DOTTORATO IN SCIENZE SOCIALI
CICLO XXIX
INDIRIZZO: SCIENZE POLITICHE
L’oro blu del lago Parón.
Interazione tra capitale(i) sociale(i) e conflitto socio-ambientale
nel territorio andino della comunità rurale Cruz de Mayo:
subcuenca Parón-Llullán, Huaylas, Perú
Tutor: Luisa Faldini, Università di Genova
Candidato:
Fabio Azzolin
Anno accademico 2017-2018
INDICE
RINGRAZIAMENTI ... V
INTRODUZIONE ... 1
1. Un conflitto sociale e ambientale ... 1
CAPITOLO I ... 7
1. L’approccio epistemologico ... 7
2. I modelli teorici ... 11
3. La metodologia della ricerca ... 15
4. Uno sguardo geografico e storico-‐istituzionale sull’area ... 19
4.1 Il campo di ricerca. Uno sguardo macro ... 19
4.2 Il distretto di Caraz e Cruz de Mayo ... 22
4.3 Servizi di base e processi demografici ... 29
5. Gli antefatti del conflitto. Uno scenario politico e socio-‐ambientale in rapido mutamento ... 31
CAPITOLO II ... 39
1. Un’ardua salita per l’accesso al campo di ricerca. Passando fra una scivolosa diffidenza, una fitta coesione comunitaria e un franabile assetto istituzionale ... 39
1.1 Il tortuoso e insidioso sentiero di accesso al campo di ricerca ... 39
1.2 Il limbo di fondo valle ... 48
2. Il capitale sociale quale principale lente concettuale ... 54
3. Le istituzioni centrali e la dirigenza di Cruz de Mayo ... 59
4. L’assetto istituzionale di Cruz de Mayo ... 68
5. Il ruolo decisivo dei dirigenti locali nell’accensione della miccia ... 77
6. La rilevanza della coesione comunitaria nella sorveglianza territoriale ... 83
CAPITOLO III ... 91
1. Da un’insurrezione a un’altra passa un secolo di soprusi ... 91
2. Il capitale sociale di Cruz de Mayo ... 104
2.1 Il capitale sociale Bonding ... 109
2.2 Il capitale sociale Bridging ... 143
2.3 Il capitale sociale Bungeemping ... 152
CAPITOLO IV ... 161
1. Storie di acqua e conflitti interni ... 161
1.1 Conflitti interni ... 169
2. L’evoluzione del “conflitto Parón”: verso l’istituzionalizzazione e il dialogo ... 176
3. Dialogo e conflitto ... 182
4. Il ruolo dei capitali sociali nell’innesco e nell’evoluzione della lotta campesina ... 188
4.1 L’avvicendarsi dei capitali sociali nelle distinte fasi conflittuali ... 195
CONSIDERAZIONI FINALI ED EPILOGO ... 207
APPENDICE ... 221
1. Traccia intervista semi-‐strutturata somministrata nel 2011 ... 221
2. Verbale della riunione del 30/10/2012 per il “Plan de descarga de la Laguna Parón”… ... ….223
3. Primi 15 articoli del Estatuto Comunal de la Comunidad Campesina Cruz de Mayo . 226 4. Lettera di esortazione, inviata da ANA il 22/01/2016, ad abbassare il livello dell’acqua del lago Parón ... 230
5. Schema degli avvenimenti conflittuali che elaborai nel 2016 ... 232
6. Illustrazioni ... 233
BIBLIOGRAFIA ... 243
RINGRAZIAMENTI
Questo lavoro è debitore dell’aiuto e della disponibilità di una moltitudine di persone e di alcune associazioni e istituzioni.
La ricerca sul campo del 2011 è stata veicolata e sostenuta finanziariamente dal CONDESAN (Consorcio para el Desarrollo Sostenible de la Ecorregión andina) di Lima, il cui direttore all’epoca era Miguel Saravia. Oltre alla riconoscenza per l’opportunità lavorativa che mi venne offerta dall’associazione, nel cuore porto impressa la grande accoglienza e l’affetto che ricevetti da tutti i dipendenti e collaboratori che vi lavoravano nel 2011.
Senza la sociologa rurale Edith Fernandez-‐Baca e l’ingegnere Luis Acosta questa ricerca non avrebbe nemmeno avuto inizio. Loro (assieme ad altre magnifiche persone generatrici di un ambiente accogliente e stimolante), infatti, mi indirizzarono verso lo studio di questo conflitto socio-‐ambientale, mi appoggiarono e consigliarono sulle strategie da adottare sul campo di ricerca, e per giunta mi misero in contatto con alcuni attori istituzionali del Callejón de Huaylas oltre che con i campesino di Cruz de Mayo. Fisicamente, inoltre, fu Luis Acosta a condurmi nel Callejón de Huaylas e successivamente a introdurmi nel territorio di Cruz de Mayo per presentarmi alla famiglia di Carlos Pajuelo.
