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Capitolo V FORME DI SOCIETÀ

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Capitolo V FORME DI SOCIETÀ

1.Premessa

Non è facile rintracciare in Leopardi un pensiero politico che sia veramente unitario e coerente, riassumibile in poche, significative, tesi. Ciò sembra dipendere non solo dalla difficoltà di raccogliere le fila di una riflessione politica disseminata in luoghi spesso molto diversificati della produzione leopardiana1, ma anche dalla molteplicità di prospettive o di livelli di analisi di cui questa stessa riflessione si compone. La difficoltà di ricostruire un’immagine complessiva del pensiero politico leopardiano – un’immagine che sia veramente capace di tenere insieme tutte le sue numerose sfaccettature e implicazioni – sembra quindi dipendere in primo luogo dal fatto che tale pensiero si presenta come estremamente complesso e stratificato. La riflessione politica di Leopardi non si muove su uno, ma su più

livelli di analisi, che cambiano di volta in volta, a seconda del contesto, del fine

e del punto di osservazione.

Per questo, più che da un’insieme di tesi, di contenuti o di enunciati, il pensiero politico leopardiano sembra essere individuato o caratterizzato da una precisa postura etica, che potremmo definire (per quanto molto genericamente) vitalista, perché si definisce all’interno di quell’opposizione fondamentale tra piacere e noia, tra vita vitale e morte sensibile, che affonda le sue radici nella teoria del piacere e che si rivela essere l’opposizione fondamentale attorno a cui ruota tutto il pensiero leopardiano. È a partire da questa postura che la riflessione politica leopardiana, pur nella molteplicità di piani che attraversa, pur nella varietà di prospettive che incrocia, può essere ricomposta nella sua unità.

1 Sembra infatti che, oltre che dello Zibaldone (su cui si era concentrato soprattutto lo studio di LUPORINI, Leopardi progressivo, cit.) e del Discorso sopra lo stato presente dei costumi

degl’Italiani, uno studio veramente complessivo del pensiero politico di Leopardi dovrebbe

essere capace di tener conto di molti altri testi: pensiamo in particolare alle Operette, ai Canti o ai Paralipomeni.

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174 Di tutti i luoghi per così dire ‚politici‛ dell’opera di Leopardi, abbiamo scelto di soffermarci su due in particolare: le pagine dello Zibaldone dell’ottobre del 1823 sulla «società larga» e sulla «società stretta»2, e il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, composto molto probabilmente

tra la primavera e l’estate del 18243. Le ragioni che ci hanno spinto a questa scelta sono di diversi ordini. Innanzitutto abbiamo considerato il carattere per così dire esemplare che questi due luoghi o momenti del pensiero politico di Leopardi assumono presi insieme: lo studio e il confronto tra due testi così vicini dal punto di vista cronologico ma altrettanto distanti per quanto riguarda il livello di analisi ci consentirà di far emergere, con una certa nettezza, le linee fondamentali che definiscono la particolare postura etica alla base del pensiero politico leopardiano. In secondo luogo, la nostra scelta è stata motivata dalla centralità e dall’importanza di questi testi: ci sembra infatti che il periodo compreso tra il 1823 e il 1824 sia quello in cui Leopardi riesce a integrare compiutamente la sua riflessione politica nel quadro della teoria dell’assuefazione e della conformabilità, che si rivela dunque decisiva non solo dal punto di vista antropologico ma anche dal punto di vista politico. Infine – questione più specifica ma non per questo meno significativa – l’analisi congiunta e ravvicinata di questi due testi ci consentirà di approfondire il concetto leopardiano di «società stretta», in particolare per quanto riguarda il diverso significato che questa stessa espressione assume nello Zibaldone e nel Discorso sopra lo stato presente4.

Le pagine dello Zibaldone dell’ottobre del ’23 e quelle del Discorso sembrano per certi versi definire il limite superiore e inferiore entro cui si dispongono i vari livelli di analisi in cui si struttura e si stratifica il pensiero politico leopardiano. Accanto alla prospettiva più ampia e distaccata del «metafisico», che coglie la società umana nelle linee per così dire essenziali e la pone a confronto con quella animale, Leopardi assume talvolta anche il punto di vista più ristretto e limitato del filosofo che vive in società e che fa

2 Cfr. Zib. 3773-3810, 25-30 ottobre 1823.

3 Per quanto riguarda quest’ipotesi di datazione del Discorso, oggi la più accreditata, cfr. M. DONDERO, Leopardi e gli Italiani. Ricerche sul «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli

italiani», Liguori, Napoli 2000, pp. 13-26.

4 Questa differenza è messa a fuoco con lucidità da N. FEO, La società stretta.

Antropologia e politica in Leopardi, in: La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, cit., 297-311.

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175 della società stessa, vista dall’interno, il suo principale oggetto di riflessione5. Se la prima prospettiva è quella che prevale nelle osservazioni politiche dello

Zibaldone dell’ottobre del ‘23, la seconda caratterizza invece il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani.

La prospettiva assunta in quelle pagine dello Zibaldone può essere considerata «metafisica» esattamente nel senso in cui Leopardi stesso aveva definito le Operette morali un libro «metafisico»6. Nell’uno come nell’altro caso, ciò che permette di parlare di prospettiva metafisica è innanzitutto la

distanza o la lontananza attraverso cui avviene l’osservazione e che permette di

astrarre da ogni precisa determinazione spaziale o temporale. In Leopardi, questo duplice movimento di distanziamento e di astrazione corrisponde più a un esercizio conoscitivo che alla ricerca del distacco e dell’indifferenza7. È infatti solo da questa distanza, da questa prospettiva ‚cosmica‛ chepossono emergere, tra le cose apparentemente più disparate, rapporti e relazioni prima impensati8. Nel Discorso, tutto al contrario, nel bel mezzo della composizione delle Operette, Leopardi sceglie di sospendere per un attimo la prospettiva metafisica per assumere il punto di vista del «filosofo di società»9. La sua riflessione politica si colloca allora a una distanza più ravvicinata, che gli permette di conservare ogni precisa determinazione geografica e cronologica: oggetto d’indagine diventa l’Italia, osservata nel quadro dell’Europa post-rivoluzionaria.

5 Per la distinzione tra il punto di vista del «metafisico» e quello del «filosofo di società», cfr. in partic. Zib. 4138-9, 12 maggio 1825.

6 Cfr. la lettera di Leopardi ad Antonio Fortunato Stella del 6 dicembre 1826 (TPP, pp. 1334-5).

7 Cfr. a questo riguardo A. PRETE, L’antropologia poetica di Leopardi, in La prospettiva

antropologica, cit., pp. 3-9, che ha mostrato come proprio la ‚lontananza‛ abbia una specifica

funzione conoscitiva all’interno dell’antropologia leopardiana.

8 Sull’importanza di questo esercizio conoscitivo cfr. ad es. Zib., 1922-23, 15 ottobre 1821.

9 La tensione tra la prospettiva metafisica delle Operette e quella del coevo Discorso era stata colta molto bene da B. BIRAL, La posizione storica di Giacomo Leopardi (1974), nuova edizione riveduta e ampliata, Einaudi, Torino 1997, pp. 98-111, che sottolineava in particolare la difficoltà di conciliare gli assunti del Discorso con le conclusioni del Dialogo di Timandro e di

Eleandro, scritto nello stesso arco di tempo. Biral, tuttavia finiva con l’interpretare la posizione

metafisica delle Operette come un passo indietro: «nel Timandro il Leopardi ritornò ad essere soltanto ‚filosofo‛ secondo la sua più antica vocazione, che lo portava a considerare non lo sviluppo storico e le condizioni concrete di vita, ma le cause prime» (ivi, p. 104).

