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Economia dell’invecchiamento C 2

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Academic year: 2022

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Economia dell’invecchiamento

Stefano Zamagni

Un paradosso, di non poco conto, sta intrigando le nostre società. In questa epoca, nella quale si è realizzato il più importante aumento della durata del ciclo di vita delle per- sone, pare proprio che si sia incapaci di dare a esse valore, mettendo a disposizione della causa del bene comune quel grande patrimonio di risorse umane che è la coorte degli ultra sessantacinquenni, cioè dei vecchi secondo la definizione statistica ancor’oggi in auge.

Accade, infatti, che da un lato si allontanano dal processo lavorativo persone che all’e- tà di sessanta anni hanno, in media, un’aspettativa di vita residua di vent’anni circa e che, in prevalenza, godono di buona o discreta salute, e, dall’altro lato, ci si interroga sui modi in cui le giovani generazioni in età lavorativa dovrebbero intervenire finanzia- riamente per assicurare ai vecchi uno standard decente di vita.

L’esito di questo modo - ancora oggi dominante - di affrontare il problema dell’in- vecchiamento è sotto gli occhi di tutti. Per un verso, una percentuale crescente di citta- dini viene umiliata perché la si lascia sentire socialmente irrilevante e dunque ridon- dante; per l’altro verso, si alimentano conflitti intergenerazionali circa l’allocazione inter- temporale delle risorse, conflitti che potrebbero scatenare veri e propri episodi di odio tra giovani e vecchi fino ad arrivare a forme più o meno velate di gerontocidio [1]. Cosa troviamo al fondo di questa forma di irrazionalità collettiva? La resistenza ad ammet- tere che il lavoro è costitutivo della persona umana, la quale né può scoprire appieno la propria identità né può pensare di autorealizzarsi se non per mezzo del lavoro. Un pen- siero antico, e dunque sempre attuale, rende bene questo concetto. Alla fine del 1300, la scuola francescana - prima vera e propria scuola di pensiero economico - affermava:“L’e- lemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere, perché vivere è produrre e l’elemosina non aiuta a produrre”. Il messaggio è chiaro: tenere a lungo una persona, non importa quanto anziana, fuori dall’attività lavorativa vuol dire negarle la sua fecondità e quin- di la sua possibilità di “vivere”. Nel suo celebre Vita activa, Hannah Arendt ci ricorda che gli esseri umani vivono interagendo con altri non solo - come accade con gli animali - perché è nella loro natura fare ciò, ma anche perché essi si scoprono e progrediscono durante il processo di interazione.

Perché pare così difficile affrontare il tema dell’invecchiamento a partire da una pre- messa culturale del genere? La risposta che trovo più plausibile è che i cardini del nostro impianto culturale sono rimasti quelli di una società fordista, di una società cioè in cui lavorare significava stare, basicamente, alla catena di montaggio, intesa in senso proprio oppure figurato. Per dirla in altri termini: il processo produttivo ha sue proprie leggi di funzionamento che vanno rispettate se si vuole aumentare la produttività e quindi abbattere i costi. Il lavoratore deve adattarsi a esse nei modi e nei tempi che il piano di lavoro esige. Di qui l’icona della figura di lavoratore che i libri di storia ci hanno trasmesso:

un soggetto, preferibilmente di sesso maschile, in piena forza fisica e quindi in buona

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salute, disposto ad accettare gradi elevati di alienazione in cambio di livelli crescenti di reddito e/o di vantaggi materiali.

Oggi sappiamo che l’organizzazione tayloristica del lavoro è in crisi irreversibile, e perciò non più in grado di consentire alle imprese di vincere la sfida della competizio- ne globale. Eppure, ci si ostina a credere, contro l’evidenza empirica, che debba essere l’uomo a piegarsi alle esigenze della macchina, anziché il viceversa, come sarebbe tec- nologicamente possibile ed economicamente conveniente. Ma una società che non sa dare valore al tempo e alle capacità dei suoi anziani è preda di uno spreco inaccettabile e dunque è una società non capace di futuro.“Dare anni alla vita e vita agli anni” è, nelle condizioni storiche attuali, un obiettivo perfettamente conseguibile, purché lo si voglia.

A ciò sono finalizzate le riflessioni che seguono.

