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Psicologia, filosofia e scienza nella ricezione italiana di Marcuse 1

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Psicologia, filosofia e scienza nella ricezione italiana di Marcuse

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Pietro Console

In Italia, dalla seconda metà dell’Ottocento sino a prima dell’avvento del Regime fascista, la

‘scientificizzazione’ della psicologia, nell’ambito di una particolare ideologia positivista di rinnovamento culturale presente anche in seno alle istituzioni politiche, ha potuto vantare dei veri e propri pionieri2. Il merito è da ricercare in un certo positivismo critico, che, favorito dal fiorire di molteplici riviste3, creò un vivace dibattito attorno ai rapporti e alle relazioni tra filosofia e scienza, incentivati dalla diffusione e dall’importanza che ebbero la corrente neokantiana4 e lo storicismo5, ma soprattutto l’evoluzionismo6, diventato ormai fondamentale

1 Il presente scritto si pone l’obiettivo di analizzare la posizione di alcuni filosofi italiani di fronte alla Teoria critica, ma in particolar modo a Herbert Marcuse (1898-1979). Nello stesso tempo, però, ha come scopo quello di mostrare, seppur in maniera appena tratteggiata, come la psicologia scientifica italiana, prima della simultanea strozzatura fascista e neoisealista, avesse raggiunto notevoli risultati, che successivamente sono ricomparsi a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Nello specifico, a proposito della psicoanalisi ampiamente osteggiata durante il Ventennio, in Italia, durante gli anni sessanta del Novecento, la traduzione e la circolazione delle opere marcusiane ha fornito un notevole contributo alla ripresa e allo sviluppo di tale ambito della psicologia.

2 Nel 1889, a Roma Giuseppe Sergi (1841-1936), sul modello di quello wundtiano, fondò il primo laboratorio italiano di psicologia; nel 1903 seguì, ad opera di Francesco De Sarlo (1864-1937), quello di Firenze, che godeva di un primato di autonomia nell’ambito delle ricerche psicologiche italiane. Non meno importanti furono quelli di Torino e di Padova e nel 1921 Agostino Gemelli (1878-1959) ne istituì uno anche all’Università Cattolica di Milano. Al 1940 risale, invece, il Centro sperimentale di psicologia applicata, che dieci anni dopo diventò l’Istituto di psicologia del CNR. Nel 1905, a dimostrazione della volontà di rinnovare la cultura scientifica italiana, furono assegnate le prime tre cattedre universitarie di psicologia: a Torino a Federico Kiesow (1858- 1940), a Roma a Sancte De Sanctis (1862-1935) e a Napoli a Cesare Colucci (1865-1942). Tale operazione consentì alla psicologia di conseguire, seppur in minima parte, autonomia sia rispetto alla filosofia sia rispetto alla medicina, nei cui ambiti sino a quel momento era stata coltivata.

3 Una delle più importanti fu la «Rivista di Filosofia Scientifica», della quale fu direttore Enrico Morselli (1852- 1929) dal 1881 al 1891.

4 Alla fine dell’Ottocento si sviluppò un profondo legame tra il neocriticismo kantiano e la psicologia scientifica, dovuto a una critica maturata sia nei confronti dell’ontologismo degli spiritualisti sia del riduzionismo dei positivisti. In Italia il connubio si ebbe tra il pensiero kantiano, introdotto attraverso alcune riviste straniere di quel periodo, la biologia, l’antropologia e le scienze umane in generale. Felice Tocco (1845-1911), infatti, seguendo l’interpretazione empiristica di Kant, in Europa ormai di notevole successo, che considerava le categorie a priori della conoscenza come basi concrete della struttura della mente dell’individuo, propose il suo indirizzo psicofisiologico a fondamento delle scienze umane. Egli affermava che la conoscenza non può essere separata dall’esperienza, invitando a considerare l’origine e lo sviluppo degli aspetti psicologici da un punto di vista empirico. Secondo tale orientamento, Giovanni Cesca (1858-1908) riteneva fondamentali gli studi antropologici per gli aspetti storici e umani degli individui, non in senso genericamente astratto, bensì secondo un’analisi di tipo empirico.

5 Antonio Labriola (1845-1904) ritenne possibile il contributo della psicologia scientifica per la comprensione dei fenomeni storici e sociali, che non indagò dal punto di vista psicofisiologico, poichè riteneva le componenti psicologiche presenti nella società, forze che ne determinano l’evoluzione. Nella concezione labriolana, la psicologia dei popoli, mediante lo studio della coscienza umana, analizza e studia in generale le leggi dello sviluppo storico, in quanto ogni evento storico subisce influssi, da parte di particolari stati di coscienza. Labriola, in questa sede, va anche ricordato per aver sostenuto e proposto la candidatura di Sancte De Santis come docente di Psicologia, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma.

6 Lo storicismo e il neokantismo italiani riconobbero alla teoria dell’evoluzione un ruolo fondamentale, al punto tale che la posero come uno dei fondamenti delle nascenti scienze umane. Al significativo consolidamento della psicologia moderna contribuì Roberto Ardigò (1828-1920), il quale, in modo del tutto originale e allontanandosi dalla filosofia spiritualista, sosteneva la necessità di studiare in modo scientifico i fenomeni psichici, considerando la coscienza umana unitaria e mettendo in stretta relazione il pensiero con l’organismo. Egli,

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per gli studi sull’individuo e sulle dinamiche sociali. Negli anni venti, con l’ascesa al potere del fascismo e con l’avversione del neoidealismo alla scienza in generale, il rapido sviluppo che la psicologia sperimentale aveva registrato nel periodo positivista e post-positivista, coincidente politicamente con quello pre e post-unitario, subì un brusco rallentamento. Già a partire dal 1916 un forte ridimensionamento della disciplina vi era stato con l’abolizione dell’insegnamento della psicologia negli istituti magistrali e, nel 1923, con la riforma Gentile con l’eliminazione dalle altre scuole superiori; anche in ambito universitario si ebbe la scomparsa delle cattedre fino ad allora istituite, a eccezione di quella di Roma7 e di quella intoccabile della Cattolica di Milano8.

Una delle polemiche più famose, e profondamente devastanti per l’ancora giovane psicologia scientifica, messe in atto dalla strategia del neoidealismo ormai padrone assoluto della scena culturale italiana, fu quella tra Benedetto Croce (1866-1952) e Francesco De Sarlo9 (1864-1937).

L’interesse per la psicologia si riaccese in Italia, in modo particolare, negli anni sessanta del Novecento, culminando con alcune iniziative che a Roma, presso la Facoltà di Magistero, videro sorgere nel 1971 il primo corso di laurea in psicologia; l’esperimento fu perfezionato e migliorato, trasformando il percorso da quadriennale in quinquennale, e istituito presso le maggiori sedi del territorio nazionale. L’importanza della disciplina è stata sensibilmente accresciuta dalla maggiore diffusione della professione di psicologo, per la quale il Parlamento italiano nel 1989, su proposta dello psicologo e senatore Andrea Ossicini (1920-2019), ha approvato la legge sull’Albo professionale degli psicologi. Altra grande conquista fu nel 1991, sempre presso l’Università di Roma, l’istituzione della prima Facoltà di Psicologia.

rifacendosi alle teorie evolutive spenceriane, affermava che la coscienza inizialmente percepisce ciò che è complesso e indistinto, mentre solo in una fase successiva distingue tra soggetto e oggetto, fra sensazioni, percezioni e idee.

7 Nel 1931, la cattedra di Roma fu assegnata a Mario Ponzo (1882-1960), poiché Sancte De Santis decise di dedicarsi all’ambito della psichiatria. Dal 1935 al 1943 su richiesta del Ministero dell’educazione nazionale, Ponzo, Agostino Gemelli (1878-1959) e Ferruccio Banissoni (1888-1952) si occuparono in modo particolare dell’orientamento scolastico e professionale.