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176 L’assunzione dell’una o dell’altra prospettiva non è irrilevante, perché può implicare differenti giudizi di valore attorno agli stessi oggetti, che possono apparire diversi a seconda dell’angolazione e della distanza da cui li si guarda. Se agli occhi straniati e solitari del «metafisico», lo svolgersi della storia umana, nella successione delle sue vicende, appare come all’astronomo il moto ciclico degli astri, agli occhi del «filosofo di società», questa stessa storia, questa stessa civiltà, guardate dal di dentro, assumono una rilevanza completamente diversa. Tuttavia, se è vero – come capita spesso di ripetere a Leopardi – che la caratteristica più propria dello sguardo filosofico è la capacità di conservare una visione d’insieme10, allora è solo tornando ad allargare lo sguardo che la riflessione politica svolta nel Discorso potrà avere una portata propriamente filosofica.

2. Società larga e società stretta

2.1. La società come insieme di relazioni

Cominciamo dunque da quel lungo brano dello Zibaldone dell’ottobre del ‘23 in cui Leopardi getta uno sguardo d’insieme, come in una visione dall’alto, sulla società umana, ponendola a confronto con quella animale. L’importanza di queste pagine politiche, spesso sottovalutate, è data dal fatto che in esse la teoria dell’assuefazione e il confronto con il mondo animale spingono Leopardi a ripensare in modo nuovo e più radicale molte delle riflessioni già svolte in precedenti annotazioni dello Zibaldone11.

10 Cfr. ad es. Zib. 1852 e sgg., 5-6 ottobre 1821.

11 L’importanza di queste pagine politiche dell’ottobre del ‘23 è stata, forse proprio in ragione della loro radicalità, non sufficientemente sottolineata. La stessa critica di carattere più ‚militante‛ sembra aver dimostrato a questo riguardo un certo imbarazzo: pensiamo in particolare ad A. NEGRI, Lenta ginestra, Mimesis, Milano 2001, che in queste pagine ha voluto vedere nient’altro che un deprecabile esempio di «scetticismo politico» e una «caduta di tensione morale nel discorso politico leopardiano» (op. cit., p. 119). Per una valorizzazione di questo aspetto del pensiero politico di Leopardi si veda invece A. PRETE, Il pensiero poetante, cit., pp. 103-77. Una certa attenzione per queste pagine dell’ottobre del ’23 si trova anche nel saggio di L. BALDACCI, Due utopie di Leopardi: la società dei castori e il mondo della Ginestra, «Antologia Vieusseux», luglio-settembre 1982 (67), pp. 7-25 (poi ripubblicato, con qualche lieve variazione, col titolo Due utopie, in Id., Il male nell’ordine, Rizzoli, Milano 1998, pp. 35-75).

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177 Le considerazioni politiche dell’ottobre del ‘23 risentono fortemente della lettura di Rousseau ed è probabile che proprio il Discorso sull’origine della

disuguaglianza12 sia stato uno dei libri che Leopardi aveva maggiormente presente scrivendo queste pagine. L’ispirazione rousseauiana traluce in innumerevoli passaggi e considerazioni, per i quali Leopardi non manca di attingere liberamente all’arsenale del filosofo ginevrino13, in particolare per quanto riguarda il rapporto tra natura, caso e assuefazione. Ma, al di là di ogni possibile debito o tangenza tematica, una differenza ben più decisiva si profila sin da subito, in queste pagine, tra il pensiero politico di Leopardi e quello di Rousseau: il punto di partenza dell’analisi politica leopardiana non è più

l’individuo isolato, ma la società stessa, pensata a partire dai rapporti e dalle relazioni che la costituiscono.

Rousseau pensa la società come un insieme di individui, uniti tra loro in funzione dei loro bisogni e interessi privati. Per questo, per spiegare l’origine e la natura delle dinamiche sociali, egli si rappresenta lo stato di natura come composto da individui isolati e irrelati, posti in una specie di solitudine autarchica. È attraverso questa finzione, quest’esercizio di semplificazione e di astrazione dai rapporti sociali, considerati come momento artificiale e successivo, che Rousseau spera di poter risalire alla comprensione della natura umana originaria14. Leopardi pensa invece la società come insieme di rapporti e di relazioni che precedono gli individui stessi e che non sono quindi

riducibili alla semplice espressione dei loro privati interessi. Gli uomini, secondo Leopardi, vivono già da sempre in società tra loro e l’osservazione di quanto accade tra altri animali socievoli lo conferma. Più che da una finzione, l’analisi politica leopardiana prende dunque avvio da una constatazione, in virtù della quale l’immagine dell’individuo isolato risulta non solo priva di

12 Per quanto riguarda il Discours sur l’origine de l’inégalité, Leopardi aveva a disposizione, nella biblioteca paterna, una traduzione stampata a Venezia nel 1797 e le

Réflexions sur le discours de J. J. Rousseau sur l’inégalité etc., Turin 1778, dell’apologeta cattolico

F. de La Tour.

13 Cfr. N. SERBAN, Leopardi et la France, Champion, Paris 1913, p. 233 e sgg., e A. FRATTINI, Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento, in Leopardi e il Settecento, cit., p. 263.

14 Cfr. M. IACONO, Il borghese e il selvaggio. L’immagine dell’uomo isolato nei paradigmi di

Defoe, Turgot e Adam Smith, Ets, Pisa 1982, pp. 29-54, che ha mostrato, sulla scorta di Marx,

come questa rappresentazione dello stato di natura sia il correlato filosofico dell’individualismo borghese e dell’ideologia capitalista, che proietta all’origine la propria immagine della società.

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178 ogni valore storico, ma anche incapace di rivestire una funzione euristica, non essendo in grado di dirci niente né dell’uomo allo stato di natura né della natura della società.

Per Leopardi quindi non si tratta più di pensare la società a partire dagli individui che la compongono o, il che è lo stesso, come uscita da uno stato di natura formato da individui isolati e slegati tra loro. Si tratta piuttosto di

pensare la società a partire dalla natura dei rapporti e delle relazioni che la costituiscono. Secondo Leopardi, questi rapporti o relazioni possono essere di

due tipi fondamentali: larghi o stretti, mobili o serrati. È precisamente da questa distinzione – detto altrimenti, dalla distinzione tra «società larga» e «società stretta» – che prende avvio l’analisi politica dell’ottobre del ’23.

La «società larga» è innanzitutto, secondo Leopardi, una «società naturale», cioè una forma spontanea di aggregazione o di coesione sociale propria non solo dell’uomo allo stato di natura ma di tutti gli animali che hanno qualche forma di società tra loro. Più che come origine storica o primo stadio della società umana, la società larga sembra interessare Leopardi sopratutto come possibile forma di organizzazione politica alternativa rispetto alla «società stretta», che è la forma più tipica della società umana quale noi la conosciamo in tutte le sue possibili varianti. Rispetto alla società stretta, la società larga si dimostra più prossima a quella che dovrebbe essere la perfezione della società, vale a dire la realizzazione del bene comune15. Se la società non adempie a questo compito finisce per essere non solo contraddittoria in se stessa, ma nociva.

La società larga si caratterizza per essere una società «scarsa» o a maglie

larghe, che lascia aperte numerose e molteplici possibilità di movimento.

15 Quest’idea di società perfetta era già stata espressa da Leopardi, in particolare in Zib. 543-79, 22-29 gennaio 1821, dove si trova la contrapposizione tra la perfezione della «società primitiva», in cui si realizza l’unità indivisa, e l’imperfezione di tutte le successive società umane. Tuttavia, a differenza di quanto accadrà nelle pagine del 1823, qui la riflessione politica leopardiana è ancora tutta interna al mondo umano e la società perfetta è vista unicamente come un prima ormai perduto della storia umana (per un’analisi di queste pagine politiche del gennaio del 1821 rimandiamo comunque ad A. FOLIN, Uno e molteplice in

Leopardi, «Rivista internazionale di studi leopardiani», 7/2011, pp. 69-81). Può essere

interessante notare come si inserisca in questo contesto anche l’interpretazione della figura di Cristo, che è stato secondo Leopardi il primo ad aver messo in luce la contraddizione tra bene comune e società, e che per questo la condannò e la maledisse. La rottura rappresentata da Cristo rispetto al mondo antico è quindi, nell’interpretazione di Leopardi, soprattutto politica: cfr. Zib. 112 (31 maggio 1820), 191 (29 luglio 1820) e 611 (4 febbraio 1821).

