CAPITOLO II
Vulcanismo Vesuviano‐Flegreo 2.1 ‐ Il vulcanismo campano
Allʹinterno della Piana Campana vi sono aree in cui è presente un vulcanismo attivo: il complesso del Somma‐Vesuvio, i Campi Flegrei, lʹisola di Procida e lʹisola dʹIschia. Sebbene queste aree si differenzino nettamente per motivi vulcanologici, petrologici e strutturali, tutte fanno parte della Provincia Magmatica Romana.
Lungo la zona di cerniera tra la catena appenninica ed il margine orientale tirrenico si possono individuare tre province magmatiche diverse, per le caratteristiche geologiche, vulcanologiche e per quelle petrologiche e geochimiche; tutte sono collegabili al magmatismo plio‐ quaternario che ha interessato il margine occidentale appenninico. (Washington H.S., 1906; Appleton J.D., 1972; Civetta L. et al., 1978; Ferrara G. & Tonarini S., 1985; Fornaseri M., 1985a; Giraud A. et al., 1986)
Il magmatismo plio‐quaternario comprende:
• La Provincia Toscana, che comprende corpi ignei prevalentemente intrusivi di tipo acido (granorioliti, rioliti, ecc.), affioranti in Toscana meridionale, nellʹarcipelago toscano e nel Lazio settentrionale. La loro età è compresa tra 7.6 e 2.3 Ma (Ferrara G. & Tonarini S., 1985), ed è comunemente accettata una loro origine per anatessi crostale (Civetta L. et al., 1978; Giraud
A. et al., 1986). Queste intrusioni rappresenterebbero i prodotti più antichi del vulcanismo plio‐quaternario.
• La Provincia Tosco‐Laziale, invece, comprende rocce ignee effusive con caratteristiche petrografiche e geochimiche intermedie tra quelle di chiara origine anatettica e quelle di origine profonda, caratteristiche della Provincia Magmatica Romana. Per queste rocce sono state ricavate delle età comprese tra 1.5 e 0.3 Ma (Ferrara G. & Tonarini S.,1985; Fornaseri M., 1985a). I centri eruttivi che hanno generato questi prodotti si riconoscono nei Monti Cimini e nel Monte Amiata. Altri centri eruttivi come San Venanzo, Cupaello, Colle Fabbri, che secondo H.S. Washington (1906) facevano parte del distretto dei Vulsini, fanno parte, secondo altri Autori, ad un presunto ʺdistretto carbonatitico umbroʺ.
• La Provincia Magmatica Romana storicamente comprende una serie di centri vulcanici, da nord a sud, abbiamo: i Vulsini, i Cimini, i Colli Albani, gli Ernici, Roccamonfina, i Campi flegrei, lʹisola dʹIschia, il Complesso Somma‐Vesuvio ed il Vulture. Questi centri eruttivi formano una fascia di 6000 Km² di estensione che parte da sud di Firenze, attraversa il Lazio e giunge nellʹarea campano‐lucana. Quasi tutti i centri vulcanici hanno unʹetà plio‐pleistocenica e si sono formati sul versante occidentale della catena, nelle zone di intersezione tra i lineamenti tettonici con andamento appenninico e quelli con
andamento antiappenninico. Lʹunico centro situato nella parte orientale della catena è il Vulture. In base a parametri mineralogici e chimici, Appleton J.D. (1972) rilevò una distinzione tra i prodotti del vulcano di Roccamonfina, dividendoli in due gruppi: la serie ʺbassa in potassioʺ (LKS) e la serie ʺalta in potassioʺ (HKS). Queste distinzioni sono state poi riconosciute anche per quasi tutti gli altri centri della PMR. Dal punto di vista petrografico questa provincia è rappresentata per lo più da lave a leucite, passando da basaniti a leucite e leucititi a fonoliti a leucite, e da termini ricchi in potassio iperstene e quarzo‐normativi (basalti ad olivina, trachibasalti e latiti). Questi litotipi sono più diffusi nel Lazio meridionale ed in Campania (Appleton J.D., 1972).