8 Nel 1945 l’unica cattedra di psicologia presente in Italia era quella istituita da Agostino Gemelli nel 1921 presso l’Università Cattolica di Milano, che, grazie al prestigio del quale godeva, potè sfuggire alla censura fascista. Grazie all’opera di Gemelli non solo la disciplina psicologica non scomparve definitivamente dall’istruzione del nostro Paese, ma gli studi italiani, realizzati in questo settore, ebbero maggiore prestigio a livello internazionale. Egli, inoltre, nel 1940, dopo aver fondato il Centro sperimentale di psicologia applicata, riuscì a ottenere dal governo fascista finanziamenti specifici per quanto riguarda la parte applicativa. Del Gemelli è anche nota la sua manualistica, che in ambito italiano ha formato due generazioni di psicologi.

9 Nel 1920, De Sarlo fu eletto presidente della SIP, Società italiana di psicologia, elaborando un programma di rinnovamento e di ampliamento dell’Istituto di psicologia da lui fondato, con maggiore personale specializzato, ulteriori fondi per la ricerca e una moderna biblioteca. A causa della conquista del potere da parte del fascismo, però, un tale programma non poté essere attuato e De Sarlo, che fin dal 1903 era diventato oggetto ricorrente delle critiche di Croce, pur cercando di reagire fu osteggiato pesantemente. Nel 1923, quindi, per intervento diretto del ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Gentile (1875-1944), dovette rinunciare all’insegnamento della psicologia; l’Università non riuscì a opporsi a tale drastica e ben studiata manovra per umiliarlo e allontanarlo dagli impegni istituzionali e l’incarico, di durata annuale e pagato dalla facoltà, poiché il ministero si rifiutava categoricamente, venne affidato a Enzo Bonaventura (1891-1948), il quale, a sua volta, non essendo ancora strutturato, non poteva nemmeno partecipare alla vita accademica. De Sarlo cercò di difendersi ma senza buoni risultati, pronunciando alcuni discorsi, a Firenze nel 1925 Il valore della scienza psicologica nel tempo presente e nell’anno successivo L’alta cultura e la libertà, che costò la chiusura anticipata del Congresso filosofico di Milano da parte delle autorità; e, nonostante nel 1931 avesse firmato solo formalmente il giuramento al Partito nazionale fascista, nei giorni dei suoi funerali la presenza fu permessa solo ai familiari più stretti. Alcuni anni dopo, nel 1947, si ebbero le commemorazioni ufficiali con la partecipazione di allievi, colleghi e amici.

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La psicoanalisi cominciò ad acquistare un certo rilievo nella cultura filosofica e scientifica italiana solo negli anni’ 60. Le teorie freudiane erano attaccate sia dalla cultura marxista sia da quella cattolica, e iniziavano a essere discusse serenamente soltanto dai filosofi aderenti alla fenomenologia. Dopo la ripresa delle pubblicazioni della «Rivista di psicoanalisi» nel 1956, l’evento editoriale più importante fu l’uscita del primo volume delle Opere di Freud a cura di Cesare L.

Musatti, nel 1966. Al recupero della teoria di Freud giovò in sede cattolica la pubblicazione del libro La psicoanalisi di Leonardo Ancona (1922-2008), psicoanalista cattolico, nel 1963, e in sede marxista la traduzione di Eros and civilization di Herbert Marcuse nel 196410.

Idealismo e atteggiamento antiscientifico. Lucio Colletti critico di Marcuse

Il filosofo Lucio Colletti (1924-2001), in tutto l’arco della sua attività intellettuale, ha sempre mostrato un atteggiamento ipercritico nei confronti dei teorici della Scuola di Francoforte, al punto tale che, nella sua produzione scritta, non si registrano cambiamenti di tono se non addirittura atteggiamenti ironici e continue stroncature.

Della critica di Colletti rivolta a Marcuse, in questa sede, si prendono in considerazione l’intervista11 concessa nel 1971 a Ottavio Cecchi (1924-2005), giornalista del settimanale del PCI «Rinascita» e il più noto e diffuso contributo, presente in Ideologia e Società12, pubblicato nel 1969.

L’intervista si apre con l’invito a parlare dell’interpretazione marxiana della Scuola, nella quale Colletti riscontra che i francofortesi insistono sulla valorizzazione delle fonti hegeliane in Marx, trasferendo, così, la loro critica dal piano economico-politico a quello esclusivamente filosofico. In particolare, egli ritiene, oltre al fatto che Marcuse sia l’autore più significativo della teoria critica, anche che, alla base delle ricerche condotte dall’Istituto, non vi sia tanto lo studio del rapporto tra lavoro salariato e capitale quanto un discorso tra scienza e tecnologia, che prescinda dal modello sociale in atto.

C’è un punto in cui la Scuola di Francoforte si ricollega effettivamente a Hegel ed è la critica del principio di causa, dell’«intelletto scientifico», la critica della scienza in genere. Per questa via, a me sembra in dubbio che, nel ricollegarsi a Hegel, la Scuola di Francoforte riprende anche i temi di quella che, tra la fine del secolo scorso e l’inizio del nostro secolo, fu la reazione idealistica contro la scienza. (…) La scienza non è vera conoscenza: questa era la tesi centrale. La scienza rappresenta una conoscenza illusoria. Da questo punto di vista, è fuori di dubbio che il richiamo a Hegel per la Scuola di Francoforte è servito come copertura per portare avanti una tematica, la quale, comunque la si giudichi, appare ricca di elementi irrazionalistici13.

Per Colletti questo è un atteggiamento neoromantico, entrato nella cultura italiana a causa della Scuola, della quale la dimensione utopica della teoria critica ne rappresenta, ancora più chiaramente, l’immagine antistorica e antimoderna.

Nell’Europa dilaniata dall’ascesa e dal trionfo del nazifascismo e dallo scoppio della seconda guerra mondiale, tra Hitler e Stalin i francofortesi dimostrarono di

10 L.MECACCI, Storia della psicologia. Dal Novecento a oggi, Bari-Roma, Laterza, 2019, p. 148.

11 Cfr. L.COLLETTI,O.CECCHI, Marx, Hegel e la Scuola di Francoforte, «Rinascita», 20, 14 maggio 1971.

12 Cfr. L.COLLETTI, Ideologia e società, Bari, Laterza, 19754, pp. 174-186.

13 ID., Marx, Hegel e la Scuola di Francoforte, cit., p. 12.

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essere fin nel profondo degli intellettuali borghesi radicali che rifiutano sistematicamente di prendere partito preferendo rifugiarsi nella sfera dell’utopia14. In Ideologia e società Colletti analizza sia lo studio che Marcuse dedica a Hegel, Ragione e rivoluzione: Hegel e il sorgere della teoria sociale15, sia il discorso che il Nostro fa sulla scienza, «come discorso anche sulla società, nel senso che l’intelletto scientifico fa da perfetto pendant dell’impersonalità e dell’anonimato della vita sociale contemporanea»16. Per quanto attiene lo studio dedicato a Hegel, Colletti esplicita due aspetti, dei quali il primo riguarda Hegel letto in senso idealistico-soggettivo, che prevede che gli uomini debbano realizzare a livello sociale i loro ideali, il vero, il giusto, il buono; il secondo, invece, concerne la distruzione del finito, che, a differenza di Hegel, che lo vede in senso religioso, in Marcuse è concepito in chiave materialista.