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179 Poiché sussiste unicamente in funzione del bene comune e si dissolve al venir meno di questo, la società larga è anche una società «temporanea» o «passeggera», che non dà modo al più forte di rendere stabile e permanente il suo dominio sul più debole16. Se i più forti prendono naturalmente e quasi immediatamente il comando17, è tuttavia per perderlo subito dopo, dal momento che

non hanno nè mezzo nè occasione nè desiderio nè stimolo alcuno di esercitare e porre in opera la superiorità della loro forza sopra gl’individui di essa società, se non solamente alcuna volta per accidente, in modo scarso e passeggero. Ciò ch’ei si propongono di ottenere, non è a spese della lor società, nè di alcuno de’ suoi individui *<+; la lor società è troppo scarsa perchè alcuno possa farci sopra dei disegni18.

Per tutto il tempo in cui esercita il comando in vista del bene comune, il più forte non si pone mai al di sopra della società di cui fa parte, non si separa mai da essa19. Da questo punto di vista la società larga non conosce divisioni, separazioni (siano esse di classe, di ceto o di ordine), ma si presenta come un

16 Anticipazioni di queste riflessioni si trovano in Zib. 873-4, 30 marzo – 4 aprile 1821, dove la società larga, propria anche degli animali, appare come una società «nata e formata dalla passeggera identità d’interessi, e sciolta col mancare di questa» e, anche laddove può assumere carattere più durevole, tale società resta comunque «lassa, o vogliamo dire larga», assai diversa dalla società «così unita, ristretta, precisa, e determinata da tutte le parti, com’è quella degli uomini» allo stato presente. Tuttavia, in questa pagine, nonostante la considerazione ‚politica‛ del mondo animale, non c’è ancora l’identificazione tra società larga e società naturale o originaria, e lo stato di natura dell’uomo continua ad essere pensato come uno «stato solitario». Allo stesso modo ROUSSEAU, Discorso sull’origine e i fondamenti della

disuguaglianza fra gli uomini (in: Id., Scritti politici, a cura di M. Garin, 3 voll., Laterza, Bari 1994,

vol. I, pp. 119-224) considerava la formazione delle prime larghe, temporanee e libere associazioni tra gli uomini in vista del comune interesse (associazioni del tutto simili a quelle tra le cornacchie, le scimmie, etc.) come un momento successivo rispetto allo stadio originario della «vita nomade e vagabonda» (ivi, parte I, p. 155), in cui gli individui vivevano isolati e i rapporti tra loro (comprese le stesse relazioni familiari) erano estremamente labili e ridotti (cfr.

ivi, parte II, pp. 175-6)

17 Cfr. Zib. 3779. 18 Zib. 3781.

19 Si pensi in particolare all’esempio dei lupi, che «fanno società per attaccare un ovile, ma i disegni ch’essi formano sì nel tempo di quella passeggera società, sì nel resto, e i vantaggi che essi, e tra essi massimamente i più forti, si propongono di ottenere, non sono sopra gli altri lupi, ma sopra le pecore» (Zib. 3782).

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tutto indiviso20. Il bene comune, in funzione di cui tale società esiste, è del resto irriducibile alla semplice sommatoria degli interessi privati. Per questo, quando essa si disgrega, coloro che ne facevano parte non tornano per questo ad essere atomi isolati e dispersi, ma immediatamente e quasi spontaneamente vengono intercettati e si raccolgono in altre forme di aggregazione o di collaborazione sociale.

Esattamente l’opposto accade nella «società stretta». Essa è una società a

maglie strette, immobilizzata in un rigido sistema di leggi e di regole volte a

incanalare, a limitare e a prevedere tutte le possibilità di movimento, a rendere stabili e immutabili i rapporti di potere e di sottomissione. Costringendo gli uomini a uno «stretto», «quotidiano», «continuo»21 contatto tra loro, la società stretta inasprisce l’odio reciproco, trasforma l’amor proprio in egoismo e sviluppa nell’uomo tutte quelle passioni anti-sociali che non avrebbero avuto modo di manifestarsi nella società larga. La società stretta si presenta necessariamente come una società divisa o differenziata, segnata al suo interno da separazioni di rango, di ricchezza, di dominio. Il capo, esercitando il suo potere in modo permanente, diventa qualcosa di sempre più separato rispetto alla società di cui fa parte. La società stretta è quindi, secondo Leopardi, costitutivamente imperfetta, perché tradisce ed eccede «sempre e inevitabilmente»22 il bene comune, che dovrebbe essere il fine della società, convertendolo nell’interesse di pochi23. Questa tuttavia è la forma più tipica di tutte le società umane che noi conosciamo:

Da che il genere umano ha passato i termini di quella scarsissima e larghissima società che la natura gli avea destinata, più scarsa ancora e più larga che non è quella destinata e posta effettivamente dalla natura in molte altre specie di animali; filosofi, politici e cento generi di persone si sono continuamente occupati a trovare una forma di società perfetta.

20 Traiamo liberamente l’uso di quest’espressione da P. CLASTRES, Archeologia della

violenza, Maltemi, Roma 1998, che la impiega a proposito delle società primitive o selvagge,

con riferimento all’immanenza del capo rispetto alla società e all’assenza in essa di divisioni. Su Clastres in generale, cfr. D. CECCHI, Un’archeologia del potere: l’antropologia politica di Pierre

Clastres, in L’altro novecento. Comunismo eretico e pensiero critico, a cura di P. P. Poggio, Vol. II,

pp. 691-702. 21 Zib. 3876. 22 Zib. 3774.

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181 D'allora in poi, dopo tante ricerche, dopo tante esperienze, il problema rimane ancora nello stato medesimo. Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite cagioni, con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e tutte quelle che oggi hanno luogo, lo sono altresì24.

Per quanto abbiano la stessa estensione dal punto di vista formale (comprendendo tutti gli individui che si riuniscono in società tra loro), società larga e società stretta non hanno tuttavia la stessa estensione dal punto di vista materiale. Più una società si estende dal punto di vista geografico e demografico, più essa diventa necessariamente stretta, serrata dal punto di vista dei rapporti che la costituiscono: «La società tanto più per una parte si è allargata», ampliata, «quanto più si è ristretta» e «quanto più si è ristretta, tanto più è mancato il suo scopo, cioè il ben comune»25.

Questa tendenza della società stretta a ridurre sempre più le possibilità di movimento, a saturare tutti i vuoti, si fa dunque sempre più esasperata nelle moderne società civili, a proposito delle quali Leopardi osserva: «Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell’amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente, si può rassomigliare al sistema dell’aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l’une l’altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi»26. Se la pressione con cui ciascuna colonna preme sulle altre è uguale a quella che le altre esercitano su di essa, «ne risulta l’equilibrio, e il sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna»27. Ma, per la stessa legge che mantiene l’equilibrio generale del sistema, non appena una colonna cede o per qualche ragione esercita meno forza delle altre, quelle che le stanno attorno, spinte dalle colonne più lontane, iniziano immediatamente a premere per occupare il suo spazio, per riempire il vuoto. Questo precisamente accade all’uomo che vive

24 Zib. 3773-4.

25 Zib. 873-4.

26 Zib. 2436-7, 19 maggio 1822. 27 Cfr. Zib. 2437.

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182 nella società stretta e che si mostri più debole degli altri, lasciando aperto «un

vuoto di egoismo»28.