2.2 ‐ Il Complesso vulcanico del Somma‐Vesuvio
Il complesso sistema di fratture a carattere distensivo, con andamento appenninico ed antiappenninico, che ha interessato, a partire dal Pliocene, il versante occidentale dellʹAppennino, frammentandolo e ribassandolo, ha certamente favorito la risalita di materiale fuso dal mantello. Ne è un classico esempio il Complesso vulcanico del Somma‐ Vesuvio. Esso si imposta proprio su un punto di intersezione tra questi due sistemi di faglie, elevandosi nella parte sud‐occidentale della Piana Campana, al limite tra la piana Napoletana e la piana del Sarno (Finetti I. & Morelli C., 1974).
Il complesso del Somma‐Vesuvio è costituito da due edifici vulcanici concentrici che si sono formati in tempi diversi.
Il Somma, che ha un diametro maggiore dellʹattuale Vesuvio, forma una cornice semicircolare nella parte nord‐orientale del più giovane edificio vulcanico. Esso è la testimonianza del vecchio edificio che, in seguito ad un processo di calderizzazione, sprofondò sul suo versante sud‐occidentale, e sul quale, dopo una complessa storia evolutiva, si accrebbe successivamente al 1631 lʹodierno Vesuvio.
Lʹintero complesso poggia su di un substrato carbonatico mesozoico‐ terziario di notevole spessore, come si evince dal pozzo profondo eseguito nella zona di Trecase. (Santacroce R., 1987). In alcune zone, inoltre, è stata rinvenuta una copertura di rocce clastiche formatasi durante la fase tettogenetica mio‐pliocenica (Ippolito F. et al., 1973a).
Lʹinizio dellʹattività vulcanica del complesso Somma‐Vesuvio non è ben determinabile. Campioni di lava prelevati dalla perforazione Trecase1, sul versante meridionale del Vesuvio, hanno fornito unʹetà di 30 Ka (Bernasconi A. et al., 1981). Dallo studio paleontologico effettuato su siltiti intercalate a materiale vulcanico, prelevate dallo stesso pozzo (Trecase1), si è potuto stabilire lʹesistenza di unʹattività vulcanica già dal Pleistocene medio, cioè 1 Ma fa (Bernasconi A. et al., 1981). Le lave più antiche affioranti, secondo datazioni eseguite con il metodo K/Ar, hanno unʹetà di circa 21000 anni (Cassignol C & Gillot P.Y., 1982). I prodotti più antichi attribuiti al Somma sono quelli legati allʹeruzione di Codola. Si tratta di pomici da caduta, affioranti nelle zone più distali del vulcano e datate, con metodi radiometrici, 25 Ka b.p. (Alessio M et al., 1974). Dal punto di vista petrologico, i prodotti del Somma‐Vesuvio possono essere distinti in due gruppi: uno trachitico ed uno leucitico. Il carattere petrochimico dei prodotti è di tipo sottosaturo ultrapotassico, testimoniato dalla presenza di basaniti e tefriti leucitiche a tendenza leucitica (Di Girolamo P. & Rolandi G., 1975). Tali prodotti leucitici sono da considerarsi primari, e relativi ad una sorgente di mantello arricchita in elementi incompatibili (Beccaluva L. et al., 1984a; Beccaluva L. et al., 1991; Cox K.G. et al., 1976).
Pressioni variabili dei volatili (CO₂ rispetto ad H₂O) nel mantello (Eggle D.H. & Holloway J.R., 1977) ha, probabilmente, conferito ai
magmi basici del Somma‐Vesuvio unʹampia variabilità in termini di sottosaturazione e di rapporti isotopici (Cortini M. & Hermes O.D., 1981).
Da non trascurare, inoltre, la presenza sistematica di proietti associati ai depositi piroclastici (Barberi F. et al., 1980; Hermes O.D., 1978). Si tratta di xenoliti di varia natura, i cui protoliti erano sia rocce sedimentarie, come carbonati e marne del basamento incassante il magma, sia rocce plutoniche di bassa profondità che cumuliti.
