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Valutazione dei possibili fattori predittivi di risposta al trattamento con Palbociclib tramite DNA tumorale circolante in pazienti con diagnosi di carcinoma mammario metastatico HR positivo e HER-2 negativo

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(1)

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie

in Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Specialistica in Medicina e Chirurgia

Tesi di laurea

Valutazione dei possibili fattori predittivi di risposta al

trattamento con Palbociclib tramite DNA tumorale

circolante in pazienti con diagnosi di carcinoma

mammario metastatico HR positivo e HER-2 negativo

Relatore

Canditata

(2)

A Giulia,

insegui sempre i tuoi sogni, punta sempre più in alto e non arrenderti mai.

(3)

INDICE

RIASSUNTO ... 5

1. INTRODUZIONE ... 8

1.1 Epidemiologia del tumore della mammella ... 8

1.2 Fattori di rischio e Screening ... 9

1.3 Classificazione dei tumori della Mammella ... 13

1.3.1 Classificazione istologica dei Carcinomi della Mammella secondo la WHO 2012 ... 13

1.3.2 Classificazione clinica dei Carcinomi della Mammella secondo il TNM ... 14

1.3.3 Classificazione Molecolare del Carcinoma della Mammella ... 19

2. PRINCIPI ED OBIETTIVI DEL TRATTAMENTO DELLA MALATTIA METASTATICA (stadio IV) ... 20

3. IL TRATTAMENTO ORMONALE NEL TUMORE DELLA MAMMELLA METASTATICO HR+/HER2- ... 23

3.1 Tamoxifene e LHRH-analogo ... 23

3.2 Inibitori dell’aromatasi ... 24

3.3 Fulvestrant ... 26

3.4 Inibitori di m-TOR ... 30

4. IL RUOLO DEGLI INIBITORI DELLE CDK 4/6 NEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA ... 32

4.1 Ciclo cellulare e meccanismo d’azione degli inibitori delle CDK 4/6 ... 33

4.2 Palbociclib ... 36

4.3 Ribociclib ... 46

4.4 Abemaciclib ... 51

4.5 Biomarcatori e Resistenza acquisita ... 54

4.6 Gli inibitori della CDK 4/6 e immunità ... 57

5. BIOPSIA LIQUIDA E DNA TUMORALE CIRCOLANTE... 59

5.1 Biopsia liquida vs biopsia tissutale ... 59

5.2 Dna tumorale circolante ... 61

5.3 Meccanismi di rilascio del DNA tumorale ... 62

5.4. Applicazioni cliniche del ctDNA ... 63

5.4.1 Monitoraggio del carico tumorale e della risposta al trattamento. ... 64

5.4.2 Valutazione del residuo minimo di malattia ... 65

5.4.3 Valutazione dell’eterogeneità tumorale e della resistenza a una target therapy ... 67

5.5 DNA tumorale circolante nel tumore della mammella ... 68

6. RAZIONALE ED OBIETTIVI ... 71

6.1 Razionale ... 71

6.2 Obiettivi ... 72

6.3 Disegno dello studio ... 72

6.4 Criteri di inclusione ... 72

7. METODI DI LABORATORIO ... 73

(4)

7.3 Isolamento ed analisi degli esosomi ... 78

8. RISULTATI ... 82

8.1 Risultati clinici ... 82

8.1.1 Caratteristiche dei pazienti ... 82

8.1.2 Tossicità... 85

8.1.3 Attività ... 89

8.2 Risultati di laboratorio ... 90

9. DISCUSSIONE ... 94

INDICE DELLE FIGURE ... 99

INDICE DELLE TABELLE ... 100

BIBLIOGRAFIA ... 101

APPENDICI ... 112

APPENDICE I Criteri RECIST per la valutazione della risposta (v 1.1) ... 112

APPENDICE II ... 118

National cancer Institute (NCI) Common Terminology Criteria for Adverse Events (CTCAE) ... 118

(5)

RIASSUNTO

Il carcinoma della mammella con recettori ormonali positivi (HR+) rappresenta il sottotipo più frequente, andando a costituire il 60-65% di tutte le neoplasie maligne della mammella.

Per più di 50 anni, il cardine del trattamento della malattia positiva ai recettori ormonali sono stati gli anti-estrogeni, che hanno come target la via di segnalazione del recettore degli estrogeni.

Tuttavia, alcuni tumori presentano una resistenza de-novo a questo approccio e ancora più tumori svilupperanno una resistenza durante il trattamento.

Recentemente è stata introdotta nella pratica clinica una molecola, il Palbociclib, che fa parte della classe degli inibitori delle chinasi ciclino-dipendenti (CDK 4/6).