La società, nella sua forma stretta, diventa quindi sempre più prossima a un «sistema dell’egoismo»29 generalizzato, in cui l’equilibrio, ottenuto per mezzo di una legge di per sé distruttiva, garantisce un’uguaglianza solo apparente e puramente formale. In questo senso – osserva provocatoriamente Leopardi – nelle moderne società strette, l’uomo sembra essere tornato allo stato di natura30: più precisamente (come aveva ben rilevato Luporini) a uno stato di natura «inteso alla maniera di Hobbes, come egoismo assoluto e originario»31. Sotto l’equilibrio e la pace apparenti, si nasconde uno stato di guerra sotterranea e permanente, in cui si agitano l’odio, l’invidia, la «nemecizia scambievole di ciascun uomo contro tutti e contro ciascuno»32. Esercitandosi continuamente e da tutti i lati, queste passioni determinano uno stato di equilibrio e di pace che è solo l’altra faccia di uno stato di guerra nascosta e generalizzata. Nel cuore della moderna società civile, pretesa perfezione e destinazione naturale dell’uomo, si realizza, secondo Leopardi, quello che i filosofi politici consideravano come proprio dello stato di natura. Questa identità dei due estremi rientra in una precisa strategia polemica: l’intento è quello di delegittimare «la pretesa destinazione naturale dell’uomo allo stato sociale stretto (cioè diverso da quello ch’hanno fra loro quasi tutte le bestie, massime le più svegliate)»33.

Nelle moderne società civili, alla conquista di una maggiore sicurezza fisica corrisponde l’aumento della violenza morale o spirituale che gli individui esercitano continuamente su se stessi e sugli altri. Questa violenza, tutt’uno con quel processo di «spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo» che accompagna la civiltà, è per certi versi più grave quella fisica, perché è del tutto contro-natura e per questo veramente nociva alla felicità o perfezione dell’uomo34. La società stretta contribuisce sempre più a instaurare

28 Zib. 930, 11 aprile 1821. 29 Zib. 464.

30 Cfr. Zib. 2438, 10 maggio 1822.

31 LUPORINI, Leopardi progressivo, cit., p. 28. 32 Zib. 2437.

33 Zib. 2438.

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nella vita il dominio della morte, a rendere la vita dell’uomo sempre più

prossima a uno stato di noia o di «morte sensibile».

2.2. Un paradigma alternativo

L’opposizione tra società larga e società stretta, da cui prendono avvio le considerazioni dello Zibaldone dell’ottobre del ’23, si rivela quindi decisiva perché consente a Leopardi di strutturare il suo pensiero politico a partire da un paradigma filosofico del tutto alternativo rispetto a quello su cui si fonda il pensiero politico moderno. Al di là delle differenze più specifiche che esso presenta al suo interno, il pensiero politico moderno, da Hobbes a Rousseau, sembra costituirsi a partire da tre opposizioni fondamentali, che sono i presupposti, più o meno espliciti, attraverso cui esso articola logicamente il rapporto tra stato di natura e stato civile: l’opposizione tra individuo e società, tra l’«informe» e la «forma» politica, tra guerra e pace. La distinzione tra società larga e società stretta consente a Leopardi di disarticolare questa triplice logica oppositiva.

In primo luogo, come abbiamo già visto all’inizio, non si tratta più di pensare la società come risultato dell’unione artificiale e utilitaria tra individui isolati, ma a partire dalla natura dei rapporti che immediatamente la definiscono e che precedono gli individui stessi. È anche per questo che, a ben vedere, la stessa ipotesi contrattualista come origine della società non pare avere particolare rilievo in Leopardi, che non la prende in considerazione neppure per spiegare l’eventuale passaggio dalla società larga alla società stretta. Non è la società che deve essere pensata in funzione degli individui, ma gli individui che devono essere pensati in funzione della società in cui vivono. Più precisamente, secondo Leopardi, e come affermerà poi Marx, l’individuo isolato non è l’origine ma il prodotto della società: esso è il prodotto

di una società che si fa sempre più stretta, il risultato della sua perfetta esecuzione.

In secondo luogo, l’opposizione tra società larga e società stretta, tra società naturale o animale e società umana, consente a Leopardi di sottrarsi

all’opposizione bruta tra stato di natura e società. Abbiamo visto infatti come ciò

che caratterizza lo stato di natura, così come lo pensa Leopardi a partire innanzitutto dall’osservazione del mondo animale, non è tanto l’assenza

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184 assoluta di organizzazione sociale o politica, quanto piuttosto il carattere largo, temporaneo, passeggero di quest’ultima. Non si tratta più, in altre parole, di pensare la società, quale noi la conosciamo e sperimentiamo, come l’unica alternativa possibile a uno stato di natura inteso come assenza totale di forma politica, come l’informe allo stato puro (sia questo immaginato alla maniera di Rousseau, come popolato da individui isolati e dispersi, o alla maniera di Hobbes, come bellum omnium contra omnes). L’uno e l’altro modo di pensare lo stato di natura non sono che supposizioni del tutto inverificabili, finzioni diverse, ma che nascono entrambe dal fatto di immaginare lo stato di natura a partire dallo stato civile quale che noi conosciamo, attraverso la sottrazione di quelle proprietà o di quelle caratteristiche che giudichiamo come proprie e essenziali di quest’ultimo. Lo stato di natura, pensato come assenza totale di forma politica, si rivela quindi, in un caso e nell’altro, come il correlato ideologico funzionale a imbastire o a legittimare un certo discorso filosofico e politico precostituito35. Per Leopardi invece non si tratta più di contrapporre la forma sociale o politica quale noi la conosciamo all’informe assoluto dello stato di natura, ma piuttosto di porre a confronto due tipi – meglio ancora due gradi – della società, la società larga e la società stretta. L’una e l’altra corrispondono a due opposte ma ugualmente possibili modalità

della forma politica36.

Infine, rompendo con l’immagine tradizione dello stato di natura come stato di guerra di tutti contro tutti, Leopardi colloca quest’ultima nel cuore stesso delle società più civilizzate. Come abbiamo già visto commentando

35 Per la critica del paradigma filosofico alla base del pensiero politico moderno, che, da Hobbes a Schmitt, si basa sull’opposizione tra la «forma» e l’«informe», e per l’affermazione di un paradigma alternativo, rimando in particolare allo studio di P. GODANI, L’informale. Arte e

politica, Ets, Pisa 2005, di cui siamo debitori per queste osservazioni.

36 Sulla necessità (in un certo qual modo precorsa da Leopardi) di allargare la categoria del «politico» e di renderla coestensiva a quella di società, contro ogni rappresentazione etnocentrica del «politico» come legato unicamente alla forma statuale, cfr. P. CLASTRES,

Copernico e i selvaggi, in Id., La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, Feltrinelli,

Milano 1977, pp. 9-24. Queste precisazioni valgano contro la tesi della presunta «impoliticità» di Leopardi, sostenuta ad esempio da C. FARNETANO, Prometeo o della vanità della politica (in

Il pensiero storico e politico di Giacomo Leopardi, Atti del VI Convegno internazionale di studi

leopardiani, Recanati, 9-11 settembre 1984, Olschki, Firenze 1989, pp. 205-10) proprio in riferimento a queste considerazioni sulla società larga o naturale.

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185 l’esempio delle colonne d’aria, la «fisica sociale»37 leopardiana tende a stabilire una perfetta equivalenza tra la definizione tradizionale dello stato di natura, dominato dalla guerra di tutti contro tutti, e ciò che accade nelle moderne società civili, caratterizzate dalla «coperta guerra dell’egoismo»38. Nella società stretta, la pace e l’equilibrio apparenti risultano da uno stato di guerra sotterranea e permanente, in cui ognuno non cessa mai di esercitare la propria forza contro tutti gli altri. Più in generale, la guerra – sia essa esterna o intestina, aperta o solo nascosta – è, secondo Leopardi, un male tipico e inevitabile in una società stretta39, in cui l’odio reciproco finisce con l’esercitarsi non solo tra uomo e uomo, ma anche «tra classe e classe, ceto e ceto, ordine ed ordine, compagnia e compagnia, popolo e popolo»40. Dapprima diretta verso i nemici esterni, allo scopo di rafforzare e di garantire stabilità alla società, la guerra si riproduce poi inevitabilmente al suo interno41, sia nella forma più aperta della guerra civile, sia nella forma più subdola della sotterranea guerra degli egoismi42.