Dal punto di vista vulcanologico, il Somma‐Vesuvio è classificabile come uno strato‐vulcano. La sua attività, infatti, ha visto alternarsi fasi esplosive a fasi di effusive.
In base ad indagini stratigrafiche e a datazioni radiometriche, si è potuto suddividere lʹattività magmatica in tre cicli eruttivi (Civetta L. & Santacroce R., 1992):
• I ciclo (25000 y.b.p. ‐ 11500 y.b.p.)
Durante questo primo ciclo lʹattività vulcanica è caratterizzata da 3 o 4 eruzioni pliniane, alternate a lunghi periodi di inattività ed ad eventi esplosivi ed emissioni effusive di minore entità. A questo ciclo appartengono le lave leggermente sovrassature, che vanno da K‐basalti a K‐latiti, e le piroclastiti che vanno da K‐latiti a K‐trachiti. • II ciclo (7900 y.b.p. ‐ 79 d.C.) Si susseguono tre eruzioni pliniane, numerose eruzioni subpliniane ed altre eruzioni meno esplosive. I loro prodotti hanno una composizione variabile tra tefriti e fonoliti.
• III ciclo (472 d.C. ‐ 1631 A.D.)
Anche in questo ciclo la composizione del magma varia tra tefritica e fonolitica. In questo terzo ciclo si hanno due eruzioni subpliniane (Rosi M. & Santacroce R., 1984; Rosi M. et al., 1986). A questo periodo sono associate anche eruzioni effusive ed esplosive durante una lunga fase di attività stromboliana (1631‐1944); (Arnò V. et al., 1987).
In tutti e tre i cicli, gli eventi di tipo pliniano hanno caratterizzato lʹinizio di una fase eruttiva, che ha proseguito, per un periodo di tempo più o meno lungo, con unʹattività di tipo stromboliano ed effusivo. La fine del ciclo è segnata da un periodo di quiescenza molto lungo, dellʹordine di secoli.
Allʹinterno di questi tre cicli è possibile definire 8 fasi eruttive, riconoscibili in base a correlazioni stratigrafiche e con lʹausilio di datazioni assolute effettuate con il metodo radio‐carbonio (Civetta L. & Santacroce R., 1992). Le 8 eruzioni pliniane possono essere, a loro volta, distinte in eruzioni pre‐caldera e post‐caldera: • eruzioni pre‐caldera: eruzione pliniana di Codola (25000 y.b.p.) eruzione pliniana di Sarno (22000 y.b.p) • eruzioni post‐caldera: eruzione pliniana Basale (17000 y.b.p.) eruzione pliniana Verdoline (o pomici verdi; 15000 y.b.p.) eruzione pliniana Lagno Amendolare (11000 y. b.p.) eruzione pliniana Mercato (8000 y.b.p.)
eruzione pliniana di Avellino (3800 y. b.p.) eruzione pliniana di Pompei (79 d.C.), vi sono poi lʹeruzione pliniana di Pollena (472 d.C.), lʹeruzione del 1631, quella del 1906 e quella del 1944 (Lirer L. et al., 1973). Lʹeruzione del 79 d.C. è una delle meglio documentate. La sua sezione tipo si trova presso gli scavi di Oplonti. Si notano subito le alternanze di depositi da surge con quelli da caduta, con un caratteristico aumento della percentuale dei litici ed una diminuzione delle pomici dal basso verso lʹalto. La differente colorazione delle pomici viene spiegata con una variazione nella composizione chimica del magma eruttato (Lirer L. et al., 1973). Varie teorie sono state proposte per spiegare questo tipo di deposito. Alcuni Autori attribuiscono la loro formazione ad unʹattività di ʺbase surgeʺ (Sheridan M.F. et al., 1983), altri attribuiscono la loro origine a piccoli collassi della colonna eruttiva (Sigurdsson H. et al., 1985).
Lʹultimo grande evento esplosivo nella storia recente del Somma‐ Vesuvio è certamente lʹeruzione del 1631. Si tratta di un evento a carattere subpliniano con emissione di pyroclastic flows che ricoprono interamente i settori meridionali del vulcano (Arnò V. et al., 1987). Dopo tale eruzione, il Vesuvio fu caratterizzato da un periodo di attività a condotto aperto e, da allora, non si sono più verificate eruzioni di tipo pliniano.
