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IL RACCONTO DEL RITORNO Letteratura di guerra dal fronte russo

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE

XXI CICLO DEL

DOTTORATO DI RICERCA IN ITALIANISTICA

__________________________________________________________________________

IL RACCONTO DEL RITORNO Letteratura di guerra dal fronte russo

1941-1943

L-FIL-LET/10

LETTERATURA ITALIANA

DOTTORANDO

Gianluigi DE MARINIS GALLO

RESPONSABILE DOTTORATO DI RICERCA

(Coordinatore Corso)

prof. Elvio GUAGNINI

RELATORE

prof. Pasquale GUARAGNELLA

(Università degli Studi di Bari)

__________________________________________________________________________

ANNO ACCADEMICO 2008/2009

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INDICE

Premessa p. 1

I. «In guerra toccherò la verità»:

guerra e scrittura in Mai tardi (1946) di Nuto Revelli p. 7

II. Il quadrato di Cassiopea, la neve, le cose:

su Il sergente nella neve (1953) di Mario Rigoni Stern p. 51

III. L’epica del sacrificio?

Centomila gavette di ghiaccio (1963) di Giulio Bedeschi p. 112

Bibliografia p. 180

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Premessa

Del 1970 è il fortunato studio di Mario Isnenghi che definiva, allora, la più ricca e ampia bibliografia sulla letteratura della Prima guerra mondiale in Italia: Il mito della Grande Guerra. Un’opera che avrebbe segnato una intera stagione critica, un vero e proprio spartiacque negli studi sulla Prima guerra mondiale.

Sempre negli anni Settanta, in area anglosassone, venivano pubblicati due testi fondamentali per leggere la Prima guerra mondiale e il peso da essa avuto sulle strutture profonde dell’immaginario e, per riflesso, sulle scritture letterarie del ventesimo secolo. Si sta alludendo agli studi di Paul Fussell e di Eric J. Leed sulla memoria e sull’immaginario dell’esperienza bellica. Il testo del primo, The Great War and Modern Memory, uscì nel 1975 ed entrò prepotentemente nel dibattito storiografico italiano a partire dal 1984, data della prima traduzione. Una sorte non dissimile è toccata all’altro libro, quello di Leed, No Man’s Land. Combat &

Identity in World War I: uscito alla fine degli anni Settanta, esso venne tradotto in italiano nel 1985. Ad essi, in questa rapidissima rassegna, va aggiunto il volume, più tardo, di Antonio Gibelli sulle trasformazioni indotte dalla Grande Guerra nel mondo mentale, L’officina della guerra. Lo studioso di storia o di letteratura che oggi si voglia avvicinare ad un testo che risulta essere il prodotto di quella esperienza bellica possiede sicure chiavi interpretative per leggerlo in modo nuovo, con una metodologia all’incrocio tra storiografia, psicologia, sociologia, storia della politica e storia dell’immaginario. E per le opere della Seconda guerra mondiale? Esiste nel panorama degli studi sulla letteratura italiana una monografia che possa competere, ad esempio, con il testo di Isnenghi, oggi alla sua sesta edizione? La risposta a questa domanda è, in buona sostanza, negativa.

Lo stesso Isnenghi ha provato a tracciare un quadro dei rapporti tra letteratura e

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Seconda guerra mondiale in un capitolo de Le guerre degli Italiani: si tratta di poche pagine che disvelano una ricchezza di spunti e di tracce di ricerca, ma non di una ricognizione sistematica. Giorgio Rochat aggiunge a questo capitolo di Isnenghi un tassello con il suo Le guerre italiane 1935-1943, ma qui la letteratura entra solo di scorcio. V’è poi il denso contributo di Alberto Asor Rosa, L’epopea tragica di un popolo non guerriero, nel quale la letteratura della Seconda guerra mondiale è considerata nell’ambito di un saggio più ampio sulla letteratura italiana di guerra, come vero e proprio genere letterario, dal Risorgimento alla Resistenza: anche qui, quindi, non siamo in presenza di una monografia. Da ultimo, Alberto Casadei, ha considerato la letteratura della Seconda guerra mondiale, letta sotto la categoria del realismo, in una dimensione comparatistica, confrontando però soltanto le vette del genere nella letteratura mondiale (Romanzi di Finisterre). O ancora, per andare indietro nel tempo al capostipite degli interventi critici sulla letteratura di guerra del secondo conflitto mondiale, si potrebbe risalire al contributo di Giuseppe Cintoli: l’articolo dal titolo Guerra e letteratura di guerra usciva non a caso sul primo numero della rivista «il Menabò» e provava una iniziale sistemazione, anche bibliografica e tematica, secondo criteri di «letterarietà», dei testi narrativi che affrontavano l’argomento della Seconda guerra mondiale. A fronte della vastissima produzione letteraria italiana legata alla Seconda guerra mondiale, e del successo di pubblico, in tutti gli strati sociali, che le arrise, manca un saggio capace di dar conto, come ha fatto Isnenghi nel suo Il Mito della Grande Guerra, dell’insieme dei testi, grandi e meno grandi, che la sostanziano: diari, riviste, memorie, testimonianze ufficiali, romanzi. Come mai? Solo una casualità? Quali sono le specificità della Seconda guerra mondiale che rendono così difficile ricostruire un quadro di insieme?

Queste erano le domande alla base della ricerca di cui ora si consegnano alcuni parziali risultati. Al fondo di queste domande era, come è facile intuire, l’intenzione di provare a costruire la mappa mancante. Almeno di tentare.

Uno dei motivi che possono essere alla base della differenza appena richiamata tra gli studi della Prima e della Seconda guerra mondiale è nelle

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immagini – delle vere e proprie icone – che possono essere rievocate per riassumere l’esperienza delle due guerre. Il simbolo della Grande Guerra è senza dubbio la trincea: essa costituisce il grande cronòtopo della sua letteratura, l’immagine proposta da ogni fotografia, da ogni fotogramma. La trincea e, per corollario, “la terra di nessuno”. Qual è l’immagine simbolica che può riassumere l’evento Seconda guerra mondiale? Qui, le cose si complicano, e le immagini si moltiplicano. Tra le più rappresentative verrebbe fatto di pensare ai campi di concentramento e sterminio o al “fungo” atomico. Due intensi emblemi, che restituiscono appieno la tragicità dell’esperienza umana attraverso il ventesimo secolo. Ma a queste due immagini così persistenti se ne potrebbero accostare altre, non meno significative. Una potrebbe essere ancora la trincea, che torna in alcuni fronti come conseguenza di una guerra di posizione. Un’altra potrebbe essere costituta dalla ritirata: la Seconda guerra mondiale è per l’Italia una guerra persa.

Un’altra potrebbe essere la guerra civile: per cui, paradossalmente, nella memoria collettiva la Seconda guerra mondiale può anche essere una guerra vita, dipende dalla posizione in cui si colloca l’interprete. Ancora, una immagine grandiosa è quella dei bombardamenti – si pensi ad esempio ai bombardamenti di Londra o di Dresda. Un’ultima immagine alla quale verrebbe fatto di pensare sono le facce dei capi dei totalitarismi. Ad ognuna di esse sembra corrispondere un’intera letteratura ed uno specifico sottogenere letterario. A questo proposito è stato affermato che la Seconda guerra mondiale ha, almeno nel caso italiano, una memoria frantumata: «geografia enormemente più vasta e variegata rispetto alla – se non proprio omogeneità – riducibilità dell’altra guerra» alla immagine della trincea, «alla variabile-Carso e alla variabile-montagna». Nel secondo conflitto mondiale, invece, ogni fronte produce la propria specifica letteratura. Ha scritto Isnenghi: «una cosa sono l’Albania o la Grecia, un’altra il fronte russo, altre ancora l’Africa, la Jugoslavia, le isole e la guerra per mare». A questa differenziazione e frantumazione geografica, che è poi anche differenziazione di nemico, di combattimento, di esperienza, deve esserne aggiunta una non meno significativa. Essa riguarda la formazione civile, ideologica e politica dei soldati:

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è la differenza, ad esempio, che corre tra una camicia nera, un militare di leva, un

“badogliano”, un “garibaldino”. Se la sconfitta potrebbe essere comune a tutti, dunque, la realtà che le soggiace è frantumata, irriducibile ad unità. Pesa questo sulla difficile ricostruzione unitaria – la mappa – della letteratura della Seconda guerra mondiale in Italia. E pesa anche il fatto che questa memoria frantumata non sia ancora oggi definitivamente condivisa – si pensi, per addurre un unico esempio, al dibattito che solo alcuni anni fa è sorto nel nostro paese attorno alle date dell’8 settembre, del 25 aprile o attorno alla memoria delle foibe e degli esuli istriani.