Studi preclinici hanno dimostrato la sua capacità di inibire preferenzialmente la crescita delle cellule tumorali HR+, agendo in sinergia con gli agenti anti-estrogenici, e la sua capacità di invertire la resistenza ormonale.

Negli studi clinici (PALOMA-1, PALOMA-2 e PALOMA-3) è stata dimostrata l’efficacia del Palbociclib in combinazione con gli anti-estrogeni, sia in prima linea di terapia sia nelle linee avanzate di trattamento, determinando un aumento significativo della PFS in pazienti con carcinoma mammario metastatico HR+/HER2-.

È auspicabile tuttavia che questi risultati ottenuti negli studi registrativi vengano confermati nella popolazione non selezionata attraverso studi osservazionali di “real-life”; inoltre non sono ancora disponibili dei biomarcatori specifici in grado di monitorare la risposta a questo trattamento sistemico o per indicarne precocemente lo sviluppo di resistenza acquisita, che sarebbero di fondamentale importanza sia per una maggiore comprensione del meccanismo d’azione di questa nuova classe di farmaci, sia per un’accurata selezione del paziente.

Grazie allo sviluppo delle nuove metodiche di analisi del DNA tumorale circolante però si stanno aprendo delle nuove prospettive per correlare in maniera molto meno invasiva, grazie alla biopsia liquida, la risposta clinica al trattamento terapeutico anti-tumorale con l’analisi dei biomarcatori circolanti.

In questa ottica, il presente studio clinico-traslazionale si pone come obiettivo di valutare l’attività, l’efficacia e la tollerabilità del Palbociclib in un setting “real-life” di trattamento, cosi come anche di individuare possibili biomarcatori predittivi di risposta ed efficacia mediante l’analisi del DNA tumorale circolante e RNA esosomiale.

Sono stati esaminati 46 pazienti con diagnosi di carcinoma mammario metastatico HR+/HER2- in trattamento con Palbociclib, suddivisi in due coorti in base al farmaco in

(6)

Inibitore dell’Aromatasi appartenevano alla coorte 1 (N=14), mentre i pazienti in trattamento con Palbociclib più Fulvestrant facevano parte della coorte 2 (N=32). Sono stati raccolti 50 campioni di sangue periferico per la valutazione dello stato mutazionale di KRAS, come potenziale biomarcatore predittivo di risposta al trattamento. La raccolta dei campioni è avvenuta al basale, cioè prima dell’inizio della terapia con Palbociclib e poi ogni 3 mesi fino alla progressione di malattia.

I risultati riportati dal presente studio comprendono quindi sia dei risultati clinici che dei risultati di laboratorio.

Per quanto riguarda i risultati clinici, il tasso di risposta obiettiva (ORR) e il tasso del beneficio clinico (BCR) risultano rispettivamente del 13% e dell’82% su 23 pazienti della popolazione totale in studio valutabili in un dato momento durante il follow-up. 4 pazienti (17%) invece sono andati incontro a progressione di malattia, tutti appartenenti alla coorte 2.

L’evento avverso più frequente nella popolazione totale in studio è stato la neutropenia (84,5%); nel 63% dei casi si trattava di una neutropenia di grado elevato (rispettivamente nel 64% dei pazienti della coorte 1 e nel 62,5% dei soggetti della coorte 2), analogamente a quanto riportato in letteratura. Altri eventi avversi comuni sono stati la piastrinopenia (37% di ogni grado), l’anemia (32%) e la fatigue (53%). La nausea (13%) e la diarrea (13%) si sono presentati soltanto in una piccola quota di pazienti e di basso grado, a differenza degli studi clinici dove questi eventi avversi erano più rappresentati. Tuttavia nessuno ha sviluppato una neutropenia febbrile e solamente una paziente è andata incontro ad un evento avverso grave, quale la trombosi della vena cava.

Dalla valutazione dello stato mutazionale di KRAS tramite il DNA circolante tumorale su questi campioni di sangue periferico è emerso che 18 pazienti (60%) in totale presentavano la mutazione di KRAS, 13 pazienti (43%) già al prelievo basale, mentre gli altri 5 hanno sviluppato la mutazione di KRAS al secondo prelievo.

Correlando questi risultati con la migliore risposta clinica presentata dai pazienti, è stato dimostrato che nei pazienti con risposta parziale o stabilità di malattia KRAS era wild-type (mediana di 0 copie/ml), mentre nei 4 pazienti in progressione KRAS era mutato con una mediana di 45 copie/ml.