Lʹeruzione del 1906 ha una rilevante importanza petrochimica ed isotopica. Per i suoi prodotti, infatti, è stata ipotizzata la presenza di
una camera magmatica zonata, con tre distinti magmi: A, B e CDE (Santacroce R. et al., 1993). I magmi A e B vengono emessi uno dopo lʹaltro tramite eruzioni esplosive; il magma CDE, invece, viene eruttato successivamente con un flusso lavico e rappresenta il 90% del totale. È bene notare che il grado di esplosività delle eruzioni post‐caldera sembra aumentare nel tempo (Rolandi G. et al., 1993 b‐c), passando dallʹeruzione subpliniana di Ottaviano (8000 y.b.p.) a quella freatomagmatica di Avellino (3800 y. b.p.). Gli Autori, per spiegare questa tendenza, ipotizzano un collegamento tra eustatismo e tipologia di eruzione. In questʹarco di tempo, infatti, si ha il completamento della trasgressione Versiliana. La risalita eustatica del livello marino influisce sulla profondità della falda, favorendo lʹinterazione tra acqua e magma, nonostante sembri che le camere magmatiche siano localizzate a diverse profondità.
2.3 – I Campi Flegrei
Con il nome Campi Flegrei si indica attualmente lʹampia zona vulcanica posta a Nord‐Ovest della città di Napoli. Questʹarea presenta la forma tipica delle strutture vulcaniche chiamate caldere e consiste in una depressione quasi circolare punteggiata da numerosi coni vulcanici. I prodotti più antichi affiorano nel perimetro pericalderico e consistono nei duomi di lava di Cuma e Punta della Marmolite, Monte di Procida e della zona urbana di Napoli. Le perforazioni effettuate per lo scavo di pozzi geotermici hanno evidenziato in profondità la presenza di altri prodotti derivanti da una precedente attività sub‐ aerea e sottomarina.
Figura 1: Immagine SAR (Synthetic Aperture Radar) dei Campi Flegrei con evidenti i relitti di diversi apparati vulcanici (da Avallone A. et al., 1999).
La morfologia dellʹarea e lo sviluppo della sua attività eruttiva sono state condizionate da due grandi eruzioni avvenute intorno a 35000 e 14500 anni fa. Queste eruzioni hanno lasciato vasti depositi chiamati, rispettivamente, Ignimbrite Campana e Tufo Giallo Napoletano . Parti del margine strutturale di ciascuna delle caldere risultano dalla attivazione parziale di faglie regionali preesistenti. La caldera più recente si è formata nel settore sud occidentale e comprende parte dei Campi Flegrei e della Baia di Pozzuoli.
2.3.1 – La Caldera di Campi Flegrei
La Caldera dei Campi Flegrei è la struttura più vasta del distretto Vulcanico Flegreo, il quale comprende la depressione dei Campi Flegrei in senso stretto, la città di Napoli, le isole vulcaniche di Procida ed Ischia e la parte nord occidentale del Golfo di Napoli.
Sulla base degli eventi vulcanici e deformativi principali l’attività vulcanica della Caldera dei Campi Flegrei è stata suddivisa da Orsi et al. (1996) in tre periodi principali:
• Periodo I comprendente sia le vulcaniti più vecchie dell’Ignimbrite Campana che la stessa Ignimbrite Campana. • Periodo II comprendente le vulcaniti tra l’Ignimbrite Campana
ed il Tufo Giallo Napoletano e lo stesso deposito del Tufo Giallo Napoletano.
• Periodo III comprendente tutte le vulcaniti più giovani del Tufo Giallo Napoletano.
Figura 2 ‐ Caldera dell’Ignimbrite Campana (Orsi et al 1998).