Tra gli attori istituzionali cui mi riferisco, in primo luogo c’è il Parque Nacional Huascarán, il cui direttore, Marco Arenas, fu determinante nelle prime fasi della ricerca. Fu grazie a lui (e ad altri due collaboratori del parco) che iniziai a fare i primi veri passi nel campo di ricerca e incominciai a calarmi nel contesto socio-‐territoriale del vasto bacino idrografico del Santa. Oltre a ciò, Arena fu decisivo nella individuazione dei potenziali attori a cui somministrare le interviste qualitative (nel 2011). Rappresentò la chiave di volta, in quanto egli mi indicò e presentò diversi attori rilevanti per le fasi iniziali della ricerca – tra cui il ricercatore Adam French, il glaciologo Cesar Portocarrero, l’ingegnere civile Jaime Ocaña, il presidente dell’Autoridad Nacional del Agua – ai quali avrei poi somministrato le interviste
qualitative. Questo processo iniziale fu certamente importante ai fini dell’indagine esplorativa, ma lo fu anche per rompere il ghiaccio e prendere gradualmente confidenza con la maestosa vallata fluviale e la composita popolazione che la abita. Per tali motivi sono grato a tutti gli attori – istituzionali e civili – che mi hanno concesso il loro tempo per offrirmi tante informazioni, le quali mi hanno permesso di iniziare a comprendere il vasto mondo andino.
Mi sento, ovviamente, enormemente debitore dell’ospitalità dell’intera comunidad campesina Cruz de Mayo e specialmente sono grato all’intera famiglia Pajuelo, ai suoi ex presidenti Antonio Dueñas Goñi e Julio Bernardo Barón e alla famiglia Lagua. Adán, l’informatore-‐chiave con il quale ho instaurato un legame affettivo piuttosto solido (nonostante la diffidenza iniziale), è stato essenziale nel computo complessivo della ricerca. Grazie al suo ottimo eloquio in castigliano e alla sua buona reputazione comunitaria ho potuto raccogliere una grande mole di informazioni utile a produrre un’etnografia su Cruz de Mayo. Tuttavia, sono molto grato anche alla moglie, Eva, e al fratello, Carlos Pajuelo, che mi ospitò nella sua casa nell’agosto del 2011; e come scordare il cugino di Adán, Miguel Pajuelo, che oltre a mettermi a disposizione la sua ex-‐bottega, nel borgo di Ancash, mi guidò in aree comunitarie che non avevo ancora esplorato.
Un sentito ringraziamento va anche alla famiglia originaria di Eva – specialmente a Santos e a sua moglie – che mi ospitò varie volte nella sua dimora. Santos mi coinvolse svariate volte nei lavori campestri quotidiani e mi fece sentire sempre a mio agio (quasi come se fossi parte della famiglia) donandomi il suo affetto.
Inoltre, ringrazio la famiglia Lagua – Linda e suo figlio Kenjy, Juana e José – che mi invitò a cenare diverse volte, sorprendendosi nel vedere un gringo mangiare pressappoco le stesse porzioni con cui normalmente si rimpinza un campesino andino. Questa famiglia è stata importante, tra le altre cose, perché mi ha permesso di vedere Cruz de Mayo sotto un punto di vista femminile e, grazie a Kenjy – a cui ho cercato di insegnare qualche rudimento di inglese, del gioco del calcio e della pallavolo – anche infantile.
Sono molto grato anche alla CEAS (Comisión Episcopal de Acción Social) di Lima e a tutte le esponenti e formatrici (specialmente a Paula e a Jessy), che nonostante le tensioni inerenti al conflitto idrico con Duke Energy, dopo un giustificato scetticismo iniziale, si sono fidate di un ricercatore straniero come me, per giunta dalle sembianze nordamericane. Ciò mi ha permesso di raccogliere preziose informazioni fornite da un osservatore esogeno a Cruz de Mayo, tuttavia che al contempo era particolarmente coinvolto con le vicissitudini comunitarie.
Un grande ringraziamento, naturalmente, va anche alla mia supervisor Luisa Faldini che, nonostante i ripetuti viaggi oltreoceano, mi ha spronato a terminare il percorso di dottorato e mi ha fornito delle preziose indicazioni e revisioni, sia formali che sostanziali.
Mi sento molto fortunato ad avere condiviso questa esperienza con alcuni colleghi del XXIX ciclo del dottorato in Scienze Sociali: in primis Marta Scaratti e Paolo Barabanti con i quali, è il caso di dirlo, è nata una speciale alchimia ancora prima di sapere che avremmo intrapreso il cammino di ricerca assieme. Un sentito grazie lo rivolgo anche ai miei compagni di curriculum – Rossella Ibrahim, Giacomo Tarascio e Mattia Costa – con cui ho condiviso molti dubbi e poche certezze nell’intero percorso di dottorato. Senza queste relazioni (sebbene poco frequenti) il dottorato non avrebbe avuto lo stesso spessore umano.
Mi pare qui giusto nominare anche tutti gli spazi pubblici italiani che mi hanno permesso di completare questa tesi. A partire da Trenitalia che, nelle mie trasferte lavorative a Padova, mi ha dato modo di sedermi, analizzare il mio diario di campo e dattilografare qualche pagina al giorno. Un ringraziamento va anche allo IOV (Istituto Oncologico Veneto), per cui lavoro, che mi ha concesso la possibilità di prendere parecchi giorni di ferie per la scrittura di quest’opera. Inoltre, sono particolarmente grato a due biblioteche della provincia di Vicenza – alla biblioteca di Marostica e a quella di Breganze – che sono state decisive giacché mi hanno permesso di utilizzare i loro locali fino a sera tarda, abbondantemente oltre agli orari di chiusura ufficiali.