Soffermiamo un attimo l’attenzione su taluni fatti stilizzati - quelli afferenti la tesi qui in discussione - della transizione demografica in atto nel nostro paese. Nel 1994, la vita media alla nascita degli italiani era di 74,7 anni per gli uomini e di 81,7 anni per le donne. Le previsioni ISTAT al 2010 portano questi valori a 77,5 anni e 83,7 anni rispet- tivamente. Ma è il processo di invecchiamento della popolazione, iniziato un quarto di secolo fa, il fenomeno che più rileva ai fini presenti. Come noto, l’invecchiamento è dovuto sia all’allungamento della vita media sia al declino del tasso di natalità.A sua volta, l’aspettativa di vita può aumentare o in seguito all’espansione della mortalità (innal- zamento dell’età estrema) oppure in seguito alla compressione della mortalità (sem- pre più persone sopravvivono alle varie età). Tuttavia, negli ultimi trent’anni, il fattore decisivo nel processo di invecchiamento è stato la compressione della mortalità e non tanto l’espansione della mortalità. Ciò chiarito, i giovani con meno di 15 anni erano il 24,4% della popolazione nel 1971; nel 1995 la loro percentuale si era ridotta al 14,8%.

Le persone ultrasessantacinquenni erano il 9,3% della popolazione nel 1951; esse sono diventate il 18,7% nel 1991. Inoltre, all’invecchiamento della popolazione si accompa- gna una parallela evoluzione della composizione delle famiglie. Per il 2010, l’ISTAT pre- vede un incremento del numero di nuclei familiari correlato a una forte riduzione del numero medio di componenti (2,8 nel 1990; 2,28 nel 2010). All’aumento dell’età media del nucleo familiare si affiancherà da un lato una maggiore frequenza di patologie cro- nico-degenerative (già oggi, oltre il 70% della popolazione ultrasessantacinquenne ne è affetta), e dall’altro una progressiva minore capacità della famiglia di esercitare il ruolo di promotore di salute e di assistenza ai soggetti non autosufficienti.

Non è difficile cogliere le implicazioni di simili andamenti sulla domanda di pre- stazioni sanitarie. Quest’ultima, infatti, non si distribuisce uniformemente sulle diver- se fasce di età delle persone, ma tende a concentrarsi soprattutto su quelle alte. L’OECD ha valutato che la popolazione anziana spende per la salute quattro volte di più della non anziana e Mapelli [2] ha stimato, per l’Italia, che le persone con età superiore a 60 anni spendono più del doppio dei soggetti tra 15 e 59 anni. D’altro canto, Besley e Gouveia [3] hanno calcolato che l’effetto invecchiamento della popolazione sulla spesa sanitaria pro capite è già ora di poco inferiore al 10%. A scanso di equivoci, è bene precisare che non è tanto l’aumento dell’aspettativa di vita (life expectancy) a determinare, di per sé, una lievitazione della spesa sanitaria, quanto piuttosto l’innalzamento dell’aspettativa di vita in buona salute, cioè l’aumento della cosiddetta health expectancy.

Le aspettative di salute sono misure dello stato di salute della popolazione che quan- tificano il numero di anni che, in media, una persona di una data età ha ancora da vive-

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re in uno specifico stato di salute. Parecchi sono i metodi che si possono seguire per calcolare l’aspettativa di salute; il più noto di questi è il “metodo di Sullivan” [4]. Appli- cando tale metodo, è stato calcolato che, per l’Italia, l’aspettativa di vita priva di di- sabilità alla nascita è di 61,1 anni per le donne e di 60,4 anni per gli uomini. All’età di 65 anni, questo stesso dato è di 7,7 anni sia per le donne sia per gli uomini. Se nel cal- colo dell’aspettativa di salute si inserisce poi una disabilità moderata, si ha che, all’età di 65 anni, le donne hanno ulteriori 6,7 anni e gli uomini ulteriori 4,6 anni di vita [5].

Quanto a dire che all’età di 65 anni, un uomo italiano ha un’aspettativa di vita senza o con moderata disabilità di 12,3 anni e una donna italiana di 14,4 anni. Eppure, nella fascia d’età tra 65 e 75 anni, solamente un uomo italiano su 12 svolge una qualche atti- vità lavorativa. Non c’è dato più eloquente di questo per illustrare lo spreco di cui si è detto nel paragrafo precedente.

