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L’applicabilità dell’aggravante del metodo mafioso ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo e la sua compatibilità con quella della finalità di terrorismo o di eversione - Judicium

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Flavio Argirò

L’applicabilità dell’aggravante del metodo mafioso

ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo e la sua compatibilità con quella della finalità di terrorismo o di eversione.

1. Breve ricostruzione dei fatti oggetto di giudizio. – 2. L’applicabilità dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/91 ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo. – 3. La finalità di odio o di discriminazione razziale. – 4. La compatibilità della circostanza del metodo mafioso con la circostanza di cui all’art. 1 d.l. 625/79. – 5. Conclusioni.

1. La decisione della Corte di Assise di S. Maria C.V. definisce il primo grado del processo sulle c.d. stragi di Castelvolturno. Due episodi di incredibile gravità, che per l’identità degli autori - tutti esponenti di primo piano del clan dei casalesi - e per la medesimezza del disegno criminoso perseguito - rientrante nell’ambito di una più generale strategia volta a ottenere il controllo assoluto del territorio - risultano soggettivamente e oggettivamente connessi. Ma a caratterizzare i fatti oggetto di giudizio c’è soprattutto il dato che le vittime fossero esclusivamente cittadini stranieri. La sentenza non si fa specchio soltanto della pericolosità di un sodalizio mafioso, ma anche della precarietà delle condizioni di vita degli immigrati nella provincia di Caserta e della mancanza di qualsiasi azione politica di integrazione e di tutela delle minoranze.

Il primo episodio ha luogo il pomeriggio del 18 agosto 2008 in via Cesare Battisti attorno alle sette. Un furgone e due motociclette si fermano davanti al cancello che dà accesso a un container dove risiede O. E., noto con il nome di Teddy, Presidente di una locale associazione no profit.

All’interno c’erano quindici cittadini extracomunitari, tra i quali donne e bambini di età compresa tra i dieci e i dodici anni. Da dietro il muretto che circonda l’abitazione i quattro motociclisti sparano con due pistole da guerra e un fucile mitragliatore e, risaliti in sella, si allontanano assieme al furgone. Rimangono ferite cinque persone fra cui la moglie di Teddy, la quale stava festeggiando il suo ritorno dalla Nigeria. Le indagini svolte dagli inquirenti conducono a identificare gli autori con S. G., L. G., C. A., S. O., G. D. e A. A., i quali sono chiamati in giudizio a rispondere di concorso nel delitto di strage (art. 422, secondo comma, c.p.), nonché di traffico, detenzione e porto in luogo pubblico di armi clandestine (artt. 9, 10, 12 e 14 l. 497/74, 23 l. 110/75)1.

Il secondo avviene il 18 settembre 2008 in via Domiziana verso le nove di sera. Un’auto dotata di lampeggiatore e una moto inscenano un controllo di routine di fronte alla sartoria Ob.Ob.

Exotic fahion per non insospettire i presenti. All’improvviso, un commando di tre o quattro persone, con indosso dei giubbotti scuri e delle pettorine della polizia, fa irruzione nella bottega, spara verso l’interno e poi, nel darsi alla fuga, anche all’esterno di essa. Vengono utilizzate sette armi con munizioni da guerra e sono esplosi ben centoventicinque colpi. Il bilancio delle vittime è agghiacciante: sei persone uccise e un ferito in gravissime condizioni. Il fatto viene attribuito agli imputati S., L., C. e S., ai quali si contesta il concorso nei delitti di strage (art. 422, primo comma, c.p.) e di traffico, detenzione e porto in luogo pubblico di armi clandestine (artt. 9, 10, 12 e 14 l.

497/74, 23 l. 110/75)2.

La Corte di Assise affronta analiticamente i fatti e le responsabilità oggetto di giudizio con una pronuncia di circa seicento pagine composta da nove capitoli divisi in paragrafi e sottoparagrafi.

I giudici cominciano con il riassumere lo svolgimento del processo e con l’esposizione dei criteri logico-giuridici di valutazione della prova che indendono adottare3. Segue la ricostruzione della

Il presente lavoro è destinato a essere pubblicato su Foro nap., fasc. 2, 2012, 728 ss., in corso di stampa.

1 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 8.

2 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 10-11.