Dulcis in fundo, un ringraziamento speciale va alla mia famiglia estesa: ai miei genitori, Doreta e Francesco, a mio zio, Orazio, per avermi dato un concreto, continuo e determinante supporto; alla mia compagna, Indiana, e a mio figlio, Leonardo, per avermi accompagnato sul campo di ricerca e per avere sopportato le mie sparizioni periodiche, sia durante la ricerca sul campo che durante la stesura dell’opera.
INTRODUZIONE
1. Un conflitto sociale e ambientale
Il conflitto si è presentato alla mia porta senza preavviso, e appena gli ho dischiuso la porta si è intrufolato nel mio mondo di significati, senza che potessi avere il tempo per respingerlo e resistergli. In cambio, mi ha mostrato una realtà in continuo divenire, mi ha aperto la finestra su un paesaggio frastagliato, composito e mutevole, abitato da una popolazione in lotta con un gigante della nostra epoca, a cui tuttora sta tenendo testa. Una popolazione che si è messa in gioco per difendere il territorio in cui vive e dal quale riceve il sostentamento quotidiano. Una popolazione che per preservare il bene più importante e prezioso – l’acqua1 – ha saputo tirare fuori risorse inaspettate, sopite sotto l’apparenza pacifica, mite e inoffensiva della gente del posto.
Il mio avvicinamento alle Ande, alla comunità rurale peruviana Cruz de Mayo e alla sua storia conflittuale avvenne nel 2011, attraverso CONDESAN2, un’organizzazione senza scopo di lucro situata nella capitale peruviana, Lima. Grazie a un’esperienza lavorativa di sei mesi presso questa organizzazione, potei incominciare a conoscere e studiare il processo conflittuale che ha investito la comunidad campesina e le risorse idriche del suo vasto territorio. Attorno a questo conflitto socio-‐ambientale hanno ruotato differenti attori civili, istituzionali ed economici.
In America Latina, dove non mancano le risorse minerarie e idriche, i conflitti per la conservazione delle risorse naturali locali rappresentano un tema frequente e molto pregnante, viste le conseguenze sociali e ambientali originate dall’invasione continua delle propaggini del sistema neoliberista nei territori caratterizzati da una grande biodiversità, le cui comunità si fondano prevalentemente su un'economia basata sull'auto-‐sussistenza. Berraondo (2008: 93) sostiene che esiste un «cuadro recurrente» di violazione del territorio delle popolazioni indigene. La violazione normalmente si manifesta nell'espropriazione della terra, nella ricollocazione geografica, nell'inondazione dei territori, nella discriminazione, nella distruzione
1 Il controllo sull’acqua e l’efficiente rete idraulica che lo permette è una caratteristica rilevante di tutta l’area andina incaica centrale (Lorandi, 1986: 35).
2 Consorcio para el desarrollo sostenible de la ecorregión andina, nato nel 1993 come gruppo consultivo para la Investigación Agrícola Internacional (CGIAR). Nel 2009 decise di svincolarsi dalla CGIAR, diventando un’organizzazione regionale autonoma.
ambientale dell’habitat e nella repressione (Ramiro&Gonzáles, 2010: passim). Accanto alla perdita di terre e al dislocamento di popolazioni (Ramiro, 2011: 10) si verifica pure il degrado del tessuto economico locale (agricoltura, pesca, etc.) con conseguenze che possono essere devastanti, fino al verificarsi di condizioni in cui si produce la rottura o il deterioramento del tessuto sociale, familiare e dei vincoli affettivi (Petras&Veltmeyer, 2007: 226-‐227). Insomma, una vera e propria aggressione al territorio indigeno (tanto alla proprietà collettiva come alle risorse di cui dispone), alla identità culturale delle popolazioni e ai loro modelli di organizzazione politica.
Considerate le innumerevoli risorse possedute dalla regione latino-‐americana, e tenuto conto che in molti dei paesi di questa regione c'è una situazione politico-‐ economica fragile nonché popolazioni con un alto tasso di povertà, i giganti aziendali possono entrarvi indisturbati e far man bassa di minerali, idrocarburi, legname, acqua e quant’altro. Un’ulteriore conferma di come l’America Latina venga vista dai paesi più sviluppati, ce lo fornisce il crescente interessamento delle multinazionali cinesi a questo vasto territorio. La potenza economica cinese, comprendendo la ghiotta opportunità economica, ha puntato sulle risorse idriche dell’America Latina, la quale nel comparto idroelettrico è considerata il secondo maggior mercato a livello mondiale (Toh Han Shih, 2014). Negli ultimi anni la Cina ha cominciato a delinearsi come un rilevante investitore in America Latina e si può ragionevolmente supporre che confermerà questo ruolo negli anni a venire. Per offrire alcuni dati a supporto, basti dire che il paese del dragone ha dato e darà vita a 22 progetti diffusi su tutto il continente latinoamericano, interessando 7 nazioni: Belize, Ecuador, Costa Rica, Guyana, Honduras, Perù, Argentina (Idem). Il fatto che le risorse idriche dell’America Latina facciano gola ai colossi economici cinesi, fa ben intendere quante potenzialità di sfruttamento economico offra questo territorio e quante contese possa allo stesso tempo far scaturire.