1. L’interpretazione della Ragione hegeliana come semplice raison soggettiva, ragione dell’individuo empirico, anziché Logos cristiano: ergo – come nella sinistra e, specialmente in Bruno Bauer – lettura di hegel in chiave di idealismo soggettivo (Fichte): la Ragione e l’ Ich,… l’ «io» e la «massa»

ecc.; donde l’interpretazione della hegeliana realizzazione del Logos cristiano come programma politico attraverso il quale realizzare gli «ideali», ciò che la ragione prescrive agli uomini (il principio fondamentale del sistema di Hegel, dice Marcuse, è che «ciò che gli uomini pensano sia vero, giusto e buono, dovrebbe essere realizzato nell’effettiva organizzazione della loro vita sociale e individuale» […]).

2. L’immissione, in questa idea liberal-radicale di rivoluzione, del motivo hegeliano della ‘distruzione del finito’ (per lo più andato perduto in tutta la tradizione interpretativa, salvo forse che in Stirner e Bakunin); motivo, però, che, mentre in Hegel è legato alla transunstanziazione o immanentizzazione di Dio, in Marcuse invece, in mancanza del significato teologico, tende ad acquistare quello letterale o comune17.

Da tali tematiche scaturisce l’antitesi marcusiana tra pensiero positivo e pensiero negativo, nella quale il primo termine è l’intelletto, cioè il principio di non contraddizione del senso comune e della scienza, mentre il secondo è la ragione dialettica e filosofica, arrivando a sostenere che il pensiero positivo riconosce sia la realtà sia l’autorità dei fatti, invece quello negativo nega tale realtà e fuori dall’infinito non esiste il finito. La verità, quindi, per Marcuse è realizzazione della ragione, che attua pienamente il senso del pensiero hegeliano.

Da qui, l’antitesi, che è al centro di Ragione e rivoluzione, come anche de L’uomo a una dimensione: - l’opposizione tra «pensiero positivo» e «pensiero negativo»;

il primo, corrispondente all’«intelletto», cioè al principio di non contraddizione, in quanto principio (materialistico) del senso comune e della scienza; il secondo, alla

«ragione» dialettica e filosofica. Il pensiero «positivo» è il pensiero che riconosce l’esistenza del mondo, l’autorità e la realtà dei «fatti». Il pensiero «negativo»,

14 R. D’ALESSANDRO, La teoria critica in Italia. Letture italiane della Scuola di Francoforte, Roma, manifestolibri, 2003 p. 224.

15 Cfr. H.MARCUSE, Ragione e rivoluzione: Hegel e il sorgere della teoria sociale, (1941), trad. it., Bologna, il Mulino, 1965

16 R.D’ALESSANDRO, La teoria critica in Italia. Letture italiane della Scuola di Francoforte, cit., p. 225.

17 L.COLLETTI, Ideologia e società, cit., p. 174.

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viceversa, è il pensiero che nega i «fatti». Il finito fuori dell’infinito non ha vera realtà. […] La verità e la realizzazione della ragione: è l’idea, o filosofia, che si traduce in realtà. «Secondo Hegel, i fatti di per se stessi – scrive Marcuse – non posseggono alcuna autorità. […] Tutto ciò che è dato deve trovare una giustificazione di fronte alla ragione, la quale consiste in realtà nella totalità delle possibilità della natura e dell’uomo»18.

Fatte tali premesse, il discorso di Colletti assume toni ironici e grotteschi, poiché, a causa del disprezzo spiritualistico per la realtà, per il quale la filosofia della rivoluzione diventa rivoluzione come distruzione delle cose, il ragionamento di Marcuse, ammantato di idealismo romantico, non è convincente.

Non è chi non veda che si tratta di vecchi temi romantici. La Differenz è piena di echi di Schelling. Ma, poiché Marcuse viene da Heidegger, in questa celebrazione della Notte e del Nulla (proprio dove si era abituati ad aspettarci il «sole dell’avvenire») si può, forse, supporre anche una eco di Was ist Metaphysik?

Heidegger è un maestro della Nichtung. E, se anche la Nichtung non è la Vernichtung né la Verneinung, questa «rivoluzione» filosofica non manca di lasciare perplessi19.

In merito al discorso marcusiano sulla scienza, Colletti afferma che, per il Nostro, l’alienazione e il feticismo non attengono al prodotto del lavoro salariato, delle merci e del capitale, ma «il “male”, per lui, non è una determinata organizzazione della società, un certo sistema di rapporti sociali, bensì è l’industria, la tecnica, la scienza. Non è il capitale, ma la macchina in quanto tale»20.

È un fatto che L’uomo a una dimensione è interamente prigioniero di questa vecchia impostazione. Il libro è brillante, contiene una serie di osservazioni spicciole e veritiere. Ma, quando se ne esamini la sostanza, è facile vedere che esso è un atto d’accusa non contro il capitale ma contro la tecnologia. Marcuse, che insorge contro il «pensiero integrato», non si rende conto di ragionare come il più integrato dei sociologi borghesi. Per lui non c’è differenza tra capitalismo e socialismo: ciò ch’egli combatte è la «società industriale», «l’industria» senza connotazioni di classe, l’industria «in sè». Non la macchina in quanto capitale, non l’uso capitalistico della macchina, ma la macchina nuda e cruda21.

Secondo l’analisi di Colletti, Marcuse identifica la macchina con il capitale, con l’idea non di riconoscere al capitale i vantaggi della macchina, ma per attribuire alla macchina l’oppressione del lavoratore, che invece dipende dal capitale. «Nel primo caso, l’atteggiamento che ne discende è quello apologetico della Vulgäroekonomie; nel secondo, è quello della cosiddetta “critica romantica” della società borghese, cioè della critica del presente non in nome dell’avvennire ma in nome e alla luce delle ‘nostalgie’ del passato»22. Un Marcuse così descritto appare agli occhi di Colletti profondamente romantico, al punto

18 Ivi, p. 175.

19 Ivi, p. 177.

20 Ivi, p. 187.

21 Ibìdem.

22 Ivi, p. 188.

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da affermare che:

La vecchia ripugnanza dello spiritualismo filosofico per la produzione, la tecnica, la scienza – in una parola: l’orrore per le macchine – si ammantava ora del fascino della critica alla società borghese moderna. Il succo della filosofia di Marcuse è appunto qui. L’oppressione è la scienza. La reificazione è riconoscere che esistono cose fuori di noi. […] Il «male» non è una determinata organizzazione della società, un certo sistema di rapporti sociali, bensì è l’industria, la tecnica e la scienza. Non è il capitale ma la macchina in quanto tale. Marcuse – non si dispiaccia nessuno – è il figlio di quella stessa tradizione di cui oggi incute paura23.

Proseguendo e concludendo il discorso, Colletti, senza però addurre prove convincenti e liquidando la questione in poche righe, si propone di dimostrare che Marcuse è un critico di Marx di vecchia data, il quale si impegna inutilmente a chiarire che l’ autore de Il Capitale è superato, vale a dire che il suo marxismo è di tipo socialdemocratico e desunto da Eduard Bernstein (1895-1932) e da Karl Johann Kautsky (1854-1938).

Il primo libro di Marcuse, che io abbia letto, è Ragione e rivoluzione nella seconda edizione americana (New York 1954). Il libro conteneva un «capitolo supplementare», che non è stato riprodotto nella recente edizione italiana. Se questo capitolo fosse oggi tradotto, molti equivoci si dissolverebbero e Marcuse apparirebbe per ciò che è: un critico sprovveduto e «arrabbiato», di Marx e del socialismo. Quanto poi al punto di vista da cui egli conduce la sua critica, sono significative anche le pagine conclusive de L’uomo a una dimensione. Marcuse vi reclama «lo spazio interiore della sfera privata»; vi invoca «quell’isolamento in cui l’individuo, lasciato solo a se stesso, può pensare e domandare e trovare»; vi celebra la «sfera privata» come la sola che «può dare significato alla libertà e all’indipendenza di pensiero» (p. 253). Come non riconoscere in tutto questo la vecchia retorica liberale?24.