3 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 32-46.

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carriera criminale del S., delle attività del clan dei casalesi e delle indagini che hanno condotto all’arresto del suo capo il 14 gennaio 20094. Si passa, quindi, all’esame degli accertamenti balistici e autoptici, delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, dai testi e dalle persone offese e dei c.d. riscontri individualizzanti5. Il materiale probatorio raccolto conferma la dinamica storica degli avvenimenti così come prospettata dall’accusa e soprattutto l’esistenza di un movente comune ai delitti. Il clan intendeva «imporre una tangente agli spacciatori di colore e far comprendere all’intera comunità di extracomunitari che chiunque avesse ostacolato questo progetto sarebbe stato eliminato senza alcuna pietà»6.

La motivazione del provvedimento si conclude con la qualificazione delle condotte, la determinazione del trattamento sanzionatorio e dei risarcimenti a favore delle parti civili. S., L., S. e G. sono condannati, ai sensi degli artt. 422, primo e secondo comma, c.p., 9, 10, 12 e 14 l. 497/74, 23 l. 110/75 e dichiarato il vincolo di continuazione tra le condotte ex art. 81, secondo comma c.p., alla pena dell’ergastolo con isolamento nutturno per mesi diciotto. C. viene assolto dall’accusa di aver partecipato alla strage del 18 agosto, ma condannato, ai sensi degli artt. 422, primo comma, 81, secondo comma, c.p., 9, 10, 12 e 14 l. 497/74, 23 l. 110/75, anch’egli alla pena perpetua. Ad A., nei cui confronti si procedeva soltanto per la strage del 18 agosto, sono inflitti, ai sensi degli artt. 422, secondo comma, 81, secondo comma, c.p., 9, 10, 12 e 14 l. 497/74, 23 l. 110/75, ventitrè anni di reclusione. Viene ricosciuta, inoltre, la sussistenza delle circostanze aggravanti a effetto speciale del metodo mafioso (art. 7, primo comma, d.l. 152/91), della finalità di odio o di discriminazione razziale (art. 3, primo comma, d.l. 122/93) e della finalità di terrorismo o di eversione (art. 1, primo comma, d.l. 625/79)7.

2. Senza voler entrare nel merito della decisione della Corte di Assise, le osservazioni che seguono riguardano esclusivamente il trattamento sanzionatorio riservato agli imputati e, in particolare, l’applicabilità delle circostanze di cui agli artt. 7, primo comma, d.l. 152/91, 3, primo comma, d.l. 122/93 e 1, primo comma, d.l. 625/79. L’interesse per la questione deriva soprattutto dal fatto che, in tutte e tre le ipotesi, il legislatore limiti l’operatività dei relativi aumenti di pena ai soli «delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo»8. La ratio è intuitiva, considerato che la privazione perpetua della libertà personale è la sanzione più grave tra quelle contemplate dall’ordinamento. Come sono riusciti i giudici a superare l’empasse? E per quale motivo si è avvertita, nel caso di specie, l’esigenza di applicare delle circostanze che, in concreto, non sono in grado di esplicare alcun effetto sulla determinazione della pena?

La sentenza affronta correttamente la questione prima di verificare sussistenza dei presupposti necessari per la configurabilità delle singole aggravanti. La soluzione viene individuata nella possibilità di richiamarsi all’orientamento espresso dalla Suprema Corte, secondo cui «la circostanza aggravante del metodo mafioso, prevista dall’art. 1, primo comma, d.l. 152/91 può essere validamente contestata anche con riferimento a un delitto astrattamente punibile con l’ergastolo, fermo restando che essa potrà in concreto operare solo qualora venga di fatto inflitta una pena diversa da quella perpetua». In quella occasione, la Corte di Cassazione aveva precisato che

«anche nel caso in cui venga inflitta in concreto la pena dell’ergastolo, l’aggravante prevista dall’art.

7 d.l. 152/91, pur rimanendo inerte nella determinazione della pena, va tuttavia presa in

4 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 46-284.

5 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 284-543.

6 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 494.