Strong local opposition has contributed to the view that while Latin America is a market with a lot of opportunities, it is also a very difficult
market because Chinese companies are not familiar with local issues (Toh Han Shih, 2014)3.
L’unica barriera a questa diffusione capillare sul territorio latinoamericano dunque, potrebbe essere rappresentata proprio dalle proteste e dalle lotte delle comunità rurali e indigene che hanno il diritto di ostacolare, bloccare e respingere l’implementazione di quei progetti ambientalmente insostenibili, come quelli minerari e/o idroelettrici.
Proprio un’importante centrale idroelettrica, Cañon del Pato, è il fulcro del conflitto socio-‐ambientale che presenterò in questo lavoro. La centrale è ubicata in un importante bacino idrografico – Santa – nell’altopiano nord-‐centrale del Perù, nella regione Ancash. Negli ultimi anni, il bacino idrografico del Santa è divenuto il ricettacolo di molteplici conflitti concernenti l’accesso e la gestione delle sue acque, causati principalmente dalle attività delle imprese minerarie e idroelettriche. Anche Cruz de Mayo, la comunità oggetto di questo studio, situata sulla Cordillera Blanca (provincia di Huaylas, regione Ancash, Perù), fu costretta a osservare il depauperamento del suo vasto territorio, causato dallo sfruttamento insostenibile delle sue risorse idriche, perpetrato da una grande impresa idroelettrica statunitense, la Duke Energy4. Tale abuso provocò il graduale calo delle acque del più grande lago della Cordillera Blanca – Parón – e causò problemi (dovuti all'inquinamento del torrente Parón Llullán) di salute alla fauna ittica e agli allevamenti bovini, alla popolazione locale, agli appezzamenti agricoli sottostanti e creò pure una svalorizzazione del contorno ambientale e conseguentemente dell'attrattiva turistica. L'interesse nello studiare Cruz de Mayo sta anche nella peculiare maniera in cui essa riuscì ad allontanare la suddetta multinazionale dai propri confini comunitari. La rivolta collettiva, infatti, nonostante la rabbia accumulatasi negli anni dalla popolazione e il coinvolgimento di più di 5000 persone, sorprendentemente non vide implicato l’uso della violenza fisica. Il conflitto si manifestò nel luglio 2008, e scemò poi d’intensità mano a mano che si spostò sul
3 La dichiarazione è di Grace Mang, direttore del programma cinese che fa capo a International Rivers, un’organizzazione ambientalista non governativa statunitense.
4 Duke Energy ha sede a Charlotte, nel North Carolina, ma opera anche in altri stati federali degli Stati Uniti.
piano del dialogo e dell’istituzionalizzazione, senza però venire completamente riassorbito dalle istituzioni politiche.
L’indagine si sviluppa attorno al rapporto esistente tra il conflitto socio-‐ambientale e le risorse socio-‐antropologiche comunitarie. Quali caratteristiche socio-‐culturali hanno permesso a Cruz de Mayo di innescare e fare emergere il conflitto? Come e grazie a chi/cosa ha saputo gestirlo negli anni successivi al suo scoppio? Quali e come saranno gestiti gli scenari conflittuali che si prospettano a Cruz de Mayo nel prossimo futuro? Quali sono gli insegnamenti e le raccomandazioni socio-‐politiche che questa esperienza può offrire ad altri attori coinvolti da un conflitto simile? Queste rappresentano le quattro domande primarie, fondamento del cammino di ricerca, le quali mi hanno guidato nello studio e nell’analisi delle caratteristiche socio-‐culturali di Cruz de Mayo, nonché del conflitto socio-‐ambientale che si sta tuttora esperendo. Per riuscire a rispondere a queste domande mi sono affidato al metodo di ricerca etnografico e mi sono centrato sullo studio del capitale sociale di Cruz de Mayo, imprescindibile perno teorico attorno cui ho costruito la comprensione dell’evoluzione del conflitto stesso.
Uno studio di comunità come questo, oltre a essere rilevante per la stessa Cruz de Mayo, può avere importanti implicazioni per le politiche regionali, nazionali e transnazionali, fornendo raccomandazioni alle relative istituzioni perché si impegnino nella prevenzione dei conflitti socio-‐ambientali e nella loro risoluzione attraverso la valorizzazione degli aspetti “luminosi” del capitale sociale. Questa indagine qualitativa ci può offrire raccomandazioni politiche realistiche, meglio fondate empiricamente, maggiormente multi-‐sfaccettate e sofisticate nonché più facilmente attuabili rispetto alle indagini sul capitale sociale “putnamiano” 5 a vasto raggio (Svendsen, 2006). Capire appieno le strategie di adattamento, di lotta non violenta e di protezione delle risorse ambientali locali (acqua, suolo, foreste, ghiacciai) di una comunità rurale andina può fornire rilevanti indicazioni anche ad
5 Al contrario di Coleman e Bourdieu, Putnam (1993;2000) ha sviluppato i suoi studi sul capitale sociale utilizzando quasi esclusivamente database di stampo statistico e quantitativo, allo scopo di descrivere le tendenze sociali a livello macro. Ciononostante, Putnam si è focalizzato, come Coleman, su fiducia e beni collettivi.
altre comunità rurali6 al fine di proteggere i territori aggrediti dai poteri economici forti, alias le grandi imprese del settore estrattivo ed energetico.