• 1° ciclo attività pre-caldera: ⇒
L’età di inizio del vulcanismo del Periodo I non è facilmente determinabile infatti, i prodotti vulcanici più antichi affiorano lungo la falesia e le scarpate che delimitano l’alto morfologico di Monte di Procida, lungo le pareti che delimitano la collina di Cuma e lungo le scarpate che bordano a Nord le piane di Quarto e Soccavo che comprendono i duomi lavici di Punta Marmolite (47 Ka) e di Cuma (37 ka) (Cassignol e Gillot, 1982), i depositi piroclastici dei Tufi di Torre Franco ( > 42 Ka) ( Alessio et al., 1973) ed i coni di tufi relitti di Monte Grillo.
In una cava ubicata lungo il versante che delimita a nord est la piana di Quarto, in località Trefola, sono ben visibili i depositi piroclastici, intercalati a paleosuoli, di diverse eruzioni.
Depositi piroclastici alla stessa altezza sono stati incontrati in perforazione a Poggioreale, Capodimonte, Ponte Rossi, Chiaiano e Secondigliano.
La perforazione eseguita a Ponte Rossi (Fig. 3) ha attraversato i depositi di almeno dieci eruzioni più antiche dell’Ignimbrite Campana separate da paleosuoli (Pappalardo et al., 2002). Evidenze vulcanologiche indicano che i centri di alcuni dei depositi elencati erano localizzati all’esterno della caldera dei Campi Flegrei.
Figura 3 – Carta geologica dell’area napoletano flegrea (Orsi et al., 1996).
• 2° ciclo Ignimbrite Campana: ⇒
LʹIgnimbrite Campana è formata dal deposito di un flusso piroclastico di cenere, pomici e scorie che hanno ricoperto unʹarea di 30.000 km2. Il volume di magma emesso è stato stimato dellʹordine di 150 km3. L’eruzione fu molto complessa e generò un deposito di caduta, disperso verso SE, e flussi piroclastici che raggiunsero distanze elevate, attraversando la Baia di Napoli fino alla Penisola Sorrentina.
Le datazioni attualmente disponibili, effettuate sia su paleosuoli sottostanti il deposito sia su legni carbonizzati inglobati in esso, danno età discordanti che hanno contribuito a far nascere differenti pareri sulla possibilità che i prodotti siano stati emessi durante una o più eruzioni.
LʹIgnimbrite Campana affiora lungo i bordi di tutta la piana campana, con spessori variabili da 20 a 60 metri e si trova fino in Appennino a quote di 1.000 m. Manca nella parte centrale della piana, sia per erosione, sia perché ricoperta dai prodotti dellʹattività successiva di Campi Flegrei e Vesuvio e da terreni alluvionali.
Rosi et al (1983) e Rosi e Sbrana (1987) comprendono nellʹIgnimbrite Campana anche i depositi chiamati Piperno e alcune brecce dette Breccia Museo presenti nei Campi Flegrei. Il flusso piroclastico avrebbe abbandonato questo materiale grossolano e pesante nelle zone vicino al punto di emissione. Al contrario, Lirer et al (1991) e Perrotta et al (1993) riconoscono in queste brecce il deposito di eruzioni posteriori.
I prodotti dellʹIgnimbrite Campana consistono prevalentemente in pomici e scorie nere, più o meno schiacciate, deformate e inglobate in una matrice di cenere e subordinate quantità di litici e cristalli.
In alcuni affioramenti si osservano fratturazioni colonnari e strutture di degassazione (pipes fumaroliche).
Di Girolamo (1968) e Barberi et al (1978) ritengono che si tratti del deposito di una sola eruzione, anche se i prodotti presentano differenze marcate da una zona allʹaltra, come la variazione da depositi di colore grigio poco saldati a depositi gialli più saldati. Un più alto grado di litificazione è collegato a processi di alterazione secondari, frequenti nei depositi ignimbritici, detti zeolitizzazione (Di Girolamo, 1968). Lo stesso Di Girolamo (1968), riconosce nel deposito anche graduali variazioni in senso verticale: la parte inferiore è costituita da una matrice cineritica saldata inglobante scorie scure schiacciate e isorientate, mentre nella parte superiore le scorie tendono ad essere meno deformate e disperse senza orientazione preferenziale nella matrice.