7 Nella motivazione della pronuncia, ma non nel dispositivo, sono state ritenute configurabili anche le aggravanti dell’aver agito per motivo abietto o futile (art. 61, n. 1, c.p.), dell’aver profittato delle circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica e privata difesa (art. 61, n. 5, c.p.), dell’essere stati commessi i delitti durante il tempo in cui alcuni degli imputati si sottraevano all’esecuzione di un ordine di cattura (art. 61, n. 6, c.p.) e dell’aver agito in numero di cinque persone (art. 112, n. 1, c.p.).

8 Il problema si pone, perciò, con riferimento alle posizioni processuali di S., L., G. e C.

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considerazione dal giudice nel suo significato di disvalore del fatto, sì da esplicare la sua efficacia ai fini diversi dalla determinazione della pena»9. Il passo successivo, compiuto dalla Corte di Assise di S. Maria C.V., è consistito quindi nell’estendere il medesimo principio alle circostanze della finalità di odio o di discriminazione razziale e dello scopo di terrorismo o di eversione.

Ma quali sono questi effetti diversi dalla determinazione della pena? Nel caso deciso dalle Sezioni Unite si trattava di evitare che due degli imputati, pur essendo stati condannati all’ergastolo, potessero giovarsi dell’indulto previsto dalla l. 241/06. Beneficio che, al contrario, sarebbe stato da negare al terzo imputato, sebbene a quest’ultimo fosse stata inflitta una pena meno grave, ma aggravata ai sensi dell’art. 7, primo comma, d.l. 152/91. La Corte sottolineava, in proposito, come

«l’opposta opzione interpretativa, nel senso del divieto di contestazione e di considerazione dell’aggravante speciale per i reati astrattamente punibili con la pena edittale perpetua, renderebbe possibili talune conseguenze prive di logica razionalità e, com’è stato avvertito dalla più recente giurisprudenza, seri problemi di legittimità costituzionale della disciplina normativa per violazione del principio di uguaglianza: sia sotto il profilo che per i delitti aggravati dalla circostanza in esame, punibili con pena diversa dall’ergastolo, potrebbero essere irrogate sanzioni più gravi rispetto a quelle inflitte, in concreto, per delitti pure ontologicamente aggravati dalla medesima circostanza e astrattamente puniti con l’ergastolo in forza di altre circostanze, che non sopravvivono tuttavia alla differente qualificazione giuridica del fatto o al giudizio di bilanciamento con le attenuanti; sia perché potrebbero dispiegarsi effetti preclusivi ingiustificatamente differenziati quanto all’accesso ai vari benefici in sede di esecuzione della pena e di trattamento penitenziario»10.

La pronuncia delle Sezioni Unite è stata considerata come esempio positivo di un argomentare che, di fronte ai limiti propri del c.d. criterio letterale, legato alla semantica interna delle parole utilizzate dal legislatore, accede a un’interpretazione olistica e dinamica, capace di cogliere la semantica esterna del linguaggio11. Può dirsi lo stesso anche in relazione alla sentenza che si annota?

L’impressione è che, in realtà, la Corte di Assise si sia limitata a recepire acriticamente il precedente, senza preoccuparsi di verificare se, nel caso di specie, sussistessero esigenze di ragionevolezza tali da legittimare l’opportunità di allontanarsi da una interpretazione dell’art. 7, primo comma, d.l. 152/91 conforme al principio di tassatività dell’illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.). Nel processo che occupa, non vi è stata alcuna diversa qualificazione del fatto, né sono state contestate attenuanti delle quali tenere conto in un’eventuale giudizio di bilanciamento, né la pena irrogata ad A. sembra essere irragionevolmente più grave di quella inflitta a S., L., G. e C.

A ciò si aggiunga che tutti gli imputati erano detenuti per altro titolo e chiamati a rispondere, in altri procedimenti, del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. La soluzione adottata nella motivazione della sentenza appare, infine, discostarsi da quella che si ricava dalla lettura del dispositivo, ove si escludeva la configurabilità delle aggravanti in esame relativamente alla strage del 18 settembre

9 Sez. Unite, 18 dicembre 2008, in Cass. pen., 2010, 1417, con nota di L. Tumminello. Nello stesso senso, v.

Cass., 17 febbraio 2010, inedita; Cass., 4 marzo 2008, inedita; Cass., 13 marzo 2008, inedita; Cass., 21 novembre 2007, inedita; Cass., 17 gennaio 2006, in Riv. pen., 2006, 653. Contra, v. Cass., 14 maggio 2002, in Cass. pen., 2003, 3400 ss., con nota di F. S. Borrelli. In letteratura v. G. De Vero, La circostanza aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi: profili sostanziali e processuali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, 42 ss.; S. ARDITA, Partecipazione all’associazione mafiosa e aggravante speciale dell’art. 7 d.l. n. 152 del 1991, in Cass. pen., 2001, 2669 ss.; L.