A fronte di questa polverizzazione può comunque darsi un raggruppamento tematico delle diverse opere. Il più semplice, ovviamente, è quello per fronti: un criterio geografico e, per così dire, orizzontale. Questo tipo di divisione circoscrive aree omogenee (ritorno dalla Russia; campi di prigionia;

guerra civile; reducismo; fronte greco-albanese; fronte libico). Un criterio diverso potrebbe essere quello che tenga conto dei soggetti in guerra: civili, camicie nere, alpini…ecc. Un raggruppamento ancora più complesso, perché, diremo così, trasversale ai precedenti, potrebbe essere quello derivante dalla differenziazione dei generi: romanzo o anche epica, diario e testimonianza, o anche propaganda e critica. L’obiettivo della ricerca, all’inizio, era quello di tentare uno sguardo d’insieme sulla letteratura della Seconda guerra mondiale in base a quest’ultima peculiare differenziazione: epica, propaganda e critica. Del resto, la ricerca doveva andare nella direzione dell’analisi della “letteratura di massa”: avrebbe potuto riguardare i fogli periodici distribuiti sui vari fronti, i testi di propaganda, i romanzi di successo e più popolari che trattarono della Seconda guerra mondiale.

Senonché, come spesso accade ad una ricerca, che è sempre un vero e proprio viaggio, l’esito finale è stato diverso da quello che ci si era proposti: il porto, forse solo provvisorio, a cui si è attraccati è diverso dalla destinazione scelta inizialmente. È una destinazione intermedia, ancora una volta parziale.

Tra i diversi percorsi della memoria, si è scelto di trattare della letteratura alpina del ritorno dalla Russia: senza dubbio la più cospicua e la più feconda, e

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senza dubbio quella che ha fornito i maggiori successi editoriali del “genere”. Lo si è fatto esaminando tre opere rappresentative di tre diversi modi di scrittura e di tre diversi generi. Un diario, una memoria, un romanzo – con tutta la provvisorietà di una differenziazione non sempre praticabile per testi che vivono della ibridazione dei generi (diario, autobiografia, romanzo storico, scrittura privata, scrittura pubblica). E ancora: un’opera fortemente critica, una che sembra ricostruire un’epica, una che può assumere i tratti consolatori della propaganda. Si sta alludendo ai tre libri di Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern e Giulio Bedeschi.

Tre parabole di scrittura che, a partire dal racconto di un medesimo evento, mostrano l’irriducibilità della memoria ad un’unica immagine. Mai tardi, Il sergente nella neve, Centomila gavette di ghiaccio: libri a cui arrise un notevole successo di pubblico, lampante per gli ultimi due. Il libro di Rigoni, poi, tocca vette che lo collocano nel canone della maggiore letteratura italiana – se non europea – del secondo Novecento. Al di sotto di questi testi, un continente di scritture significative che non raggiunsero gli stessi numeri. Al di là di questi testi, un ininterrotto filone di scrittura: basti pensare che ancora nel 1987 Mario Spinella vinceva il premio Viareggio con Lettera da Kupjansk, un romanzo che riproponeva, non senza un certo grado di sperimentalismo, il modello di maggiore successo della narrazione della seconda guerra mondiale, appunto quello del nostos e dell’anabasi. Si pensi, inoltre, alle ricostruzioni romanzesche proposte da un autore come Alfio Caruso, che pubblica il suo Tutti i vivi all’assalto ancora nel 2005.

Perché mai – ci si può chiedere con Isnenghi – il fronte russo ha imposto a tal punto la sua presenza, per qualità e quantità, rispetto a ogni altro fronte? «La Russia ci ha dato tanto il capolavoro – con Il sergente nella neve – che il best- seller – con Centomila gavette di ghiaccio –, tanto il “genere” che l’industria e il lavoro di memoria in serie (con iniziative del tipo C’ero anch’io animate dallo stesso Giulio Bedeschi)». Le ragioni di questa preminenza risiedono in diversi fattori: alcuni di essi, la cosa non dovrebbe stupire, possono avere una matrice letteraria. Ogni opera letteraria entra in una tradizione e con questa dialoga, anche

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se i motivi che sono alla base della sua composizione sono tutti esterni alla letteratura. La guerra di Russia ha una tradizione di riferimento che può fare da traino a questi testi, che può definirne una collocazione in un determinato orizzonte d’attesa. E poi v’è la «mitica lontananza dell’impresa». La peculiarità di una esperienza che possedeva risvolti politici non comuni: soldati fascisti si recavano nella terra dei bolscevichi. Che immagine ne riportavano? A questa, e altre domande, il presente lavoro cerca di fornire risposte plausibili.

L’analisi monografica delle tre opere segue uno schema comune. Ogni capitolo è diviso in tre paragrafi: nel primo si ricostruiscono le vicende editoriali dell’opera in esame, in rapporto con le dinamiche complessive della letteratura della Seconda guerra mondiale attive al momento dell’uscita; nel secondo si affronta l’analisi del testo (struttura, temi, lingua e stile); nell’ultimo si esamina la sua fortuna. Per l’analisi delle opere si è fatto ricorso ad una serie di suggestioni e di categorie interpretative provenienti da testi che hanno esercitato una influenza decisiva nel rinnovamento del modo di considerare il rapporto tra letteratura e guerra. Tali categorie interpretative – quelle di Isnenghi, Fussell, Leed, Gibelli – sono state elaborate a partire dalla Prima guerra mondiale, ma possono essere riconvocate a spiegare anche alcune caratteristiche della guerra sul fronte russo nella Seconda. L’uso delle categorie interpretative elaborate per la memorialistica, la diaristica e i romanzi della Grande Guerra, almeno nell’ordine di alcuni caratteri generali, sembra infatti potersi estendere ad un arco temporale che comprenda entrambi i conflitti, giusta la validità di alcune, ormai classiche, interpretazioni storiografiche. Del resto, lo stesso Fussell nell’ultimo capito del suo libro sottolineava l’insistenza di tale rapporto: «Il modo in cui i dati e i comportamenti della Seconda guerra “si basano” su quelli della Prima fa quasi pensare che vi sia stata una sola e ininterrotta Grande Guerra, che si è prolungata per tutta la prima metà del ventesimo secolo».

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CAPITOLO I

«In guerra toccherò la verità»:

guerra e scrittura in Mai tardi (1946) di Nuto Revelli.

I.