Dato per assodato che nel panorama internazionale esistono molteplici casi di conflitti socio-‐ambientali simili a quello oggetto di questo studio, pare imprescindibile comprendere i meccanismi sociali che conducono a una determinata evoluzione del processo conflittuale. Ritengo perciò doveroso verificare fino a che punto sia sufficiente fare appello alle forze comunitarie interne (bonding social capital) per favorire il processo di risoluzione di un conflitto socio-‐ambientale, la protezione delle risorse naturali e l’attuazione di politiche di sviluppo sostenibile di medio e lungo-‐termine (che vanno di là del carattere contingentale della lotta). Se le forze interne non bastassero, sarebbe indispensabile l’apporto del dialogo e la costruzione di alleanze con altri attori (bridging social capital) capaci di appoggiare e sostenere (concretamente e/o simbolicamente) una simile comunità andina. Il dialogo potrebbe costituire l’arma vincente in un conflitto scaturito dalla contesa di certe risorse naturali, sebbene non è scontato che si possa (e sia conveniente) applicarlo vantaggiosamente in qualsiasi contesto e abbia sempre e comunque degli esiti vantaggiosi. Oltre al contesto socio-‐culturale, politico-‐istituzionale ed economico, c'è da tenere in considerazione la fase in cui il conflitto si trova, considerato che spesso nelle prime fasi il dialogo è impensabile per la radicalità e la risolutezza con cui gli attori collettivi difendono e propugnano le rispettive ragioni. Per giunta, non sono convinto che il dialogo sia sempre da considerare un medium da incentivare ai fini della risoluzione di un conflitto. Molti attori rurali, infatti, non possiedono i mezzi linguistici e diplomatici per dialogare con le autorità e gli attori economici, ed è verosimile credere che avrebbero la peggio nella negoziazione, se non adeguatamente supportati da altri attori esterni più preparati a mediare.
In America Latina è frequente che le comunità rurali e/o indigene, dopo avere avviato un dialogo con il proprio invasore, cedano di fronte alle avance economiche e/o infrastrutturali della multinazionale di turno. Spesso sono le ingenti quantità di denaro a mediare nelle negoziazioni, affossando (specialmente da 20 anni a questa
6 I concetti di area rurale e di ruralità mettono in campo tre dimensioni principali: sociale, economica e ambientale o ecologica. Queste tre dimensioni cooperano nel dare forma e caratterizzare il territorio di cui fanno parte, determinandone il grado e l’intensità della ruralità esistente (cfr. Del Giudice&Pascucci, 2007).
parte) conflitti e controversie che chiamano in causa i diritti degli indigeni e gli interessi delle imprese multinazionali legate ad attività di estrazione di minerali, idrocarburi e allo sfruttamento energetico delle risorse idriche.
È utile fare molta attenzione, perché una volta concesso un varco di accesso al proprio nemico, costui si fa largo ed entra piuttosto facilmente nel territorio oggetto della contesa. A quel punto diventa estremamente difficile e complicato resistergli e/o respingerlo, legittimato com'è a operare e sfruttare le risorse territoriali in virtù degli accordi raggiunti con gli abitanti del luogo.
Polemos, il conflitto, di tutte le cose è padre,
di tutte le cose è re, e gli uni rivela dèi, gli altri umani, gli uni schiavi, gli altri liberi. (Eraclito, Dell’Origine, fr. 53)
CAPITOLO I
1. L’approccio epistemologico
L’orientamento della ricerca, come si sarà già intuito, è assolutamente idiografico, per cui è la specifica storia conflittuale che mi guiderà nella ricerca etnografica e che avrà un peso rilevante nella maniera di osservare e interagire sul campo di ricerca. Ciononostante cercherò di tenere anche uno sguardo periferico rispetto al caso conflittuale, in modo da afferrare gli aspetti inattesi che il campo di ricerca sempre mette a disposizione. Nonostante la ricerca verta su un’esperienza conflittuale circoscritta, sia sotto il profilo temporale che spaziale, nonché sotto il profilo partecipativo, sul campo l’approccio sarà per quanto possibile olistico. Si tenderà perciò alla comprensione del «tutto della condizione umana» (Fabietti, Malighetti, Matera, 2000: 37). Questo tipo di approccio evita la deriva mono-‐settoriale nello studio della cultura di riferimento e spinge invece a produrre collegamenti tra i molteplici aspetti socio-‐culturali del gruppo osservato.
L’antropologo che lavora sul terreno deve, con serietà ed equilibrio, percorrere l’intera estensione dei fenomeni in ogni aspetto della cultura tribale studiata, senza distinguere tra ciò che è banale, incolore o comune e ciò che lo colpisce come straordinario e fuori dal consueto. Nello stesso tempo, nella ricerca, si deve analizzare l’intero campo tribale in tutti i suoi aspetti. La coerenza, la legge e l’ordine che prevalgono all’interno di ciascun aspetto collaborano anche a tenerli uniti in un tutto coerente. Un etnografo che si concentri sullo studio della sola religione o della sola organizzazione sociale ritaglia un campo d’indagine artificiale e incontrerà seri ostacoli nel suo lavoro (Malinowski, 1973: 38).