TUMMINELLO, La mafia come metodo e come fine: la circostanza aggravante dell’art. 7 d.l. 152/1991, convertito nella l.

203/1991, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2008, 903 ss.; ID., Ancora sui limiti del criterio letterale nell’interpretazione della legge penale: le Sezioni unite contestualizzano l’inapplicabilità dell'aggravante del metodo e del fine di agevolazione mafiosi ai delitti punibili con pena diversa dall’ergastolo, in Cass. pen., 2010, 1417 ss.; A. CISTERNA, Metodo mafioso per il commerciante concorrente che al consiglio unisce il danneggiamento dei beni. Idoneità dell’atto a rafforzare il messaggio omertoso e operatività nella cosca fanno scattare l’aggravante, in Guida al dir., 38/11, 90 ss.

10 L’art. 1 d.l. 152/91 esclude i benefici dell’assegnazione al lavoro esterno, dei permessi premio e l’applicabilità di misure alternative alla detenzione; l’art. 4 bis ord. pen. impedisce di usufruire della liberazione anticipata; l’art. 41 bis ord. pen. prevede la possibilità che gli imputati siano sottoposti a regime speciale di detenzione.

11 L. TUMMINELLO, Ancora sui limiti del criterio letterale nell’interpretazione della legge penale, cit., 1425.

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«per l’espressa previsione normativa»12. I giudici avvertono l’esigenza di precisare che quella statuizione «deve essere intesa, ovviamente, nei limiti e secondo l’interpretazione fornitane dalle Sezioni Unite: poiché per tale delitto è stata irrogata a tutti gli imputati la pena dell’ergastolo, le circostanze in questione non hanno esplicato alcun effetto giuridico con riferimento alla pena, ma sono state comunque valutate in riferimento alle complessive vicende per le quali la Pubblica Accusa le aveva correttamente contestate anche per i delitti in astratto punibili con la pena dell’ergastolo»13.

3. L’aggravante della finalità di odio razziale e di discriminazione rappresenta la chiave di volta dell’intero processo14. Nei capi di imputazione si legge che le condotte tenute dagli imputati furono «dirette ad uccidere le vittime in quanto persone di colore, ritenute inferiori e diverse, dunque strumentalizzabili per la realizzazione degli scopi dell’associazione, nella specie la sottomissione ad un tributo di vassallaggio»15. La sentenza sottolinea la necessità di distinguere la finalità dai motivi dell’azione delittuosa e dà conto dei diversi orientamenti formatisi sull’art. 3, primo comma, d.l. 122/93. Una parte della giurisprudenza ha ritenuto, infatti, di dover subordinare la configurabilità della circostanza alla presenza di un’azione che «per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in altri un sentimento di odio o comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori»16. Successivamente, sembra essersi consolidata l’opinione secondo la quale, ai fini del riconoscimento dell’aggravante, sarebbe sufficiente che «l’azione si manifesti come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile nel contesto in cui è maturata, avuto anche riguardo al comune sentire, di un sentimento di avversione o di discriminazione fondato sulla razza, l’origine etnica o il colore»17.

Per quanto concerne il caso sottoposto a giudizio, la Corte di Assise evidenzia come, anche aderendo alla tesi più restrittiva, la sussistenza della circostanza di cui all’art. 3, primo comma, d.l.