Ma dire che la guerra appartiene essenzialmente alla società stretta, non vuol dire pensare la società larga o naturale come uno stato di pace e di armonia incontaminata. La distinzione tra società stretta e società larga non

corrisponde all’opposizione tra guerra e pace, ma a quella tra guerra e violenza. Per

guerra Leopardi intende qualcosa di molto specifico, vale a dire una precisa modalità di organizzazione, di razionalizzazione e di perpetuazione della violenza che diventa possibile solo con la società stretta e che dipende dalle sue caratteristiche più intrinseche. La guerra è inevitabile in una società stretta non solo in quanto stretta, ma anche in quanto stabile e divisa. Le società larghe o temporanee, come quelle animali, conoscono la violenza, ma non praticano la guerra. Gli animali combattono o lottano tra loro, ma sempre per cause del tutto accidentali, transitorie, che subito cadono nell’oblio e che non lasciano

37 L’espressione è di E. SANGUINETI, Il nulla in Leopardi, in Id., Il chierico organico.

Scritture e intellettuali, a cura di E. Risso, Feltrinelli, Milano 2000, p. 109.

38 Zib. 3791. 39 Zib. 3790. 40 Ibid.

41 Cfr. Zib. 2677-78, 4 marzo 1823, a cui rimanda Leopardi stesso in queste pagine dell’ottobre del ’23 per spiegare l’origine della guerra.

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186 rancori o vendette dietro di sé43. Mentre la violenza dei combattimenti o delle lotte tra gli animali è una violenza passeggera, accidentale, causata dalla fame, dall’ira o da qualche altra passione momentanea, quella prodotta della guerra è invece una violenza di proporzioni molto più estese perché sistematica, organizzata e caratterizzata dall’«astrazione»44:

Che proporzione, anzi che simiglianza può aver l’uccisione di uno o di quattro o di dieci animali fatta da’ loro simili qua e là sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione momentanea e soverchiante, con quella di migliaia d’individui umani fatta in mezz’ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria d’alcun di loro *<+, e che neppur conoscono affatto quelli che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un’ora, tornano all’uccisione della stessa gente, e seguono talvolta finchè non l’hanno tutta estirpata ec. ec.?45.

2.3. Guerra e origine della società stretta: selvaggi, barbari, civilizzati

Abbiamo visto in che modo Leopardi pensa la società e articola la differenza tra società larga e società stretta. Abbiamo anche visto come questa distinzione funga da punto di partenza per un discorso politico completamente alternativo rispetto a quello imbastito dal pensiero politico moderno. Un problema sembra tuttavia essere stato finora eluso, vale a dire quello relativo all’origine della società stretta o al passaggio dall’una all’altra

43 Cfr. Zib. 3795.

44 Sulla guerra come astrazione e come luogo della differenza tra l’uomo e l’animale si veda: A. PRETE, Il pensiero poetante, cit., pp. 169-70. Ma dello stesso autore cfr. anche: Guerra.

Considerazioni inattuali, in S. NATOLI, A. PRETE, Dialogo su Leopardi, cit., pp. 104-16.

45 Cfr. Zib. 3792-93. Quest’idea della guerra come astrazione e organizzazione della violenza tipica dell’uomo, già espressa da MONTAIGNE, Apologia di Raymond Sebond (in

Saggi, Adelphi, Milano 1992, pp. 614-15), si ritrova anche in ROUSSEAU, Discorso sull’origine della disuguaglianza, cit., parte II, p. 189. Ma può essere utile anche il rimando a D’HOLBACH, Il buon senso, cit., § 97: «Tra gli uomini, così spesso schiavi e oppressi, vi sono delle società così

ben organizzate come quelle delle formiche, delle api o dei castori? Si sono mai viste delle bestie feroci, della stessa specie darsi appuntamento nelle pianure per sbranarsi e distruggersi senza alcun vantaggio? Si son viste scoppiare guerre di religione tra le bestie? La crudeltà delle bestie contro quelle appartenenti ad altre specie ha per motivo la fame, il bisogno di nutrimento; la crudeltà dell’uomo contro l’uomo ha come unico motivo la vanità dei suoi capi e la follia dei suoi assurdi pregiudizi».

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187 forma di società. Quando inizia, secondo Leopardi, la società stretta? Più precisamente, quand’è che una comunità di uomini può essere considerata un esempio di società stretta? A ben vedere, si tratta di una questione ‚metafisica‛, più che storica: non si tratta tanto di situare cronologicamente l’origine della società stretta, quanto piuttosto di capire quale caratteristica segni il discrimine essenziale tra l’uno e l’altro tipo di società, consentendoci quindi una serie di identificazioni empiriche.

È la guerra, che abbiamo già mostrato essere inseparabile dalla società stretta, a diventare da questo punto di vista una specie di cartina di tornasole. Secondo Leopardi basta che una comunità di uomini, anche la più selvaggia o meno civilizzata, conosca e pratichi la guerra, perché la sia possa identificare come società stretta:

E come la guerra nasca inevitabilmente da una società stretta qual ch’ella sia, nótisi che non v’ha popolo sì selvaggio e sì poco corrotto, il quale avendo una società, non abbia guerra, e continua e crudelissima. Videsi questo, per portare un esempio, nelle selvatiche nazioni d’America, tra le quali non v’aveva così piccola e incolta e povera borgatella di quattro capannucce, che non fosse in continua e ferocissima guerra con questa o quell’altra simile borgatella vicina, di modo che di tratto in tratto le borgate intere scomparivano, e le intere province erano spopolate di uomini per man dell’uomo, e immensi deserti si vedevano e veggonsi ancora da’ viaggiatori *<+. E certo non v’ha nè v’ebbe al mondo così piccola e remota isoletta, così scarsa d’abitatori, e così poco di costumi corrotta, dove tra quelle decine d’abitanti umani stretti in società, non sia stata e non sia divisione, discordia e guerra mortalissima, e diversità di parti e molteplicità di nazioni46.

L’opposizione strutturale tra guerra e violenza, a cui può essere ricondotta in ultima analisi la distinzione tra società stretta e società larga, acquista così uno spessore epistemologico e ci consente di constatare come esistano esempi di società stretta anche tra i popoli che siamo abituati a considerare come selvaggi o primitivi. Come Leopardi apprende leggendo

46 Zib. 3790-91.

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188 alcune cronache o resoconti di viaggio sulle popolazioni del sud America47, molte di queste società conoscono la guerra e non ignorano le pratiche o le abitudini ‚barbariche‛ ad essa legate, come la devastazione delle città o dei campi, le torture, le mutilazioni, lo scempio dei cadaveri, etc.48 Anche i popoli che a noi appaiono selvaggi o primitivi sono quindi esempi di società stretta dal momento che praticano la guerra – una guerra che per molti aspetti è ancora più crudele e feroce di quelle che noi conosciamo non perché nasca dall’assenza di società (come voleva Hobbes), ma precisamente perché compare in popoli che, nonostante siano ancora prossimi allo stato selvaggio o primitivo (e quindi ancora privi di quei correttivi che la civiltà è pur in grado di procurare), conoscono già una qualche forma di società stretta, cioè un tipo di società formalmente simile alla nostra:

Io noto che generalmente parlando, le dette crudeltà ec. tanto sono più frequenti e maggiori, e le guerre tanto più feroci e continue e micidiali ec. quanto i popoli sono più vicini a natura. E *<+ non si troverà popolo alcuno

così selvaggio, cioè così vicino a natura, nel quale se v’è società stretta, non regnino costumi, superstizioni ec. tanto più lontani e contrarii a natura quanto lo stato della lor società ne è più vicino, cioè primitivo49.