Nei settori orientali della Piana Campana e dellʹAppennino si trova, alla base dellʹIgnimbrite Campana, uno strato di pomici da caduta. Questo significa che, prima della formazione del flusso piroclastico, lʹeruzione ha avuto una fase pliniana.
LʹIgnimbrite Campana è studiata dai vulcanologi da oltre due secoli e il numero di opinioni sulla sua genesi sembra proporzionato alle dimensioni dellʹeruzione.
Alcuni autori (Di Girolamo, 1970; Barberi et al, 1978; Di Girolamo et al., 1984) ipotizzano che la zona di emissione del flusso sia una frattura arcuata presente lungo la parte Nord dei Campi Flegrei e del Golfo di Napoli e ritengono che lʹeruzione abbia provocato lo sprofondamento di unʹampia area che comprende i Campi Flegrei e parte del Golfo di Napoli.
Secondo altri (Rosi e Sbrana, 1987), la frattura avrebbe una geometria anulare intorno ai soli Campi Flegrei e, dopo lʹeruzione, si sarebbe formata la caldera flegrea. Lirer et al. (1987) e Scandone R. et al. (1991), ritengono che lo sprofondamento calderico sia avvenuto in seguito, dopo lʹeruzione del Tufo Giallo Napoletano e collocano i centri eruttivi dellʹIgnimbrite Campana lungo una frattura con direzione NE‐SO passante per Napoli e delimitante, a Nord, la piana di Acerra (Scandone et al., 1991).
• 3° ciclo ⇒ Tufo Giallo Napoletano:
Le rocce eruttate nel Periodo II, compreso tra l’eruzione dell’Ignimbrite Campana e quella del Tufo Giallo Napoletano, sono esposte lungo il bordo della Caldera dell’Ignimbrite Campana, all’interno della città di Napoli e lungo i versanti nord occidentali della collina di Posillipo. La maggior parte delle rocce esposte rappresenta il prodotto di eruzioni esplosive a carattere freatomagmatico.
Le caratteristiche sedimentologiche e morfologiche delle rocce esposte indicano che i centri eruttivi erano ubicati all’interno e lungo il bordo
della caldera dell’Ignimbrite Campana. Centri eruttivi di questo periodo sono riconosciuti a Torregaveta, Monticelli, nelle parti nord occidentali e sud occidentali della collina di Posillipo. Posso rientrare in questo periodo anche il banco sommerso di Miseno che si ritrovano nella Baia di Pozzuoli.
Lʹeruzione del Tufo Giallo Napoletano (TGN), la seconda per importanza nellʹarea campana, è stata caratterizzata da una storia eruttiva complessa, assumendo carattere variabile da freatopliniano a freatomagmatico, in funzione della variabile efficienza dellʹinterazione acqua/magma (Orsi et al., 1991 a, 1992; Wohletz et al., 1995). Rappresenta un vasto deposito di un flusso piroclastico che ha modellato la morfologia della zona occidentale di Napoli, ad esempio la collina di Posillipo.
La dinamica eruttiva è stata inoltre notevolmente condizionata dal verificarsi di un collasso calderico sin‐eruttivo. Nel corso dellʹeruzione furono emessi, da un centro ubicato nei Campi Flegrei, 40 km³ di magma a composizione da alcalitrachitica a latitica che ricoprirono unʹarea di circa 1.000 km². I depositi connessi con lʹeruzione del TGN si rinvengono nellʹarea napoletano‐flegrea e nella Piana Campana fino ai rilievi dellʹAppennino. Sebbene il centro eruttivo fosse ubicato nei Campi Flegrei, gli affioramenti più vicini al centro si rinvengono solo ad una distanza di alcuni km da quest’ultimo. Anche nel Golfo di Napoli si rinvengono depositi, attualmente sommersi, attribuibili al TGN.