Il diario di Nuto Revelli, Mai tardi, è una delle prime testimonianze che giungono alla stampa dopo il 1945. Esso viene pubblicato nel 1946 da una piccola casa editrice di Cuneo e resterà per molti anni scarsamente noto al grande pubblico1. La critica, tuttavia, con Carlo Muscetta, recepisce subito l’importanza e la peculiarità di questa memoria della campagna di Russia: «Nei giorni scorsi – osservava Muscetta in una recensione datata 1946 e scritta all’indomani della pubblicazione – ha attirato l’attenzione dei vari quotidiani un documento che vogliamo sperare non resti isolato nella letteratura di questi anni»2. Il critico stava alludendo appunto al «diario di Nuto Revelli […] un ufficiale di carriera (si noti bene) che ha combattuto sul fronte russo, nel Corpo d’Armata Alpino, che ha vissuto cioè una delle campagne più tremende della guerra fascista, una campagna

1N. REVELLI, Mai tardi, Cuneo, Panfilo editore, 1946. Il diario sarebbe stato riveduto dall’autore e ripubblicato, con altro titolo, La ritirata sul fronte russo, nel 1962, e inserito nel volume La guerra dei poveri, Torino, Einaudi, 1962. In questa nuova redazione i nomi delle persone e la denominazione dei reparti sono reali. Il diario sarà nuovamente pubblicato nella sua prima redazione nel 1967. Si vedano le edizioni recenti, da cui si cita, N. REVELLI, Mai tardi, Torino, Einaudi, 2001 (ma già 1967), e ID., La guerra dei poveri, ivi, 1993.

2 C. MUSCETTA, Un diario dell’ultima guerra, «La fiera letteraria», 24 luglio 1947, successivamente raccolto in Id., Letteratura militante, Firenze, Parenti, 1953 (ora Napoli, Liguori, 2007, con prefazione di Romano Luperini), e nel volume Realismo, neorealismo, controrealismo, Milano, Garzanti, 1967, da cui si cita, p. 291.

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che forse poteva trovare il combattente meglio fanatizzato dalla propaganda antibolscevica»3. Nella recensione Muscetta pronunciava un giudizio di valore estremamente positivo: in prima istanza andrà notato che il critico ascriveva subito il diario di Revelli al campo della “letteratura” ed esprimeva la speranza che altri testi simili – ma questa volta li chiama “documenti” – potessero venire alle stampe. Inoltre Muscetta giudicava positivamente un libro, qual è quello di Revelli, che risultava “non fanatizzato” dalla propaganda antibolscevica, tratto caratterizzante delle prime pubblicazioni delle memorie di Russia. Il critico sembra insistere, dunque, sul valore etico e sul significato politico e sociale che potrebbero assumere «quegli scritti nei quali vibra il linguaggio vivo del fronte e il ricordo delle pene comuni»4. Dal giudizio letterario non poteva essere disgiunto il giudizio ideologico: per il critico avellinese era infatti necessario servirsi dei racconti di chi la guerra l’aveva sofferta e vissuta in prima persona per «rintuzzare la demagogia nazionalistica, di cui spesso son vittime ignare i combattenti, i reduci, le loro famiglie»5. È stato osservato che in tal modo, «paradossalmente, chi scriveva cercando di rielaborare il proprio passato recente, partendo magari dai motivi della propria estraneità o della difficile comunicazione delle esperienze vissute, si trovava a scegliere tra l’impegno civile della testimonianza da una parte, e la rimozione, la spinta al silenzio dall’altra»6. Torneremo sulla scelta dell’impegno da parte di Revelli e sulla scelta dell’esperienza resistenziale dalla quale la prima deriva.

Intanto può rivelarsi interessante richiamare ancora qualche passaggio della recensione di Muscetta, che ci restituisce il clima nel quale il testo di Revelli venne per la prima volta pubblicato. «Di fronte alla guerra fascista – rilevava Muscetta – si può dire che siano prevalse nell’opinione pubblica due opposte reazioni: quella di condanna in blocco per gl’inaccettabili motivi ideali che

3Ibidem.

4Ibidem.

5Ivi, p. 291.

6A. BISTARELLI, La storia del ritorno. I reduci italiani del secondo dopoguerra, Torino, Bollati Boringhieri, 2007, p. 55.

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trascinarono l’Italia nel conflitto, e quella di esaltazione, tuttora persistente, sui motivi della propaganda fascista, presentati genericamente come “patriottici” e

“combattentistici”». In un dopoguerra, ancor più se la guerra è una guerra perduta,

«ad entrambe le reazioni si mescola un appassionamento più che mai inevitabile»7. Sotto questo velo di passioni, dunque, si nasconde una verità peculiare che gli storici e gli scrittori dovranno portare alla luce. La letteratura di guerra sembra allora presentarsi come letteratura della rimozione in un duplice senso: per le vicende traumatiche di cui essa elabora il racconto e che costituiscono un vero e proprio rimosso psicologico; e per il lavoro che ogni scrittore dovrà fare sui propri ricordi, spogliandoli dal “velo” della passione, rimuovendo da quelli ogni incrostazione retorica e propagandistica.

Scriveva Muscetta: «Quando gli uomini sono posti di fronte a fatti supremi come il rischio della propria vita, o l’uccisione di altri uomini, la vita morale subisce traumi di eccezionale violenza; e al collaudo di situazioni imprevedibili, la personalità si rivela a se stessa, in una luce cruda e lampante»8. Quello di Nuto Revelli è per il critico uno di quei testi che attuano la rimozione del velo delle contese politiche e delle posizioni ideologiche, nei quali «vibra il linguaggio vivo del fronte e il ricordo delle pene comuni». Un linguaggio crudo e lampante, una prosa «convulsa» e «illetteraria», impoetica, fatta di urla, di imprecazioni, di scatti: sarà questa per Muscetta la cifra stilistica del libro di Revelli; sarebbe stato

«questo linguaggio autentico e semplice» che avrebbe favorito l’approfondimento dei «valori morali della guerra combattuta, aiutando insieme un po’ tutti a sgomberare la retorica fumogena, a collocarci in una sfera più alta, dove non possono e non devono sopraggiungere certi equivoci sentimentali e certe inconfessabili speculazioni»9.

Forse proprio a causa dei motivi che meritarono l’apprezzamento di Carlo Muscetta, il testo ebbe scarsa fortuna presso il pubblico e presso le grandi case

7C. MUSCETTA, Un diario dell’ultima guerra cit., p. 289.

8Ibidem.

9Ivi, p. 290.

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editrici dell’immediato dopoguerra. Come è stato rilevato, il suo esasperato realismo, figurativo e linguistico, il tono aspro e polemico contro «la dirigenza politico-militare dell’Italia fascista (in gran parte riciclata nell’immediato dopoguerra), la rivendicazione della continuità tra l’esperienza di agnizione dell’anabasi russa e la presa di coscienza antifascista rivelavano l’essenza di uno scritto che Vittorini avrebbe definito senza indugi “pratico”, funzionale alla lotta politica immediata, ma apparentemente privo di spessore letterario»10, al confronto, ad esempio, del più tardo libro di Rigoni Stern da cui – secondo Vittorini – si sarebbe ricevuta «un’impressione più di carattere estetico che sentimentale e polemico»11.

Di fatto, non giovò a Revelli l’aver pubblicato le proprie memorie per una casa editrice locale in una stagione in cui il difficile e frammentato mercato editoriale12 veniva invaso da centinaia di titoli riconducibili alla «letteratura dell’uscita», di cui la ritirata sul fronte russo era uno dei percorsi13. La guerra civile si trasformava in «guerra della memoria»14e si esternava letterariamente in una copiosa messe di pubblicazioni15.

10 M. MONDINI, Memorie contro. Nuto Revelli e la strada del «davai», in ID., Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 179.

11 Il cenno al giudizio vittoriniano fa riferimento a quello espresso dal critico e scrittore sul romanzo di Mario Rigoni Stern Il sergente nella neve pubblicato nella collana einaudiana dei

“Gettoni” di cui Vittorini era direttore: «è forse l’unica testimonianza del genere da cui si riceva un’impressione più di carattere estetico che sentimentale e polemico, o insomma pratico». Cfr. G.

