UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA
OBIEZIONE DI COSCIENZA O ARBITRIO DELLA COSCIENZA?
Relatore: Chiar.mo Prof. ANTONIO DA RE
Laureando: CARRARO MONICA Nr. Matr. 584328 - FL
INDICE
Introduzione p. 3 CAP. I Il concetto di obiezione p. 5
1.1 Etimologia del termine “obiezione” p. 5
Introduzione
L’interesse verso il tema dell’obiezione di coscienza è nato dalla mia scelta di prestare servizio civile. L’intento iniziale era quello di comporre una tesi di tipo antropologico, fornendo anche dati numerici e presentando storie vere di “casi” da me seguiti nell’attività svolta con i servizi sociali; successivamente, però, la mia riflessione mi ha condotta ad interrogarmi sul significato dell’attività che sto svolgendo e sulle basi teoriche su cui poggia l’istituzione di questo servizio. Durante i corsi formativi a cui ho partecipato, ho avuto la possibilità di conoscere meglio i fondamenti giuridici e morali del servizio civile e mi sono stati spiegati alcuni punti fondamentali della Carta Etica del volontario, che vanno obbligatoriamente mantenuti affinché non se ne perda proprio la base morale. Consapevole del fatto che l’attività che svolgo non è più classificata come obiezione di coscienza, nonostante il servizio civile tragga le sue origini storiche proprio da quest’ultima, il mio intento è stato quello di coniugare ciò che studio, la filosofia, che spesso appare troppo vincolata all’astratto, con ciò che faccio concretamente, ovvero occuparmi di persone.
I - IL CONCETTO DI OBIEZIONE 1.1 - Etimologia del termine “obiezione”
Il termine italiano “obiezione” deriva dal verbo latino obiicere e significa opporre un’idea, un argomento alle asserzioni di un avversario con il quale si sia in discussione1.
Obiicere, intensivo di obiectare, è composto da ob e iacio, che significa gettare, lanciare, da
cui gettare avanti, opporre. La complessità della parola ‘obiezione’ deriva dai molteplici significati della preposizione ob. Recuperando l’originario senso locale, il verbo ‘obiettare’ può assumere il significato di ‘offrire alla considerazione di, porre davanti a qualcuno qualcosa che ha una sua oggettiva consistenza’.
L’obiezione è un concetto usato in campo filosofico, teologico, politico e processuale come attestazione di un fatto, di un principio, di un’idea, di un diritto o di un dovere, volta ad affermare o rivendicare un diritto davanti ad un corrispettivo dovere affermato da altri2.
1.2 – Il concetto di obiezione di coscienza
L’espressione “obiezione di coscienza” indica, sia nell’ambito dell’esperienza comune, sia in quello giuridico, socio-politico e filosofico, una decisione contrastante ed opposta ad un obbligo stabilito dal legislatore. Il soggetto, di fronte all’obbligo di tenere un certo comportamento, conforme a determinate disposizioni legislative, risponde: “in coscienza, non posso”3.
L’esempio più comunemente conosciuto di obiezione è quello riferito al servizio militare, ed è questo che possiamo utilizzare come paradigma concettuale, poiché permette di esplicitare i nodi problematici di qualsiasi tipo di obiezione. Nata da un imperativo morale, cui l’uomo si rifà, basando il proprio diritto su convinzioni filosofico-umanitarie, o su convincimenti religiosi o morali, l’obiezione di coscienza si ricollega ai principi fondamentali di libertà enunciati dall’articolo 18 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, votata dall’ONU il 10 settembre 1948, in cui si legge: “Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare di religione o di credo, e la libertà di manifestare,
1 B.Montanari, voce obiezione, in Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006, p. 8007.
2 S.Violi, Normatività e coscienza. Contributo allo studio sulle obiezioni di coscienza nell’esperienza giuridica
occidentale, Giappichelli, Torino, p.98.
isolatamente o in comune, e sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti”4.
L’articolo 52 della Costituzione italiana, entrata in vigore nel 1948, stabilisce che “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge”, senza prevedere alcuna possibilità di obiezione5.
Ad oggi, l’obiezione di coscienza in Italia è regolata dalla legge n.772 del 15 dicembre 1972: “Gli obbligati alla leva che dichiarino di essere contrari in ogni circostanza all’uso personale delle armi per imprescindibili motivi di coscienza, possono essere ammessi a soddisfare l’obbligo del servizio militare. I motivi di coscienza addotti debbono essere attinenti ad una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati dal soggetto”6. Non potevano beneficiare di tale normativa coloro che al momento della domanda risultassero titolari di licenze o autorizzazioni relative ad armi o fossero stati condannati per detenzione o porto abusivo di armi. Coloro che venivano ammessi ai benefici della legge n.772 dovevano prestare servizio militare non armato oppure servizio sostitutivo civile per un tempo superiore di otto mesi rispetto alla durata del servizio di leva cui sarebbero stati tenuti. I giovani che non intendevano fruire della legge sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza e che intendevano sostituire al servizio militare un impegno di lavoro in Paesi in via di sviluppo avevano la possibilità di svolgere, in base alla legge n.1222 del 15 dicembre 1971, un servizio di “volontariato civile” per almeno due anni, con definitiva dispensa del servizio militare una volta espletato il servizio civile7.
L’obiezione di coscienza, in Italia, ha affrontato un difficile percorso prima di arrivare ad essere legittimata; l’art.1 della legge dell’8 luglio 1998, n. 230, enuncia questo principio: “I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione (omissis) opponendosi all’uso delle armi, non accettano l’arruolamento nelle Forze armate e nei Corpi armati dello Stato, possono adempiere gli obblighi di leva prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare, ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della Patria”8.
L’obiezione di coscienza può essere esaminata da due diverse angolazioni: l’una giuridica, l’altra etico-esistenziale. Dal punto di vista giuridico, il cittadino si richiama alla propria coscienza,
4 Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, art.18. 5 Costituzione italiana, art.52.
6 Art.1 legge del 15 dicembre 1972, n.772, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.326 del 18/12/1972.
7 M.Abbruia – P.Zveteremich, voce obiezione di coscienza, in Enciclopedia E12, Istituto geografico De Agostini,
Novara 1980, p.117, vol.9.
che oppone alla legge dell’ordinamento il rifiuto all’obbligo imposto, “non in base ad una volontà ‘deviante’, ma in forza di una motivazione di valore diversa da quella espressa dalla legge”9. Si crea, dunque, il contrasto fra due giurisdizioni distinte, quella dettata dall’ordinamento esterno, la
lex fori, e il ‘diritto altro’ imposto all’obiettore dalla sua propria coscienza: quest’ultima indirizzerà
la maniera di agire del soggetto in modo più vincolante rispetto alla legge positiva, trasformando così il “semplice” cittadino in un obiettore.