Orsi e Scarpati (1989) ed Orsi et al. (1991 a, 1992), sulla base delle caratteristiche stratigrafiche, sedimentologiche e composizionali del TGN, hanno dedotto che nel corso dellʹeruzione incominciò a verificarsi un collasso calderico. Questa ipotesi fu in seguito sostenuta anche da Scarpati et al. (1993), da Orsi et al (1996) e da Wohletz et al. (1995). Sebbene il verificarsi di un collasso calderico sia comprovato dalle stesse caratteristiche sedimentologiche e chimiche del TGN, il bordo della caldera non è visibile in affioramento. La sola evidenza morfologica, visibile nella parte continentale della caldera, è data dal versante occidentale ad alto angolo della collina di Posillipo, che probabilmente, rappresenta lʹevoluzione morfologica di una scarpata di faglia prodottasi durante il collasso calderico. La maggior parte del bordo calderico può essere ricostruita sulla base di evidenze di carattere geofisico, essenzialmente dati gravimetrici e magnetici, sulla base della distribuzione dei centri eruttivi più recenti del TGN, sulla base dellʹandamento di superfici di abrasione marina di età nota nella parte sommersa dei Campi Flegrei (Pescatore et al., 1984), e sulla base delle interpretazioni di perforazioni superficiali e profonde.
Tutti i centri eruttivi di età inferiore a 15 ka sono ubicati allʹinterno dellʹarea calderica così individuata. Lʹallineamento di centri eruttivi tra Averno e Capo Miseno può essere considerato come unʹevidenza del fatto che il margine occidentale della caldera segue una struttura ad andamento N‐S, probabilmente legata ad un sistema regionale di faglie. La depressione della baia di Pozzuoli è delimitata verso sud
dagli alti morfologici del banco di Pentapalummo e del banco di Miseno; lʹetà di questi due banchi è compresa tra 39 e 18‐14 ka ed i loro depositi sono spianati dalla superficie di abrasione marina del Würm, che viene bruscamente interrotta e ribassata a nord del banco di Pentapalummo. Le scarpate tagliate nei depositi del banco di Pentapalummo sono ricoperte in discordanza da depositi che ne hanno variato la geometria originaria ed hanno parzialmente colmato la baia di Pozzuoli. Lʹetà delle scarpate che delimitano a sud la baia di Pozzuoli, quindi, sarebbe compatibile con quella del TGN e pertanto esse si sarebbero formate, con ogni probabilità, a seguito del collasso calderico, così come lʹintera depressione della baia di Pozzuoli.
Lʹinsieme dei dati provenienti dallo studio delle perforazioni, inoltre, dimostra che il collasso calderico si è realizzato attraverso lʹattivazione di faglie (sia preesistenti che prodottesi ex novo), che hanno sbloccato il fondo della caldera, dislocando una serie di blocchi in maniera differenziale.
Alfred Rittmann (1950) riteneva che tutti i depositi di Tufo Giallo affioranti nei Campi Flegrei e nella città di Napoli fossero il risultato di differenti eruzioni.
Più recentemente, Rosi et al (1983), e Rosi e Sbrana (1987) concordano con Rittmann, mentre altri autori (Lirer e Munno, 1975 e Di Girolamo et al, 1984) ritengono che almeno i depositi di Tufo Giallo che si trovano vicini al bordo dei Campi Flegrei, allʹinterno e allʹesterno della
depressione, siano stati emessi da unʹunica eruzione, cui sarebbe anche legato il collasso dellʹarea (Lirer et al, 1987). Figura 4 ‐ Caldera del Tufo Giallo Napoletano. • 4° ciclo ⇒ post‐Tufo Giallo Napoletano:
Questo ciclo comprende lʹattività dei Campi Flegrei dopo la messa in posto del Tufo Giallo Napoletano, fino in epoca storica, cioè da 12000 anni fa fino allʹeruzione di Monte Nuovo nel 1538.
M.A. Di Vito et al. (1999) e M. DʹAntonio et al. (1999) suddividono questo periodo in tre epoche di intensa attività vulcanica alternati a due momenti di quiescenza. Allʹinterno di questo lasso di tempo sono distinguibili 75 eruzioni, originatesi da centri localizzati sia allʹinterno che sui bordi della caldera più giovane, i cui prodotti si alternano a paleosuoli ed a sedimenti fluvio‐palustri e marini (figura 4).