C. FERRETTI, L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, pp. 253 e ssg.; e V. CAMERANO, R. CROVI, G. GRASSO, a cura di, La storia dei Gettoni di Elio Vittorini, con la collaborazione di Augusta Tosone, introduzione e note di Giuseppe Lupo, Torino, Aragno, 2007, vol. II, p. 567.

12Si rinvia a G. C. FERRETTI, Storia dell’editoria letteraria in italia. 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004, pp. 61-151. Si veda inoltre G. RAGONE, Tascabile e nuovi lettori, in G. TURI, a cura di, Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, Milano, Giunti, 1997, pp. 449-478.

13Di «letteratura dell’uscita» come caratteristica della letteratura della Seconda guerra mondiale parla Mario ISNENGHI nel suo Le guerre degli Italiani. Prole, immagini, ricordi 1848 - 1945, Milano, Mondadori, 1989, ora Bologna, il Mulino, 2005, pp. 251-266.

14Si veda per questo tema F. FOCARDI, Le origine della narrazione antifascista della guerra 1943- 1947, in ID., La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 3-18.

15Cfr. M. MONDINI, Memorie contro cit., p. 179. Si vedano inoltre A. BISTARELLI, La storia del ritorno cit., pp. 45-61 e M. ISNENGHI, Le guerre degli Italiani cit., pp. 254-256. Giorgio ROCHAT nel suo La campagna di Russia 1941-1943: rassegna bibliografica, «Il Movimento di liberazione in Italia», n. 79, aprile-giugno 1965, pp. 61-91, contava già oltre 60 titoli di memorialistica, compresa quella sulla prigionia. Si veda inoltre ID., Memorialistica e storiografia sulla campagna

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Il pur precoce libro di Revelli non era infatti il primo ad essere stampato sull’anabasi dei soldati italiani dal fronte orientale. Come ha esemplarmente mostrato lo storico Thomas Schlemmer in un suo saggio sulla campagna italiana di Russia, «le prime relazioni sulle battaglie dell’8ª Armata italiana e la sua sconfitta circolavano già quando la guerra infuriava ancora aspramente in Europa»16. Questi primi documenti erano di due tipi: da un lato vi erano i pamphlet della propaganda fascista che tessevano le lodi del soldato italiano e ne esaltavano il coraggio in una guerra della quale veniva sottolineata la funzione antibolscevica17; dall’altro lato vi erano i diari e le testimonianze critiche contro il regime, che rendevano conto degli avvenimenti tragici sul fronte orientale. Queste ultime scritture furono diffuse prima di nascosto e poi, dopo lo sbarco degli Alleati nell’Italia meridionale, anche apertamente. «Per quanto diversi fossero questi scritti per la loro impostazione e il loro orientamento politico», essi

«portavano con sé una gamma di schemi interpretativi», di topoi e di figure che avrebbero informato in modo determinante la letteratura e, in generale, l’immagine della campagna di Russia18. Ad esempio, in nessuno dei testi, siano stati essi di propaganda o di critica, veniva messo in discussione il fatto che i soldati italiani avessero combattuto con valore, così come non si metteva quasi mai in dubbio il loro status di vittime e meno che mai la loro eccezionale umanità, immune dalla brutalizzazione19. «Anche i ruoli dell’eroe e del farabutto – ha

di Russia 1941-1943, in E. COLLOTTIet al., Gli italiani sul fronte russo, a cura dell’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e Provincia, Atti del Convegno svoltosi a Cuneo il 19-20-21 ottobre 1979, Bari, De Donato, 1982, pp. 465-482.

16T. SCHLEMMER, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 5-6.

17Di questo tipo di pubblicazioni fanno parte, ad esempio, le opere di propaganda di A. MAZZARA, Fanti in Russia, Roma, De Caro, 1942 e L. E. GRANTURCO, Ritorno dalla Russia, Roma, Marte, 1943.

18Cfr. T. SCHLEMMER, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943 cit. pp. 3- 5.

19Sulla ricostruzione memorialistica e storiografica del mito degli italiani “brava gente” – mito comune a tutti i racconti dai fronti di guerra – cfr. D. BIDUSSA, Il mito del bravo italiano, Milano, Il Saggiatore, 1994 e F. FOCARDI, Bravo italiano e cattivo tedesco: riflessioni sulla genesi di due immagini incrociate, «Storia e memoria», 1996, 1. Dello Stesso si veda ora L’immagine del cattivo tedesco e il mito del bravo italiano. La costruzione della memoria del fascismo e della seconda guerra mondiale in Italia, Padova, Rinoceronte, 2005.

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osservato Schlemmer – erano ripartiti in modo inequivocabile: da una parte il bravo italiano, dall’altra il tedesco cattivo e spietato cui veniva addossata senza esitazione tutta la responsabilità, si trattasse della guerra e della prassi d’occupazione in Unione Sovietica o della catastrofe dell’Armata italiana»20. Lo stesso Revelli, come vedremo, pur nella schiettezza di una prosa asciutta e realistica, farà ricorso a queste immagine topiche.

Varrà la pena di richiamare qui uno dei precedenti più significativi all’uscita del diario di Revelli: il libro del socialista Giusto Tolloy, Con l’armata italiana in Russia, pubblicato in clandestinità a Livorno nel 1944 con lo pseudonimo di Mario Tarchi, nel quale l’ex ufficiale nel Comando dell’8ª Armata passava a criticare duramente, tra le altre cose, l’incapacità del comando militare italiano21. Sarà un tema, questo, ripreso pure da Revelli il quale, se non dovrà pubblicare le proprie memorie con uno pseudonimo, si preoccuperà in ogni modo di nascondere dietro nomi fittizi quelli delle persone e dei reparti.

Gli antecedenti del diario di Nuto Revelli, dunque, come lui stesso lascia trasparire da una pagina del più tardo Le due guerre22 sono relazioni ufficiali, che non potevano essere immuni da certa retorica patriottarda e di certo non potevano utilizzare quel linguaggio “urlato” che Muscetta ha rilevato come una delle caratteristiche peculiari della scrittura di Mai tardi. È inoltre opportuno ricordare come in una prima fase, quella immediatamente successiva al 1945, a prevalere furono pubblicazioni di volumi di reduci dalla prigionia: è «il primo successo

20T. SCHLEMMER, Invasori, non vittime. La campagna italiana di Russia 1941-1943 cit. pp. 6-7.

21Il libro venne ripubblicato nel 1947 a Torino presso De Silva e successivamente riproposto ai lettori, sulla scorta del successo arriso ad altri testi di questo “genere”, nel 1968 a Milano per i tipi di Mursia. Se ne trova una citazione anche nella rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da Benedetto Croce: «La Critica», n. 42, 1944, p. 277.

22N. REVELLI, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 77- 122. Si tratta di un libro che nasce dai testi preparatori e dalle lezioni tenute da Nuto Revelli presso l’Università di Torino, nell’ambito del corso 1985-86 di Storia contemporanea del professor Giorgio Rochat.

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editoriale delle memorie di Russia» che consiste in una ventina di volumi tutti

«violentemente antisovietici»23.

In un siffatto quadro di memoria frantumata e ancora lontana da una ricomposizione storiografica, dunque, Mai tardi non incontrò un largo pubblico.