Inoltre lo stato mutazionale di KRAS è stato messo in relazione con il burden tumorale, in particolare con il numero dei siti metastatici in questi pazienti, ed è stato visto che nei pazienti con un solo sito metastatico KRAS era wild-type, mentre all’aumentare del numero dei siti di malattia, KRAS mutava con un numero di x copie/ml e 70 copie/ml rispettivamente per 2 e 4 siti metastatici.

In conclusione, i risultati clinici ottenuti confermano l’attività e la tollerabilità del Palbociclib anche in questo setting real-life di trattamento su una popolazione non

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selezionata. Inoltre la valutazione dello stato mutazionale di KRAS come possibile biomarcatore predittivo di risposta al trattamento ha fornito uno spunto interessante per continuare la ricerca in questo senso, anche grazie ad un approccio innovativo, basato sull’analisi del DNA tumorale circolante.

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1. INTRODUZIONE

1.1 Epidemiologia del tumore della mammella

Il tumore della mammella è una delle neoplasie più comuni nei paesi industrializzati, occupando il primo posto per incidenza nel sesso femminile (30% di nuove diagnosi all’anno), e il secondo posto per quando riguarda la mortalità con il 14%, dopo il tumore del polmone (25%). 1

Figura 1. I dieci principali tipi di cancro distinti per nuovi casi annui e mortalità stimata, divisi per sesso negli Stati Uniti nel 2015.

Se si escludono i carcinomi cutanei, il tumore della mammella è la neoplasia più diagnosticata nelle donne, indipendentemente dalla fascia di età: 41% nella fascia d’età 0-49 anni, 35% tra 50-69 anni e 22% nella fascia d’età oltre i 70 anni2.

La malattia mostra una notevole variabilità geografica con tassi più alti nei paesi economicamente sviluppati come USA e Nord Europa (96 per 100.000) e più bassi in Asia, Africa e America del Sud (27 per 100.000)3, tranne in Giappone dove i tassi di incidenza sono in aumento.4

(9)

Figura 2. Incidenza stimata del tumore della mammella in tutto il mondo nel 2012.

In particolare i soggetti provenienti da paesi a basso rischio che migrano in paesi ad alto rischio sviluppano tassi di incidenza simili a quelli del nuovo paese. Uno studio sui migranti provenienti dall’Asia e trasferitisi negli USA ha dimostrato che l’aumento del tasso di incidenza del tumore al seno è visto per la prima volta dopo 10 anni e che l’aumento massimo si ha dopo due generazioni5

.

Per quanto riguarda la mortalità, l’ISTAT ha stabilito che ci sono stati 11.939 decessi per il tumore mammario nel 2013 andando a costituire la prima causa di morte per tumore nelle donne in Italia. 2

Dalla fine degli anni Novanta si sta osservando una lieve ma continua tendenza alla diminuzione della mortalità (-1,3% annuo), probabilmente conseguente alla diffusione dei programmi di screening, che consentono una diagnosi precoce e quindi un tempestivo trattamento, ma anche ai miglioramenti terapeutici. 2

Attualmente la sopravvivenza a 5 anni, indipendentemente da altre comorbidità, è in costante aumento, raggiungendo l’87%. 2

1.2 Fattori di rischio e Screening

I principali fattori di rischio per il carcinoma della mammella sono:

- L’età: il rischio di sviluppare un tumore mammario aumenta all’aumentare dell’età, con una probabilità massima del 5,4% nella fascia d’età 50-69 anni (1 donna su 18).

Questa correlazione con l’età potrebbe essere legata al continuo e progressivo stimolo proliferativo endocrino che subisce l’epitelio mammario nel corso degli anni, unito al progressivo danneggiamento del DNA e all’accumularsi di alterazioni epigenetiche, con conseguente alterazione dell’equilibrio di espressione tra oncogeni e geni soppressori. 2

L’incidenza cresce esponenzialmente nel periodo fertile della donna fino all’età media della menopausa, circa 50 anni, per poi continuare ad aumentare ma con

(10)

Questo specifico andamento è legato sia alla storia endocrinologica della donna sia alla presenza e alla copertura dei programmi di screening mammografico. 2 - I fattori riproduttivi: il menarca precoce e la menopausa tardiva sono correlati ad

un aumento del rischio di sviluppare carcinoma mammario, in quanto espongono l’epitelio della ghiandola mammaria agli stimoli proliferativi per un periodo più lungo2: in particolare per ogni anno di ritardo del menarca, il rischio diminuisce di circa il 5% 6, mentre il rischio aumenta del 3% ogni anno di ritardo della menopausa 4.

- La gravidanza sembra avere un duplice effetto sul rischio di tumore della mammella: nel periodo immediatamente successivo al parto il rischio è maggiore, ma in seguito questo rischio eccessivo tende a diminuire fino a raggiungere a lungo termine un effetto protettivo contro la malattia7.