Durante la prima epoca (12 Ka ‐ 9.5 Ka) i centri eruttivi si sviluppano lungo il bordo della caldera del Tufo Giallo Napoletano, con unʹattività prevalentemente subacquea. La forte interazione acqua‐magma provoca unʹattività freatomagmatica, con eruzioni esplosive che generano strutture tipo ʺtuff ringsʺ e ʺtuff conesʺ. In questo periodo sono avvenute ben 34 eruzioni, di cui la più antica, datata 11.1 Ka, corrisponde a quella del vulcano La Pigna1.
La seconda epoca (8.6 Ka ‐ 8.2 Ka) è caratterizzata da 6 eruzioni, i cui centri sono posti lungo il bordo nord‐orientale della caldera, esclusa la prima eruzione di questo periodo, attribuita al vulcano di Fondi di Baia (8.6 Ka).
Alla terza epoca (4.8 Ka ‐ 3.8 Ka) sono attribuite 20 eruzioni, di cui sedici a carattere esplosivo e quattro a carattere effusivo. Anche in questo caso i centri eruttivi si situano principalmente lungo il margine nord‐orientale della caldera, interessata da un regime distensivo.
In seguito a questʹultima attività vulcanica, allʹinterno della caldera e lungo i suoi margini si formano dei livelli di tephra ben stratificati e di notevole spessore. Si tratta per lo più di livelli di pomici da caduta che
presentano caratteristiche ben definite e diffusione areale piuttosto ampia (Rosi M. & Sbrana A., 1987). Essi vengono utilizzati come orizzonti guida per ricostruzioni e correlazioni stratigrafiche nellʹarea dei Campi Flegrei.
Le tre epoche sono intervallate da due paleosuoli, il paleosuolo ʺAʺ, datato 9.5 Ka ‐ 8.6 Ka, e il paleosuolo ʺBʺ, datato 8.2 Ka ‐ 4.8 Ka. Essi testimoniano le fasi di quiescenza intercorse tra le tre epoche (Di Vito M.A. et al., 1999; DʹAntonio M. et al., 1999). Il paleosuolo ʺAʺ è delimitato al letto dai prodotti del vulcano Pisani 3 (I Epoca) e al tetto da quelli del vulcano di Fondi di Baia (II Epoca); il paleosuolo ʺBʺ poggia sui prodotti del vulcano di San Martino (II Epoca) e presenta al top i prodotti della formazione di Agnano 1 (III Epoca) (figura 4).
Dopo lʹeruzione di Senga (3.7 Ka), i Campi Flegrei attraversano un periodo di relativa tranquillità, durato almeno 3000 anni, durante il quale lʹarea subisce una lenta e continua subsidenza. Non esistono, infatti, testimonianze di altre eruzioni fino a quella di Monte Nuovo nel 1538.
Dopo lʹeruzione del 1538 la generale tendenza alla subsidenza viene nuovamente invertita nel 1970 e tra il 1982 ed il 1984, quando si verificano forti fenomeni di sollevamento accompagnati da unʹintensa attività sismica (Barberi F. et al., 1984).
Parte integrante del distretto vulcanico dei Campi Flegrei sono le isole di Procida e di Vivara.
Esse, ubicate in posizione intermedia fra le caldere attive di Ischia e dei Campi Flegrei, sono formate da un accumulo di prodotti provenienti da eruzioni locali e di prodotti piroclastici da ricaduta e da flusso provenienti da complessi vulcanici limitrofi (Rosi M. & Sbrana A., 1987). Lʹultima eruzione avvenuta in questʹarea è quella di Solchiaro, 0.019 Ma (Rosi M. et al., 1988), con un attività esplosiva freatomagmatica in ambiente di mare basso, analogamente a quelle più antiche di Vivara, Pozzo Vecchio e Terra Murata.
Campi Flegrei negli ultimi 12000 anni (da Di Vito M. et al., 1998)
Figura 5 ‐ Cronostratigrafia degli eventi vulcanici e deformazionali dalla caldera dei Campi Flegrei negli ultimi 12000 anni (da Di Vito M. et al., 1998).