L’immagine della scienza in Marcuse. L’analisi di Giulio Preti

Giulio Preti (1911-1972) prende in considerazione la figura di Marcuse in due articoli, contenuti nell’opera Que serà, serà25, rispetto ai temi della conoscenza filosofica e della scienza.

Nel primo dei due articoli, Filosofia unidimensionale?26, il filosofo della Scuola di Milano dice:

L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse è un libro molto importante, e soprattutto molto stimolante: e investe, con quello sociologico, parecchi altri aspetti della civiltà contemporanea, tra cui la filosofia – alla quale, tra l’altro, è dedicata una buona metà del libro stesso27.

Preti individua due ragioni per le quali è necessario occuparsi delle tesi del Nostro, di cui una,

23 Ivi, pp. 183-184.

24 Ivi, pp. 190-191.

25 Cfr. G.PRETI, Que serà, serà, Firenze, Il Fiorino, 1970.

26 Cfr. Id., Filosofia unidimensionale?, in ID., Que serà, serà, cit., pp. 19-27.

27 Ivi, p. 21.

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riguardante la cultura filosofica contemporanea, che è la minaccia di monodimensionalità, cioè la rinucia alla teoreticità del pensiero e l’alienazione nella società industriale; e l’altra il fatto che Marcuse consideri la filosofia analitica e il neopositivismo, solitamente ritenute correnti di pensiero moderne e d’avanguardia, alla base del processo di omologazione che descrive e denuncia. Egli afferma che nella filosofia attuale l’operazionismo, forse incentivato dalla sociologia, dalla pedagogia e dalla cibernetica, sembra «voler ridurre aspetti fondamentali del pensiero filosofico (o addirittura l’intera filosofia) a quel monodimensionalismo in cui va distrutta ogni potenzialità teoretica, ogni forza critica, ogni possibile apertura “profetica”, del pensiero filosofico stesso»28. Il filosofo della Scuola di Milano è fermamente convinto, che il metodo d’indagine usato da tale corrente sia entrato in molti settori della ricerca filosofica contemporanea, a causa della sua affinità sia con il pragmatismo sia con alcuni aspetti marginali del neo-marxismo.

La sostanza è che i concetti teorici del sapere, e gli enunciati costituiti di tali concetti (leggi, teoremi, ecc.), non sono affatto «teorici»: sono meramente operativi. […] Non sono «anticipazioni dell’esperienza» nel senso classico, cioè strutture teoriche «profonde» […], bensì sono «anticipazioni» nel senso che sono progetti e regole operative con una portata più o meno immediatamente tecnologica. Di conseguenza, la scienza non è scienza, cioè conoscenza, sapere, ma tecnologia – o per lo meno deve divenire tale – se vuole uscire dai sogni della metafisica (e integrarsi nei fini e nell’organizzazione della società industriale)29.

La sociologia, la pedagogia, la linguistica strutturale, e la filosofia, con il neopositivismo, utilizzano il metodo operazionistico, riducendo a concetti operativi nozioni fondamentali di logica e di gnoseologia dell’empirismo logico. Preti osserva ancora che, soprattutto, nel campo della logica matematica, passata al servizio delle industrie o degli apparati militari, i trattati scientifici, grandi o piccoli che siano, sono strettamente legati alla teoria delle macchine di Alan Touring (1912-1954), o, se non lo sono, trattano problemi e concetti in forma aritmetico-algebrica, in modo tale che possano facilmente divenire applicazioni delle macchine elettroniche. «L’ideale è la macchina, la calcolatrice elettronica. La macchina che sembra saper fare tutto: registra, ricorda, classifica, conta, calcola, gioca a scacchi, ragiona, ragiona traduce… (In certi romanzi di fantascienza fa anche all’amore, meglio delle donne vere)»30.

Dalla macchina così concepita i filosofi sono seriamente preoccupati, come dimostra l’ultimo congresso della SFI, Società Filosofica Italiana, dedicato a tale argomento; essi comunque reagiscono al problema in vario modo: gli spiritualisti ritengono che la somiglianza macchina-mente umana possa portare a una nuova forma di materialismo meccanicistico e altri ancora temono, come la fantascienza, che la macchina possa asservire l’uomo, privandolo della sua dignità e del suo spirito libero. Secondo Preti per la prima posizione non vi è alcuna preoccupazione, poiché a partire dall’età moderna la meccanica, la chimica e l’elettrologia hanno sempre fornito «discreti modelli, necessariamente limitati e ipersemplificati, di processi neuro-psichici, suggerendo a psicologi e psichiatri utili ipotesi (che poi naturalmente vanno verificate in sede propria)»31. Per quanto concerne, invece, la seconda posizione «esiste soltanto nei libri di fantascienza. La macchina non si impone all’uomo - lo serve, non diversamente da tutti i servomeccanismi, elementari o complessi che siano»32.

28 Ivi, p. 22.

29 Ibìdem.

30 Ivi, p. 23.

31 Ivi, p. 24.

32 Ibìdem.

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Ma il vero pericolo è un altro: quello a cui si mira non è una macchina che ragioni come un uomo, bensì che l’uomo ragioni come una macchina. Con la stessa consapevolezza e acrisia dei fini, con la stessa esattezza ma semplicità meramente operativa. Che non pensi per elaborare concetti che sorpassino la realtà e l’esperienza attuali, ma solo per elaborare dati allo scopo di risolvere problemi tecnici33.

Alcuni scienziati, afferma il filosofo della scuola di Milano, hanno già stabilito che il criterio di scientificità di una teoria sia stabilito dalla possibilità che una calcolatrice logica abbia di sostituire lo scienziato. Ciò implica che il discorso sia rigoroso, ma semplice e schematico, e che i concetti siano privi di profondità, cioè sono in grado di elaborare, però non d’interpretare l’esperienza. In altri termini: «Che la scienza cessi di essere quadro e concezione del mondo per divenire tecnica»34.

Nell’epistemologia contemporanea, a detta di Preti, a contendersi il campo vi sono due grandi correnti di pensiero, entrambe derivate dall’empirismo logico, che fanno capo una a Willard Van Orman Quine (1908-2000) e l’altra a Carl Gustav Hempel (1905-1997). La prima tende «proprio a una concezione monodimensionale, appiattita, operativa e della scienza e della stessa filosofia. Ogni teoria è come un campo di forze premuto tutt’intorno dall’esperienza; il suo compito è solo di operare una scelta pragmatica delle verità empiriche, pratiche, che sembrano più salde, e attorno a queste organizzare tutto il sistema delle conoscenze e delle ipotesi». La seconda «rifiuta questo appiattimento pragmatico del sapere:

la teoria è un momento ineliminabile, essa trascende l’esperienza, la collega in significati che rimandano, oltre che ai dati attuali, a una indefinita ricchezza di dati possibili. Il concetto non è una mera classificazione di dati, la legge scientifica non è una mera classificazione di fatti»35.

Da questo punto sino alla fine dello scritto, Preti muove a Marcuse alcune osservazioni, sottolineando che il Nostro non conosce affatto queste correnti di pensiero e, pur non essendo legato al marxismo ortodosso, ne conosceva le radici hegeliane, facendo largo uso della dialettica, che, in quanto astrattizzante, non permette il rigore nel discorso filosofico e «fa di questo un discorso ideologico, persuasivo, programmatico, profetico: schiaccia quindi il pensiero nella dimensione pratica, anche se gli affida il compito illusorio di essere coscienza della praxis»36.