122/93 non possa essere messa in discussione. Si constata, infatti, come in entrambi gli episodi stragistici «la durezza della sanzione da infliggere fosse direttamente rapportata al colore della pelle delle vittime». In quella del 18 agosto si agiva per punire una persona di colore che si opponeva agli illeciti traffici del clan: «Teddy era comunque un simbolo per la comunità nigeriana e, al suo interno, rappresentava uno di quei soggetti ben integrati nel tessuto sociale campano e italiano, la cui presenza, a maggior ragione, risultava più fastidiosa ed ingombrante per il raggiungimento degli obiettivi speculativi ed economici del gruppo». Allo stesso modo, nella strage del 18 settembre, il commando aveva agito «per far capire agli spacciatori di colore che dovevano sottostare alle regole del clan ed agli equilibri economici da questo imposti anche per le attività illecite quali il traffico di droga». I giudici osservano come «l’impostazione culturale che traspare dalle condotte esaminate

12 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 615.

13 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 563-564.

14 Sulla circostanza v. G.A. De Francesco, Commento al d.l. 26 aprile 1993, n. 122, in Legisl. pen., 1994, 182 ss.;

S. D’Amato, Disorientamenti giurisprudenziali in tema di finalità di discriminazione o odio etnico, nazionale, razziale o religioso, in Crit. del dir., 2006, 384 ss.; L. Ferla, L’applicazione della finalità di discriminazione razziale in alcune recenti pronunce della Corte di cassazione, in Cass. pen., 2007, 1450 ss.; M. T. Trapasso, Il ruolo fondamentale dei coefficienti soggettivi nelle fattispecie penali in materia di discriminazione razziale: il caso della circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio razziale, in Cass. pen., 2010, 3833 ss.

15 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 9-12.

16 V. soprattutto Cass., 17 novembre 2005, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, 1449, con nota di L. Ferla; Cass., 8 giugno 2006, inedita.

17 Cass., 28 gennaio 2010, inedita. Nello stesso senso, v. Cass., 20 gennaio 2006, in Riv. pen., 2007, 152; Cass., 12 giugno 2008, inedita; Cass., 23 settembre 2008, inedita; Cass., 9 luglio 2009, inedita; Cass., 29 ottobre 2009, in Cass.

pen., 2010, con nota di M. T. Trapasso.

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riflette la considerazione della persona di colore come soggetto inferiore, destinato ad attività sempre e comunque abiette, che, di conseguenza, non ha diritti pari agli uomini di razza bianca ed al quale è riservato un diverso trattamento e negato ogni rilievo nella società. In altre parole, il soggetto di colore è meno di un uomo e non merita il rispetto imposto dal valore della dignità umana»18.

4. Più problematico appare il riconoscimento dell’aggravante della finalità di terrorismo ed eversione19. Fin dalle prime applicazioni dell’art. 1, primo comma, d.l. 625/79 ci si è resi conto, infatti, della sostanziale equivocità dei due termini utilizzati dal legislatore. Secondo un primo indirizzo la formula si sarebbe dovuta intendere come un’endiadi. Si osservava come l’atto terroristico fosse sempre finalizzato a indurre pressione nei confronti del potere dello Stato e che la finalità di terrorismo, presente nella rubrica del novellato art. 270 bis c.p., non fosse stata riprodotta nel testo della fattispecie incriminatrice20. L’orientamento di gran lunga prevalente aderiva, tuttavia, a una concezione autonomistica. Si sosteneva che mentre il terrorismo consistesse propriamente nel seminare paura tra la popolazione, il concetto di eversione implicasse un’azione diretta contro l’ordinamento economico, sociale, politico o giuridico dello Stato. Sarebbe stato possibile, perciò, perseguire uno scopo terroristico senza mirare ad alcuna finalità eversiva21. Rimane il fatto che giurisprudenza maggioritaria era orientata a favore di una lettura decisamente soggettiva della circostanza. Nel 1995 le Sezioni Unite affermano che l’aggravante, «lungi dall’identificarsi con le finalità primarie ed essenziali dei reati cui inerisce, può qualificare qualsiasi condotta illecita, se il fine perseguito dall’agente è quello di porre in essere atti idonei a destare panico nella popolazione.

Essa si ricollega a una particolare connotazione del dolo e, quindi, non può dissociarsi dalla specifica finalità perseguita dall’autore del reato, anche quando, questo, nella sua struttura fisiologica, non esprime il pericolo dell’eversione dell’ordine democratico, nè un’ontologica e naturale propensione a suscitare terrore tra le persone»22.

18 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 573-577.