Senonché, il diario sarebbe stato in seguito riveduto dall’autore e ripubblicato come primo capitolo del libro la Guerra dei poveri nel 1962 e in questa sede avrebbe trovato un «tardivo ma eclatante successo»24. Le ragioni di tale successo sono da ricercare piuttosto in fattori esterni, che nella pur significativa rielaborazione del testo: «un cambiamento di ricezione dovuto al mutato contesto politico, alle modifiche dei paradigmi del campo letterario, alla sede prestigiosa della pubblicazione (Einaudi) e, probabilmente, anche alla completezza del volume, diventato ora una straordinaria testimonianza delle illusioni, del disincanto e dell’impegno della “generazione del Littorio”»25. Nel volume, infatti, sarebbero confluite anche le memorie della resistenza piemontese e una premessa nella quale erano rievocati gli anni della formazione. Non va dimenticato, tra l’altro, che nella primavera del 1953, sempre per Einaudi, nella prestigiosa collana dei «Gettoni», erano usciti i ricordi della ritirata di Russia di Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve: la «piccola Anabasi dialettale», come l’aveva favorevolmente definita Vittorini, ebbe un successo immediato, del quale fu prova la vincita, pochi mesi dopo, del Premio Viareggio per l’opera prima. Vero e proprio “best seller all’italiana”26, il libro di Rigoni Stern avrebbe avuto un effetto trainante sulle pubblicazioni legate al “genere” della letteratura di guerra27.

23G. ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005, p. 397. Si veda inoltre M. T. GIUSTI, I prigionieri italiani in Russia, Bologna, il Mulino, 2003.

24M. MONDINI, Memorie contro cit., p. 179.

25Ivi, p. 180.

26Per una descrizione di questa “categoria” si rinvia a G. C. FERRETTI, Il best seller all'italiana.

Fortune e formule del romanzo di "qualità", Roma-Bari, Laterza, 1983.

27Cfr. G. ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943 cit., pp. 378-399. In particolare p. 398: «Le alte tirature di questi [Il sergente nella neve e Centomila gavette di ghiaccio] e altri volumi sono importanti perché aprono la via anche agli altri autori, gli editori sanno che un volume sulla Russia si vende, anche se ovviamente in un numero assai inferiore di copie».

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Tra gli altri titoli che precorsero la ripubblicazione del diario di Revelli nel 1962 e prepararono il campo alla possibilità di una diversa accoglienza presso il pubblico, andranno richiamati alla memoria almeno i ricordi della guerra di Russia di Cristoforo Moscioni Negri, I lunghi fucili28, che molti punti di vicinanza avranno con Mai tardi: dalle motivazioni che spinsero l’autore alla scrittura alla denuncia polemica contro lo sfacelo omicida della dirigenza militare, alla parabola esistenziale che ha quali tratti salienti la disillusione nei confronti dell’esperienza di guerra e la successiva ribellione. Pubblicato nel giugno del 1956 per la collana einaudiana dei «Saggi» proprio come complemento del Il sergente nella neve, I lunghi fucili non ebbe un successo di pubblico comparabile a quello del libro di Rigoni Stern, forse per le stesse ragioni per cui prima Mai tardi e poi La guerra dei poveri non divennero dei best seller. Varrà la pena di seguire brevemente le vicende legate al libro di Moscioni Negri, poiché esso disvela non pochi punti di contatto con il diario di Revelli. Come è stato rilevato, la pubblicazione de I lunghi fucili costituì «motivo di amarezza per l’autore, che attribuì il limitato successo del libro a una presentazione editoriale che lo aveva reso “una minestra riscaldata”, ponendolo nella scia del Sergente nella neve»29. Si trattava di un apparentamento naturale e inevitabile, dal momento che il tenente Moscioni figura tra i protagonisti del libro, comandante del plotone cui apparteneva Rigoni Stern:

«Calvino aveva addirittura pensato a una fascetta che suonasse: “il tenente del sergente”»30. Senonché, lo stesso Calvino, aveva poi segnato con nettezza, nel

28C. MOSCIONINEGRI, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Torino, Einaudi, 1956. Una riedizione del libro si ebbe nel 1964, dopo le uscite, nei due anni precedenti, del libro di Nuto Revelli, La guerra dei poveri, e del fortunatissimo Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi, a testimonianza ulteriore di come le scelte editoriali relative alla pubblicazione di questo

“genere” di titoli fossero legate, oltre che ad un clima culturale diverso da quello dell’immediato dopoguerra, anche all’effetto trainante di libri di successo. Si veda ora C. MOSCIONINEGRI, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, Bologna, il Mulino, 2005, con l’interessante appendice di Mario Rigoni Stern, Il tenente del «sergente nella neve» ha scritto il suo libro, che riproduce l’articolo che Italo Calvino richiese per il «Notiziario Einaudi» del giungo 1956. La premessa al testo, redazionale, è attribuibile a Calvino stesso. Su Moscioni Negri si veda l’articolo di Eraldo AFFINATI, Il diario del tenente nella neve, «Il Giornale», 13 luglio 2005.

29 U. B. ARNOALDI, Il tenente nella neve, introduzione a C. MOSCIONI NEGRI, I lunghi fucili.

Ricordi della guerra di Russia, Bologna, il Mulino, 2005, p. IX.

30Ibidem.

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“risvolto” del libro, la diversità e la distanza tra i due libri – che è, a ben guardare, la stessa che passa tra Il sergente nella neve e Mai tardi: «Se nel libro di Rigoni Stern parlava il semplice e tenace alpino che si fa interprete dei sentimenti pieni d’umanità della moltitudine, qui parla un giovane ufficiale partito per la guerra con in testa idee ben radicate di dovere e di responsabilità militare, un militare appassionato del suo compito, competente e capace che, trovandosi di fronte a tutte le responsabilità, l’impreparazione, gli errori, soffre, s’arrovella, dà il meglio di se stesso legandosi ai suoi uomini che vede mandati allo sbaraglio, e in questa esperienza si fa uomo». E continuava: «Di questa disillusione giovanile che diventa serena, ferma polemica morale e lezione umana, vibra tutto il libro»31. Il libro di Moscioni Negri, dunque, pare configurarsi come un vero e proprio

«Bildungsroman del giovane ufficiale borghese che “si fa uomo” scendendo tra i suoi alpini»32. Lo stesso Italo Calvino, fin dalla prima lettura redazionale, aveva espresso a Rigoni Stern le proprie riserve: «Non avrà il successo del suo libro, perché la figura dell’ufficiale che racconta è meno nuova di quella del sergentmagiù»33.

Se, anche per i motivi appena richiamati, La guerra dei poveri di Nuto Revelli non fu «fortunato come il best seller di Rigoni, né come i lavori di poco successivi di Bedeschi», esso fu «in ogni caso, un evento letterario di notevole importanza, e contribuì a strutturare il canone alpino basato sull’epica del sacrificio»34.

Per ceti versi, è stato rilevato, il diario di Nuto Revelli poi confluito all’inizio degli anni Sessanta ne La guerra dei poveri, «attaccò direttamente l’idea che fosse possibile erigere, proprio sull’anabasi di Russia, una memoria pubblica consolatoria, improntata sul modello dell’evento sfortunato ma glorioso». Lo stereotipo che aveva caratterizzato le memorie di guerra fino agli anni Cinquanta e per il quale, al suo primo apparire, Mai tardi, non ebbe e non poté avere grande

31Cfr. l’Appendice a C. MOSCIONINEGRI, I lunghi fucili cit., p. 131.

32U. B. ARNOALDI, Il tenente nella neve cit., p. IX.

33Ibidem.

34M. MONDINI, Memorie contro cit., p. 187.

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fortuna, si era radicato fino a costruire un «rovesciamento della sconfitta e una mitizzazione dell’eroico, ma sfortunato, soldato italiano»35. È in Revelli una presa di posizione individuale, forte, che distingue la sua narrazione dalle altre due ben più famose opere del fronte russo e della ritirata. Se in Rigoni Stern prevale il tono lirico e pacato e in Bedeschi una ricostruzione romanzesca, il tratto distintivo del racconto di Revelli consiste nella protesta severa e nella ricostruzione della storia dal basso36. Lo stesso autore, introducendo un libro per più tardo, Le due guerre (2003), sembra proporre al lettore la sua narrazione, la sua «verità», come individuale, e solo problematicamente collocabile in quel quadro unitario che pure, ad uno sguardo da lontano, sembra emergere dalla totalità della letteratura del ritorno dal fronte russo:

Sono un testimone del secondo conflitto mondiale. O meglio, sono un testimone delle «due guerre» del secondo conflitto mondiale: della guerra fascista e della guerra partigiana.