Importante, in quest’analisi dell’obiezione di coscienza, è la distinzione di questa da altre tipologie di opposizioni o inadempimenti alle leggi dell’ordinamento statale. Stefano Violi, nel suo libro Normatività e coscienza, classifica le diverse forme di contrasto all’imperativo della legge positiva in una scala che va dall’estremo dell’obbedienza consenziente, in cui lex fori e ‘diritto altro’ coincidono, all’estremo opposto della resistenza attiva e della rivoluzione; le categorie intermedie passano attraverso l’obbedienza formale, l’evasione occulta, l’obbedienza passiva, l’obiezione di coscienza, la disubbidienza civile e la resistenza passiva. Il diritto di resistenza non si richiama alla coscienza, ma poggia sulla negazione del comando impartito da un’autorità, indifferentemente che il comando sia di tipo legale o morale. La rivoluzione ha come scopo il superamento totale di un certo ordine e delle strutture ad esso associate; l’obiettivo è quello di trasformare o rovesciare l’intero sistema. Tra le categorie intermedie, la disobbedienza civile occupa un posto di rilievo; essa è quella che, a mio parere, maggiormente può essere assimilata all’obiezione di coscienza. La disobbedienza civile presuppone uno stato democratico e il riconoscimento e l’accettazione da parte dei cittadini della sua legittimità. Viene espressa con la deliberata e consapevole decisione, di un singolo o di un gruppo, di infrangere una norma ritenuta contrastante con i propri valori morali al fine di provocare una reazione della maggioranza dei cittadini ed una modifica dell’ordinamento mediante la testimonianza di accettazione delle conseguenti penali previste per la disobbedienza10. Anche l’obiezione di coscienza è caratterizzata dall’accettazione delle conseguenti penali all’inadempimento della legge statale. Concordo con ciò che è affermato nel testo di Navarro Valls e Martinez Torron: far risiedere la differenza fra obiezione di coscienza e disobbedienza civile “nelle motivazioni soggettive, nella reale applicazione delle sanzioni, o nel carattere collettivo o individuale del comportamento, ci porta a tracciare linee di demarcazione tra le due figure, che l’evoluzione storica e la realtà stessa dei fatti possono
progressivamente far sfumare”11. E così “nei settori in cui l’obiezione di coscienza e la disubbidienza civile sembrano strettamente connesse…potremmo differenziare due momenti di una medesima realtà”12, interpretando la disobbedienza civile come momento prevalentemente collettivo e l’obiezione di coscienza come fase individuale. L’obiezione di coscienza manifesta una determinazione soggettiva, che, per mutare l’obiezione in disobbedienza civile, si deve fare determinazione collettiva. Il passaggio dall’obiezione di coscienza alla disubbidienza civile è un percorso dall’ambito della scelta personale verso l’ambito giuridico: l’obiettore, considerando la sua una motivazione di valore, chiede che il suo comportamento diventi il comportamento di molti, quindi egli vuole che la regola alla quale sta opponendo il suo rifiuto, e a cui con tale rifiuto offre quindi un’alternativa, venga cambiata, proprio in virtù del valore della motivazione del rifiuto, radicata nella coscienza di cui vorrebbe fosse tenuto conto. L’obiezione non cerca di “rovesciare una situazione, quanto di superarla”, “di sostituire un ordine”13; Cattelain parla, in questi termini, dell’obiezione di coscienza; secondo me, invece, le sue parole si addicono maggiormente alla disobbedienza civile: l’obiettore, dice Cattelain, esige che l’ordinamento, di cui è parte, abbia “al tempo stesso un orizzonte e delle radici”14; con la propria testimonianza di coscienza egli pretende di porsi “da custode della verità (atemporale ed obiettiva)…come il creatore di una verità futura (storica e soggettiva), che è egli stesso, con la sua azione, a plasmare”15.
Dal punto di vista etico-esistenziale, il concetto di obiezione di coscienza può cambiare a seconda della prospettiva con cui decidiamo di interpretarlo. Secondo una visione che chiamo “classica”, il rifiuto di obbedire al comando della lex fori è un dovere, e non un diritto, fondato sulla legge, superiore all’imperativo positivo, della priorità del bene comune , il bene della pòlis, rispetto all’adempimento dell’ordine del governante. Una prospettiva che si può considerare più moderna, invece, sostituisce il dovere di obiettare con il diritto dell’obiettore: la motivazione che porta il soggetto ad opporre il proprio rifiuto ad una certa legge, cioè il giudizio di valore, è considerata come fondante un dovere in sè. Nella prima prospettiva, dunque, il dovere dell’obiettore nasce dalla
11 R.Navarro Valls-J.Martinez Torron, Le obiezioni di coscienza. Profili di diritto comparato, Torino 1995, pp.18-19, in
Violi, op.cit., p. 32.
12 Ibidem.
13 J.P.Cattelain, Obiezione di coscienza nella obiezione al servizio militare a allo Stato, a cura di A.Drago (trad.it.),
Milano 1976, pp.112-113, in R.Bertolino, L’obiezione di coscienza moderna, Giappichelli, Torino 1994, p. 60.
14 A.Clavel, Avortement et clause de conscience, in Iustitia XXXII, 1979, p.244, in Bertolino, L’obiezione di coscienza
moderna, p. 28.
15 F.D’Agostino, L’obiezione di coscienza nella prospettiva di una società democratica avanzata, cit., p.76, in
coscienza in quanto luogo di riconoscimento delle norme di condotta; al contrario, nel secondo approccio, la coscienza si fa manifestazione dell’autodeterminazione del soggetto. La prospettiva etico-esistenziale da cui stiamo guardando all’obiezione di coscienza non fa riferimento, né nell’una né nell’altra interpretazione, ad una volontà di modificare l’ordinamento: il carattere etico-esistenziale si esprime nel fondare l’obiezione di coscienza sull’imperativo “categorico” dell’amore e del rispetto verso chiunque in quanto persona.
1.3 – Che cos’è la coscienza?
Nell’Enciclopedia filosofica il lemma “coscienza” inizia con queste parole: “E’ la presenza della mente a se stessa nell’atto di apprendere e di giudicare e la conseguente ‘conosciuta unità’ di ciò che è ‘conosciuto’, ossia di ciò che è attualmente presente alla mente”16. La parola “coscienza” rimanda, nel linguaggio quotidiano, ad un significato morale, oppure viene riferita all’ambito conoscitivo (“avere coscienza di…”, “essere coscienti di…”). Scrive Cotta che, tra le lingue di origine europea, soltanto il tedesco possiede due termini distinti, Gewissen e Bewusstsein, per indicare il primo la coscienza morale, il secondo quella conoscitiva17. In ambito conoscitivo, la filosofia distingue tradizionalmente tra il “contenuto saputo” e l’ “azione del conoscere”, cioè l’atto con cui il soggetto afferra, “preso insieme”, il contenuto della coscienza. Nella filosofia presocratica non c’è mai distinzione tra l’oggetto della coscienza e l’azione dell’averne coscienza; troviamo tale distinzione in Platone, passando attraverso la “consapevolezza di sé” socratica. Nel Carmide si arriva alla conclusione che la saggezza è il “conoscere se stessi” e, attraverso un paradosso logico, ciò vuol dire avere coscienza sì di sé, ma anche della propria ignoranza, in altre parole “sapere di sapere” (ma anche “sapere di non sapere”). In ciò si prospetta il carattere riflesso del sapere cosciente, che già traspariva nel socratico “conosci te stesso”18. La prima concezione della coscienza come riflessione ed interiorità viene proposta da Plotino, in Enneadi I: “sembra che l’impressione sorga quando il pensiero si ripiega su se stesso, e quando l’essere attivo nella vita dell’anima è come rinviato in senso contrario, simile all’immagine in uno specchio, che sia liscio, brillante e immobile”19.
16 F.Pieri, voce coscienza, in Enciclopedia filosofica, Bompiani editore, Milano 2007, p.2318.
17 S.Cotta, Coscienza e obiezione di coscienza in B.Perrone [a cura di], Realtà e prospettive dell’obiezione di coscienza,
Giuffré, Atti del Seminario nazionale di studio, Milano, 9-11 aprile 1992, p. 210.
18 Ibidem.
Fondamentale, in filosofia, è il rapporto fra la coscienza e l’autocoscienza. Il concetto neoplatonico di ‘coscienza’ viene fatto proprio anche da Agostino e, per suo tramite, trapassa a tutto il pensiero cristiano. Lo scopo primario di Agostino era di scoprire la natura trinitaria di Dio; per questo analizza l’interiorità dell’uomo, che è ciò che di più simile a Dio si possa conoscere. Ritroviamo, dunque, la massima delfica del “conosci te stesso”: “Quando si dice allo spirito: ‘Conosci te stesso’, nello stesso istante in cui comprende le parole ‘te stesso’, esso si conosce, e questo per la sola ragione che è presente a se stesso”20. Il passo è importante giacché ci riporta alla struttura neoplatonica dell’anima come ‘essere, vivere, pensare’. Il conoscere se stessi, l’imperativo “conosci te stesso”, non aggiunge nulla alla natura dello spirito. Esso infatti è cosciente del fatto che questo comando è rivolto a sé, a sé che esiste, che vive, che comprende (sibi quae est et vivit, et
intellegit). Afferma Giuseppe Girgenti: «Agostino si serve della triade neoplatonica “essere, vivere,
pensare” e la applica in primo luogo all’io cosciente»21. Sempre Girgenti scrive che tra Vittorino, di
cui Agostino aveva letto le traduzioni in latino dei testi platonici, e Agostino c’è la stessa distanza che separa il concetto antico di anima dal concetto moderno di coscienza22.