Le donne che hanno portato a termine almeno una gravidanza hanno una riduzione del rischio di cancro al seno di circa il 25%, e inoltre la protezione sale all’aumentare del numero di gravidanze a cui la donna va incontro8,9

.

È soprattutto l’età della donna alla prima gravidanza che influisce sul rischio di cancro al seno in maniera maggiore rispetto al numero di gravidanze: la protezione è tanto maggiore quanto minore è l’età alla prima gravidanza10

. Da una meta-analisi effettuata nei paesi nordici è emerso che il rischio di cancro al seno è minore del 30% nelle donne che hanno avuto la prima gravidanza al di sotto dei 20 anni rispetto alle donne con una gravidanza a un’età superiore ai 35 anni9.

- L’allattamento al seno ha ancora un ruolo controverso sul rischio di tumore della mammella; tuttavia studi in paesi meno sviluppati, dove la durata totale dell’allattamento è maggiore, hanno dimostrato un sostanziale effetto protettivo11. Uno studio americano ha esaminato la relazione tra allattamento al seno e tumore della mammella su 4500 donne e ha rilevato che le donne che avevano allattato per 25 mesi o più avevano un rischio inferiore al 33% rispetto alle donne che non avevano mai allattato8.

Inoltre questo effetto protettivo dell’allattamento al seno è maggiore nelle donne più giovani rispetto a quelle più anziane10.

- La terapia ormonale sostitutiva (HRT, Hormone Replacement Therapy) in menopausa è associata ad un aumento del rischio di cancro al seno.

Ad oggi sono in corso numerosi studi circa il ruolo della HRT non sempre concordi tra di loro: secondo alcuni autori il rischio aumenta in relazione alla durata della terapia per poi diminuire alla sua cessazione12, mentre secondo altri, la durata della terapia non sembra influire sul rischio di cancro al seno.

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Sicuramente l’aggiunta del progestinico ai preparati contenenti solo estrogeni (terapia combinata estro – progestinica) si associa ad un aumento del rischio di sviluppare cancro al seno13.

- Il rischio apportato dai contraccettivi orali estroprogestinici è tutt’ora in discussione, secondo alcuni autori il rischio aumenterebbe del 25% durante l’utilizzo del contraccettivo per poi ridursi alla sospensione fino ad annullarsi dopo 10 anni dall’interruzione4

.

Ma poiché il cancro al seno in giovane età è molto raro mentre l’uso di contraccettivi orali è comune in questi soggetti, è stato visto che non vi è un aumento significativo del numero di casi; mentre più tardivo è l’uso di contraccettivi orali, maggiore è il rischio di sviluppare il tumore della mammella4.

- La dieta sta assumendo sempre più importanza nel tumore della mammella come anche il consumo di alcol e l’obesità.

Per quanto riguarda la relazione dieta-cancro i risultati degli studi effettuati fino ad oggi sono inconcludenti, tuttavia si può osservare che i tassi di neoplasia sono maggiori nei paesi con una dieta ad alto contenuto di grassi rispetto ai paesi meno sviluppati e al Giappone, dove l’assunzione di grassi è molto più bassa, questo ha portato all’ipotesi che le diete ad alto contenuto di grassi aumentino il rischio di cancro al seno4.

Studi più recenti hanno analizzato altri possibili fattori dietetici di rischio ed è emerso che potrebbe esserci un effetto protettivo nei soggetti con dieta ad alto consumo di verdure14, ma questi dati richiedono ulteriori conferme.

Molto più interessante lo studio secondo cui i fitoestrogeni, contenuti nella soia e in altri alimenti, sarebbero in grado di bloccare gli effetti degli estrogeni endogeni, riducendo il rischio di tumore della mammella15.

Per quanto riguarda invece l’assunzione di alcol la letteratura conferma l’aumento del rischio di malattia. In particolare il rischio aumenta del 10% ogni 10g di alcol al giorno16.

Anche l’obesità è un fattore di rischio riconosciuto, probabilmente legato al fatto che l’eccesso di tessuto adiposo in post-menopausa rappresenta la principale fonte di sintesi di estrogeni circolanti, con conseguente eccessivo stimolo ormonale sulla ghiandola mammaria2.

Il rischio è del 50% più alto nelle donne obese (BMI>30) rispetto alle donne magre.

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- Una moderata attività fisica è associata ad un minore rischio di cancro al seno, in particolare vi è una riduzione del rischio del 30% nei soggetti che effettuano poche ore di esercizio fisico alla settimana rispetto a chi non ne effettua nessuna4.