La costruzione teorica distaccata, l’elaborazione di concetti che portano sull’esperienza ma sono prima di tutto elaborati in un intero quadro teorico conferisce al discorso scientifico e filosofico proprio quella dimensione di profondità, proprio quella trascendenza rispetto ai «fatti» come tali, che occorre per sfuggire al pericolo della monodimensionalità e dell’operativismo. Il concetto teorico, proprio perché porta sul fatto, ha un significato che non è costituito dal fatto, che trascende il fatto37.

Su tale argomento il giudizio di Marcuse, fa notare Preti, sarebbe che sia il linguaggio sia la scienza si sono formati nella società attuale, caratterizzata da alienazione, da contraddizioni e dalle sue forme di schiavitù, che, detto con una sola parola, vuol dire ideologia. Per liberarsi

33 Ibìdem.

34 Ivi, p. 25.

35 Ibidem.

36 Ivi, p. 26.

37 Ibìdem.

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dell’ideologia bisognerebbe occultarla e ciò significherebbe impedirne la critica. Il filosofo della scuola di Milano, però, ritiene che sia vero il contrario:

Per sterilizzare semanticamente il linguaggio sì da renderlo idoneo agli scopi del discorso razionale, bisogna eliminarne, e quindi rilevarne le incrostazioni ideologiche, e portarlo a significare concetti. Quindi la critica scientifica del linguaggio è critica dell’ideologia della società in cui è usato. In secondo luogo, i metodi, le conseguenze logiche e linguistiche che stanno alla base di una filosofia rigorosa emergono da tutta la concreta storia della nostra civiltà – da quella concreta storia dalla quale, e solo dalla quale può venire qualsiasi movimento di emancipazione umana38.

Il secondo articolo, Marcuse e la scienza39, vede impegnato Preti in una serie di osservazioni fatte sul saggio marcusiano, Sulla scienza e la fenomenologia40, contenuto nell’opera, sempre dello stesso autore, Critica della società repressiva41.

Prendendo spunto da quel saggio, il filosofo della Scuola di Milano esamina il concetto di ragione, che, pur giunto sino a noi, attraverso una lunga tradizione fatta di pareri discordanti, ha sempre avuto due significati; il primo, in senso stretto, è la conoscenza scientifica, che si esprime mediante il linguaggio matematico, chiaro e rigoroso dal punto di vista logico. Il secondo, in senso lato, applicato alla vita e ai suoi valori, che significa ragionevolezza, armonia, ordine e coerenza. «Ogni altro uso del termine “ragione” è possibile (chè le parole sono di chi le usa): ma può generare e ha generato equivoci e confusioni»42. Marcuse, afferma Preti, definisce la ragione progetto, inteso come modo specifico di interpretare, organizzare e cambiare il mondo, ma:

Cambiare il mondo non è di per sé razionale: lo sarebbe, se mai cambiare il mondo razionalmente (e così avremmo una definizione circolare che non direbbe nulla). Ma allora riempiamo quel «razionale» di contenuti sentimentali che con la

«ragione», nel senso in cui siamo soliti onorare questa signora, non hanno nulla a che fare: che sono, anche se molto diffusi, circoscritti ad una parte di umanità, storicamente contingenti, e affioranti da una determinata situazione storica43.

A queste osservazioni, Marcuse potrebbe obbiettare dicendo che la scienza è nata con lo scopo di cambiare il mondo e di migliorare la vita umana, tuttavia, a tal proposito, secondo Preti, è opportuno esprimere due fondamentali considerazioni.

La prima è questa: di come sia assolutamente arbitrario voler fissare l’origine e lo scopo originario di una qualunque forma della cultura. […] Per questo ci mancano assolutamente i documenti: non sappiamo assolutamente quando e come queste grandi forme siano nate, quali ne siano state i primi scopi e i primi sviluppi. […] Il tèlos della scienza si vede da quello che questa è: visione razionale del mondo, che ha per unico valore la verità (validità conoscitiva razionale), ed è immune da ogni altro valore. […] in questo senso la scienza è repressiva. […] La scienza è

38 Ivi, pp. 26-27.

39 Cfr. G.PRETI, Marcuse e la scienza, in ID., Que serà, serà, cit., pp. 29-37.

40 Cfr. H. MARCUSE, Sulla scienza e la fenomenologia, in ID., Critica della società repressiva, (1967), con Prefazione e trad. it. di C.CAMPORESI, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 56-68.

41 Cfr. ID., Critica della società repressiva, cit.

42 G.PRETI, Marcuse e la scienza, cit., p. 32.

43 Ivi, p. 33.

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ascetismo, rigore, repressione di impulsi: per questo è cosa altamente civile, perché ogni civiltà, in quanto tale, è sempre repressiva. (Variano soltanto i determinati impulsi che vengono repressi)44.

A conclusione del suo articolo, Preti fa il punto della situazione sul discorso di Marcuse, il quale afferma che anche la scienza nasce dall’esperienza reale e dai vari condizionamenti umani, dai quali si dà l’illusione di essere indipendente, poiché la scienza moderna, per potenziare la sua efficacia scientifica, ha tagliato i rapporti con la filosofia, decidendo di non interrogarsi più sulla propria origine e sui propri condizionamenti e scopi. Il filosofo della scuola di Milano qui manifesta il suo disaccordo:

Gli scienziati non sono in grado di controllare gli usi tecnologici che si fanno delle loro conoscenze, appunto perché questi usi tecnologici sono accidentali rispetto alla scienza stessa. Una teoria scientifica non è resa valida dal fatto di servire a qualcosa: spesso serve a qualcosa, ma spesso anche non serve a nulla. Non è neppure possibile stabilire a priori se, ed eventualmente a che cosa, servirà una teoria scientifica: è un fatto così accidentale, che non ha nulla a che fare con la sua verità. […] La scienza non è (oggi) in crisi: potrà essere in crisi la posizione sociale degli scienziati, potrà, ed è, essere minacciata l’autonomia della ricerca scientifica, ma i suoi criteri di verità […] non sono mai stati così saldi. La scienza è ancora oggi l’unica che possa offrirci delle visioni del mondo probabili, le sole visioni del mondo in cui possiamo credere. È la filosofia che, come sempre, è in crisi: è in crisi proprio perché anche questa volta non le riesce completamente di epurare dal proprio seno tutte le cariche emozionali e irrazionali che ha ereditato dalle sue origini greche45.

Che cosa ha veramente detto Marcuse. L’interpretazione di Tito Perlini

Tito Perlini, già a partire dal 1968 con la sua opera Che cosa ha veramente detto Marcuse46, pionieristica per la cultura italiana dell’epoca, ha sempre cercato di cogliere il significato più autentico del pensiero filosofico del Nostro, cercando di sciogliere le questioni nodali, spesso fonte di pesanti fraintendimenti. Motivo di discusse interpretazioni è stato il difficile nesso teoria-prassi, che, in questa sede, ci si appresta ad affrontare, prendendo in considerazione il Saggio introduttivo47, che Perlini scrive per Teoria e pratica48, una conferenza marcusiana risalente al 1974, col quale coglie l’occasione per realizzare un’analisi complessiva sull’ultima fase della riflessione filosofica del Nostro.

In questo suo scritto, Perlini discute prima del senso marcusiano che ha il nesso teoria- prassi e dopo di come esso s’inserisca nel pensiero dell’ultimo Marcuse.

Riguardo alla concezione di teoria e di prassi, per Marcuse non vi è né unità

‘immediata’ né ‘prestabilita’, poiché se così fosse, e cioè se venisse impedito alla realtà di trascendere l’esperienza immediata, la teoria perderebbe il suo stesso senso critico. Se la teoria fosse un tutt’uno con la prassi, la teoria diventerebbe strategia, che, priva di ogni riflessione, verrebbe sottomessa dalle necessità impellenti del dato momento. La teoria,

44 Ivi, pp. 34-35.

45 Ivi, pp. 35-37.

46 Cfr. T.PERLINI, Che cosa ha veramente detto Marcuse, Roma, Ubaldini, 1968.

47 Cfr. ID., Saggio introduttivo, in H. Marcuse, Teoria e pratica, Brescia, Shakespeare&Company, 1979, pp. 7- 37.

48 Cfr. H.MARCUSE, Teoria e pratica, (1979), con Introduzione di T.PERLINI e trad. it. di C.BONARDI, Brescia, Shakespeare&Company, 1979, pp. 41-59.