Non si può non nominare, parlando di filosofia cristiana, il pensiero di Tommaso d’Aquino, per il quale la coscienza è un atto. Questo significato si ricava, per lui, dall’etimologia stessa del termine, che deriva da cum-scire (sapere-con), ovvero ‘sapere in vista di qualcos’altro’, l’applicazione di ciò che sappiamo alle cose che operiamo23. Egli non conosce l’uso moderno del termine “coscienza” nel senso di coscienza psicologica, coscienza riflessa o autocoscienza; quella che per noi oggi è la coscienza senza aggiunte, è per Tommaso la reflexio dello spirito su se stesso. La riflessione, che egli chiama reflexio, ma anche reditio (ritorno), o conversio (conversione), è la capacità dello spirito di ritornare in se stesso. Lo spirito è capace di prendere coscienza della propria esistenza, partendo dalla considerazione dei propri atti. Per Tommaso la ‘coscienza’ è la ‘coscienza morale’ e l’analisi della coscienza nell’ambito delle “potenze intellettive” serve soprattutto a stabilire i principi di una teoria della coscienza morale, senza trascurare però la coscienza come consapevolezza del mondo esterno o sé24.
20 Agostino, De Trinitate, 10, 9, 2, in Gabbi – Petruio [a cura di], Coscienza, Donzelli, Roma 2000.
21 G. Girgenti, Struttura dell’anima secondo Agostino e presupposti neoplatonici, in [a cura di] Gabbi – Petruio,
Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Donzelli, Roma 2000, pp.26-27.
22 Idem, p.27.
23 S.Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, I, q.79, a.13, in Gabbi – Petruio, Coscienza, Donzelli, Roma 2000. 24 G. Cavalcoli, Autocoscienza e coscienza morale in S.Tommaso d’Aquino, in Gabbi – Petruio [a cura di], Coscienza.
Punto di svolta per il concetto di coscienza nella filosofia moderna, con notevoli influssi anche sulla psicologia, è l’affermazione del principio del cogito ergo sum cartesiano: per Cartesio, il fatto di pensare, coincide con l’essere coscienti; si può dubitare di tutto, quindi di tutti i contenuti presenti alla coscienza, tranne che dello stesso dubbio, che testimonia l’atto del pensare, possibile solo perché l’uomo esiste.
Kant si muove, da un certo punto di vista, sulla stessa scia di Cartesio, ma mentre Cartesio parla di contenuti innati, secondo Kant, innati sono solo i meccanismi con cui si arriva ad avere coscienza di qualcosa. Nella “Critica della ragion pura”, Kant conferma il ruolo dell’ “io penso” come condizione di ogni conoscenza, essendo l’autocoscienza trascendentale (l’ “io penso”) la massima capacità unificatrice che sintetizza intuizioni empiriche e categorie dell’intelletto. L’ “io penso” viene affermato come ciò che fa da struttura portante al pensiero umano, è una forma a priori del pensiero, con un’accezione generale; il cogito cartesiano, invece, è un principio metafisico con un suo contenuto particolare. In Kant il principio trascendentale della coscienza, ossia ciò che rende possibile la coscienza, è un atto di unificazione (“unità sintetica”), che Kant chiama “appercezione pura” (ossia “coscienza pura”) e che intende come la forma della coscienza in generale, dato che non è possibile essere coscienti di alcunché senza unificare l’oggetto di una stessa coscienza.
Per Hegel, “la coscienza costituisce il grado della riflessione o della relazione dello spirito in quanto apparire di sé. L’io […] è l’identità nell’essere altro”25. Nella “Filosofia dello Spirito” hegeliana, l’ ‘idea in sé’, estraniatasi dalla Natura (concepita come ‘idea fuori di sé’ ed analizzata dalla “Filosofia della Natura”), ritorna a sé attraverso l’uomo, divenendo ‘idea in sé e per sé’, cioè spirito, ossia piena autocoscienza, in continuo divenire, che attraverso i suoi tre momenti – Spirito Soggettivo, Spirito Oggettivo e Spirito Assoluto – raggiunge la propria totale conoscenza di sé e si riconosce come la totalità del reale. Lo Spirito Assoluto è inteso come Idea che si autoconosce in maniera assoluta. In Hegel la coscienza costituisce il punto di partenza della filosofia e fornisce ad essa l’intero suo contenuto: il processo filosofico è appunto determinato dal passaggio della coscienza all’autocoscienza.
Cito ora, dall’Emile di Rousseau, la sua definizione di “coscienza”: “Esiste dunque in fondo all’anima un principio innato di giustizia e di virtù, in base al quale, nonostante le nostre stesse massime, giudichiamo le nostre stesse azioni e quelle degli altri come buone o cattive, ed è questo principio che io chiamo coscienza. […] Per noi esistere equivale a sentire; la nostra sensibilità è incontestabilmente anteriore alla nostra intelligenza, e abbiamo avuto sentimenti prima di avere
25 F.Hegel, Enzyklopadie, 1827, § 413, in Guzzo – Nannini, voce coscienza, in Enciclopedia filosofica, Bompiani
idee. Qualunque essa sia, la causa del nostro essere ha provveduto alla nostra conservazione, attribuendoci sentimenti adeguati alla nostra natura, e non si può certo negare che, almeno quelli, siano innati. Quanto all’individuo, questi sentimenti sono l’amore di sé, il timore del dolore, l’orrore della morte, il desiderio del benessere. Ma se, come è indubitabile, l’uomo è socievole per natura; o almeno fatto per diventare tale, non può esserlo che grazie ad altri sentimenti innati, relativi alla sua specie; infatti, non possiamo considerare solo il bisogno fisico, in quanto esso porta certamente gli uomini a disperdersi più che ad avvicinarsi. Ora è dal sistema morale formato da questo duplice rapporto verso se stessi e verso gli altri che nasce l’impulso della coscienza. Conoscere il bene non vuol dire amarlo; l’uomo non ne ha una coscienza innata; ma non appena la ragione glielo fa conoscere, la coscienza lo porta ad amarlo: è questo sentimento ad essere innato”26.
In Schopenhauer, il mondo esiste solo nella coscienza che se ne ha (rappresentazione), ma per altro verso la coscienza è a sua volta un epifenomeno del cervello. Schopenhauer sembra fare qualche concessione al materialismo settecentesco, sintetizzato nel celebre aforisma di P.J.G.Cabanis: “Il cervello secerne il pensiero come il fegato secerne la bile”, a cui, tuttavia, rimprovera di aver fatto dipendere dal cervello anche le funzioni morali. Permane pertanto una grande differenza tra il materialismo e Schopenhauer, poiché quest’ultimo considera la coscienza sì come un epifenomeno del cervello, ma poi riduce l’intero mondo materiale ad essere solo la manifestazione della volontà (principio immateriale che costituisce la realtà vera, la “cosa in sé”)27. Il materialismo ottocentesco procederà ancor più nettamente nella direzione di quello settecentesco, affiancato dal forte sviluppo della scienza psicologica, che influenzò anche molti filosofi. In particolare William James, psicologo e filosofo (con radici profonde nella tradizione empiristica), diede a tale sviluppo un contributo cospicuo nei suoi Principles of Psycholgy del 1890, che contengono tra l’altro il concetto della coscienza come “corrente psichica”, come flusso continuo in cui ,tuttavia, si distinguono elementi relativamente stabili (substantive parts) da altri elementi consistenti in semplici trapassi28.