- La familiarità nel cancro della mammella può essere ricondotta sia ai geni condivisi, sia agli ambienti e agli stili di vita: il rischio relativo di sviluppare il carcinoma mammario aumenta di circa due volte se sono presenti parenti di primo grado affetti (madri, sorelle, figli)17, mentre per quanto riguarda i parenti di secondo grado (nonne, zie e nipoti) il rischio è minore.

Tuttavia la maggior parte delle donne non ha un’anamnesi familiare positiva: solo il 13% delle donne con carcinoma della mammella ha un parente di primo grado affetto e solo l’1% due o più parenti affetti18

.

- La predisposizione genetica: anche se la maggior parte dei tumori della mammella è rappresentata da forme sporadiche, il 5-7% è dovuto a fattori ereditari, ¼ dei quali determinato dalle mutazioni di due geni: BRCA-1 e BRCA-22.

Nelle donne portatrici di mutazioni del gene BRCA-1 il rischio di ammalarsi nel corso della vita di carcinoma mammario è pari al 65%, insieme ad un aumento del rischio di neoplasia dell’ovaio, mentre nelle donne con mutazioni del gene BRCA-2 è pari al 40%19.

Altre mutazioni genetiche individuate sono la mutazione germinale di p53, responsabile della sindrome di Li Fraumeni, e la mutazione del gene PTEN, che causa la sindrome di Cowden4.

- L’esposizione del torace alle radiazioni ionizzanti aumenta la frequenza di carcinomi mammari in quanto il tessuto mammario è uno dei più sensibili agli effetti delle radiazioni. In particolare il rischio è maggiore in relazione alla giovane età (prima dei 30 anni) e all’aumento della dose di radiazione. Comunque lo sviluppo della neoplasia avviene da 10 a 30 anni dopo l’esposizione18

.

- Precedenti displasie e neoplasie mammarie sembrerebbero aumentare il rischio di sviluppare una neoplasia della mammella per il concetto della “cancerizzazione a campo” (field cancerogenesis).

Lo screening è una attività diagnostica organizzata e periodica rivolta a donne asintomatiche al fine di effettuare una diagnosi di carcinoma mammario in stadio precoce e di offrire trattamenti adeguati con l’obiettivo di ridurre la mortalità da carcinoma mammario2.



(13)

In Italia lo screening del carcinoma della mammella rientra nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) e si basa su una Rx-mammografia bilaterale:

- Nelle donne in fascia d’età 50-69 anni, si effettua con una cadenza biennale; - Nelle donne in fascia d’età 40-49 anni, la cadenza della mammografia va

personalizzata sul singolo individuo sulla base dei fattori di rischio, quali la storia familiare e la densità del tessuto mammario.

La Rx-mammografia utilizzata come test di screening ha dimostrato infatti di ridurre il rischio relativo di mortalità da carcinoma mammario nella maggior parte degli studi randomizzati; una meta-analisi inglese ha evidenziato che lo screening mammografico determina una riduzione relativa della mortalità per carcinoma mammario del 20%20. La riduzione relativa di mortalità per carcinoma mammario è però diversa nelle varie fasce d’età ed è pari al 14% per le donne di età 50-59 anni e al 32% per quelle di età 60-69, riflettendo l’aumentata sensibilità della mammografia all’aumentare dell’età in relazione ad una riduzione della densità mammaria21.

Negli ultimi anni però si è aperto un dibattito internazionale tra sostenitori e oppositori dello screening mammografico: secondo questi ultimi il beneficio dello screening si è molto ridotto in termini di impatto sulla mortalità in seguito all’ampia applicazione delle terapie sistemiche adiuvanti (ormonoterapia e chemioterapia)22,23 e inoltre lo screening mammografico determina un eccesso di sovra-diagnosi di carcinomi in situ e invasi che non sarebbero stati evidenziati nel corso della vita delle donne in assenza di screening, quindi di falsi positivi e di accertamenti inutili.

Quindi in conclusione mentre vi è un generale accordo circa l’utilità di eseguire lo screening mammografico nella fascia d’età 50-69 anni, rimane aperto il dibattito relativo alle altre fasce d’età (in particolare 40-49 ma anche >70 anni) e la cadenza ottimale.