19 V. G. A. DE FRANCESCO, Commento all’art. 1 legge 6 febbraio 1980, n. 15, in Legisl. pen.,1981, 36 ss.; E.

RUBIOLA, Sull’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione, in Giur. it., 1981, 239 ss.; P. CENCI, Aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, in Giur. merito, 1983, 485 ss.; P. VIGNA, La finalità di terrorismo e di eversione, in AA.VV., La legislazione dell’emergenza, Milano, 1985, 37; F. PALMA, L’applicazione della circostanza ad effetto speciale del fine di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, in Giust. pen., 1985, 764 ss.; M. VILLONI, L’applicazione dell’aggravante di aver agito per finalità di terrorismo prima dell’introduzione del reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale, in Giur. merito, 2005, 2696 ss.; A. SILVERI, Sull’aggravante della finalità di terrorismo nell’ipotesi di fatti di devastazione e violenza commessi da gruppi di tifosi, in Cass. pen., 2009, 2334 ss.; ID., L’aggravante della finalità di terrorismo è configurabile anche per azioni solo dimostrative, in Cass. pen., 2011, 1384 ss.

20 V. G. CALDERONI, Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e della sicurezza pubblica, in Giur.

merito, 1980, 717; A. DALIA, I sequestri di persona a scopo di estorsione, terrorismo od eversione, Milano, 1982, 22; P.

L. VIGNA, La finalità di terrorismo e di eversione, cit., 37; M. RONCO, voce Terrorismo, in Nov. dig. it., 1987, 756; M.

VILLONI, L’applicazione dell’aggravante di aver agito per finalità di terrorismo prima dell’introduzione del reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale, cit., 2696; M. LECCESE, Terrorismo, eversione e reati associativi, Milano, 2004, 37.

21 V. G. A. DE FRANCESCO, Commento all’art. 1 legge 6 febbraio 1980, n. 15, cit., 36 ss.; F. PALAZZO, La recente legislazione penale, Padova, 1982, 169; A. ALBANELLO, Misure urgenti per la tutela dell’ordine democratico e la sicurezza pubblica, in Giur. merito, 1981, 278; F. PALMA, L’applicazione della circostanza ad effetto speciale del fine di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, cit., 764 ss.

22 V. Sez. Unite, 23 novembre 1995, in Cass. pen., 1996, 2131. In precedenza, v. Cass., 5 novembre 1987, in Riv.

pen., 1988, 892, secondo la quale «ogni reato che sia inquadrabile fra quelli utili al raggiungimento finale dello scopo di sovversione antidemocratica è automaticamente aggravato dalla finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale; ne deriva che per la sussistenza di tale aggravante è sufficiente, oltre l’elemento soggettivo, l’obiettiva idoneità del reato a ledere l’interesse protetto, indipendentemente dall'esistenza di un particolare allarme sociale o di un pericolo concreto per la sicurezza delle istituzioni».

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La riformulazione dell’art. 270 bis c.p. da parte del d.l. 374/01 ha inciso parzialmente sull’interpretazione dell’art. 1, primo comma, d.l. 625/79. Nel primo comma della disposizione la finalità di terrorismo compare accanto a quella di eversione (come, del resto, nell’art. 280 c.p.), laddove nel terzo comma si prevede che «ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale»23. L’ambito di operatività della circostanza sembra essersi, invece, sensibilmente modificato a seguito dell’introduzione, con il d.l. 144/05, dell’art. 270 sexies c.p. Da una parte, il legislatore richiede la commissione di «atti che per loro natura o contesto possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale». Troverebbe conferma, pertanto, l’esigenza avvertita dalla dottrina più sensibile al principio di offensività di affiancare l’accertamento del mero proposito interiore dell’agente con un giudizio oggettivo sulla idoneità del comportamento tenuto a porre in pericolo l’ordinamento24. Dall’altra, il legislatore definisce terroristiche, oltre che le condotte finalizzate a «intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto», anche azioni tipicamente eversive, perché compiute allo scopo di «destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale». Si è pervenuti, quindi, a una vera e propria assimilazione tra la finalità di terrorismo e quella di eversione25. Non stupisce, a questo punto, l’inversione di rotta della giurisprudenza che, pur continuando a configurare l’art. 1, primo comma, d.l. 625/79 anche in presenza di azioni non violente, ha sottolineato come la circostanza risulti applicabile soltanto «a condizione che la condotta sia idonea ad intimidire la popolazione o ad ingenerare effetti riflessi nell’ordinamento istituzionale o ad esporre a pericolo le strutture di un Paese o di un organismo internazionale»26.