Dopo questo excursus sul concetto di coscienza nella storia del pensiero, analizziamo più da vicino ora il tema dell’obiezione di coscienza. Quale concezione di “coscienza” intendiamo quando parliamo di “obiezione di coscienza”? Ed ancora, potremmo mai parlare di obiezione di coscienza senza presupporre come già data l’esistenza della libertà di coscienza? A mio giudizio non potrebbe
26 J.J.Rousseau, Emile, IV, Profession de foi du vicaire savoyard, in Gabbi – Petruio [a cura di], Coscienza, Donzelli,
Roma 2000.
darsi obiezione di coscienza senza dare come sottintesa la libertà di coscienza, intesa, nel senso più attuale del termine, cioè come “rapporto tra le libertà espressive dei singoli nel consesso sociale”29 o “rapporto tra libertà espressiva del singolo e potere pubblico”30; “è in tal senso che la libertà di coscienza è citata nell’articolo 18 di un testo fondamentale quale la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948”31. Soltanto affermando il diritto alla libertà di coscienza possiamo pensare l’esistenza dell’obiezione di coscienza, come rivendicazione di tale diritto. Scrive Pinckaers che “la libertà, come capacità di agire in modo personale secondo la verità e il bene, ci è data in germe e questo germe, per così dire, siamo noi stessi, il nostro stesso essere, la nostra natura spirituale”32. Questa definizione prende spunto da un’eredità spiccatamente cristiana, tuttavia mi sembra appropriata per sottolineare i punti salienti di ciò che intendo per “libertà di coscienza”, ovvero tale spiegazione si sofferma sull’origine personale del giudizio sul bene e sul male e definisce la libertà di coscienza come capacità di agire secondo tale giudizio. Essa fa quindi riferimento alla coscienza morale, non conoscitiva; tuttavia trovo che queste due siano strettamente connesse fra loro, come esemplificato nel caso dell’obiezione di Ivo di Chartres (vedi paragrafo
4.1). Infatti, la conoscenza delle circostanze in cui si sarebbe tenuti ad agire (cioè l’avere coscienza
della situazione) fa sì che la coscienza (morale) possa dare un giudizio sull’eventuale azione in quelle particolari circostanze conosciute.
29 Boyer-Pagani, voce libertà di coscienza, in Enciclopedia filosofica, p. 2332. 30 Ibidem.
31 Ibidem.
II - FONDAMENTI DELL’OBIEZIONE DI COSCIENZA
Cercherò ora di delineare i fondamenti dell’obiezione di coscienza. Bruno Montanari li distingue in fondamenti “religiosi” e fondamenti “laici”, sottolineando, comunque, che non sempre la linea di demarcazione e così netta33; io seguirò, in quest’analisi, la sua distinzione, preferendo, però, l’aggettivo “morali” piuttosto che “laici”, al fine di sottolineare la non contrapposizione, anche solo lessicale, con i fondamenti “religiosi”.
2.1 – Fondamenti religiosi dell’obiezione di coscienza
Le fonti su cui la religione poggia le basi per la legittimazione, o per il divieto, di fare obiezione di coscienza sono, considerando, ad esempio, la religione cristiana, la legge dell’amore e l’assunto della dimensione comunitaria del cristiano. Non ci si dovrebbe dimenticare che, per il vero cristiano, l’osservanza della legge di Dio, che la sua coscienza riconosce, è prioritaria rispetto all’osservanza delle leggi poste da ordinamenti altri, tra cui la legge statale; a questo proposito cito San Tommaso: “Obedire oportet Deo magis quam hominibus…Et ideo in his quae pertinent ad
interiorem motum voluntatis, homo non tenetur homini obedire, sed solum Deo”34. Prima di lui, Agostino scriveva queste parole: “…eos qui temporali legi serviunt, non esse posse ab aeterna
liberos…”35. Per quanto la legge dell’amore e la dimensione comunitaria fondino la visione cristiana dell’esistenza, tuttavia interpretazioni distinte dell’obiezione di coscienza derivano dalle diverse interpretazioni che si sono fatte riguardo al secondo presupposto. B.Montanari classifica queste interpretazioni come “teologia classica” e “teologia progressita”36; la “teologia classica” considera lo Stato come condizione dell’esistenza della comunità: grazie alla sua funzione ordinatrice gli uomini riescono a vivere l’uno con l’altro, riconoscendosi come “persone”; cito di nuovo a tal proposito San Tommaso: “Necesse est enim unum esse ultimum finem hominis in
quantum homo, propter humanitatem humanae vitae…Et iste ultimus finis hominis dicitur humanus, quod est felicitas”37. La felicitas di San Tommaso coincide con la partecipazione al bonum
commune civitatis; questi rappresentano due momenti collegati della realizzazione terrena: il bene
comune come momento della verifica della felicitas singularis; la felicitas come realizzazione
33 Bruno Montanari, Obiezione di coscienza. Un’analisi dei suoi fondamenti etici e politici, Giuffrè, Milano 1976,
pp.46, 79.
34 San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II – II, q.104. a.5. 35 Sant’Agostino, De libero arbitrio, I, XV, 31.
esistenziale, quindi verifica soggettiva, del bene comune. Questa reciproca implicazione è il tratto caratteristico della concezione cristiana della “persona; lo Stato non è in contraddizione con l’essenza della persona38. L’obiezione ad una legge dello Stato, secondo quest’interpretazione, non è lecita: il fine trascendente, voluto da Dio per l’uomo, è il suo riconoscersi come “persona”, e tale riconoscimento non è possibile senza lo Stato: tale organizzazione risponderebbe al piano di Dio per gli uomini. Proprio perché l’obiettore afferma se stesso come “persona”, egli si pone sul piano della trascendenza e si sottopone al giudizio di quella legge che fa dell’uomo una creatura anche trascendente. La posizione teologico-classica si chiarisce nella sequenza “politica-diritto-fondamento trascendente e divino”; è rispetto per la polis se è conforme alla giustizia, la quale ultima ha il suo fondamento nel divino. La polis risponde alle esigenze delle comunità umane e, se si pone in armonia con la legge di Dio per la via della giustizia, essa esprime quella dimensione oggettiva – non individualistica - della giustizia che può obbligare la “persona” ad accettare regole e limitazioni39.
La “teologia progressista” considera, invece, la polis come istituzione essenzialmente imperfetta, ed è per questo motivo che accetta, ed anzi valorizza, l’obiezione di coscienza; quest’ultima, infatti, è vista come ‘mezzo’ per il miglioramento delle istituzioni che, essendo prodotti umani, sono costituzionalmente imperfette. La speranza non risiede solo nella trascendenza: essa ha un senso immediato già sulla terra; l’uomo può e deve intraprendere la rivoluzione: l’impresa umana attua, sia pure parzialmente e in senso diacronico, il disegno divino. La communio hominum può “divenire” già in questo mondo, può essere l’esito concreto di un’adeguata iniziativa umana, la quale è messa in atto, appunto, dalla decisione individuale dell’obiettore. La legge di Dio si realizza attraverso l’iniziativa della coscienza che oppone il singolo alla società politica presente e lo dispone al suo superamento. Attraverso le modificazioni delle condizioni sociali è possibile, secondo questo orientamento teologico, realizzare nel tempo le condizioni di una convivenza umana maggiormente conforme alla legge dell’amore. Il perfezionamento, di cui il presupposto è il godimento di certe condizioni politiche e sociali, è legato alla speranza nel futuro40. Il cristiano ha,
quindi, il dovere di opporre la propria obiezione di coscienza: non farlo significherebbe dare il proprio tacito assenso ad un’istituzione imperfetta e non contribuire al suo miglioramento.
Lasciando da parte la distinzione fra “teologia classica” e “teologia progressista”, a mio parere piuttosto riduttiva al fine dell’analisi dei fondamenti religiosi dell’obiezione, si può affermare che
38 Bruno Montanari, Obiezione di coscienza, Giuffré, Milano 1976, pp.49 – 51. 39 Ibidem.
l’obiezione di coscienza si fonda sia sull’imperativo di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, ma anche sul valore prioritario della persona rispetto alla norma; nel documento “Educare alla legalità”, la Commissione ecclesiale “Giustizia e pace” italiana spiega il significato dell’espressione “valore prioritario della persona” in questi termini: “L’obiezione di coscienza, di fronte ad una legge dello Stato attesta il valore prioritario della persona e della sua giusta libertà, afferma la necessità che ogni norma civile sia coerente con il valore morale e richiama a tutti, e in primo luogo a ogni cristiano, che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”41. Questa spiegazione sembra armonizzare adeguatamente le due concezioni teologiche, classica e progressista, che Montanari aveva presentato come distinte, ed anzi contrapposte. Non basta, dunque, decidere “da quale parte stare”, se pro o contro l’obiezione di coscienza, ma entrambe le posizioni vanno ricondotte, a mio parere, ad un’idea di più ampio spettro, che le comprende ambedue e dà a ciascuna il giusto spazio, dove il termine “giusto” designa ogni volta uno spazio diverso a seconda della casistica che si presenta.