In aggiunta, direi che questo approccio ha il pregio di porre in rilievo – contrastivamente o armonicamente – l’aspetto saliente della ricerca, concesso che sia ben chiara la posizione della stella polare, essenziale per orientarsi nella grande
mole di stimoli esterni. Non ci si illuda però che la strada per il raggiungimento dell’obiettivo di ricerca possa essere lineare e scorrevole, come se si stesse sfrecciando veloci in una pista automobilistica. La metafora che meglio si accosta al percorso specifico è forse quella del sentiero di montagna abbandonato e invaso qua e là da rovi e sterpaglie, oppure una strada agricola di campagna, la quale non si percepisce chiaramente dove termini e dove ricominci, interrotta com'è da fossati, casali e da confini alberati. Come sosteneva Wittgenstein (1974: 167), quand'anche la strada maestra si snodasse chiaramente di fronte al ricercatore, egli non potrebbe percorrerla perché incessantemente interrotta e dovrebbe perciò seguire uno degli svariati sentieri laterali e/o le deviazioni. Viste le premesse, è molto importante che l’etnografo abbia la cassetta degli attrezzi metodologici e teorici sempre ben rifornita di utensili ben rodati e manutenuti, in modo da fronteggiare l’imprevisto nella maniera più agile, efficace e opportuna. Inoltre, è necessario che sappia tirar fuori la giusta dose di sagacia e di fortuna, al fine di scegliere la via “giusta” che lo possa condurre alla scoperta degli aspetti socio-‐culturali salienti. In questa scelta la stella polare – la/e domanda/e di ricerca – avrà il nobile compito di venirgli in soccorso, permettendogli di riguadagnare la via maestra.
L'orientamento epistemologico della ricerca si fonda, oltre che su un approccio olistico, anche sul concetto di serendipità che, se ben applicato, crea le condizioni ottimali per accogliere la novità e carpire anche gli aspetti impensabili e impensati che il campo di ricerca offre, traducendoli in suggestioni, dati, risposte e nuove ipotesi7 di ricerca (Fabietti, 2006). L’atteggiamento serendipico può porre sotto una
nuova luce determinati aspetti, ma anche illuminarne di altri che prima non erano visibili.
Serendipity è un termine che si pensa sia stato coniato dal romanziere inglese del XVIII secolo Horace Walpole (“The Castle of Otranto”), ispirato alla favola di origine persiana "The three Princes of Serendip", ove si narra che i protagonisti viaggiano in lungo e in largo facendo scoperte fantastiche e inattese (Bourcier e van Andel, 2011:
7 Merton fu il primo a rilevare la serendipity come precondizione di una ricerca empirica fruttuosa, coincidente anche con la scoperta di nuove ipotesi: «Fruitful empirical research not only tests theoretically derived hypothesis; it also originates new hypothesis. This might be termed the ‘serendipity’ component of research, i.e., the discovery, by chance or sagacity, of valid results which where not sought for» (Merton, 1945: 469n).
41). Walpole, attraverso questo nuovo concetto, non ha solamente evidenziato l'elemento della fortuna o dell’opportunità che si forma all’interno della pratica di riferimento, ma anche che lo scopritore debba essere tanto sagace ed esperto da mettere assieme elementi apparentemente innocui, al fine di giungere a una conclusione o a una comprensione di valore (Merton e Barber, 2004). La serendipità ha una lunga storia scientifica, considerato il ruolo importante che ha da sempre giocato nel processo di scoperta. Tuttavia, solo a metà del secolo scorso venne esplicitata e concettualizzata da Merton, il quale descrisse la «componente della serendipità» nella ricerca qualitativa come un modello che svolge il fecondo compito di palesare nuove direzioni all’indagine.
[Serendipity] involves the unanticipated, anomalous and strategic datum which exerts pressure upon the investigator for a new direction of inquiry which extends theory (Merton 1948: 506).
Glaser e Strauss (1967) si ispirarono a questa linea di pensiero per sviluppare la serendipità come un metodo scientifico nella loro grounded theory. La loro idea di fondo è che le domande della ricerca dovrebbero essere definite con un buon grado di precisione e specificità per rimanere focalizzate sull'oggetto principale, e al contempo con un certo livello di approssimazione ed estensione per lasciare spazio alla flessibilità e alla serendipità, basate entrambe sulla combinazione di possibilità e ragionamento intuitivo (Rivoel e Salazar, 2013: 178). La serendipità è una caratteristica chiave del lavoro di ricerca etnografica e un fattore di forza dello stesso. Secondo Frank Pieke (2000:138), la serendipità costituisce la componente essenziale della ricerca sul campo. La serendipità, nonostante implichi un atteggiamento disteso e relativamente rilassato durante il lavoro di ricerca sul campo, non è tuttavia da prendere alla leggera, perché possiede la forza per modellare il processo etnografico. Rivoel e Salazar (2013: 183) ritengono che si sia giunti al punto in cui la serendipità dovrebbe essere concettualizzata diversamente, dovrebbe venire usata e manipolata come uno strumento di ricerca o un processo, piuttosto che come un concetto indicante semplicemente in che modo si realizza l'osservazione. Secondo i due autori, per realizzare ciò, l’elemento principale della serendipità (e dunque dell’etnografo) dovrebbe essere la sagacia.