La mia paura nel raccontare quegli anni è sempre stata questa: che la mia verità potesse prevalere fino al punto di tradire, di stravolgere l’altra verità, quella storica, quella che conta.

Ho una mia verità, maturata negli anni di guerra. Questa mia verità l’ho poi messa a confronto, fin dal dopo Liberazione, con altre cento, affiorate in questi anni.

Non poche delle certezze di allora, sono rimaste però ben salde nella memoria.

Spetterà al lettore giudicare la mia verità, che non è la verità in assoluto37.

35Ibidem.

36Sarà il tratto peculiare di tutte le opere di Revelli. Con La strada del davai (Torino, Einaudi, 1966), Revelli raccolse memorie dei reduci: una silloge di ricordi «dal basso», registrati dall’autore in una serie di conversazioni con ex Alpini delle valli della provincia di Cuneo, 29 tornati dalla prigionia e 13 usciti dalla sacca insieme agli altri reparti (Cfr. M. MONDINI, Memorie contro cit., p.

189). Revelli raccolse inoltre le lettere dei soldati caduti o dispersi in Russia nel volume L’ultimo fronte (Torino, Einaudi, 1971). Quindi lo scrittore si rivolse ancora al modello di una storia orale

«dal basso» con l’inchiesta sui contadini e le donne cuneesi, Il mondo dei vinti (Torino, Einaudi, 1977) e L’anello forte (Ivi, 1985). Infine affrontò dure ricerche sulle figure atipiche di un ufficiale tedesco, Il disperso di Marburg (ivi, 1994), e di un prete cuneense, Il prete giusto (ivi, 1998).

Sull’opera di Nuto Revelli si veda Nuto Revelli. Percorsi di memoria, a cura di M. CALANDRI, M.

CORDERO, numero monografico de «Il presente e la storia», n. 55, giugno 1998. Si veda anche N.

GALLERANO, Il mondo dei vinti, in «Rivista di storia contemporanea», 1978, n. 4, pp. 546-548.

37N. REVELLI, Le due guerre cit., p. XI.

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Sono in questo breve passaggio testuale alcune delle parole chiave della scrittura di Nuto Revelli: «testimone», «memoria», «raccontare», «verità». In questo, la letteratura di guerra dal fronte russo sembra avere non pochi punti di contatto con le memorie dei prigionieri dei campi di sterminio. In particolare, l’idea di testimonianza e di verità individuale che emerge dalle parole di Revelli, può far pensare al «tipo perfetto di testimone»38che è Primo Levi. Se l’esito delle vicende biografiche non accomuna questi scrittori, e se pure gli eventi che essi raccontarono non sono paragonabili, entrambi narrarono instancabilmente le proprie esperienze, tornando incessantemente sugli stessi temi e sui medesimi avvenimenti, in una coazione a ripetere:

Quando ero appena ritornato dal campo di concentramento […] provavo un bisogno irrefrenabile di raccontare la mia vicenda a chiunque!... Ogni occasione era buona per raccontare a tutti la mia vicenda. […] Poi incominciai a scrivere a macchina durante la notte… Tutte le notti scrivevo, e questa veniva considerata una cosa ancora più folle39.

Primo Levi, come molti altri, e come lo stesso Revelli, «non si sente scrittore, diventa scrittore unicamente per testimoniare»40. Esiste la necessità e l’urgenza dell’espressione. Il già richiamato Moscioni Negri, confidando a più riprese a Calvino le motivazioni che lo indussero a scrivere le proprie memorie, esprime sentimenti non dissimili: «Per me queste note che sto scrivendo vogliono dire molto […]. Io non sono scrittore e il dover ricordare e rivivere gli stati d’animo di allora mi dà un tormento che è forse maggiore di quando li ho vissuti»41; «Da anni attendevo di scrivere questo libro e mi dispiace di non essere uno scrittore perché avrei voluto evitare la prima persona e rendere in tutta la sua interezza la tragedia di quei nostri alpini scarificati bestialmente e

38 G. AGAMBEN, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 14.

39P. LEVI, Conversazioni e interviste, Torino, Einaudi, 1997, p. 224.

40G. AGAMBEN, Quel che resta di Auschwitz cit., p. 14.

41Lettera del 5 ottobre 1955, riprodotta in U. B. ARNOALDI, Il tenente nella neve cit., p. VIII.

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stupidamente»42; e ancora: «Ho scritto senza nessuna pretesa letteraria ma solo perché da anni l’avevo dentro e davvero non solo per me ma anche per quelli che non sono tornati»43.

II.

Scrive Nuto Revelli in un altro luogo della sua opera, raccogliendo le testimonianze della vita contadina:

La guerra è la grande esperienza, è la ferita mal cicatrizzata che riprende a sanguinare non appena la tocchi. È lì che tutti i reduci vorrebbero arrivare subito, sono sempre i ricordi di guerra quelli che più urgono, che tendono ad esplodere44.

Sul limitare dell'immane tragedia della guerra la scrittura assume improvvisamente i caratteri di un gesto necessario e salvifico. E non solo perché la lettera è l’unico ponte con ciò che si è lasciato a casa. Per i soldati più istruiti il taccuino diventa un oggetto di cui prendersi cura: ad esso viene infatti attribuita, con procedimento metonimico, l’importanza di conservare il ricordo o di raccontare la speranza del ritorno. Così Nuto Revelli nel suo Diario di un alpino in Russia descrive il proprio attaccamento all’oggetto, rievocando le ore di disperata concitazione della ritirata:

Su per una lunga salita stiamo per raggiungere le colonne che ci precedono.

All’improvviso due colpi di anticarro fischiano bassi sulle nostre teste. Penso alla mia borsa portacarte; è quanto mi è rimasto di più caro: anche ferito gravemente riuscirei a far sparire il mio diario e le due fotografie di Annetta45.

Insieme al diario, le foto di Annetta, l’amata ragazza che aspetta il ritorno del suo soldato. Anche in quest’altro oggetto «caro» è possibile rintracciare il germe della scrittura: ad Annetta, infatti, sono indirizzate decine di lettere «false e

42Lettera del 15 dicembre 1955, ibidem.

43Lettera del 27 dicembre 1955, ibidem.

44N. REVELLI, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi, 1977, p. 32.

45N. REVELLI, Mai tardi cit., p. 131.

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meno false», e a lei è rivolta l’attesa sfibrante (spesso la posta negli avamposti non viene consegnata per giorni) di una risposta. Tuttavia, se il diario è uno strumento per capire e raccontare il vero, le lettere non possono restituire appieno

«l’ottusa violenza»46della vita al fronte. Non possono: e in molti casi non devono.

«Adesso occorre nascondere la verità», scrive il soldato, «il freddo raggiunge i 20 gradi sotto zero, basterebbe segnalare questa temperatura per allarmare i familiari»47. Un divario d’esperienza e di linguaggio separa chi è partito da chi è rimasto: di conseguenza la comunicazione, intesa nel suo valore di testimonianza, è o impossibile o possibile soltanto per metafore, attraverso l’uso costante dell’eufemismo e della reticenza:

Ho scritto una strana lettera ad Anna: la storia del gattino e dei topolini del mio bunker, una storia monotona, il gattino che tattica, che gioca, e vince sempre. A sud, da tempo i gattini sono carri armati da trentaquattro tonnellate! Anna capirà…48.

La stessa difficoltà nel comunicare il reale in maniera diretta con chi è rimasto a casa è enunciata da Mario Rigoni Stern in un passaggio del suo Sergente nella neve. Del resto, la scrittura che interessa il vero, un vero disumano e indicibile, talmente osceno e gorgoneo da condurre alla nevrosi chi lo osserva49, si risolve in un intimo colloquio con ciò che resta della propria umanità e moralità.