2.2 – Fondamenti morali dell’obiezione di coscienza
Il fondamento non religioso dell’obiezione di coscienza si basa, anch’esso, sulla legge dell’amore; A.Capitini si esprime, nell’opera La nonviolenza oggi, in questo modo: “Proprio l’amore per le persone, fino al rispetto della loro esistenza e fino sull’orlo della morte, prende su di sé la presenza di quelle persone, quando è amore non per una, per due, per dieci, ma aperto a tutti”. B.Montanari spiega le parole di Capitini affermando che è l’appartenenza ad un’esistenza comune e l’essere immersi nella stessa presenza nel mondo che funge da fondamento al comandamento cristiano “Ama il prossimo tuo come te stesso”42, svincolando tale comando dal suo aspetto religioso e rendendolo un imperativo morale, in quanto, usando le parole di Montanari, “amare l’altro vuol dire amare l’altro nella sua esistenza e per la sua esistenza: amare cioè la vita non per un fine che la trascende, ma per la sua presente realtà”43. L’obiezione di coscienza si rende manifestazione pratica della legge dell’amore, poiché quest’ultima coincide con il tentativo di migliorare le condizioni dell’esistenza, e l’obiezione di coscienza esprime proprio tale sforzo.
Quelli che finora abbiamo distinto in fondamenti “religiosi” e fondamenti “morali” confluiscono in una direzione unitaria: la secolarizzazione dell’idea di Dio (teologia “classica”) e l’immanenza
41 Vittorio Possenti, L’obiezione di coscienza oggi: elementi di analisi, in Benito Perrone [a cura di], Realtà e
prospettive dell’obiezione di coscienza, Giuffrè, Milano 1992, p. 169.
del processo escatologico (teologia “progressista”) si traducono nella speranza “laica”, puramente morale, nel futuro della storia. L’affermazione della “persona” originata dall’opposizione della legge della coscienza alla legge politica, si conclude, nelle due prospettive indicate, nella confluenza tendenziale dell’amore nella politica, poiché quest’ultima ne verrebbe a rappresentare la necessaria attuazione storica, portando a compimento quella prospettiva “coinonale” attraverso la quale il cristiano – ed anche il “laico” - vedono la partecipazione alla salvezza del mondo44. L’obiezione di coscienza, infine, si caratterizza come opposizione contro ciò che non trova corrispondenza nell’umanizzazione, o cristianizzazione, a seconda della prospettiva che vogliamo adottare, delle condizioni di vita.
III – ESEMPI DI OBIEZIONI DI COSCIENZA
L’obiezione di coscienza a cui si pensa più di frequente è quella opposta al servizio militare; tanti, però, sono gli ambiti in cui essa è presente, per esempio, l’ambito sanitario. L’obiezione di coscienza è stata riconosciuta come legittima, e da lì regolamentata, soltanto nel 1972 in ambito militare45, mentre in ambito sanitario essa è regolamentata dallo stesso codice deontologico dei professionisti e, in particolare, dalla legge 194 del 1978, che tratta l’argomento dell’interruzione volontaria di gravidanza46.
La storia ci offre esempi illustri di obiezioni di coscienza; la documentazione più datata riguarda il vescovo francese Ivo di Chartres (1040 – 1115). Egli ricoprì un ruolo centrale nella lotta per le investiture47, in cui parteggiava a favore dell’Impero. La sua presa di posizione lo vide opporsi alla celebrazione del matrimonio tra il re Filippo I di Francia e la contessa Bertranda di Monfort, rapita dal re Filippo nel 1092 ma già sposata al conte Folco d’Anjou. Ivo di Chartres rifiutò di consacrare questa unione adulterina e fu per questo imprigionato; continuò, però, a protestare anche alla sua liberazione, dopo molti mesi di prigionia. L’attività episcopale di Ivo è documentata, a partire dal 1090, dal suo Epistolario. Egli afferma essenzialmente tre principi: a) il pluralismo normativo; b) il primato della “persona”; c) il primato dell’interpretazione sulla statuizione: le diverse auctoritates sono considerate da Ivo non come manifestazioni di un bieco arbitrio, ma come sedimentazioni di
rationes, non sempre evidenti, consegnate dalle diverse tradizioni, esprimenti congiuntamente la
società nella sua complessità; queste rationes devono essere raccolte insieme ed ordinate dall’interprete attraverso l’intellectus; la loro piena comprensione porta a ricondurre tutte le contrapposizioni alla dialettica, interna al sistema giuridico, tra rigor e moderatio, tra iudicium e
misericordia; il riconoscimento della salus come fine dell’ordinamento canonico segna la svolta
fondamentale tra persona e norma, con il primato della persona sulla norma.
Nell’Epistolario ricorre per ben quarantacinque volte il termine conscientia: è tale appello, esplicito e costante, che permette di considerare Ivo di Chartres come l’antecedente più significativo dell’obiezione di coscienza moderna48.
45 Vedi Appendice, legge 15 dicembre 1972, n. 772. 46 Vedi Appendice, legge 22 maggio 1978, n. 194.
47 La lotta per le investiture vide la contrapposizione fra il Papato e l’Impero, nei secoli XI-XII, per la prerogativa nella
scelta e nell’ordinazione dei vescovi.
In epoca recente, il primo considerato come obiettore di coscienza, in Italia, è Pietro Pinna, il quale, nei primi anni del secondo dopoguerra, rifiutò di adempiere al suo dovere di prestare il servizio militare. Egli fu processato dal tribunale militare di Torino il 30 agosto 1949 e, dopo varie condanne e reclusioni, fu congedato per motivi di salute. Pinna definisce l’obiezione di coscienza come l’impegno a rifiutare la partecipazione alla preparazione e all’effettuazione della guerra, chiamando questa “crimine collettivo”49. Le motivazioni profonde di questa sua scelta muovono dal pensiero di Aldo Capitini (1899 - 1968), apostrofato, talvolta, come il “Gandhi italiano”. Fu proprio la conoscenza del pensiero di Gandhi che offrì a Capitini, infatti, gli strumenti per tradurre il proprio pensiero in azione politica50; egli affermò di aver imparato da Gandhi ad opporsi attivamente, a “dir di no”: “Io non dico: fra poco o molto tempo avremo una società che sarà perfettamente nonviolenta…a me importa fondamentalmente l’impiego di questa mia modestissima vita, di queste ore o di questi pochi giorni; e mettere sulla bilancia intima della storia il peso della mia
persuasione”51.
49 Da Intervista a Pietro Pinna, 2002, dal sito “nonviolenti.com”.
50 A.de Sanctis, Capitini costruttore di pace sulle orme di Gandhi. Intervento proposto in occasione dell’omonimo
Seminario organizzato da LaborPace Caritas diocesana di Genova nell’ambito di Mondo in Pace: la Fiera
dell’educazione alla Pace in occasione del 40° anniversario della morte di Aldo Capitini, Genova, Palazzo Ducale, 9 ottobre 2008.
3.1 Obiezione di coscienza in sanità
Il comportamento dei professionisti della sanità, oltre che da alcune leggi specifiche, come la 194 del 1978, è regolamentata dal codice deontologico a cui debbono obbligatoriamente aderire coloro che scelgono di svolgere compiti di così grande impatto sociale quali il medico, l’infermiere, l’operatore socio sanitario, a cui si affiancano le figure di tutti quei professionisti indispensabili al funzionamento di ospedali, centri di ricerca, laboratori, farmacie e quant’altro. Le tecniche di intervento sui pazienti, le scienze farmaceutiche, le biotecnologie e tutto ciò che si può comprendere sotto il concetto di “medicina”, o funzionale ad esso, hanno conosciuto, negli ultimi decenni, un incredibile sviluppo: si può parlare, al giorno d’oggi, di manipolazioni genetiche, di fecondazione artificiale, oltre che di trapianti, di aborto, di eutanasia. Tutte queste cose esistono, nel senso che l’uomo è in grado di metterle in atto, con le sempre maggiori conoscenze di cui ora dispone; ma è
giusto che tutto quello che è nella sfera delle nostre possibilità venga anche concretamente attuato?
Tra i professionisti sembra crescere, al progredire della scienza, il numero di coloro che scelgono di essere obiettori. Scrive Dalla Torre: «…il moltiplicarsi delle fattispecie di obiezione di coscienza nell’ambito sanitario è riconducibile alle stesse ragioni che sono all’origine dell’odierna “questione bioetica”, e cioè: da un lato le enormi potenzialità manipolative della vita umana proprie della scienza e della tecnica, dall’altro il pluralismo di “etiche” che caratterizza sempre più la società occidentale. La bioetica, infatti, ha per oggetto la ricerca “di delimitare un ambito di legittimità entro il quale devono essere contenute le diverse modalità d’intervento sulla vita in tutta la lunghezza del segmento che si estende dal concepimento alla morte”»52.