Conscio di ciò, mi sono proposto di entrare nel campo di ricerca con una sufficiente consapevolezza del mio grado di conoscenza e dei relativi limiti, per essere più reattivo e cogliere dunque gli elementi inattesi che si insinuano in ogni dove.
The young ethnographer embarking upon fieldwork must be aware of what he or she knows already, in order to bring to light what is not yet known (Mauss, 2007: 8).
Mauss (2007) sostiene che, in assenza di una propria «percezione sociologica», formatasi prima di giungere al campo di ricerca attraverso la letteratura di riferimento, non ci possa essere comprensione. Mi sono prefisso, dunque, di entrare nel campo d’indagine provvisto della necessaria formazione teorica per rintracciare e dare vita al concetto di «rete di connessioni» (costituita dal particolare e dal trasversale) introdotto da Remotti.
Come nella rete c'è la trama e c'è l'ordito, così nel sapere antropologico c'è l'etnografia con i suoi scavi nel particolare verso i significati locali, e c'è la teoria con i suoi legami trasversali: insomma due dimensioni, una verticale e un'altra orizzontale che si intrecciano fra loro (Remotti, 2014: 71).
Le due dimensioni intrecciate permettono di produrre importanti modelli epistemologici. Tali modelli guidano l'etno-‐antropologo lungo un determinato cammino di ricerca che ritengo debba essere aderente alla sua personalità, oltre che al contesto di studio. È opportuno stare sempre in guardia per non farsi sbalzare, attraverso la precomprensione8, direttamente al momento dell'interpretazione. Un
simile sbalzo causerebbe un parziale o addirittura totale travalicamento del fondamentale momento dell’esperienza di campo. D’altro canto, i modelli epistemologici su cui si decide di poggiare sono essenziali per non brancolare nel buio ed evitare di farsi “raggirare” dalle molteplici promesse che il campo di ricerca offre, che potrebbero poi condurre a fornire una narrazione incoerente, disorganica e per giunta sconnessa rispetto alla domanda di ricerca.
8 È attraverso la storia del sapere che si costituisce la precomprensione, la quale dimora sulla «etnografia accumulatasi in un corpus particolare ma anche, in maniera più generale, sulla letteratura teorica conosciuta dall'antropologo» (Pinzolo, 2000: 169).
Questi modelli fanno [...] parte delle nostre stesse facoltà di comprensione di realtà che ci sono estranee, e anche se tale comprensione di fatto avviene grazie a una precomprensione, resta il fatto che qualcosa bisogna pur cercare di comprendere (Fabietti, 1999: 200).
2. I modelli teorici
Per comprendere appieno le dinamiche di questo conflitto socio-‐ambientale, nei suoi molteplici risvolti socio-‐culturali, la ricerca mira ad analizzare in profondità il ruolo del capitale sociale comunitario. Il capitale sociale è definito da Bourdieu (1986) e Coleman (1988) come una risorsa sociale innestata in un’associazione di reti che facilita i processi di interazione all’interno e tra gruppi sociali. Più nello specifico si riferisce a modelli di organizzazione sociale, come network (le reti sociali), norme sociali e fiducia, che agevolano la coordinazione e la cooperazione per un mutuo beneficio (Putnam 1993). Al contrario di quello che si possa pensare, il capitale sociale non cessa di avere voce in capitolo in presenza di un conflitto, interno o esterno che sia. Il conflitto infatti non è assolutamente sinonimo di disordine sociale, viceversa è una forma di ordine, che svolge, tra gli altri, il compito di strutturare le relazioni sociali (Simmel 1903). Sia Simmel (Idem) sia Coser (1956) sostengono che il conflitto è generatore di consenso e di solidarietà all'interno del corpo sociale che si ritrova a lottare per una determinata causa comune. Entrambi distinguono tra conflitto interno allo stesso gruppo sociale e conflitto esterno, che si sviluppa in opposizione a un gruppo diverso da quello di riferimento.
Il conflitto esterno, a cui faccio riferimento per tipizzare il conflitto, si sviluppa tra due gruppi sociali distinti, con storie e identità dissimili. Questo genere di conflitto, generalmente svolge tre importanti funzioni:
- acuisce la percezione dei confini del gruppo e contribuisce alla nascita di un sentimento di gruppo;
- porta a una centralizzazione della struttura interna del gruppo; - conduce a una ricerca di alleati, con un'estensione della rete delle relazioni sociali, promuovendo un'organizzazione sociale più grande di quella che sussisteva prima dell'insorgere del conflitto.
È interessante notare come le prime due funzioni svolte dal conflitto esterno rimandino al sotto-‐concetto di capitale sociale bonding, mentre la terza a quello del capitale sociale bridging (Putnam 2000, Woolcock e Sweetser 2002). Mentre la prima tipologia di capitale sociale si riferisce alle relazioni interne a un gruppo omogeneo ed è caratterizzata da un limitato insieme di legami locali nel quale tutti gli individui si riconoscono, la seconda abbraccia i legami deboli (Granovetter 1973), ovvero le relazioni superficiali che si estendono al di fuori del territorio locale (legami extra-‐ locali) favorendo l’ottenimento di nuove informazioni significative e l’ampliamento delle prospettive di gruppo.