Inoltre, va considerato che le generazioni di oggi non invecchieranno con le stesse modalità, e dunque non esprimeranno il medesimo fabbisogno di cure, di quelle di ieri.

Opportunamente si parla, a tale riguardo, di un “fattore generazione” attribuibile, da un lato, all’emergere di nuovi modelli socioculturali di riferimento che vedono la salute non solo come assenza di malattia e, dall’altro, alla più agevole e trasparente diffusione delle informazioni circa i mezzi e le opportunità di cura. Ricerche recenti sulla mortali- tà hanno posto in risalto il fatto che non esiste un solo universale processo di invec- chiamento e che non è vero che ciascuna persona sarebbe destinata a vivere per un pre- determinato periodo di tempo a prescindere dalle determinanti socio-ambientali. Ciò com- porta che la sopravvivenza futura potrebbe anche superare le pur ottimistiche previ- sioni. Dobbiamo dunque aspettarci che nel XXI secolo torneranno i “patriarchi”, carichi bensì di anni, ma prestanti nel corpo e nella mente. Come si sa, l’ingegneria genetica porta, infatti, ad allungare fortemente la durata della vita umana in condizioni di sod- disfacente efficienza, quanto a dire che vengono spostate in avanti le cosiddette “barrie- re naturali” della vita, le quali solo in parte dipendono da fattori di natura genetica; per la restante parte esse sono collegate allo status socioeconomico del soggetto e alla sua sto- ria clinica. È questo un punto importante da sottolineare: anche le epoche passate hanno conosciuto anziani di età ragguardevole - appunto, i patriarchi. La differenza con la situa- zione attuale è che oggi, e sempre più in futuro, l’anziano godrà di buona salute e di un tempo da trascorrere in piena attività, e non certo nei cronicari [6].

Se le cose stanno, come stanno, nei termini sopra brevemente descritti, il problema eminentemente politico che con urgenza va risolto è quello riguardante la sostenibili- tà economica e sociale dell’estensione della durata della vita. Invero, se non sarà possi- bile assicurare risorse aggiuntive per finanziare le crescenti spese socio-sanitarie e assi- stenziali degli anziani, gli straordinari successi finora conseguiti dalla scienza e dalla tec- nologia bio-medicale sul fronte della qualità di vita degli anziani potrebbero inter- rompersi, se non addirittura invertire la tendenza. Né si può pensare, come semplici- sticamente più di un commentatore fa, che a tale esigenza possano far fronte i trasferi- menti pubblici, come finora è accaduto. E ciò per l’evidente ragione che il tasso di dipen- denza - misurato dal rapporto tra ultrasessantacinquenni e popolazione attiva - va pro- gressivamente aumentando: nel 1998, tale tasso era in Italia del 28%; sarà del 34% nel 2010 e del 40% nel 2020.

Occorre pertanto essere edotti del fatto che di fronte a trasferimenti pubblici verso le età anziane in costante diminuzione, in termini relativi, rispetto a quelli attuali, e in

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presenza di una aumentata domanda di cure socio-sanitarie da parte degli anziani, non è più possibile accettare come dato quasi di natura che le persone cessino di produrre reddito - cessino cioè di contribuire alla creazione del valore aggiunto sociale - con l’entrata in quiescenza, anche qualora si riuscisse a spostare questa in avanti di 5 o 7 anni.

Si badi, infatti, che il problema di cui mi sto occupando non riguarda, se non in picco- la parte, l’equilibrio finanziario dell’assetto pensionistico. Se così fosse, allora sarebbe certamente vero che un innalzamento dell’età pensionabile, in misura acconcia, sorti- rebbe l’effetto desiderato. Ma una pensione di ammontare anche decente, come tutti sanno, non basta ad assicurare che l’obiettivo dell’allungamento della vita in buona salute venga realizzato.

Quel che è necessario fare è intervenire sulle capacità di guadagno dell’anziano, capacità oggi immotivatamente ridotte, se non proprio impedite, sia dal modo in cui fun- ziona il nostro mercato del lavoro sia dalla quasi totale assenza, nel nostro mercato finanziario, di schemi di asset building in grado di utilizzare in maniera razionale i risparmi delle persone fisiche incanalandoli verso impieghi sicuri e redditizi. In questa sede mi occuperò solamente del primo tipo di misura.