In un certo senso, la guerra diventa, sul piano epistemologico, quasi una sorta di analogo del suicidio: come il suicidio era uno degli elementi che aveva indotto Leopardi a mettere in discussione la presunta felicità degli antichi e a riconoscere l’infelicità strutturale di tutti gli uomini, così la guerra è ciò che lo spinge a riconoscere come anche tra i supposti popoli selvaggi o primitivi esistono forme di società stretta. Suicidio e guerra gli appaiono infatti come due contraddizioni analoghe, perché entrambe segnano

47 Si tratta in particolare delle relazioni di viaggio dei conquistadores e di studi etnografici, come la Crónica del Perù di Pedro de Cieza. Per uno studio più approfondito della lettura da parte di Leopardi di questi testi e per la loro incidenza sul suo pensiero politico e filosofico più in generale, rimandiamo allo studio di M. BALZANO, I confini del sole. Leopardi e

il nuovo mondo, Marsilio,Venezia 2008.

48 Cfr. Zib. 3794 e 3798.

49 Zib. 3797 (corsivo nostro). Il segno principale di questa maggiore crudeltà contro-natura è secondo Leopardi l’antropofagia: «Qual cosa più contraria a contro-natura di quello che una specie di animali serva al mantenimento e cibo di se medesima?» (ivi). Questa perversione è ancora una pratica tipica della società stretta.

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189 l’ingresso dell’uomo in una condizione che è contro-natura, vale a dire vera e propria barbarie50. Come il suicidio è la prova dell’uscita dell’uomo da una condizione originaria di felicità o di perfezione51, così la guerra segna il salto, il passaggio immediato, dalla natura alla barbarie, cioè dalla società larga alla società stretta52.

«I primi passi che l’uomo fece o fa verso una società stretta lo conducono di salto in luogo così lontano dalla natura, e in uno stato così a lei contrario, che non senza il corso di lunghissimo tempo, e l’aiuto di moltissime circostanze e d’infinite casualità *<+ ei si può ricondurre in uno stato, che non sia affatto contrario alla natura»53. Ora, se la barbarie, cioè uno stato diametralmente opposto alla natura, è ciò attraverso cui l’uomo deve passare necessariamente prima di diventare civile, come si può pretendere che nella civiltà stia la sua perfezione? Come si può continuare a credere che sia una perfezione della natura umana ciò che l’uomo può raggiungere solo diventando prima contro-natura? «L’uomo non ha potuto nè può divenir civile senza divenir prima e durare per lunghissimo tempo, affatto barbaro, cioè in stato affatto contro natura»54. L’intento di Leopardi è qui chiaramente quello di mettere in discussione l’idea di uno sviluppo lineare e necessario della storia umana che vada dallo stato selvaggio o primitivo a quello civile. In realtà è per una pura casualità, cioè per il concorso di circostanze del tutto accidentali e che avrebbero potuto benissimo non verificarsi55, che l’uomo diventa civile, che abbandona lo stato sociale largo, cui la natura sembrava averlo destinato al pari degli altri animali, per costituirsi in società stretta. Nient’altro che questa è la risposta che Leopardi parrebbe fornire alla

50 Cfr. Zib. 3784, n. 1, e Zib. 3791-2. Ma si veda a questo riguardo anche La scommessa di

Prometeo (TPP, pp. 520-4).

51 Cfr. in partic. Storia del genere umano, TPP, p. 493.

52 Come ha osservato a questo riguardo L. BALDACCI, Due utopie di Leopardi, cit., p. 10 (Il male nell’ordine, cit., p. 44) una delle novità più decisive introdotte dalle pagine politiche dell’ottobre del 1823 sta proprio nella diversa considerazione della guerra: «la guerra non è più sentita come espressione di civica virtù, come la conseguenza inevitabile e anzi salutare del virtuoso odio tra nazioni *<+. La guerra stessa è una degenerazione, come sarebbe il suicidio. Ma guerra e società [stretta] vanno insieme».

53 Zib. 3799. 54 Ibid.

55 Un’analoga strategia, di sapore rousseauiano, è messa in atto in Zib. 2895-2900, 6 Luglio 1823, contro l’idea che anche il linguaggio articolato sia una perfezione a cui l’uomo tende per natura.

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190 domanda sul perché nasca la società stretta. Egli non sembra per nulla interessato a definire più nello specifico quali siano state le circostanze che l’hanno prodotta e che ognuno del resto può forse provare a immaginare. Quello che gli interessa è sgomberare il campo da ogni ‚teleologia della storia‛ che consideri lo stato civile stretto che noi conosciamo una perfezione cui l’uomo era destinato per natura.

Ciononostante, prosegue Leopardi, «non è dubbio che l’uomo civile è più vicino alla natura che l’uomo selvaggio e sociale. Che vuol dire questo? La società [stretta] è corruzione. In processo di tempo e di circostanze e di lumi l’uomo cerca di ravvicinarsi a quella natura onde s’è allontanato, e certo non per altra forza e via che della società. Quindi la civiltà è un ravvicinamento alla natura»56. Come vedremo meglio più avanti, questa analisi o diagnosi contiene in nuce la conclusione che Leopardi trarrà, dal punto di vista più pragmatico del filosofo di società, nel Discorso sopra lo stato

presente dei costumi degl’Italiani, quando affermerà che, dal momento che non

si può tornare indietro, tanto vale che la civiltà sia portata fino in fondo, spinta alle estreme conseguenze, perché è solo in questo modo che essa può essere di qualche rimedio a se stessa.

2.4. Confronto con il mondo animale e teoria dell’assuefazione

La distinzione tra società larga e società stretta si rivela quindi assai feconda perché consente di rompere con molti dei presupposti, impliciti o espliciti, che sono alla base del pensiero politico moderno. Leopardi arriva all’elaborazione di questo nuovo paradigma soprattutto grazie al confronto con il mondo animale e all’approfondimento delle dinamiche dell’assuefazione. Il suo pensiero politico si pone, in questo senso, in perfetta continuità con quello antropologico, in cui affonda profondamente le sue radici. Il mondo animale ha in particolare, nel discorso politico leopardiano, una funzione letterale, non metaforica: esso non è né l’emblema di un ipotetico stato di natura dominato dalla guerra e dalla sopraffazione e in cui l’uomo, senza il freno della società, sarebbe sempre sul punto di ricadere, né, laddove presenta delle forma di socialità, l’anticipazione legittimante della

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191 società umana (del resto, gli stessi esempi di società animale presi in considerazione da Leopardi non sono solo quelli classici, e in un certo senso più antropomorfici ed edificanti, delle api o delle formiche, ma altri più inusuali, come per esempio quello dei castori, delle scimmie, delle gru o di un branco di lupi che fanno società tra loro per attaccare un ovile).

Quelle animali sono, secondo Leopardi, società a tutti gli effetti, che come tali meritano di essere poste a confronto con le società umane. Esse rappresentano gli unici esempi57 di società larga che ancora si prestino alla nostra osservazione. Rivolgere lo sguardo al mondo animale vuol dire quindi per Leopardi provare a immaginare una forma alternativa, più perfetta di organizzazione sociale, priva di tutti gli aspetti negativi che caratterizzano la società umana. Per fare questo però l’uomo deve prima liberarsi dell’idea che la società stretta, l’unica forma di società che noi conosciamo, sia la sola possibile, venendo meno la quale si cadrebbe d’un colpo nel baratro dello stato di natura. Come è solo vedendo altri bambini che l’adulto, che non ricorda niente della propria infanzia, può convincersi di essere stato bambino a sua volta, così è solo osservando le società animali che l’uomo può provare a immaginare forme di organizzazione sociale alternative rispetto a quelle circoscritte entro il campo della sua esperienza.