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afferma Marcuse, può fornire un valido aiuto alla prassi solo se di fronte ad essa sia in grado di porsi come ‘alterità’.

L’unità fra i due momenti non è un dato, ma qualcosa che si tratta di conseguire e che non si lascia mai definitivamente raggiungere, poiché la tensione fra i due momenti insorge di nuovo ogni qual volta sembri essersi placata in un risultato49.

La teoria si occupa della realtà sociale, rispetto a come essa può trasformarsi, individuando, nella realtà esistente nella quale si trova, le possibilità che possano determinare il mutamento, cioè la possibile pratica.

Se la realtà sociale, come nel caso del tardo capitalismo, si presenta come qualcosa di fissato e di ostruente, che soffoca le stesse potenzialità che reca in sé, il compito della teoria ai fini del delinearsi e definirsi di un progetto rivoluzionario, cresce di importanza50.

È, infatti, compito della teoria e non della prassi, quando una situazione imprigionata nella realtà esistente lo richieda, muoversi incontro alla liberazione, poiché:

Marcuse non esita ad indicare nella teoria critica l’apriori storico di una pratica possibile in una realtà sociale che sembra rendere chimerica qualsiasi aspirazione al nuovo e al diverso. In una realtà bloccata la pratica innovativa viene di necessità ad assumere una caratterizzazione rivoluzionaria51.

Nel momento in cui si appresta a prenderla in esame, la teoria critica si pone in antitesi alla realtà, poiché rifiuta l’immagine della realtà, che la realtà stessa pone sul piano dell’esperienza. Una teoria si può veramente considerare tale solo quando di fronte alla realtà non considera le sue manifestazioni come dati incontrovertibili, bensì solo come punti di partenza.

Determinando l’universale nel particolare senza scambiare questo per quello, la teoria riconduce al concetto in grado di fornire la spiegazione alle manifestazioni immediate della realtà, nello sforzo di cogliere le tendenze fondamentali che si protendono all’interno della realtà stessa, verso la sua trasformazione52.

L’astrazione, che è la caratteristica peculiare della teoria, fornisce la possibilità di evadere dalla realtà immediata, che la società dominante vorrebbe far apparire come concreta e quindi come giusta e indiscutibile.

Marcuse sembra disposto ad ammettere la legittimità dell’accusa di astrattezza mossa più volte al suo pensiero. Tale astrattezza è la conseguenza di una realtà sociale imprigionata entro un sistema di dominio che tende a rendersi globale e che soffoca o assorbe in sé deformandolo ogni impulso teso alla trasformazione53. La teoria è per definizione necessariamente astratta, condizione che dipende da motivazioni di

49 T.PERLINI, Saggio introduttivo, cit., p. 8.

50 Ibìdem.

51 Ibìdem.

52 Ivi, p. 9.

53 Ivi, p. 9.

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carattere oggettivo, in virtù delle quali essa non si lascia sconfiggere, cercando di essere sufficiente a se stessa, poiché la teoria, oltre a non arrendersi all’impotenza, non considera come destino insuperabile il fatto di essersi trovata nella realtà esistente, nella quale è stata collocata. È facile notare ciò dal fatto che la teoria ha come caratteristica principale l’esigenza del ‘diverso’.

È la situazione paradossale in cui il pensiero critico-negativo viene a trovarsi nella realtà sociale uni-dimensionale messa in atto dal tardo capitalismo oligopolistico- organizzato in cui il sistema di dominio mira a rendersi totale col risultato di ricondurre a sé ogni impulso che in qualche modo cerchi, se non di opporsi, per lo meno di sottrarsi alla sua presa. È la situazione bloccata di cui Marcuse stesso ci ha fornito l’agghiacciante quadro ne L’uomo a una dimensione (1964)54.

Ne L’uomo a una dimensione55, il Nostro ha condotto una accurata serie di osservazioni sulla società industriale avanzata, mettendo in evidenza che l’apparato produttivo è di tipo totalitario, poiché determina sia le occupazioni, le abilità, le competenze e gli atteggiamenti, tipici di quella realtà sociale, sia i bisogni e le aspirazioni di ogni singolo individuo, con l’obbiettivo di assoggettarne anche la dimensione psicologica, evitando così l’insorgere di ogni tipo di iniziativa, destinata al cambiamento della situazione esistente. In tale contesto chiuso e apparentemente privo di speranza è possibile scorgere una via d’uscita attraverso la teoria, la quale induce a perseguire il nuovo, cercando come base l’appoggio delle masse e attuando la trasformazione di tipo rivoluzionario.

Per quanto concerne l’analisi del rapporto teoria-prassi nell’ultimo Marcuse, Perlini si serve della conferenza Teoria e Pratica, che si colloca nel periodo che intercorre tra Saggio sulla liberazione56, del 1969, e Controrivoluzione e rivolta57, del 1972, quest’ultimo da intendere come la correzione e l’ulteriore esplicitazione dei temi del precedente.

Per il Marcuse del Saggio sulla liberazione era giunto il momento di riprendere il concetto di utopia. La realizzazione di ciò che è stato designato nel passato come utopia si rivela oggi a portata di mano. Le risorse in grado di consentirne l’attuazione sono in effetti disponibili ma gli interessi dominanti del capitalismo relegano ancora nell’utopia ciò che ormai risulterebbe storicamente possibile. Si tratta pertanto di emancipare gli uomini dalla soggezione ad un apparato che, mediante la soddisfazione di bisogni in essi indotti, ne perpetua la condizione di dipendenza58.

È indubbio che il Saggio sulla liberazione è stato scritto da Marcuse sull’onda dell’entusiasmo generato dal Maggio francese, nel quale il Filosofo ha scorto la radicale ribellione al principio della realtà e di prestazione, a cui aveva dato il nome di Grande Rifiuto.

La realizzazione di una nuova società presuppone anche un individuo radicalmente diverso sia a livello di coscienza sia a livello di sensibilità, in grado di parlare un linguaggio inedito e di comportarsi in controtendenza rispetto ai dettami della società capitalistico-industriale, ignorando completamente crudeltà, brutalità e bruttezza. Va da sé che la nuova umanità

54 Ivi, pp. 11-12.

55 Cfr. H.MARCUSE, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, (1964), trad. it.

di L. GALLINO e T.GIANI GALLINO, Torino, Einaudi, 1967.

56 Cfr. ID., Saggio sulla liberazione. Dall’uomo a una dimensione all’utopia, (1969), trad. it., Torino, Einaudi, 1969.

57 Cfr. ID., Controrivoluzione e rivolta, con K.POPPER, (1972), trad. it. di S.GIACOMINI, Milano, Mondadori, 1973.

58 T.PERLINI, Saggio introduttivo, cit., p. 22.

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emergente dal Grande Rifiuto debba essere in grado di passare dalla rivoluzione iniziale alla lotta politica successiva, necessaria affinchè si possa passare dal capitalismo al socialismo.