Nei capi di imputazione relativi al processo che occupa si legge che le due spedizioni omicidiarie furono organizzate «allo scopo di ingenerare paura, panico ed incutere terrore nella collettività»27. La motivazione della sentenza approfondisce l’argomento, desumendo la sussistenza del dolo specifico dalla sequela temporale delle azioni, dalla loro spregiudicatezza, dalle stesse dichiarazioni di S., il quale si era autodefinito come terrorista. Il relatore scrive che quest’ultimo

«voleva far comprendere a tutta la popolazione nigeriana o comunque di colore che in quel territorio bisognava sottostare a regole determinate e che tali regole non erano certo quelle dettate dallo Stato, bensì dal sodalizio criminoso che egli capeggiava e senza il cui assenso alcuna attività poteva essere intrapresa o gestita»28. I giudici non si dimostrano, comunque, insensibili alla opportunità di reinterpretare la circostanza in chiave di offensività. Alla prova dell’intenzione nutrita dagli agenti si aggiunge quella relativa al grave pregiudizio subito dallo Stato. Si evidenzia, in proposito, come secondo la testimonianza resa dal Ministro Maroni «il Governo fu costretto ad adottare, in quella gravissima situazione, che egli non esitava a definire di potenziale guerra civile, immediati provvedimenti per l’invio di un cospicuo contingente militare in Campania»29.

L’applicabilità dell’art. 1, primo comma, d.l. 625/79 sembrerebbe scontata, se non fosse per la ritenuta contemporanea sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso. Ai sensi del terzo comma dell’art. 416 bis c.p., «l’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si

23 Se ne è concluso che il legislatore avesse inteso incriminare l’associazione internazionale soltanto nei casi di eversione e non anche nelle ipotesi di terrorismo in senso stretto.

24 V. P. NUVOLONE, Misure contro il terrorismo, in Ind. pen., 1979, 533; F. PALAZZO, La recente legislazione penale, cit., 173; T. PADOVANI, Bene giuridico e delitti politici, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, 470 ss.

25 V. A. SILVERI, L’aggravante della finalità di terrorismo è configurabile anche per azioni solo dimostrative, cit., 1384 ss.

26 Cfr. Cass., 24 maggio 2011, in Dir. pen. e proc., 2011, 1205.

27 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 9-12.

28 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 581.

29 Corte di Ass. S. Maria C.V., 14 aprile 2011, 587.

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avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva per la realizzazione del proprio programma criminoso».

L’intimidiazione della popolazione residente nel territorio di influenza del sodalizio rappresenta, quindi, uno dei requisiti strutturali della fattispecie. D’altra parte, la natura intrinsecamente eversiva del fenomeno mafioso si desume dalle finalità, previste dalla medesima disposizione, «di acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi», oltre che da quella «di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali».

Può sostenersi che vi sia compatibilità tra le due circostanze?

Nel rispondere affermativamente all’interrogativo, la Corte di Assise di S. Maria C.V. si vede costretta a effettuare gli opportuni distinguo. Nella terza delle massime riportate in epigrafe si sostiene, infatti, che l’elemento differenziale tra le ipotesi considerate sarebbe rappresentato, essenzialmente, dal contesto di riferimento. Nel caso dell’art. 7, primo comma, d.l. 152/91, esso sarebbe limitato a una zona territoriale circoscritta oppure a una determinata categoria di soggetti.

Nella fattispecie di cui all’art. 1, primo comma, d.l. 625/79 ci si troverebbe di fronte, invece, a un attacco rivolto direttamente allo Stato, alle istituzioni oppure alla generalità dei consociati. La soluzione non può, tuttavia, essere condivisa. In primo luogo, perché risulta pacifico che lo scopo di intimidire la popolazione sussista anche con riferimento soltanto a una sua parte. In secondo luogo, perché gli stessi giudici ammettono che entrambi gli episodi stragistici fossero diretti contro una specifica cerchia di soggetti e cioè contro la comunità di extracomunitari presente a Castelvolturno.