Il dato di osservazione da cui prendere le mosse è che nelle nostre società avanzate c’è una domanda implicita di lavoro umano che non riesce a essere soddisfatta. Men- tre diminuisce la domanda di lavoro da avviare “in fabbrica”, cioè nei luoghi in cui si pro- ducono le merci (o i servizi alla produzione di merci), grazie alle nuove tecnologie info- telematiche della terza rivoluzione industriale aumenta in misura impressionante la domanda di lavoro da utilizzare per la produzione sia di beni immateriali, sia di beni relazionali, sia ancora di talune specie di beni pubblici. È in ciò l’origine del ben noto paradosso dell’opulenza: abbiamo ereditato un assetto organizzativo che è efficientis- simo nella produzione di beni di cui potremmo tranquillamente fare a meno e che inve- ce siamo “costretti” (o indotti) a consumare, mentre non riusciamo a consumare beni e servizi capaci di soddisfare i nuovi bisogni perché non vi sono a sufficienza soggetti di offerta in grado di produrli. Valgano alcuni esempi.

Si pensi al bisogno di diffusione del know-how tecnologico tra coloro che, per una ragione o l’altra, ne sono rimasti esclusi. Come sappiamo, nella knowledge based society, il sapere deve essere il più possibile distribuito tra la popolazione perché esso possa produrre i risultati desiderati. Se la conoscenza è accentrata, non si generano né ester- nalità di rete né si riuscirà a beneficiare di complementarità strategiche. Eppure, tantissimi sono coloro che ancora non hanno accesso all’informatizzazione della vita quotidia- na. Altro bisogno, in continuo aumento, è quello legato ai servizi di cura nei confronti dei figli minori di genitori che lavorano, o delle persone comunque non autosufficien- ti. La nozione base soggiacente è quella di vulnerabilità: ciascun essere umano è vul- nerabile in vario grado durante il corso della propria vita, ma in determinate fasi tale vulnerabilità diviene totale. In questi periodi non potremmo stare al mondo se altri non si prendessero cura di noi. Si consideri, ancora, il bisogno di diffondere tra la popo- lazione la cultura di un ambiente di vita ecologicamente sostenibile, una cultura che non può ridursi a mera informazione, ma che postula la realizzazione di pratiche di vita e di stili di consumo eco-compatibili (è in ciò il fondamento della nozione di con- sumo critico). Si pensi, infine, al bisogno sempre più avvertito di rendere fruibile a quote crescenti di popolazione l’immenso patrimonio di beni culturali di cui il nostro paese è fortemente dotato, un patrimonio che è ancora troppo poco valorizzato.

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Cosa hanno in comune questi, e altri simili, bisogni? Che per venire soddisfatti v’è necessità di attivare processi produttivi caratterizzati tutti da alta intensità di lavoro. Di processi, cioè, che richiedono molto lavoro e relativamente poco capitale e che in quan- to tali soffrono della famosa “malattia dei costi” di cui ha parlato per primo William Baumol: se devo assistere un paziente o giocare con un bambino non posso ridurre il tempo dedicato senza compromettere la qualità del servizio reso. Né posso farmi sosti- tuire da una “macchina”: si tratterebbe di un altro servizio. Ecco perché i bisogni di cui sopra si è detto non riescono a essere soddisfatti: se il lavoro deve essere remunerato secondo le regole del mercato del lavoro salariato, così come questo si è andato evolvendo con l’avvento del sistema di fabbrica, non ci saranno mai abbastanza soggetti di offer- ta che riusciranno a collocare questi servizi a prezzi tali da incontrare tutta la doman- da potenziale. Non solo, ma quel che è peggio è che sono proprio le persone a reddito medio-basso quelle ad avere più necessità di soddisfare quei bisogni, e quindi quelle che più ne risentirebbero.