Come già affermato in precedenza, Perlini ritiene che Controrivoluzione e rivolta sia la correzione delle tesi esposte in Saggio sulla liberazione, infatti:

A distanza di tre anni da questo scritto, raffreddatosi l’entusiasmo per l’esplosione anarchico-liberatoria del maggio francese, presa coscienza degli ostacoli che si frappongono a un movimento di liberazione troppo fiducioso nel suo potere di propagazione, Marcuse pone limiti precisi a una ribellione intesa come mera esplosione, come rivolta dei sensi e degli istinti a ciò che li reprime e li deforma, nella sua pretesa di porsi come forza naturaliter indirizzata verso un esito di tipo rivoluzionario59.

La spontaneità, infatti, dopo essere insorta contro la società repressiva, centralizzata e burocratica, non può completamente affidarsi a se stessa, poiché è necessario che nel processo di liberazione sia guidata dalla ragione, la cui riconciliazione con i sensi e l’immaginazione non è un dato acquisito, bensì un risultato da raggiungere parallelamente al processo di liberazione stesso. È possibile raggiungere tale stadio, in quanto la ragione, stimolata dalla ribellione, si contrappone al sistema dominante, ritornando in se stessa, cioè riconquistando quelle facoltà che le sono state tolte dal carattere omologante della società industriale.

Marcuse, negli scritti che si situano nell’arco che va da Controrivoluzione e rivolta (1972) e La dimensione estetica (1977), sembra tornare a una considerazione dialettica della funzione critica della ragione che ricorda l’impostazione del discorso svolto in Ragione e rivoluzione (1941). In particolare torna il motivo espresso nella nota sulla dialettica secondo il quale la salvezza non potrà mai essere opera di un innocente e la mano che ha inflitto la ferita, cioè la ragione, è la sola in grado di risanarla60.

Negli ultimi scritti di Marcuse, afferma Perlini, si è passati dal pessimismo devastante de L’uomo a una dimensione all’esaltazione di questa nuova sensibilità, che pur mettendo in evidenza una riflessione più pacata, non nasconde né l’amarezza né una possibile resa da parte dell’Autore.

Marcuse sostiene che l’anti-intellettualismo che permea la sinistra non è che la conseguenza, passivamente subita, della tensione, sempre più acuta nella società tardo-capitalistica, tra teoria e pratica, alimentata dalle versioni volgari, reificate e acritiche del marxismo61.

Marcuse sostiene che, contro ogni tipo di anti-intellettualismo, quanto più stringente diventa l’apparato dominante tanto più diventa necessario attuare una pratica intellettuale, con lo scopo di chiarire e di educare, cioè applicare un atteggiamento maieutico, mirante a risvegliare gli impulsi che fanno tendere gli uomini all’unione e all’aggregazione, poiché

«l’orientamento di Marcuse è verso una sorta di nuovo illuminismo. La teoria precede la pratica di trasformazione, impegnandosi a rimuovere gli ostacoli che impediscono a questa di manifestarsi e di esplicarsi»62.

59 Ivi, p. 26.

60 Ivi, p. 27.

61 Ivi, p. 29.

62 Ivi, p. 32.

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In Teoria e pratica Marcuse ribadisce quattro capisaldi del suo pensiero, ai quali Perlini fa seguire una interessante riflessione, che pone a chiusura del suo saggio. 1) Nel capitalismo vi è la tendenza al suo crollo, ma questa è impedita dal fatto che il capitalismo si presenta come una realtà integrata e integrante. 2) Non bisogna vivere guidati dall’idea che il capitalismo possa crollare da un momento all’altro, poiché la teoria avvinta da tale convincimento degenererebbe in falsa coscienza, rinunciando a porsi come promotore del cambiamento. 3) Se davvero si vuole il rovesciamento del capitalismo è necessario che ciò avvenga nei paesi occidentali più avanzati, affinchè si eviti che i tentativi di trasformazione nei paesi del Terzo Mondo, che non è integrato nel sistema dominante, non vengano arginati né con la forza né con l’economia. 4) Le nuove forme di rivoluzione anti-autoritaria sono estremamente critiche nei confronti del marxismo ortodosso.

Circa una possibile soluzione di questo che è da sempre il punctum dolens del marxismo, Marcuse non riesce che a fornire indicazioni vaghe. La parte “positiva”

del suo discorso, che insiste sulla necessità per la nuova sinistra di forme di organizzazione decentrate e del ricorso a un’autogestione cui vengono dedicati solo fugaci accenni, appare francamente come la più debole. […] Il problema dell’organizzazione è il più delicato anche, perché, una volta rifiutati sia l’esaltazione tecnocratica dell’organizzazione […] sia il mito di una spontaneità rivoluzionaria allo stato puro, resta l’obbligo di fare i conti con quella razionalità puramente formale e stumentale con cui il sistema di dominio fa tutt’uno […] Qui il discorso di Marcuse appalesa limiti ben precisi, che non sono solo suoi. Ciò che continua, però, a suscitare simpatia e ammirazione è l’energia davvero indomabile con cui questo grande vecchio […] continua a ribadire con tenacia […] la sua non fideistica fiducia […] nella capacità degli uomini di giungere a far proprie le possibilità concrete atte a permettere la trasformazione del mondo63.

Ontologia, passione e libertà in Marcuse. La posizione di Giacomo Marramao Pochi pensatori come Herbert Marcuse sono stati capaci di ripensare in chiave squisitamente ontologica il tema della libertà. Si tratta, tuttavia, di un Marcuse segreto, in larga parte sfuggito alla vulgata interpretativa degli anni Sessanta- Settanta del secolo scorso. Per questa semplice, ma decisiva ragione, il mio approccio all’opera di Marcuse è indicato in maniera alquanto tendenziosa dalla formula: «ontologia della libertà»64.

Nell’itinerario intellettuale di Marcuse la tematica ontologico-esistenziale non è da ritenere semplicemente il punto d’inizio, bensì un fiume carsico che è alla base di tutta la sua riflessione. Martin Jay (1944)65 e Rolf Wiggershaus (1944)66 hanno dimostrato la necessità e la validità della divisione in periodi della riflessione del Nostro, in base alla quale si sostiene una discontinuità tra il prima e il dopo la pubblicazione di Ragione e rivoluzione.

63 Ivi, pp. 36-37.

64 G.MARRAMAO, Libertà. L’ontologia di Herbert Marcuse, in ID., La passione del presente. Breve lessico della modernità-mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 131-153: 131.

65 Cfr. M.JAY, L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali,1923-1950, Torino, Einaudi, 1979.

66 Cfr.R.WIGGERSHAUS, La Scuola di Francoforte. Storia, sviluppo teorico, significato politico, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

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Benchè, infatti, la guerra rappresenti senza ombra di dubbio uno spartiacque anche per il pensiero di Marcuse, proprio in quest’opera è possibile riscontrare un continuum, riconducibile alla presenza della costante sotterranea cui accennavo all’inizio67.

Secondo Marramao, l’unico modo per mettere in evidenza la caratteristica peculiare del contributo teorico di Marcuse alla teoria critica è prendere in esame la coppia concettuale esistenza-libertà, che agisce nell’Autore in maniera sotterranea, la quale fa notare come nel pensiero del Nostro la categoria della possibilità è la modalità ontologica di riferimento.

La costante dell’opera di Marcuse va intesa, a questo punto, come una tensione bipolare tra istanza ontologica e istanza critica tra a) dimensione ontologico- esistenziale (ma, come vedremo tra poco, non esistenzialistica) della libertà e b) dimensione critica come necessaria presa di distanza dalla Faktizität68.

In Marcuse vi è da un lato l’idea di libertà, strettamente legata alla tematica ontologico- esistenziale, nella quale il Dasein, originariamente caratterizzato nella sua struttura dalla libertà, rimanda alla categoria della possibilità; dall’altro vi è la critica del fattuale come condizione imprescindibile della dialettica. In tale contesto va posta la declinazione marcusiana della dialettica hegeliana, che in alcun modo può essere intesa come conciliazione, discussa in Ragione e rivoluzione. Per il Nostro, nell’ambito della prospettiva ontologico-esistenziale, il termine esistenzialismo ha un significato completamente diverso, poiché «Heidegger finisce per tradire l’apertura verso un’ontologia del possibile e della libertà che era pur presente nelle pagine più felici di Sein und Zeit»69.