1.3 Classificazione dei tumori della Mammella

1.3.1 Classificazione istologica dei Carcinomi della Mammella secondo la WHO 2012

I tumori della mammella si dividono in:  Carcinoma in situ

- Duttale - Lobulare

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 Carcinoma invasivo o Non-special Type (NST) o Special Type: - Lobulare - Tubulare - Cribriforme - Midollare - Mucinoso

- Con cellule ad anello con castone - Neuroendocrino - Papillare - Micropapillare - Metaplastico - Apocrino - Ricco di lipidi

- A cellule chiare, ricco di glicogeno - Oncocitico - Adenoideo-cistico - Sebaceo - A cellule aciniche - Mucoepidermoide - Polimorfo

1.3.2 Classificazione clinica dei Carcinomi della Mammella secondo il TNM

L’estensione della malattia viene descritta con la classificazione TNM che tiene conto di tre diversi parametri:

o T: dimensioni del tumore primitivo o N: numero di linfonodi interessati o M: metastasi

TNM Clinico (cTNM) Tumore primitivo (T):


 Tx: tumore primitivo non definibile  T0: non evidenza del tumore primitivo  Tis: carcinoma in situ:

- Tis (DCIS): Carcinoma duttale in situ
 - Tis (LCIS): Carcinoma lobulare in situ


(15)

- Tis (Paget): Malattia di Paget del capezzolo non associata con carcinoma invasivo e/o in situ nel parenchima mammario sottostante

 T1: tumore della dimensione massima fino a 2 cm:

- T1mi: microinvasione della dimensione massima di 0,1 cm - T1a: tumore dalla dimensione compresa tra 0,1 cm e 0,5 cm - T1b: tumore dalla dimensione compresa tra 0,6 cm e 1,0 cm - T1c: tumore dalla dimensione compresa tra 1,1 cm e 2,0 cm

 T2: tumore superiore a 2,0 cm ma non superiore a 5,0 cm nella dimensione massima


 T3: tumore superiore a 5,0 cm nella dimensione massima


 T4: tumore di qualsiasi dimensione con estensione diretta alla parete toracica e/o alla cute (ulcerazione o noduli cutanei):

- T4a: estensione alla parete toracica (esclusa la sola aderenza/invasione del muscolo pettorale)


- T4b: Ulcerazione della cute e/o noduli cutanei satelliti ipsilaterali e/o edema della cute (inclusa cute a buccia d’arancia) che non presenta i criteri per definire il carcinoma infiammatorio


- T4c: presenza contemporanea delle caratteristiche di T4a e T4b
 - T4d: carcinoma infiammatorio

Linfonodi regionali (N):


 Nx: linfonodi regionali non valutabili (ad esempio, se precedentemente asportati)


 N0: linfonodi regionali liberi da metastasi


 N1: metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali mobili (livello I-II)


 N2: metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali (livello I-II) che sono clinicamente fissi o fissi tra di loro; o in linfonodi mammari interni omolaterali clinicamente rilevabili in assenza di metastasi clinicamente evidenti nei linfonodi ascellari

- N2a: metastasi nei linfonodi ascellari omolaterali (livello I-II) fissi tra di loro o ad altre strutture

- N2b: metastasi solamente nei linfonodi mammari interni omolterali clinicamente rilevabilie in assenza di metastasi clinicamente evidenti nei linfonodi ascellari (livello I-II)

 N3: metastasi in uno o più linfonodi sottoclaveari omolaterali (livello III ascellare) con o senza coinvolgimento di linfonodi ascellari del livello I, II; o nei linfonodi mammari interni omolaterali clinicamente rilevabili in presenza di metastasi nei linfonodi ascellari livello I-II clinicamente evidenti; o metastasi in

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linfonodi ascellari o mammari interni:

- N3a: metastasi nei linfonodi sottoclaveari omolaterali - N3b: metastasi nei linfonodi mammari interni e ascellari - N3c: metastasi nei linfonodi sovraclaveari

Metastasi a distanza (M):


 Mx: metastasi a distanza non accertabili


 M0: non evidenza clinica o radiologica di metastasi a distanza

- cM0(i+): non evidenza clinica o radiologica di metastasi a distanza, ma depositi di cellule tumorali evidenziati mediante biologia molecolare o microscopicamente nel sangue, midollo osseo o in altri tessuti diversi dai linfonodi regionali, di dimensioni non superiori a 0,2 mm in una paziente senza segni o sintomi di metastasi

 M1: metastasi a distanza evidenziate mediante classici esami clinico e radiologico e/o istologicamente dimostrate di dimensioni superiori a 0,2 mm.