Da ultimo, perché la tesi si esporrebbe all’esito paradossale di ritenere che il delitto di cui all’art.

270 bis c.p. possa concorrere, ex art. 81, primo comma, c.p., con quello previsto dall’art. 416 bis c.p., sebbene il compimento di atti violenti eclatanti e l’atteggiamento di sfida tenuto nei confronti delle pubbliche istituzioni rappresentino, di per sé, comportamenti tipicamente mafiosi.

E’ per questi motivi che, ad avviso di chi scrive, la questione sarebbe stata da ricondurre all’istituto del concorso apparente o conflitto tra norme. Occorre ammettere, comunque, che l’estrema genericità delle definizioni legislative di mafia e di terrorismo non agevola affatto l’interprete nella individuazione della disposizione applicabile al caso di specie. La sussistenza di un rapporto di c.d. specialità reciproca tra le due disposizioni impedisce di ricorrere al principio di cui all’art. 15 c.p. e, d’altra parte, è assai difficile ritenere che una circostanza possa assorbire l’altra, considerata la diversità dei beni giuridici di riferimento, oppure consumarla, data l’identità del trattamento sanzionatorio previsto. La verità è probabilmente che la sussistenza di profili di sovrapponibilità tra la finalità terroristica e il metodo mafioso emerge in concreto e non da una considerazione astratta delle circostanze in esame. Se così stessero le cose apparirebbe evidente come sia il principio del ne bis in idem a frapporsi a un’applicazione cumulativa degli artt. 7 d.l.

152/91 e 1 d.l. 625/79. Quanto alla norma da preferire, la lettura degli atti processuali non sembra lasciare alcun dubbio sul contesto di riferimento nel quale si iscrivono i fatti oggetto di giudizio.

Non è un caso, infatti, che ben duecentocinquanta pagine della sentenza siano state dedicate alla ricostruzione della storia del sodalizio criminale guidato da S. pur se l’art. 416 bis c.p. non compare tra i capi di imputazione. Ed è anche credibile che quando il Ministro Maroni ha deciso di inviare in Campania un nutrito contingente di soldati, non pensasse certo di avere a che fare con un’organizzazione terroristica, ma di rispondere ad una specifica emergenza di carattere mafioso.

5. La pronuncia annotata rappresenta senz’altro un passo decisivo nell’azione di contrasto alle attività criminali del clan dei casalesi. Le indagini sono state svolte con rapidità ed efficacia, conducendo immediatamente alla individuazione dei soggetti responsabili e della causale degli episodi stragistici. La popolazione di Castelvolturno e la Nazione tutta hanno manifestato indignazione per quanto accaduto e solidarietà nei confronti della comunità nigeriana. Le testimonianze dei superstiti (in particolare, quella di J. A.) hanno fornito specifici elementi di

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riscontro alle dichiarazioni rese da S., che avendo scelto di collaborare con la giustizia, ha assunto il ruolo di chiamante in correità. Tutto ciò ha consentito ai giudici un’accurata ricostruzione dei fatti di causa e delle condotte tenute da ciascuno degli imputati. E’ stato riconosciuto, infine, il diritto al risarcimento del danno da parte dei Comuni, delle associazioni e delle vittime costituitesi parte civile.

Ma la sentenza ha anche i suoi lati oscuri. Le motivazioni relative alla configurabilità delle circostanze di cui agli artt. 7 d.l. 152/91, 3 d.l. 122/93 e 1 d.l. 625/79 appaiono, infatti, difficilmente compatibili con elementari esigenze di legalità, di offensività e di ne bis in idem sostanziale. Si tratta di principi che contribuiscono a definire il grado di civiltà giuridica di uno Stato e che, nel caso di specie, sembrano essere stati sacrificati in nome di un giustizialismo cieco, alimentato dal clamore suscitato dai delitti in esame presso la pubblica opinione. E’ prevalsa così l’opportunità di lanciare un messaggio preciso: entrambe le stragi furono compiute per finalità mafiose, terroristiche e razziste. Una soluzione, quest’ultima, che tradisce gli stessi scopi della sanzione penale, che da strumento di risocializzazione del reo (art. 27, terzo comma, Cost.) finisce per assumere una funzione prevalentemente simbolica.

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