La considerazione di Dalla Torre sul pluralismo dell’etica causata dalla multiculturalità mi trova d’accordo: esistono differenti culture, con particolari usi e costumi caratteristici, ed ogni persona guarderà all’altrui diversità sempre dalla propria prospettiva, per quanto ci si possa immaginare di “essere nei panni dell’altro”; è impossibile svincolarsi completamente dal proprio punto di vista, e ciò comporta sempre, a mio parere, un giudizio sull’alterità; esiste, quindi, una molteplicità di “etiche” da considerarsi come dato di fatto, tuttavia l’obiezione di coscienza, in ogni contesto, si caratterizza per l’appello ad un diritto universale, che, benché non venga riconosciuto da tutti gli ordinamenti giuridici, non può essere però negato data la sua portata di valore. Di fronte a situazioni di sofferenza, ogni uomo reagisce allo stesso modo, indifferentemente dalla cultura a cui appartiene,
52 S.Spinsanti, Salute, malattia, morte in Nuovo dizionario di teologia morale a cura di Compagnoni-Piana-Privitera,
tendendo alla propria felicità. In quanto appartenenti alla specie umana, tutti gli uomini, a mio parere, si possono identificare con alcuni principi etici che stanno alla base proprio della nostra
umanità, intesa nel senso letterale dell’essere uomini, e questi principi, a volte definibili soltanto in
modo negativo, non si possono relativizzare, pena il non essere più umani.
Non mi addentrerò oltre in tale questione, poiché trovare una risposta ai molti interrogativi posti dal dibattito sempre aperto sulla bioetica mi risulterebbe impossibile. E’ indispensabile, però, parlando in particolare di ambito sanitario, una puntualizzazione: prendiamo come esempio la legge 194 del 1978 in materia di aborto: il medico che si rifiutasse di interrompere la gravidanza non subirebbe alcuna sanzione; “tutte le legislazioni che hanno legalizzato l’interruzione volontaria di gravidanza hanno previsto, seppure in maniera differente, l’obiezione di coscienza alle pratiche relative”53. La succitata legge 194, all’articolo 9, afferma che “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non e’ tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione. La dichiarazione dell'obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e, nel caso di personale dipendente dell’ospedale o della casa di cura, anche al direttore sanitario, entro un mese dall'entrata in vigore della presente legge o dal conseguimento della abilitazione o dall'assunzione presso un ente tenuto a fornire prestazioni dirette alla interruzione della gravidanza o dalla stipulazione di una convenzione con enti previdenziali che comporti l'esecuzione di tali prestazioni. L'obiezione può sempre essere revocata o venire proposta anche al di fuori dei termini di cui al precedente comma, ma in tale caso la dichiarazione produce effetto dopo un mese dalla sua
presentazione al medico provinciale.
L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento. Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’espletamento delle procedure previste dall'articolo 7 e l'effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza richiesti secondo le modalità previste dagli articoli 5, 7 e 8. La regione ne controlla e
garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale.
L'obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario, ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento e’ indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo. L'obiezione di coscienza si
53 G.Dalla Torre, Obiezione di coscienza e ordinamento sanitario, in [a cura di] B.Perrone, Realtà e prospettive
intende revocata, con effetto, immediato, se chi l'ha sollevata prende parte a procedure o a interventi per l'interruzione della gravidanza previsti dalla presente legge, al di fuori dei casi di cui al comma precedente”54. Mi domando, dunque, se non sia il caso, in questo contesto, di parlare di opzione di coscienza, invece che di obiezione di coscienza, appropriandomi della definizione che ne fornisce Dalla Torre: “si può dire che obiezione di coscienza è l’atteggiamento di colui che rifiuta di obbedire alla norma positiva invocando l’esistenza, nel foro della coscienza, di una corrispettiva norma etica, che gli vieta di tenere il comportamento prescritto dal diritto positivo. Viceversa l’opzione di coscienza si riferisce (omissis) all’atteggiamento di colui che obbedisce alla norma positiva scegliendo, fra i vari comportamenti da questa previsti come alternativamente assumibili per il soddisfacimento dell’interesse sotteso alla norma, quello che risulta non conflittuale rispetto ai propri convincimenti interiori”55; il comportamento messo in atto con l’obiezione di coscienza è di un’azione contra legem (obiezione rivendicata)56, mentre quello dato con la scelta dell’opzione di coscienza è un comportamento secundum legem, un’obiezione di coscienza riconosciuta poiché il legislatore ha già previsto la possibilità di un conflitto fra norma esterna ed interna57.
54 Art. 9 legge 194 del 1978.
55 G.Dalla Torre, Obiezione di coscienza e ordinemento sanitario, in [a cura di] B.Perrone, Realtà e prospettive
dell’obiezione di coscienza, p. 284.
IV – MATRICE COMUNE DELLE OBIEZIONI DI COSCIENZA
Le obiezioni di coscienza, pur nei loro diversi ambiti, possono essere ricondotte ad una configurazione comune: esse, infatti, sono caratterizzate da una sorta di “dramma” dell’obiettore; questi, infatti, all’eteronomia della legge politica oppone un imperativo a cui non gli è concesso di sottrarsi, dettatogli dall’ordinamento della propria coscienza; egli si trova, quindi, a dover compiere una scelta fra due diverse obbedienze58.
4.1. L’obiezione di coscienza di Ivo di Chartres
Questo conflitto interiore è analizzato compiutamente nel saggio di Stefano Violi, Normatività e
coscienza, in cui l’autore prende in esame il caso di Ivo di Chartres. All’ordine del re di consacrare
il matrimonio, il vescovo risponde: “Poiché mi avete chiamato, non voglio né posso parteciparvi” (“Nec volo, nec valeo”)59. Tale frase esplicita perfettamente quello che prima, appropriandomi del linguaggio di Bertolino, ho definito come il “dramma” dell’obiettore, cioè il conflitto fra legge positiva e legge della coscienza; infatti, il verbo volo “qualifica la propria volontà come ostacolo alla realizzazione della volontà del sovrano”60, mentre il verbo valeo “rimanda ad una mancanza oggettiva di un requisito fondamentale per compiere l’azione, consistente nell’avere potere di”61.
Ma vediamo, ora, come Ivo di Chartres elabora l’aspetto volitivo della sua obiezione: “Non voglio se io non ho dapprima conoscenza che in virtù di una decisione di un concilio generale è intervenuto un legittimo divorzio tra voi e la vostra sposa e che voi potrete contrarre un matrimonio legittimo con quella che volete sposare”62; Ivo arriva alla decisione contrastante con l’ordine regio dopo aver affrontato un iter di passaggi di natura cognitiva, cioè “l’invito del re porta Ivo a considerare quanto gli è stato chiesto; la considerazione dell’azione concreta comandata, illuminata da principi assiologici di comportamento, portano Ivo a constatare una discordanza dell’atto richiestogli con il comportamento imposto dai principi teologico-morali; tale discordanza si traduce nella percezione soggettiva di una causa inabilitante l’atto richiesto (nec valeo)”63. L’obiettore di coscienza moderno affronta lo stesso percorso cognitivo, prima di giungere alla decisione di
58 Rinaldo Bertolino, L’obiezione di coscienza moderna. Per una fondazione costituzionale del diritto di obiezione,
Giappichelli, Torino 1994, pp. 18-19.
59 Ivo di Chartres, Epistolario, in Violi, op.cit., p. 93. 60 Violi, Normatività e coscienza, p. 94.
61 Idem p. 93.
obiettare: egli considera, alla luce dei propri valori morali, l’azione comandatagli dalla norma positiva e, da qui, trae la propria scelta di seguire la legge sentita da lui come la maggiormente imperativa.