Se dunque è legittimo parlare di «heideggerismo» (o di un persistente retaggio heideggeriano) di Marcuse, occorre farlo senza mai dimenticare che una delle chiavi di volta del suo itinerario filosofico consiste nel ritorcere Heidegger contro Heidegger, mettendo in luce il pesante tradimento che lo Heidegger

«politico» avrebbe consumato contro lo Heidegger «filosofo»70.

Marramao tiene molto a sottolineare che, in Marcuse, l’utopico non ha caratteri futurologici, poiché il concetto non è riducibile a nessun tipo di fallacia naturalistica, e il fattuale è superato attraverso il negativo, che ha funzione autonoma all’interno della dialettica, in accordo con quanto si sosteneva negli anni trenta negli ambienti in cui si praticava il pensiero radicale.

L’idea di salvare il «negativo», sottraendolo alla funzione «servile» - produttiva - che esso svolge nella dialettica hegeliana, è un tema che ritroviamo nelle lezioni di Alexandre Kojéve riprese da Georges Bataille: per il quale la produttività, ossia l’inclusione metabolica del negativo nella logica della Aufhebung dialettica, si esprime nella dominanza del lavoro71.

Il concetto di lavoro in Marcuse è legato alla capacità del “superamento”, intrinseca nella dialettica, mediante il quale il sistema conserva nel suo interno il negativo, utilizzandolo per

67 G.MARRAMAO, Libertà. L’ontologia di Herbert Marcuse, cit., p. 132.

68 Ivi, p. 135.

69 Ivi, p. 136.

70 Ivi, pp. 136-137.

71 Ivi, p. 138.

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potenziare la sua produttività. In questo senso il negativo marcusiano è insito nell’esistenza, che, aperta alla storia, richiama ontologicamente la libertà, la quale, già presente nel Nostro fin dagli anni Venti, deve sempre essere storicamente determinata e concettualizzata. Il negativo, quindi, coincide con la libertà del Dasein, cioè dell’esser-ci, inteso come esistenza posta nella storia.

La libertà non è concepibile alla stregua di un «bene», di qualcosa che già si possiede, di un appannaggio statico e permanente del soggetto. In breve: essa non è un dato, ma un processo incessante di liberazione dal dominio della fattualità72.

Seguendo il filo logico delle argomentazioni sviluppate da Marramao, il grande problema di Marcuse è quello di, onorando l’esigenza di concretezza della filosofia dell’esistenza, portare e utilizzare sul piano sociale il Dasein heideggeriano, poiché

La storicità in Marcuse deve tradursi nella dinamica concreta, dialettica, della storia. E tuttavia la storia come tale non avrebbe in sé alcuna dinamica se non operasse in essa un tropismo verso la liberazione: una tendenza alla libertà ontologicamente innervata nel divenire storico. Nella storia troviamo pertanto ontologicamente inscritta la struttura della libertà che, proiettata nella dinamica del processo, si traduce in desiderio di liberazione dalla fatticità e dal bisogno73.

Marcuse critica fortemente il concetto dell’isolamento del singolo, che è alla base della filosofia dell’esistenza, poiché ritiene che la filosofia di Hegel sia in grado di rappresentare più concretamente la struttura dell’esistenza, in quanto ha concettualizzato l’universale storico. L’errore che Hegel commette, a parere del Nostro, è quello di cogliere solo l’idea di questo universale, restando sul piano dell’astrazione filosofica.

Vi è dunque una sola via d’uscita per affrontare il tema dell’esistenza: partire da una ontologia della libertà, intesa come dimensione costitutiva della storia.

Un’ontologia, a dispetto di tante critiche frettolose, tutt’altro che refrattaria alla dimensione dell’empiria e della contingenza74.

L’esigenza di libertà deve di volta in volta essere contestualizzata e analizzata empiricamente, poiché la libertà non è una condizione statica, ma una condizione storica, i cui contenuti variano con il variare del grado di civiltà, dato dal potere dell’uomo sull’uomo e sulla natura.

Possiamo adesso misurare, alla luce di queste affermazioni, l’infondatezza o sommarietà di quelle liquidazioni polemiche che hanno ritenuto di inchiodare la prospettiva marcusiana a un pregiudizio romantico nei confronti della società industriale (anche se indiscutibilmente romantico è il modello estetizzante di Bildung che fa da sfondo alla sua critica della scienza)75.

A conclusione del suo articolo, Marramao, chiedendosi quale sia l’eredità lasciata da Marcuse, sottolinea che l’analisi ontologico-esistenziale del Nostro lascia insoluto il problema di una definizione possibile d’individuo, dato che nel suo pensiero permane un momento

72 Ivi, p. 139.

73 Ivi, p. 143.

74 Ivi, p. 147.

75 Ivi, p. 148.

(17)

classico.

Il deficit ontologico di Marcuse […] dipende in ultima analisi dall’assenza, nel suo impianto concettuale, del concetto di differenza: non solo della differenza tra i sessi, le culture, i mondi della vita, ma della stessa differenza individuale. […]

Malgrado le indiscutibili aperture […] il suo pensiero si è mantenuto fedele a quell’antico adagio dell’universalismo occidentale che vuole l’individuo ineffabile: individuum est ineffabile. Contro Marcuse, e per dar voce all’impensato della sua opera, spetta a noi oggi affermare il contrario: solum individuum est effabile. Soltanto dell’individuo si può parlare76.

TESTI

PAOLO CALANDRUCCIO, L’identità che trascende nel valore.

Una proposta sull’essenza dell’uomo fondata sul pensiero di Ernesto De Martino, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (MI) 2018, 126 pp.

Poche domande nella storia dell’umanità hanno interpellato l’uomo in modo così intimo e profondo come quella sulla sua essenza.

“Che cos’è l’uomo?” è la domanda delle domande, sulla quale si sono da sempre interrogati filosofi, psicologi, sociologi, antropologi, poeti e teologi.

Nell’agile e denso volume L’identità che trascende nel valore. Una proposta sull’essenza dell’uomo fondata sul pensiero di Ernesto De Martino, edito da Mimesis, con prefazione del filosofo Guido Traversa, Paolo Calandruccio cerca di rispondere alla questione, fuoriuscendo dalla prospettiva puramente filosofica. Pretendere che sia la filosofia a fornire una soluzione al problema “uomo”, restando all’interno del terreno filosofico, significa cadere nella vuota tautologia.

Qui, il tema prettamente filosofico dell’essenza s’interseca con quello dell’identità, tanto caro alla psicologia e, più in generale, alle scienze umane e sociali. In effetti, domandarsi

“cosa” sia l’uomo vuol dire ricercarne l’essenza, che per definizione deve essere universale;

per contro, chiedersi “chi” sia l’uomo rinvia al tema dell’identità e, dunque, a ciò che differenzia ogni individuo da ciascun altro.

L’autore percorre una strada inedita e originale, non priva di insidie, che, attraverso l’antropologia culturale, conduce a isolare quel quid che rende l’uomo ciò che effettivamente è.

Questo è possibile, secondo Calandruccio, recuperando il concetto di “ethos del trascendimento”, formulato da Ernesto De Martino. Pur trattandosi «di un’espressione di non immediata comprensibilità, […] basta compiere un’azione per esserne consapevoli, per capirne il senso […]: l’azione libera e consapevole può essere trascendimento», avverte nella Prefazione, Guido Traversa, (Ivi, p. 9).

76 Ivi, p. 153.

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