Alla luce delle considerazioni precedenti, la questione centrale che guiderà la mia ricerca può essere riassunta nella seguente maniera: nel (momentaneo) successo della lotta comunitaria e nella successiva istituzionalizzazione del conflitto, quale ruolo hanno avuto i legami interni (bonding social capital) alla comunità e quale invece la capacità di quest’ultima di attivare e/o attrarre aiuti dall’esterno (bridging social capital)? Ne conseguono alcune sotto-‐domande, utili a entrare ancor più nel dettaglio delle vicende socio-‐conflittuali. È possibile concludere che una delle due tipologie di capitale sociale abbia avuto più peso nella peculiare evoluzione del conflitto socio-‐ambientale? Esistono altri tipi di capitale sociale che non possono essere compresi nei due sotto-‐concetti sopra presentati? Considerato tutto ciò, quali scenari sociali, ambientali e politici si prospettano nel futuro sociale di Cruz de Mayo e in quello territoriale del sub-‐bacino idrografico Parón-‐Llullán? In quale maniera la ricerca può offrire suggerimenti e raccomandazioni alle istituzioni politiche e alle comunità assoggettate alle corporazioni economiche – che saccheggiano a piene mani risorse naturali fondamentali?
Per rispondere a queste domande di ricerca è fondamentale analizzare in profondità la nascita e l’evoluzione del conflitto socio-‐ambientale e individuare il tipo di risorse sociali attivate dalla comunità al fine di proteggere il proprio territorio. Ci si incentrerà perciò sullo studio qualitativo del capitale sociale comunitario (bonding
social capital), al fine di avere un quadro dettagliato delle risorse sociali9 intrinseche
9 Le risorse sociali a cui mi riferisco sono principalmente le reti sociali, le norme sociali e la fiducia, che Putnam descrive come quelle caratteristiche del capitale sociale che facilitano il coordinamento e la cooperazione apportando un mutuo beneficio (Putnam 1993:35-‐36).
alla comunità rurale andina, indagando sul ruolo che queste hanno avuto nell’attivazione e nel successo della lotta comunitaria. Le domande caposaldo che mi guideranno in questa analisi si ispireranno a un lavoro di ricerca qualitativa (v. appendice) che ho svolto nel 2010 (Azzolin), incentrato sul capitale sociale di una comunità montana pre-‐alpina, lavoro che a sua volta ha preso a modello un'indagine svolta nella Maremma toscana (Cecchi et al., 2008) su 10 comuni della provincia di Grosseto, denominato RESTRIM10. I macro-‐temi attorno cui costruirò la rilevazione
sono i seguenti: le reti di relazioni interne ed esterne, il grado di attaccamento sociale e ambientale, il grado di reciprocità interna ed esterna, il genere di norme sociali, la propensione al cambiamento sociale e/o economico, la diffusione della fiducia e/o della sfiducia, l'assetto istituzionale interno e i suoi rapporti sia con la società campesina che con le istituzioni esterne. Mi affiderò ad alcune domande fondamentali al fine di rilevare i macro-‐temi sopra elencati. Che tipo di relazioni (routinarie, estemporanee, amicali, lavorative, associazionistiche, formali, informali, etc.) vanno per la maggiore nella comunità e che frequenza hanno? Quanto e da che punto di vista è importante la comunità e il territorio per chi qui ci vive? Qual è il grado di attaccamento al proprio territorio (sia in termini naturali che socio-‐culturali) degli abitanti di Cruz de Mayo? Ciascun membro della comunità quali vincoli sociali – – come la reciprocità simmetrica e asimmetrica – e che tipo controllo sociale11 –
pressione impressa dagli altri membri – sente di avere rispetto al proprio gruppo di riferimento e alla propria comunità? Gli abitanti del luogo sentono di potersi fidare dei propri vicini e più in generale dei propri compaesani e delle proprie istituzioni? Generalmente i leader e i dirigenti comunitari lavorano per tenere coesa la comunità e per imprimere un certo tipo di sviluppo sociale e/o economico?
Oltre al capitale sociale appena presentato, sarà analizzata la presenza, l’eventuale nascita e lo sviluppo delle relazioni comunitarie con attori sociali esterni a Cruz de
10 La ricerca RESTRIM (che si occupa della rivitalizzazione delle aree rurali marginali, analizzando il ruolo del capitale sociale nello sviluppo rurale) è stata progettata da un gruppo di lavoro guidato da Mark Schucksmith dell‟Arkleton Centre for Rural Development Research, University of Aberdeen, Gran Bretagna. Ha visto il coinvolgimento di parecchi gruppi di ricerca provenienti da diverse università europee. Il progetto è stato finanziato dalla Commissione dell’Unione Europea, all’interno del V Programma quadro, nell’area “Quality of Life and Management of Living Resources”.
11 Nell’analisi del controllo sociale c’è da fare attenzione all'aspettativa scientifica veicolata dalla pre-‐ comprensione, poiché è assodato che in una comunità rurale di questo genere, il controllo sociale normalmente è considerevole.