Secondo D’Agostino, l’obiezione di Ivo di Chartres, oltre che obiezione di coscienza, si qualifica anche come obiezione di scientia, ovvero egli non oppone alla volontà regia una volontà contraria, bensì una mancanza di conoscenza che lo porta a non poter compiere l’atto, in quanto esso, senza la legittimazione conciliare, non avrebbe avuto un fondamento legittimo; al dettame della volutas, Ivo oppone, sempre secondo D’Agostino, quello di lex et justitia; l’obiettività, a cui l’etimologia stessa del termine “obiezione” si riconduce, sarebbe il limite entro cui la volontà dovrebbe essere arginata64. Questa considerazione di D’Agostino non è valida, a mio parere, per tutte le obiezioni di coscienza; provocatoriamente, potremmo domandarci questo: se la legge legittimasse qualcosa che la nostra coscienza sentisse essere contrastante con il suo imperativo, basterebbe ciò a rendere giusta l’azione imposta dalla norma positiva? L’obiezione di scientia non tiene conto della differenza fra “giustizia” e “legalità”: tenderei a considerare la prima con un’accezione morale, mentre la seconda mi sembra qualcosa di meramente giuridico, cioè la giustizia appartiene alla lex
in interiore homine, mentre la legalità è un costrutto riferibile solamente alla lex fori.
Continuando a seguire l’analisi di Violi, si legge che “la relatività della conoscenza implica la sua
non assolutezza: l’argomentare di Ivo presuppone il riconoscimento che la conoscenza rinvia sì ad una obiettività, ma nella consapevolezza che quest’ultima è filtrata dal soggetto che conosce”65. Secondo Violi, il passaggio dalla “conoscenza” alla “conscientia” sta proprio nel riconoscimento del limite della conoscenza del soggetto, conoscenza, quindi, che si fa “coscienza”, e nel suo riconoscersi come limitata si apre alla relazione con l’intero della conoscenza di cui è solo una parte. Ivo di Chartres, opponendo all’imperativo del sovrano non una semplice negazione, bensì una disposizione al cambiamento di posizione all’eventuale mutare delle condizioni (cioè la possibilità di celebrare il matrimonio in seguito ad una delibera conciliare), afferma dei valori che sono oggettivi e che, a prima vista, sembrerebbe voler negare. Attraverso la propria obiezione ad un ordine regio, Ivo di Chartres dà valore, tutelandola dal dilagare della volutas sovrana, anche a quella sovranità cui sembrerebbe opporsi: infatti, scrive il vescovo, il suo non è un atto di infedeltà, quanto, al contrario, di estrema fidelitas: infatti, «la provenienza divina del potere comporta che il re non sia signore, ma servo dei servi di Dio: protettore, non padrone. E’ attraverso l’auctoritas di Agostino che Ivo di Chartres recepisce l’autorità delle leggi secolari. Commentando un passo di
Agostino tratto dalle “Confessioni”, Ivo ricorda che “bisogna fare ciò che Dio comanda, anche se ciò sia contrario al costume o ad una pattuizione”66. Da ciò deriva l’obbligo di un’obbedienza non assoluta, ma condizionata alla conformità del comando impartito dal superiore con la verità di Dio. Consentire ad un atto che contraddica i valori costitutivi dell’ordinamento provoca, nella concezione di Ivo, un pregiudizio tanto per il sovrano, quanto per la sua corona; affermando che il suo gesto è mosso da una suprema fedeltà, Ivo di Chartres riconosce l’autorità regia, ma ne riconosce i limiti estrinseci al suo fondamento»67.
Ho definito quella di Ivo di Chartres come antecedente dell’obiezione di coscienza moderna: anche dal punto di vista del riconoscimento della legittimità dell’ordinamento in vigore, la posizione di Ivo è assimilabile a quella degli obiettori moderni; l’obiettore di oggi non disconosce l’autorità statale, allo stesso modo di Ivo verso il potere regio, bensì cerca di affermare dei valori che sente nel proprio “ordinamento della coscienza”, e che spesso, successivamente, vengono inseriti all’interno dell’insieme dei diritti, come la storia ci insegna.
4.2 Il “dramma” dell’obiettore di coscienza
Il “dramma” dell’obiettore consiste nel dover scegliere tra due obbedienze: alla lex fori, all’eteronimia della legge politica, l’obiettore oppone la legge interna della propria coscienza. D’Agostino afferma che la logica dell’obiezione di coscienza è irriducibilmente dualistica: “l’obiettore non ha alcun dubbio sulla validità del principio Auctoritas, non veritas facit legem, ma gliene pone accanto un altro: Veritas, non auctoritas facit jus”68. Torniamo qui al binomio legalità/giustizia, a cui accennavo al paragrafo 4.1; il cittadino-obiettore accetta, in quanto cittadino, l’autorità della legge, ma, in quanto obiettore, non obbedisce alle norme che sono legali ma,secondo la sua propria coscienza, ingiuste: sempre D’Agostino scrive che “l’obiettore dice di no alle leggi perché non le fa coincidere con il diritto”69, volendo intendere con il termine “diritto” l’insieme delle norme costruite da chi detiene il potere in conformità alla giustizia: “…[l’obiettore] dice di no alle leggi perché (e solo quando) le ritiene cattiva determinazione del diritto da parte del legislatore (o di chi comunque detenga il potere)”70.
66 Agostino, Confessioni, lib.III, cap.8, in Violi, op.cit., p. 113. 67 Stefano Violi, Normatività e coscienza, pp.100 e seguenti.
68 D’Agostino F., L’obiezione di coscienza nella prospettiva di una società democratica avanzata, in “Il diritto
ecclesiastico”, 1992, 1, p. 69.
Esiste un “diritto muto”, come lo chiama Violi71, che è presente in tutti gli uomini e preesiste al diritto positivo: “…c’è una giustizia e un’ingiustizia di cui tutti gli uomini hanno come una divinazione, anche quando tra loro non esiste alcuna comunicazione né contatto”72. In un qualsiasi corpo sociale, il “diritto primordiale”, che comprende regole non ancora scritte, permette agli uomini di convivere; questo diritto tacito fondamentale viene indicato come “norma non scritta né posta dalla consuetudine, e che pur tuttavia giace in fondo a tutto l’ordinamento, ponendone le norme fondamentali”73: “Tutte queste regole […] sono quelle che i più chiamano leggi non scritte; e quelle che chiamiamo leggi paterne non sono altro che l’insieme di queste regole”74. Anche dopo la formulazione linguistica del diritto, cioè l’elaborazione delle norme positive, il diritto muto non smette di esistere e influisce sulla legge scritta attraverso un confronto costante con questa; quanto più le leggi scritte tradurranno il diritto muto, tanto meno avverranno i dissensi; se, però, le norme collidono con ciò che comanda il diritto tacito, esse produrranno reazioni di dissenso, che potranno essere quelle della “obbedienza meramente formale”, fino alla “disubbidienza civile”, la “resistenza passiva” oppure, la più eclatante, quella della “rivoluzione”75. Afferma De Romilly che già i greci avevano elaborato il concetto di “legge naturale, ancorata nella coscienza degli uomini e capace, a seconda dei casi, di spiegare e completare la legge politica e anche, di prendere il sopravvento su di essa”76.
Il dramma in cui si trova l’obiettore di coscienza costituisce il perno su cui Sofocle costruì la tragedia dell’Antigone: “La tragedia nasce nella drammatica compresenza, nell’intimo di Antigone, di due inconciliabili qualificazioni di un’azione, derivanti da due diversi legami, quello di sangue e quello politico, diventati inconciliabili (omissis). La coscienza si trova in tal modo lacerata tra due orizzonti valutativi differenti che si escludono reciprocamente”77. Il dramma nasce dalla non convergenza dei due ordinamenti a cui è sottoposto l’obiettore, si tratta di un pluralismo di
71 Violi, Normatività e coscienza.
72 Aristotele, Retorica, 1373b, nella traduzione di J.De Romilly, La legge nel pensiero greco, cit, p.45, in Violi, op.cit.,
p.24.
73 Violi, Normatività e coscienza..
74 Platone, Leggi, p. 793°-b, in Violi, op.cit., p. 9.
75 A.Passerin D’Entreves, Legittimità e resistenza, in Studi Sassaresi III.Autonomia e diritto di resistenza, Milano 1973,
p. 35 ss, in Violi, op.cit., p. 30 ss.
normatività, un dualismo fra due sfere: il non-scritto della coscienza, ben diverso però dal non esistente e non precisamente definibile,78 e la legge positiva.