Riusciamo ora a comprendere il ruolo importante e strategico che la coorte degli anziani potrebbe svolgere nelle nostre società. Se il lavoro costasse di meno, perché non tenuto a rispettare gli standard minimi, e soprattutto se il relativo contratto fosse meno rigido e vincolante per l’impresa (privata o sociale che fosse), allora il prezzo per l’erogazione del servizio potrebbe portarsi a un livello tale da incrociare la capacità di spesa del portatore di bisogni e, al tempo stesso, da rendere contento l’anziano dispo- sto a svolgere un’attività lavorativa. Anticipo un’obiezione: ma così facendo non si crea forse il rischio di scatenare una pericolosa concorrenza al ribasso tra lavoratori? La risposta sarebbe positiva solamente in assenza di regole intelligenti e di un’agenzia deputata a farle rispettare. D’altro canto, già oggi le nostre università impiegano i pro- pri studenti, per un numero massimo di ore all’anno, in molteplici attività di natura organizzativa e didattica (tutoraggio), a un costo orario sensibilmente inferiore a quel- lo di mercato. Questa prassi non solamente non ha generato alcuna guerra tra poveri, né alcuna forma nuova di precariato, ma ha contribuito - soprattutto negli USA, dove l’idea venne sperimentata per prima alcuni decenni fa - a migliorare significativamen- te la performance delle università e ad allentare il vincolo di bilancio di un gran nume- ro di studenti.

In buona sostanza, la proposta che avanzo è quella di incanalare il lavoro “liberato”

dell’anziano verso attività che producono quei beni che né il settore privato dell’economia né il settore pubblico hanno interesse - il primo - o le risorse necessarie - il secondo - a produrre. Si tratta, come si è detto, dei beni relazionali, dei beni di merito, di alcune tipologie di beni pubblici e di alcune categorie di beni di uso collettivo. Quel che è urgente fare è superare l’idea che il lavoro sia solo quello retribuito secondo le forme cano- niche, a tutti ben note. Piuttosto, il lavoro è l’insieme delle attività necessarie alla cre- scita dell’uomo, inteso nella globalità delle sue dimensioni. È stato un connotato tipico della società industriale, ormai alle nostre spalle, quello secondo cui il lavoro veniva definito nei termini dei suoi attributi solo mercantili, in quanto produttore di merci [7]. L’ingresso nella società post-industriale ci consente - finalmente - di porre il lavo- rare al servizio dell’agere e non solo del facere liberando, in tal modo, energie e tempi da destinare ad attività capaci di soddisfare i nuovi bisogni tipici di una società avan- zata come è ormai la nostra.

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Tra questi bisogni svetta appunto quello di persone sempre più anziane e in discre- ta salute che “reclamano” il rispetto della loro specifica identità. È noto che molte dif- ficoltà di natura fisica dell’anziano sono legate non tanto all’invecchiamento di per sé, quanto al suo stile di vita, e in particolare alla sua inattività. Il fatto è che la biologia considera l’invecchiamento un processo che porta all’inutilità e quindi all’afflizione. Si tratta di contrastare nella maniera più decisa possibile questa idea, basicamente inumana, della vecchiaia come di un tempo inutile. Ha dunque ragione Hilman [8] quando scri- ve che la vecchiaia è un’afflizione perché è affetta dall’idea di afflizione. Permettere allo- ra all’anziano di avere accesso alla “terapia occupazionale”, modificando l’assetto orga- nizzativo delle nostre società per renderlo adeguato alle sue caratteristiche, vuol dire con- tribuire anche al miglioramento della sua salute, la quale non è mai mera assenza di malattia o infermità. Piuttosto, in salute è la vita che possiede la caratteristica dell’au- tofinalità.

Bibliografia

1. Roszak T (1998) America the wise: the longevity revolution and the true wealth of nations. Mif- flin, New York

2. Mapelli V (1994) La domanda di servizi sanitari. Un’indagine campionaria. IES, Milano 3. Besley T, Gouveia M (1994) Alternative systems of health care provision. Economic Policy

19:200-258

4. Robine JM, Romieu I, Cambois E (1999) Health expectancy indicators.WHO Bulletin 77:181-185 5. Herce JA, Ahn N, Genova R, Pereira J (2003) Bio-demografic and health aspects of ageing in

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6. Livi Bacci M (2000) La Società dei cent’anni, Il Mulino, Bologna 7. Bruni L, Zamagni S (2004) Economia Civile. Il Mulino, Bologna 8. Hilman J (1999) La forza del carattere. La vita che dura. Adelphi, Milano

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