L’approfondimento delle dinamiche dell’assuefazione consente a Leopardi di mettere in discussione precisamente questo punto. Non solo la società non è propria del solo uomo, dal momento che esistono numerosi esempi di società tra gli animali58, ma, a differenza di quanto i politici e i legislatori avevano sempre sostenuto a partire da Aristotele59, l’uomo è il più insocievole degli animali60. Questo perché, avendo più vitalità, e quindi più amor proprio, ha anche una maggiore disposizione a sviluppare l’odio verso i propri simili e tutte quelle passioni antisociali che ne derivano, come l’invidia, la gelosia, la competizione61. Ma affermare questo non vuol dire per Leopardi riconoscere che l’uomo è cattivo per natura e ricadere nel principio

57 Assieme forse alle comunità dei Californiani, per cui cfr. Zib. 3801. 58 Su questo cfr. anche Zib. 370-71, 2 dicembre 1820.

59 Cfr. ARISTOTELE, Politica, Bur-Rizzoli, Milano 2002, Libro I: «L’uomo è animale più socievole di ogni ape e di ogni altro animale che viva in greggi».

60 Zib. 3773. 61 Cfr. Zib. 3778.

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192 hobbesiano secondo cui homo hominis lupus est. Innato o naturale nell’uomo non è l’odio verso i propri simili, ma la disposizione a svilupparlo in determinate circostanze, che sono in sostanza quelle poste in atto dalla società stretta. Del resto è possibile osservare come qualcosa di simile accada anche tra quegli animali «che noi contro la natura loro stringiamo in società e sforziamo a vivere insieme: come talora un cane odia abitualmente per invidia un altro cane suo compagno, e i tori nella mandria si odiano per gelosia ec.», a dimostrazione di «come la società stretta ponga subito in azione l’odio naturale anche negl’individui e specie ec. che fuori di essa società mai non provano odio, o mai versi i loro simili»62.

L’odio verso i propri simili, che nella società stretta si produce come necessaria modificazione dell’amor proprio, non avrebbe avuto modo di svilupparsi in una società larga, dove sarebbe esistito solo in potenza, non in atto63. La società stretta fornisce le occasioni per esercitare quell’odio reciproco che senza di essa non sarebbe stato altro che una semplice «disposizione a poter essere». Questo è il meccanismo che la società stretta innesca inevitabilmente nell’amor proprio. L’uomo quindi non è in sé il più insocievole degli animali, ma diventa tale vivendo nella società stretta64. All’origine c’è solo l’estrema conformabilità della natura umana che fa sì che l’amor proprio, innato in ogni essere vivente, possa svilupparsi, a seconda delle circostanze, in direzioni diverse e persino opposte65.

Tuttavia, quello che noi abbiamo sotto gli occhi e prendiamo per naturale, è l’«uomo in società ed infinitamente alterato dalle assuefazioni. Le quali, essendo una seconda natura, fanno che tuttodì si pigli per naturale, quello che non è se non loro effetto»66. Noi prendiamo per naturale o innato ciò che non è che «l’effetto dell’assuefazione e del nostro vivere in società»67: del nostro vivere in una società che non conosce altra forma che quella della

62 Zib. 3796-7.

63 Cfr. Zib. 3783, 3787, ma anche Zib. 3929, 27 novembre 1823. Per quanto riguardo una trattazione più diffusa delle «disposizioni a essere», in rapporto alla potenza e all’atto, rimando a quando già detto al cap. III.

64 Cfr. B. BIRAL, Leopardi: infelicità e malvagità nella società moderna, in Il pensiero storico di

Leopardi, cit., p. 102 in partic. p. 102.

65 Cfr. Zib. 868-70, 26 marzo 1821. 66 Zib. 3804.

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193 società stretta. Dell’uomo posto fuori di essa non abbiamo nessuna esperienza e ciò che è semplicemente un’altra possibilità, legata ad altre circostanze, ci sembra un’impossibilità. Non è facile distinguere tra ciò che è naturale e ciò che è prodotto dall’assuefazione, soprattutto quando si tratta di un’assuefazione che, come quella a vivere in questo tipo di società, è «universale, e contratta o cominciata a contrarre fin dalla nascita o da’ primi momenti del vivere», un’assuefazione che si combina del resto con tutto un insieme di «infinite assuefazioni subalterne da questa dipendenti»68. Anche per questo ha senso compiere quell’esercizio conoscitivo che consiste nell’allargare lo sguardo alle società animali. Il senso di questa operazione, di questa dislocazione dello sguardo69, può essere afferrato fino in fondo solo in relazione alle dinamiche dell’assuefazione, rispetto alle quali rappresenta come una sorta di movimento contrario.

Verso la fine di queste pagine politiche dell’ottobre del ‘23, a tutte le ragioni addotte per dimostrare la non destinazione dell’uomo a uno stato sociale stretto, Leopardi ne aggiunge anche un’altra, che viene introdotta dalla citazione di Milton: «amongst unequals no society»70.Come abbiamo visto nel terzo capitolo, tra tutte le specie animali, l’umana è quella i cui individui sono, in ragione della loro maggiore conformabilità, più portati alla difformità, alla varietà, alla mutabilità71. L’estrema conformabilità rende gli uomini non solo dissimili tra loro, ma anche dissimili da se stessi in epoche diverse della loro vita: «La massima conformabilità dell’uomo rispetto a tutte le altre creature note, fa che si trovino assai maggiori e più numerose differenze fra gl’individui umani, e fra le successive condizioni di uno stesso individuo, che in qualunque altra specie di esseri»72. Ora, proprio quest’estrema varietà o variabilità li rende assai poco adatti alla società stretta, per vivere nella quale occorrerebbero invece «conformità»73, uniformità sia rispetto agli altri sia rispetto a se stessi. Paradossalmente, tuttavia, è la stessa società stretta a favorire a sua volta, attraverso il contatto ravvicinato che impone agli

68 Zib. 3805.

69 Cfr. PRETE, L’antropologia poetica, cit.

70 Zib. 3806. La citazione è tratta da J. Milton, Paradise Lost, VIII, vv. 383-4. 71 Cfr. Zib. 3807-8.

72 Zib., 1568-9, 27 agosto 1821. 73 Zib. 3808.

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194 individui, questa tendenza naturale alla varietà e alla diversificazione. Ponendo gli uomini a stretto, costante e quotidiano contatto tra loro, la società favorisce il mutamento, la trasformazione, fa sì che gli uomini siano più portati a influenzarsi reciprocamente e a contrarre, mediante imitazione, assuefazioni sempre nuove. Ma, proprio mentre favorisce la trasformazione e la tendenza al mutamento, la società stretta ha bisogno, al tempo stesso, di controllare e di canalizzare queste dinamiche, di rendere stabili le differenze che lei stessa produce e favorisce. Così facendo, essa porta al colmo le differenze, trasforma la differenza acquisita o prodotta in differenza di ceto, di classe, e converte la differenza in vera e propria disuguaglianza74.

Che la diversificazione all’interno della stessa specie, dovuta alla maggiore conformabilità, sia una caratteristica propriamente umana e che in essa consista la differenza più decisiva tra l’uomo e l’animale, era un’idea piuttosto diffusa al tempo di Leopardi, non solo tra i filosofi (come abbiamo visto era condivisa ad esempio anche da Condillac o a Rousseau), ma anche tra gli economisti. Adam Smith in particolare partiva da lì per spiegare l’evoluzione da quello che lui chiamava il «rozzo stadio della società», proprio delle società primitive in cui non esisteva ancora diversificazione delle funzioni, alle società moderne, fondate invece sulla divisione del lavoro e sullo scambio75. Ora, precisamente questa maggiore conformabilità dell’uomo, questa sua adattabilità alle circostanze e capacità di diversificazione, che apparivano agli economisti del Settecento come il motore essenziale del progresso economico e sociale, e insieme come legittimazione naturale della società e dell’economia capitalistiche, fondate sulla divisione delle funzioni e dei ruoli all’interno della società, vengono invece considerate da Leopardi come una prova ulteriore della non destinazione dell’uomo alla società stretta.