TNM patologico (pTNM) pT: Tumore primitivo


La classificazione patologica del tumore primitivo corrisponde a quella clinica.

pN: Linfonodi regionali

 pNx: i linfonodi regionali non possono essere definiti (ad esempio: non sono stati prelevati o sono stati rimossi in precedenza)


 pN0: non metastasi nei linfonodi regionali identificate istologicamente (aggiungere (sn) se la classificazione e’ basata sul linfonodo sentinella senza la dissezione ascellare)


Nota: si definiscono cellule tumorali isolate (isolated tumor cell= ITC) piccoli aggregati di cellule non più grandi di 0,2 mm o singole cellule tumorali o un piccolo raggruppamento di cellule con meno di 200 cellule in una singola sezione istologica. Le cellule tumorali isolate possono esssere evidenziate con i metodi istologici tradizionali o con metodi immunoistochimici. I linfonodi contenenti solo cellule tumorale isolate sono esclusi dalla conta totale dei linfonodi positivi ai fini della classificazione N, ma dovrebbero essere inclusi nel numero totale dei linfonodi esaminati.

- pN0 (i-): non metastasi nei linfonodi regionali all’istologia (con colorazione standard ematossilina eosina), negativo il metodo immunoistochimico


(17)

- pN0 (i+): presenza di cellule maligne (ITC) nei linfonodi regionali non superiori a 0,2 mm (evidenziate con ematossilina –eosina o con l’immunoistochimica)

- pN0 (mol-): non metastasi nei linfonodi regionali istologicamente accertate, RT- PCR (real time- polymerase chain reaction) negativa
 - pN0 (mol+): RT-PCR positiva ma non metastasi nei linfonodi regionali

all’istologia o all’immunoistochimica

 pN1: micrometastasi; o metastasi in 1-3 linfonodi ascellari omolaterali; e/o metastasi nei linfonodi mammari interni omolaterali rilevate con biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili

- pN1mi: micrometastasi (di dimensioni superiori a 0,2 mm e/o più di 200 cellule, ma non più grandi di 2 mm)


- pN1a: metastasi in 1-3 linfonodi ascellari, includendo almeno una metastasi delle dimensioni massime superiori a 2 mm

- pN1b: metastasi nei linfonodi mammari interni con metastasi microscopiche o macroscopiche rilevate con la biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili

- pN1c: metastasi in 1-3 linfonodi ascellari e nei linfonodi mammari interni con metastasi microscopiche o macroscopiche rilevata con la biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili

 pN2: metastasi in 4-9 linfonodi ascellari omolaterali; o in linfonodi mammari interni omolaterali clinicamente rilevabili in assenza di metastasi nei linfonodi ascellari

- pN2a: metastasi in 4-9 linfonodi ascellari, includendo almeno una localizzazione tumorale delle dimensioni massime superiori a 2 mm
 - pN2b: metastasi clinicamente rilevabilinei linfonodi mammari interni in

assenza di metastasi nei linfonodi ascellari

 pN3: metastasi in 10 o più linfonodi ascellari omolaterali; o in linfonodi sottoclavicolari (livello III ascellare) omolaterali; o metastasi clinicamente rilevabili nei linfonodi mammari interni omolaterali in presenza di metastasi in uno o più linfonodi ascellari positivi livello I-II; o metastasi in più di 3 linfonodi ascellari e nei linfonodi mammari interni con metastasi microscopiche o macroscopiche evidenziate con biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili; o metastasi nei linfonodi sovraclaveari omolaterali

- pN3a: metastasi in 10 o più linfonodi ascellari omolaterali (almeno uno delle dimensioni massime superiori a 2 mm); o metastasi nei linfonodi sottoclavicolari (linfonodi ascellari III livello)


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omolaterali in presenza di metastasi in uno o più linfonodi ascellari positivi; o metastasi in più di tre linfonodi ascellari e nei linfonodi mammari interni con metastasi microscopiche o macroscopiche rilevate attraverso biopsia del linfonodo sentinella ma non clinicamente rilevabili;

- pN3c: metastasi nei linfonodi sovraclaveari omolaterali

La stadiazione del carcinoma della mammella secondo le linee guida AJCC (American Joint Committee on Cancer)

Stadio 0 Tis N0 M0 Stadio IA T1 N0 M0 Stadio IB T0 N1mi M0 T1 N1mi M0 Stadio IIA T0 N1 M0 T1 N1 M0 T2 N0 M0 Stadio IIB T2 N1 M0 T3 N0 M0 Stadio IIIA T0 N2 M0 T1 N2 M0 T2 N2 M0 T3 N1 M0 T3 N1 M0 T2 N2 M0 Stadio IIIB T4 N0 M0 T4 N1 M0 T4 N2 M0

Stadio IIIC Ogni T N3 M0

(19)

1.3.3 Classificazione Molecolare del Carcinoma della Mammella

Il carcinoma della mammella è una malattia eterogenea e pazienti con tumori apparentemente simili per caratteristiche clinico-patologiche possono presentare un decorso clinico diverso.