78 Come scrive Violi, “nel fatto di non essere scritte, ovvero nella negazione di una loro formulazione scritta: il carattere
V – L’OBIEZIONE DI COSCIENZA OGGI 5.1. Il paradosso del riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza
Il “diritto di obiezione” per motivi di coscienza è stato oggi annoverato nell’insieme dei diritti tutelati dalla legge, in quanto si riconosce esplicitamente l’obiezione nell’ordinamento legislativo: con riferimento all’obiezione al servizio militare, leggiamo che “I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle libertà di pensiero, coscienza e religione, opponendosi all’uso delle armi, non accettano l’arruolamento nelle Forze armate e nei Corpi armati dello Stato, possono adempiere agli obblighi di leva prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile, diverso per natura e autonomo dal servizio militare, ma come questo rispondente al dovere costituzionale di difesa della Patria”79. L’articolo 5 della legge 194 del 1978 sull’aborto prevede la possibilità per medici, infermieri e personale sanitario di astenersi dall’eseguire le pratiche di interruzione di gravidanza per motivi di coscienza. Questi due articoli legislativi sono rappresentativi di un paradosso: “se la legge ammette la disobbedienza (come avviene nel nostro sistema, per i casi di obiezione militare e sanitaria) – scrive Raffaella Lanzillo – può parlarsi di obiezione di coscienza solo in senso storico, con riguardo all’origine della normativa, od in senso logico, con riferimento al conflitto di interessi che vi è sotteso. Dal punto di vista giuridico, la pretesa di obiezione non fa altro che realizzare una peculiare fattispecie normativa”80.
Questa considerazione della Lanzillo pone l’accento sul fatto che oggi, nei due ambiti succitati, non si può più parlare di obiezione di coscienza in senso vero e proprio, bensì di opzioni di coscienza. Tale posizione mi trova d’accordo e, a sostegno di ciò, propongo un’ulteriore riflessione: dal 2001 esiste il servizio civile volontario, nato da una sorta di “evoluzione” dell’obiezione di coscienza. Diversamente dagli obbligati alla leva, per cui la scelta fra obiezione e servizio militare era mutuamente esclusiva, a chi svolge il servizio civile non viene impedito di poter scegliere eventualmente, un giorno, la carriera militare; ciò mi sembra un ulteriore paradosso, considerate le origini storiche del servizio civile.
La Corte Costituzionale italiana, nella sentenza del 19 dicembre 1991, riconobbe il rilievo costituzionale della coscienza, come “principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo”, “quale segno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo”, e considerò la sfera intima della coscienza individuale “come il riflesso giuridico più
79 Art. 1 legge 8 luglio 1998, n. 230.
profondo dell’idea universale della dignità della persona umana”81. Scrive Peyrot: “quando si ammette l’obiezione anche in un solo caso come diritto individuale meritevole di rispetto sul piano sociale, tale diritto andrebbe riconosciuto in qualunque circostanza”82; l’obiezione di coscienza, dunque, può fungere da costante critica agli ordinamenti giuridici. E’ così per la Chiesa, che ha riconosciuto il “diritto di sollevare obiezione” nell’istituzione pastorale dell’8 dicembre 1978 del consiglio Permanente della CEI “Comunione cristiana e accoglienza della vita umana nascente”83. Il comprendere l’obiezione di coscienza fra i diritti dell’individuo può far perdere ad essa la propria credibilità? “C’è oggi, quasi in parallelo al crescere e al modificarsi dell’obiezione di coscienza classica, un aumentare di perplessità sulle obiezioni, perché riconosciute e ammesse all’interno degli ordinamenti statuali”84. Bertolino, citando Montanari, risponde così: «In presenza di un obbligo nell’ordinamento (corrispondente ad una regola propria della collettività), l’obiezione, anche se riconosciuta, sopravvive comunque, concettualmente, “in quanto presupposto per la legittimazione di un comportamento difforme dalla regola”. Una disciplina di graduazione
dell’obiezione di coscienza non sembra infatti sminuire, proprio per l’importanza e la significatività
del valore in gioco, il doveroso riconoscimento del “valore della coscienza quale permanente fonte di verifica, di dubbio, ed appunto di obiezione verso istituzione e leggi”»85.
81 Bertolino, L’obiezione di coscienza moderna. 82 Idem, p. 82.
83 Ibidem.
5.2. Conclusione
Ho analizzato il concetto di obiezione di coscienza da vari punti di vista, a partire da quello etimologico del termine. Passando attraverso un breve excursus su cosa si intenda per “coscienza” nei vari autori, sono poi giunta ad affermare che il concetto di “coscienza” è intrinsecamente connesso con quello di “libertà di coscienza”, ed anzi il primo non esisterebbe senza il secondo; sono stati poi considerati i fondamenti, se esistano e quali siano, dell’obiezione; li ho inizialmente distinti, seguendo la trattazione che ne ha fatto Montanari nella sua opera Obiezione di coscienza, in fondamenti religiosi e fondamenti morali, ed ho notato che tale distinzione non è così netta, poiché l’una sfocia nell’altra. E’ stata analizzata la differenza tra “obiezione di coscienza” e “opzione di coscienza”, due espressioni che spesso si confondono, ma che hanno significati divergenti: mentre l’obiezione trova la sua peculiare caratteristica nel proprio non riconoscimento all’interno dell’ordinamento giuridico, quindi l’obiettore dovrà pagare le penali per il suo atto di disobbedienza all’imperativo positivo, l’opzione di coscienza è un’azione permessa dalla legge, che ha previsto la possibilità di obiezione ed ha predisposto, di conseguenza, la possibilità di scegliere un modo di adempiere all’obbligo più consono all’imperativo della propria coscienza; l’obiezione è dunque fuori dalla legge, mentre l’opzione è dentro la legge, poiché prevista dall’ordinamento. Ho portato, a riguardo, l’esempio dell’obiezione di coscienza in sanità, caso, a mio parere, di opzione, più che di obiezione, poiché per esempio la legge 194 sull’interruzione di gravidanza prevede il rifiuto da parte del personale sanitario di procedere a tali tecniche. L’esempio più datato di obiezione, quello del vescovo Ivo di Chartres, mi ha dato la possibilità di analizzare il “dramma” dell’obiettore, ovvero il contrasto in interiore homine tra due ordinamenti, quello giuridico positivo e quello, maggiormente imperativo, della propria coscienza. Infine, ho considerato il valore attuale dell’obiezione di coscienza, con il paradosso del suo riconoscimento all’interno dell’ordinamento. Voglio concludere questa trattazione affermando che l’obiezione di coscienza è filosoficamente legittimata: ha dei fondamenti religiosi e morali che fungono da solida base. Si può discutere se l’obiezione in quanto azione effettiva sia ancora riconoscibile nel nostro contesto culturale; qualcuno infatti potrebbe osservare che il suo riconoscimento all’interno dell’ordinamento giuridico finisca di fatto per svalutarne il valore e il significato; in risposta a questa contestazione, mi richiamo alle parole di Bertolino, che afferma che l’obiezione di coscienza sopravvive in quanto concetto e funge da fondamento per le leggi che sono state emanate per permetterla; insomma, senza l’obiezione di coscienza come azione “di fatto” non ci sarebbe stato oggi il “diritto di sollevare obiezione”86. L’obiezione è dunque diventata un diritto, ma non deve essere un diritto
illimitato: se si giungesse a poter porre la propria obiezione, in maniera meramente soggettiva, verso ogni legge indistintamente e per qualsiasi personale ragione, che dati i poco nitidi confini potremmo incorporare nell’ambito della coscienza, si giungerebbe ad un vero e proprio “arbitrio della coscienza”, che assomiglierebbe molto ad uno stato di totale mancanza di leggi, poiché tutti potrebbero contestare tutto appellandosi al diritto di obiezione per motivi di coscienza.
E’ per queste ragioni che faccio mia l’affermazione del cardinale Martini, il quale ha richiesto un attento discernimento per l’appello alla coscienza nell’attuale contesto culturale, “caratterizzato da un deperire delle evidenze etiche…Esso può mascherare proprio il contrario di quanto merita di essere inteso con tale nome, cioè l’adesione libera e convinta a una verità per la quale si è disposti a sacrificare i propri interessi particolari e, se necessario, la stessa sopravvivenza fisica”87.
87Martini, La Chiesa a favore della interiorità, in AA.VV., Realtà e prospettive, cit., pp. 444-445, citato in Bertolino,