico che preleva le sonde a doppio filamento direttamente da piastre da 96 o da 384 pozzetti, utilizzate per la PCR, attraverso un sistema di pennini, e ne deposita quantità microscopiche (dell’ordine di 100-500 μg/mL) sulla superficie del vetrino. In questo modo si ottengono spot di circa 100-150 μm di diametro, a distanza di 200-250 μm l’uno dall’altro. Durante la deposizione il sistema di controllo del robot registra automaticamente tutte le

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informazioni necessarie alla caratterizzazione ed alla completa identificazione di ciascun punto della matrice di geni. Una volta che le sonde sono posizionate sul vetrino si effettua il “processing”, vale a dire il passaggio in cui le sonde vengono legate covalentemente al supporto attraverso una reazione innescata dall'irraggiamento con luce ultravioletta. Infine il cDNA sul supporto viene reso a singolo filamento attraverso una denaturazione termica o chimica.

Fig. 1.4: Testina di stampa di un robot per spotting di microarray

Recentemente la procedura di deposizione per contatto è stata sostituita da una tecnologia più efficiente che non prevede il contatto tra la superficie del vetrino e l’apparato di deposizione delle sonde. Volumi specifici delle soluzioni contenenti i vari tipi di sonde vengono espulsi dai serbatoi di raccolta in seguito alla temporanea deformazione delle pareti degli stessi causata da un impulso elettrico. Questa tecnologia sfrutta la proprietà che hanno alcuni materiali ceramici o vetrosi di deformarsi in risposta a stimoli di natura elettrica (piezoelettricità).

Rispetto alla deposizione per contatto, che richiede l’avanzamento e l’arresto ciclici della testina di stampa, lo spostamento del serbatoio per la fabbricazione dei piezo-array è più fluido permettendo di ridurre il consumo delle testine, le sbavature e la durata complessiva del processo di deposizione.

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La lunghezza notevole delle sonde di cDNA le rende altamente specifiche, ma con una peggior cinetica di reazione. Per questo motivo il processo di ibridizzazione non è uniforme né sullo stesso vetrino né tra array distinti. La deposizione delle sonde ad opera del robot, inoltre, è spesso causa di una certa variabilità nella forma e nelle dimensioni di spot corrispondenti su array differenti. Il confronto tra array distinti di questo tipo pertanto è problematico e questo è il motivo per cui generalmente sono utilizzati per esperimenti “two-color”.

1.2.3.2 Microarray ad oligonucleoti sintetizzati in situ

Nei microarray ad oligonucleotidi le sonde sono costituite da sequenze oligonucleotidiche sintetizzate direttamente sulla superficie del supporto. Appartengono a questa categoria i microarray ad oligonucleotidi corti (circa 25-30 paia di basi) di Affymetrix e i microarray ad oligonucleotidi lunghi (circa 60 paia di basi) di Agilent.

Tecnologia Affymetrix GeneChip®

La tecnologia Affymetrix, sviluppata dalla società statunitense Affymetrix Inc. da cui prende il nome, combina la tecnica fotolitografica utilizzata nell'industria dei semiconduttori con la sintesi diretta in fase solida di oligonucleotidi.

La sintesi delle sonde avviene in parallelo, direttamente sulla superficie del supporto solido di silicio, funzionalizzato con piccole sequenze di oligonucleotidi (oligo-starter) modificati con gruppi protettivi fotolabili. Il cappuccio fotosensibile può essere selettivamente rimosso per mezzo di una maschera. I siti resi reattivi vengono, quindi, esposti a soluzioni contenenti tante copie del nucleotide che si vuole aggiungere per far procedere la sintesi della sonda.

La fotolitografia permette di ottenere microarray ad alta densità, ossia decine di migliaia di geni per singolo microarray.

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Ogni spot rappresentativo di un gene è costituito da 40 oligonucleotidi. Essi sono disegnati nella regione che ha la minore omologia di sequenza possibile con altri geni. Venti di questi oligonucleotidi sono sintetizzati in modo da essere perfettamente complementari all’mRNA del gene e vengono denominati “perfect matches” (PM), mentre gli altri 20 sono denominati “mismatches” (MM), cioè sono identici agli oligonucleotidi PM eccetto che per il nucleotide centrale che è stato sostituito con il suo complementare. La presenza degli oligonucleotidi MM permette di riconoscere le ibridazioni aspecifiche e di distinguere dal rumore di fondo anche i segnali più deboli, aumentando così sia la specificità che la sensibilità del sistema.

Fig. 1.6:Principio di funzionamento di un microarray Affymetrix

Rispetto agli “spotted” array, le sonde sugli array GeneChip® sono più omogenee e anche la variabilità inter-array dovuta agli effetti di distribuzione del campione risulta minore. Grazie a questa ridotta variabilità, il sistema Affimetrix prevede l’ibridizzazione di un singolo campione su ogni array (ibridizzazione assoluta). L’esposizione del chip a luce laser e la successiva acquisizione dei segnali di intensità fornisce un’immagine in cui il grado di ibridizzazione viene evidenziato da una diversa intensità di emissione nel rosso.

Il sistema Affimetrix ha purtroppo il grosso svantaggio di essere “chiuso” perché prevede l’utilizzo esclusivo di reagenti e strumenti messi a punto dalla ditta e coperti da brevetto.