Essa è, al fondo, una questione privata, un’esperienza non immediatamente condivisibile. Nell’esordio del celebre saggio del 1936 sul narratore (Der Erzähler), Walter Benjamin concentrava la riflessione proprio sull’incomunicabilità dell’esperienza di guerra (della Prima guerra mondiale intesa come prima guerra tecnologica), individuando in tale mancata

46P. FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 379.

47N. REVELLI, Ultimo fronte. Lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1989, p.XLII.

48ID., Mai tardi cit., p. 101.

49Ha scritto Primo Levi, prendendo a prestito l’immagine del mito: «Noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone non è tornato per raccontarlo o è tornato muto» (I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 64).

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partecipazione, la radice storica del tramonto dell’arte della narrazione: «con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana di libri di guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca»50. Benjamin spiegava l’attitudine al silenzio del reduce ricorrendo alla contraddittorietà degli eventi dei quali fu in balia – una contraddittorietà evidentemente propria di ogni guerra, sebbene accentuata nel primo conflitto mondiale dall’impatto dell’orrore tecnologico sulla psiche del combattente. Ogni aspettativa del soldato fu generalmente rovesciata negli esiti, e questo lo costrinse ad una riflessività continua e straniante, e ad un complessivo ripensamento dell’io51. La pagina si offrirà, allora, come il nucleo di condensazione del sé e della memoria, configurandosi come un altro fronte sul quale combattere una strenua battaglia di resistenza contro le nevrosi generate dal paradosso realizzato dalla vita di guerra52. È stato rilevato come ogni esperienza liminare si costituisca quale momento d’apprendimento: senonché, quello che appresero i soldati in tempo di guerra fu un segreto che non poté essere immediatamente comunicato53.

Affatto diverso risulta essere il caso della scrittura epistolare dal fronte.

Nelle lettere permane una discrasia tra il reale e la sua trasmissione, tra la volontà di capire e spiegare gli eventi e quella di salvaguardare i propri cari dall’orrore54.

50W. BENJAMIN, Il Narratore. Considerazioni sull’opera di Nicolai Lesckov, in Angelus Novus.

Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1995, p. 248.

51 Cfr. anche E. J. LEED, No Man’s Land. Combat and Identità in World War I, Cambridge University Press, Cambridge 1979, trad. it., Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella Prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1997 [ 1ª ed. 1985], pp. 9-48 e 275.

52«Nulla evidenzia questa situazione meglio del tema che pervade la letteratura di guerra: quello della morte, del giacere, del vivere al fianco della morte […], abituarsi a quella guerra significò acquistare familiarità con un mondo definibile solo in termini di paradosso», ivi, p. 36.

53In questi termini si esprimeva Charles Edmunds CARRINGTON nel suo Soldier from the Wars Returning, citato in E. J. LEED, Terra di nessuno cit., p. 41.

54 Per quanto riguarda la scrittura epistolare si vedano A. GIBELLI, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 51- 60; e P. FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna cit., pp. 226-232: «Per colmo d’ironia, il riserbo che nasceva dalla sollecitudine degli scriventi per i sentimenti dei destinatari era

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Per di più, sulle lettere era incombente la minaccia della censura. La comunicazione fu così molto spesso affidata alla retorica blanda dei sentimenti, alle parole abusate del vocabolario della nostalgia, contrapposte alle «parole nuove» che dovevano essere cercate per esprimere la condizione del soldato:

Ritornando solo alla mia tana pensavo se avrei trovato posta e che parole nuove dovevo scrivere alla ragazza. Ma le parole nuove erano sempre quelle vecchie:

baci, bene, amore, ritornerò. Pensavo che se avessi scritto: gatto per Natale, olio per le armi, turno di vedetta, Beppo, postazioni, tenente Moscioni, caporale Pintossi, reticolati, non avrebbe capito55.

Del resto, gli uomini al fronte trovarono nella forza del linguaggio il modo di colmare una distanza altrimenti siderale e di restare ancorati ad una realtà familiare, sebbene riconvocata nelle forme del ricordo. E ciò non avvenne unicamente attraverso la scrittura; anche solo parlare, pronunciare nomi che non avevano nessuna relazione con il posto e il momento in cui ci si trovava a dover sopravvivere – nomi consueti, domestici, la cui presenza improvvisa e straniante, nel mezzo della desolazione della guerra, ebbe il carattere di un’epifania, di una rivelazione magica – produsse nelle menti e nei cuori dei soldati la grata sensazione di un ritorno a casa:

Buogo disse un nome. Mi misi a ridere assieme agli alpini che erano con me. Il nome di una donna, di una fidanzata, il nome italiano di una ragazza gridato così nella notte mentre sparavano i mitra russi e i moschetti italiani! – Di’, Buogo, come si chiama la tua fidanzata? Buogo! Buogo! Come si chiama? – E gli alpini ridevano. Diavolo! Chissà che bella ragazza era, e morbida, ed elegante56.

Poche pagine prima Mario Rigoni Stern aveva segnalato una situazione analoga, dove i nomi dei luoghi e dei cibi sembravano riuscire nell’impresa di riportare i soldati nelle loro terre d’origine. È da rilevare come in entrambi i passaggi il “ritorno” – si potrebbe forse parlare di “regressione” – si sviluppi

destinato semplicemente, a lungo andare, ad ampliare l’abisso d’incomprensione che si era aperto tra loro».

55M. RIGONISTERN, Il sergente nella neve (1953), Torino, Einaudi, 1990, p. 19.

56Ivi, p. 45.

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durante le ore notturne, quasi in un momento di sospensione onirica, durante il quale le sensazioni acustiche sono naturalmente amplificate, superiori a quelle visive, e bastano da sole a delineare immagini e a suscitare pensieri stupefacenti:

Pareva proprio di essere sulle nostre montagne e sentire i boscaioli chiamarsi fra loro. Specialmente di notte quando quelli del Morbegno, che erano nel caposaldo alla nostra destra, uscivano sulla riva del fiume a piantare reticolati e conducevano i muli davanti alle trincee e urlavano e bestemmiavano e battevano pali con le mazze. Chiamavano persino i russi e gridavano: – Paesani! Paruschi, spacoina noci! – I russi, stupefatti, stavano a sentire57.

È questo un tema ricorrente nella diaristica alpina. Anche Revelli rileva in una pagina della Strada del Davai la capacità dei soldati di ricostruire sulla linea del fronte un habitat familiare attraverso i nomi, di portare il ricordo della propria casa in una vita degradante, passata a guardare un nemico sconosciuto e non odiato: «le tane ricordavano le nostre valli, ogni bunker aveva il nome di un villaggio, di un borgo di montagna»58.

Rivisitando il topos della necessità della scrittura al fronte, nella prefazione all’edizione 1989 di Mai tardi Revelli tornerà a scrivere sulla questione del «bagaglio privato»: la borsa portacarte, «contenente il diario, due fotografie di Annetta, il piccolo stendardo azzurro della 46ª, la pallottola che lo aveva ferito su quota 228, e la penna stilografica»59. Un bagaglio che raccoglie emblematicamente, in necessaria contiguità (si noti il chiasmo nelle quali sono disposte), le immagini relative alla guerra e agli strumenti del suo racconto. La storia del taccuino con la copertina rigida, «di cartone marrone zigrinato», che

«sembra il breviario di un prete giovane», serve qui a rivelare gli inizi del rapporto del soldato con la scrittura. Revelli riceve la sua agenda da un ufficiale della compagnia – in quella vigilia della partenza forse lui non ne avrebbe comprata una – e la usa per annotare gli indirizzi dei suoi compagni:

57Ivi, p. 11.