74 Cfr. PRETE, Il pensiero poetante, cit., pp. 108-24.

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3. Il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani 3.1. Rivoluzione e civilizzazione

Questo dunque è lo sfondo generale, lo sfondo ‚metafisico‛, del pensiero politico leopardiano. Veniamo ora alla prospettiva più ravvicinata e ristretta del «filosofo di società», assunta in particolare nel Discorso sopra lo

stato presente dei costumi degl’Italiani. Se in queste pagine Leopardi recupera

per un attimo la prospettiva in cui si muovevano le precedenti considerazioni dello Zibaldone dell’ottobre del ‘23, è solo per chiarire meglio l’orizzonte più circoscritto in cui intende situarsi il Discorso. Se è vero, in generale, che «l’uomo, considerato sì in se stesso e come individuo, sì come sociale, è imperfettissimo», se è vero, di conseguenza, che i «difetti» e gli «inconvenienti» della società non possono che ripetersi, sempre uguali a se stessi, in ogni tempo e in ogni luogo (e che in sostanza ogni società umana è una «società stretta» nel senso dello Zibaldone), tuttavia non si deve trascurare il fatto che questi stessi difetti e inconvenienti possono risultare maggiori o minori a seconda delle circostanze, e che in essi è sempre possibile distinguere «il più e il meno»76. È precisamente nel varco, seppur minimo, aperto da questa possibilità di un più e di un meno che trova spazio il Discorso, il cui intento è appunto quello di mostrare come – per ragioni storiche, politiche e geografiche del tutto particolari – i problemi insiti in ogni tipo di società siano al presente più gravi, più diffusi e più dannosi in Italia che negli altri paesi europei. Smarcandosi, di volta in volta, dalla possibile assunzione di un punto di vista filosofico generale, che implicherebbe forse conclusioni più radicali77, nel Discorso Leopardi si sforza di restare aderente all’attualità e di individuare quei minima moralia che, assenti in Italia ma presenti in altri

76 Cfr. Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, testo critico di M. Dondero e commento di R. Melchiori, Rizzoli, Milano 1998, pp. 70-1. Riprendendo gli argomenti di Zib. 3773-3810, Leopardi osserva come in sostanza ogni società umana finisca per essere una «società stretta» nel senso dello Zibaldone: «Dovunque v’ha società, quivi l’uomo cerca sempre d’innalzarsi, in qualunque modo e con qualunque sia mezzo, colla depressione degli altri, e di fare degli altri uno sgabello a se stesso (o trattisi di parole o di fatti), e l’amor proprio in nessun paese è scompagnato dall’avversione comunque sentita e dalla persecuzione comunque esercitata verso i propri simili, e massime verso quelli con cui si convive e che ci toccano più da presso o con gl’interessi o con l’uso quotidiano» (ivi, p. 70).

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196 paesi europei, permettono, se non proprio di eliminare, quantomeno di ridurre gli inconvenienti insiti in ogni forma di società umana stretta.

Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Leopardi torna a riflettere, come gli era capitato più volte di fare nelle pagine dello Zibaldone, sulla filosofia illuminista e sul suo più immediato portato politico, la Rivoluzione Francese. Al centro della riflessione c’è sempre quella «ragione geometrica» che Leopardi – del tutto prossimo in questo alle posizioni di altri intellettuali europei, in particolare di Schiller78 – considera come l’opposto dell’immaginazione, come ciò che distrugge le illusioni indispensabili alla vita e al desiderio. Tuttavia nel Discorso l’atteggiamento di Leopardi è cambiato. Nelle pagine dello Zibaldone, il suo sguardo era ancora rivolto sul passato, nella nostalgia di ciò che della rivoluzione era stato tradito e che di quell’esperienza appariva immancabilmente perduto, in particolare le illusioni e gli ideali che l’avevano animata79. La filosofia illuminista si presentava, da questo punto di vista, sotto una luce decisamente ambigua: come ciò che, pur avendo preparato il terreno per la rivoluzione, l’aveva al tempo stesso, con il suo eccesso di ragione, condannata al fallimento80. L’errore dei «legislatori francesi repubblicani» era stato in particolare, secondo Leopardi, quello di aver creduto di poter portare avanti lo scopo e l’ideale della rivoluzione «col ridur tutto alla pura ragione», nella pretesa di «geometrizzare tutta la vita»81. Ma questo è stato precisamente ciò che ha fatto sì che la rivoluzione ripiegasse su se stessa, eliminando ogni desiderio e ogni possibilità di movimento.

Completamente diversa è la prospettiva adottata nel Discorso, che si presenta invece come «uno scritto formalmente e non solo cronologicamente

post-rivoluzionario»82. Nel Leopardi del Discorso c’è l’esigenza, analoga a quella espressa da Kant nel Conflitto delle facoltà, di comprendere un evento

78 Cfr. in particolare SCHILLER, Lettere sull’educazione estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo 2009. Ma questa stessa posizione si ritrova variamente espressa anche da Mme DE STAËL, De l’Allemagne, 2 voll., Flammarion, Paris 1968 (cfr. ad es. tomo II, parte III dedicata alla filosofia e alla morale).

79 Cfr. LUPORINI, Leopardi progressivo, cit.

80 Cfr. in particolare a questo proposito Zib. 160-61, 8 luglio 1820, Zib. 1078, 23 maggio 1821 e Zib. 2334, 6 gennaio 1822.

81 Zib. 160.

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197 storico come la Rivoluzione Francese elevandosi al di sopra dell’ordine dei «fatti» o dei «misfatti» che l’hanno accompagnata, della catena delle cause e degli effetti che immediatamente la definiscono senza esaurirne la portata83. Tuttavia, se per Kant ciò vuol dire cogliere di tale evento il significato ideale, il quale può essere apprezzato sopratutto da chi ne è stato solo spettatore e il cui giudizio non è inficiato da un interesse immediato (la «partecipazione augurale» che la rivoluzione ha suscitato al di fuori dei confini francesi testimonierebbe secondo Kant di una particolare disposizione della natura umana al progresso verso il meglio), per Leopardi si tratta invece di verificarne le implicazioni sul modo di vivere, di pensare, di agire. Indipendentemente dal loro esito storico e politico immediato, indipendentemente da ogni giudizio che si può avere a questo riguardo, la filosofia illuminista e la Rivoluzione Francese vengono ora considerate su un’onda più lunga, vale a dire come catalizzatori di un processo di

modernizzazione e di civilizzazione che, anche a distanza di anni, anche al di

fuori dei confini francesi, non ha cessato di produrre i suoi effetti. Questi effetti definiscono l’orizzonte della «civiltà moderna», rispetto al quale non si può tornare indietro e di cui è necessario assumere le conseguenze.

3.2. Opinioni e costumi

«Opinioni» e «costumi» sono, secondo l’analisi svolta nel Discorso, le due coordinate che permettono di individuare il livello di modernizzazione e di civilizzazione dei vari paesi europei e del Nuovo Continente. Mentre le «opinioni» riguardano il modo di pensare e sono sempre in qualche modo legate al sapere filosofico e scientifico di una certa epoca storica, i «costumi» riguardano invece la sfera dell’agire e possono essere considerati come delle

opinioni applicate o vissute. Se le «opinioni» riguardano ciò che si pensa, i

«costumi» riguardano invece ciò che si fa. Nel Discorso sopra lo stato presente,

83 Cfr. KANT, Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Morcelliana, Brescia 1994, parte II, § 6. Su questa ‚doppia‛ modalità di considerare i fenomeni storici, non solo sul piano delle relazioni causali, del vissuto immediato o degli stati di cose, ma anche su quella della loro essenza o virtualità, cfr. anche G. DELEUZE, F.GUATTARI, Qu’est-ce que la philosophie?, cit., pp. 96-97 e Id., Mai 68 n’a pas eu lieu, in: Deux regimes de fous, Minuit, Paris 2003, pp. 215-17.

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