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Fig.1.7: Schema di un esperimento “one-color” su piattaforma Affymetrix

Tecnologia Inkjet

Diverse compagnie come Protogene (Menlo Park, CA) e Agilent Technologies (Palo Alto, CA) in collaborazione con Rosetta Inpharmatics (Kirkland, WA) hanno sviluppato metodi di sintesi in situ degli oligonucleotidi su substrati di vetro, basati sulla tecnologia ink-jet che non richiede il ricorso alle costose maschere per la fotolitografia. Nei microarray realizzati con questa tecnologia, ad ogni step del processo di sintesi vengono depositate sul vetrino nella posizione desiderata microscopiche gocce di una soluzione contenente una delle quattro basi nucleotidiche. Il sistema si avvale di serbatoi e nano-ugelli analoghi a quelli delle stampanti a getto di inchiostro.

Fig. 1.8: Fabbricazione di un microarray con tecnologia inkjet

Ogni spot corrispondente ad un gene è costituito da centinaia di oligonucleotidi identici disegnati in una regione con la minore omologia di sequenza possibile con altri geni.

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La lunghezza di circa 60 basi delle sonde rende il processo di ibridizzazione altamente specifico.

1.3 APPLICAZIONI DEI MICROARRAY

I microarray si stanno rivelando degli strumenti efficaci in differenti campi di indagine e vengono utilizzati come dispositivi di indagine primaria, capaci di fornire risposte robuste, ma anche di porre nuovi quesiti al ricercatore.

L’analisi dei profili di espressione genica trova impiego in diverse applicazioni, quali: • studi di co-regolazione: identificazione di geni i cui livelli di espressione variano in

maniera coordinata nelle condizioni sperimentali o nei campioni studiati. Gli studi di co-regolazione confrontano i profili di espressione di due o più geni per stabilire se esiste una correlazione fra essi.

• Studi di genomica funzionale per la scoperta di nuovi geni e delle loro funzioni attraverso il confronto con i profili di espressione di altri geni con funzione nota. • Studi dosaggio-risposta: si tratta di esperimenti progettati per rilevare i cambiamenti

nei pattern di espressione in risposta all’esposizione del campione, del tessuto o del paziente a dosaggi differenti di composti chimici di varia natura (es: farmaci, ormoni, tossine, etc…). Lo studio dell’effetto dei farmaci è utile per approfondire il loro meccanismo di azione a livello molecolare nonché per identificare i meccanismi di sensibilità cellulare e resistenza. Un approccio di questo tipo può ridurre i costi di sviluppo dei farmaci e produrre medicine più efficaci e con meno effetti collaterali. • Identificazione di geni responsabili di patologie: il confronto dell’espressione genica

tra tessuti sani e malati mediante microarray può essere un valido strumento per l’identificazione di quei geni che sono coinvolti nello sviluppo di una patologia, o come geni causativi o semplicemente come fattori di rischio predisponenti.

• Tassonomia: classificazione molecolare di differenti sottotipi di malattia (es: classificazione di isotipi tumorali).

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1.4 LIMITAZIONI DELLA TECNOLOGIA

A fronte degli innumerevoli vantaggi offerti dalla tecnologia dei microarray (metodo che consente lo screening di un ampio numero di geni utilizzando un supporto piccolo e modeste quantità di reagenti) è importante sottolineare che esistono anche delle limitazioni, le più importanti delle quali sono senza dubbio una bassa sensibilità e riproducibilità.

La bassa sensibilità si riferisce alla difficoltà della metodica nel rilevare cambiamenti deboli dell’espressione genica.

Il problema della riproducibilità è invece legato alle numerose e spesso incontrollabili fonti di variabilità che caratterizzano l’esecuzione di un esperimento microarray. Per ottenere dati affidabili è necessario realizzare molti replicati a diversi livelli dell’esperimento. Questo provoca un altro limite non trascurabile della tecnologia ovvero il costo elevato. Attualmente ogni vetrino per microarray costa diverse centinaia di euro e non può essere riutilizzato. Bisogna inoltre tenere conto di tutta una serie di costi aggiuntivi necessari per l’acquisto: − dei campioni;

− dei kit per l’estrazione dell’mRNA, per la marcatura ed i lavaggi;

− dello scanner e dei software per l’acquisizione e il trattamento delle immagini e per l’analisi dei dati;

Riguardo ai campioni oggetto di studio, un limite di importanza non secondaria è rappresentato dal fatto che non tutti i tessuti sono facilmente reperibili e talvolta sono ottenuti con procedure invasive.

Un altro limite della metodologia è dato dal fatto che i risultati microarray, proprio a causa dei problemi di sensibilità e riproducibilità che caratterizzano la metodica, necessitano sempre e comunque di una validazione con altre tecniche. La più utilizzata è la Reverse Transcription Real-Time PCR. Tra i geni risultanti differenzialmente espressi dall’esperimento microarray, se ne selezionano alcuni la cui espressione differenziale viene valutata mediante Real-Time PCR. Poiché le due tecniche hanno una diversa sensibilità (la Real-Time PCR è di gran lunga più sensibile), i valori di “fold-change” ottenuti possono essere diversi ma, perché il dato sia confermato, il trend di espressione ottenuto mediante microarray e Real-Time PCR deve essere lo stesso.

Figura

Fig 1.1: Direzione del flusso delle informazioni genetiche
Fig. 1.2: Meccanismo di ibridizzazione degli acidi nucleici
Fig. 1.3: Schema di un esperimento “two-color”
Fig. 1.4: Testina di stampa di un robot per spotting di microarray
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