58N. REVELLI, La Strada del Davai, Torino, Einaudi, 1966, p.XVIII.

59ID., Presentazione 1989, in Mai tardi cit., p.VII.

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Nelle ultime pagine, infatti, si leggono sei nomi, cognomi e indirizzi. Per la verità, la mia intenzione non era di tenere un diario vero e proprio. Mi dicevo:

«sono un ufficiale effettivo, e finalmente passerò dalla teoria alla pratica». Avrei visto all’opera i tedeschi, gli ungheresi, i rumeni, i russi. Avrei potuto tentare un confronto tra le loro macchine di guerra e la nostra. Ma questa mia intenzione svanì non appena salii sulla tradotta. Già la notte del 21 luglio riversai nella prima pagina i miei stati d’animo. […] Scrivevo perché non volevo dimenticare nulla.

Scrivevo con una grafia minutissima, ossessionato dall’idea di risparmiare spazio, ma anche perché ero geloso dei miei stati d’animo e non volevo che fossero leggibili agli altri60.

Al giovane soldato appena partito si rivela l’urgenza della scrittura di pensieri e memorie. Il proposito iniziale, che derivava dalla fiducia incondizionata nel valore della prassi, di usare l’agenda come strumento tecnico, annotandovi specifiche descrizioni militari d’armi e di spostamenti è immediatamente messo in discussione. Revelli, «educato alla mistica fascista»61, che era appunto mistica della prassi, prende immediatamente coscienza che la realtà fuori dalla Regia Accademia è ben diversa da ciò cui si era addestrato. Lo scorrere del treno lungo i chilometri di binari che conducono al fronte russo e alla possibile morte che lì attende gli alpini, la distanza sempre maggiore da casa, trovano la loro contropartita nello scorrere dell’inchiostro sulla pagina e nella maggiore vicinanza al proprio universo di ricordi, realizzata per il tramite della scrittura diaristica:

secondo una proporzione inversa, quanto più ci si allontana dall’Italia, tanto più il soldato si sente emotivamente legato al diario.

Come accade spesso per gli autori della letteratura di guerra – in molti casi scrittori al loro primo libro62–, Revelli prende la tradotta che lo condurrà al fronte russo senza particolari velleità da scrittore. Avrebbe affermato Aldo Garosci,

60Ivi, pp.V-VI.

61E. ELLI, La ‘guerra dei poveri’. Gli Alpini in Russia, nelle testimonianze di Giulio Bedeschi e Nuto Revelli, in M. ARDIZZONE, a cura di, Scrittori in divisa: memoria epica e valori umani. Atti del convegno in occasione della 73ª adunata dell’Associazione Nazionale Alpini, Brescia, 8-9 maggio 2000, Brescia, Grafo, 2000, p. 143.

62Cfr. P. FUSSELL, La Grande Guerra e la memoria moderna cit., p. 359 e sgg.

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presentando il volume La guerra dei poveri63, nel quale Revelli raccoglieva una rielaborazione del primo diario e memorie, lettere, diari della guerra partigiana, che «ci voleva la seconda guerra, la Russia, l’esperienza partigiana, per produrre uno scrittore che è un uomo di guerra nato». Può valere, dunque, anche per Revelli il giudizio, senza dubbio troppo lapidario, di “scrittore non di vocazione”

che Vittorini diede di Mario Rigoni Stern.

Tuttavia, ben prima dell’evento traumatico, la disastrosa ritirata, che attiva l’imperativo morale di «ricordare e raccontare», il giovane alpino matura la volontà di capire l’assurda macchina della guerra. È stato giustamente notato, infatti, come nello scrittore, che pur ha ricevuto un’educazione fascista, prevalga da subito il senso del dovere sulla retorica di regime64.

È interessante, a questo proposito, ripercorrere alcuni passaggi della lunga Premessa, narrativa e autobiografica a un tempo65, a La guerra dei poveri – la riedizione del 1962 del diario Mai tardi –, premessa che riassume molto bene la biografia di un giovane «che è anche biografia generazionale […], fatta, per i più entusiasti, di un’adesione fideistica ai rituali della gioventù guerriera, delle adunate ai “campi Dux”, alle sfilate, alle competizioni sportive»66.

Scrive Revelli:

Tutto quanto sapeva di forza mi elettrizzava: le parate militari, le adunate oceaniche. Mi tuffavo nella folla anonima con entusiasmo. Gridavo «viva il duce, viva la guerra» come in quei tempi gridavano quasi tutti67.

Nel settembre del 1939 Revelli entrava alla Regia Accademia di fanteria e cavalleria di Modena: «l’esperienza sportiva e marziale delle liturgie littorie può avere un solo sbocco onesto, quello della carriera militare». Come è stato rilevato

63 N. REVELLI, La guerra dei poveri cit., p. IX. La Prefazione di A. Garosci del 1962 è ripresa nell’Avvertenza dell’edizione da cui si cita.

64Cfr. E. ELLI, La ‘guerra dei poveri’ cit., p. 143.

65Per questo aspetto cfr. G. CINELLI, Ermeneutica e scrittura autobiografica. Primo Levi, Nuto Revelli, Rosetta Loy, Mario Rigoni Stern, Milano, Unicopli, 2008.

66M. MONDINI, Memorie contro cit., p. 180.

67N. REVELLI, La guerra dei poveri cit., p. 3.

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«l’esercito potrebbe sembrare la risposta, costituire per il giovane disilluso la via per una nuova fede nei confronti della nazione»68. Senonché l’addestramento militare finisce anch’esso per rivelarsi come una menzogna:

Ingranare a Modena non fu facile. Disciplina rigida, correre senza mai fermarsi, se non per mangiare, per dormire, con gli «anziani» che trattavano i «capelloni»

come ciabatte. Gli istruttori erano severissimi. […] Molto studio, su «sinossi»

vecchie quasi come il palazzo ducale nel quale abitavamo. Vecchi insegnanti che vivevano nel culto della guerra del ’15, nel culto dei seicentomila morti. Vita poco brillante: alla sera cinquanta minuti – non uno di più – di libera uscita. La mensa era piuttosto scarsa. Si respirava, con l’autarchia, l’inizio del razionamento. Tutto a squilli di tromba: mangiare, deglutire, digerire.

Io prendevo tutto sul serio. Non per nulla mi fecero «allievo scelto». «Sei un tedesco», mi diceva a volte il mio tenente, ed era un complimento. Soldato perfetto e tedesco erano quasi la stessa cosa69.

La prosa di Revelli, anche in queste pagine prefatore e rievocative, mostra il suo carattere diaristico: una sintassi che col suo ritmo breve e veloce sembra riprodurre il ritmo della vita militare. Una vita militare congeniale a Revelli, per il quale la disciplina e l’abnegazione rappresentano valori fondamentali. E tuttavia, dalle descrizioni di Revelli, sembra emergere l’immagine di una scuola militare che è già palestra di disillusioni, o che sembra prefigurarle. Bisognerebbe inoltre rilevare la cruda e sottile ironia che si cela dietro al apprezzamento «Sei un tedesco»: quello che era un complimento, infatti, a guerra finita si sarebbe rovesciato nel suo opposto, in un vero e proprio insulto. La chiusura precipitosa dei corsi nella primavera del 1941, infatti, proietta finalmente il soldato al reparto, prima alla divisione Cuneense, poi al 5° reggimento della Tridentina:

Ero un perfetto ufficiale effettivo. Non chiedevo che di fare la guerra, di pagare la mia parte. Le barzellette, il disfattismo del fronte interno, mi ferivano profondamente.

Guardavo la carriera, le medaglie, con naturale interesse: soprattutto le medaglie, perché separavano i combattenti dei piedipiatti del deposito.

68M. MONDINI, Memorie contro cit., p. 180.

69N. REVELLI, La guerra dei poveri cit., p. 4.

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