Grazie alle indagini di biologia molecolare sono stati individuati quattro sottotipi di carcinomi invasivi24:

- Luminali A: neoplasie con espressione dei recettori ormonali, a prognosi favorevole;

- Luminali B: neoplasie che, pur esprimendo i recettori ormonali, hanno un rischio di recidiva elevato a causa dell’elevato indice proliferativo;

- HER2: presenza di espressione di HER2;

- Basal-like: neoplasie caratterizzate dall’assenza di espressione dei recettori ormonali e di HER2 e da un’aumentata espressione di citocheratine basali (CK5/6 e CK 17)

Nella pratica clinica si effettua la valutazione immunoistochimica dello stato dei recettori ormonali, del Ki67 e di HER2, permettendo così di identificare i 4 sottogruppi fenotipici di carcinoma mammario che presentano una relativa corrispondenza con i 4 derivati dai profili di espressione genica.

I gruppi immunofenotipici di rilevanza clinica e con implicazioni terapeutiche importanti sono:

 Luminali A: recettori ormonali positivi, HER2 negativo e bassa attività proliferativa (KI67 <20%);

 Luminali B/HER2 negativi: recettori ormonali positivi, Her2 negativo ed alta attività proliferativa;

 Luminali B/HER2 positivi: recettori ormonali positivi, HER2 sovraespresso (score 3+) o amplificato e qualsiasi valore di attività proliferativa.

 HER2 positivi (non luminali): HER2 sovraespresso o amplificato ed entrambi i recettori ormonali negativi.

 Triplo-negativo: assenza di espressione dei recettori ormonali e negatività di HER2.

Analisi retrospettive hanno associato i quattro sottotipi a differenze in sopravvivenza libera da malattia, sedi di ripresa di malattia e sopravvivenza globale.

Per definire con maggiore precisione la prognosi e selezionare il miglior trattamento per la singola paziente si stanno studiando profili genetici con un numero più limitato di geni ed alcuni di questi test sono già in uso in alcuni Paesi, come il Mammaprint, l’Oncotype DX e il Breast Cancer Index.

(20)

2. PRINCIPI ED OBIETTIVI DEL TRATTAMENTO

DELLA MALATTIA METASTATICA (stadio IV)

Solo il 7% circa dei tumori della mammella si presenta all’esordio come malattia metastatica, nella maggior parte dei casi essa viene diagnosticata in pazienti con pregressa storia di neoplasia mammaria già trattata in fase neo/adiuvante (circa il 30% delle pazienti N- ed il 70% di quelle N+ presenta a 10 anni una ripresa di malattia). Il rischio di recidiva nel tempo è differente in base al sottotipo biologico, che si associa anche ad una diversa preferenza per la sede di recidiva: maggior rischio di metastasi ossea nelle neoplasie ormonosensibili e maggior rischio di recidiva cerebrale nei tumori basal-like/triplo negativi e nei tumori HER2 positivi25.

Per definire i possibili obbiettivi del trattamento della malattia metastatica e per la scelta del trattamento sistemico, devono essere considerate le caratteristiche cliniche e biologiche della malattia (stato di ER, PgR, HER2 e Ki67), unitamente allo stato e alle preferenze della paziente.

Le caratteristiche cliniche utilizzate sono: estensione della malattia (burden tumorale), sedi di malattia, intervallo libero da malattia, precedenti trattamenti, comorbidità e

Performance Status.

In base alle caratteristiche cliniche la malattia metastatica può essere suddivisa in situazioni a rischio basso di mortalità a breve termine (malattia indolente) ed a rischio intermedio/alto (malattia aggressiva).

Nella malattia indolente tutte le caratteristiche sottoelencate devono essere presenti: - Lungo intervallo libero di malattia (> 24 mesi dal termine della terapia

adiuvante);

- Metastasi ossee e/o ai tessuti molli; 


- Numero limitato di lesioni metastatiche (come metastasi polmonari di piccolo volume e di numero limitato o interessamento epatico limitato e comunque inferiore al 30%).

Nella definizione di malattia aggressiva è sufficiente una delle seguenti caratteristiche: - Crisi viscerale;

- Presenza di elevato numero di metastasi in organi multipli; 
 - Compromissione funzionale d’organo;

- Breve intervallo libero di malattia (comparsa di metastasi durante la terapia adiuvante, o entro 12 mesi dal termine). 


Il termine crisi viscerale identifica uno stato di disfunzione severa di un organo (definito sulla base di indagini di laboratorio e dei sintomi clinici) a rapida evoluzione ed a rischio di morte imminente, tale da richiedere una terapia ad effetto rapido.

(21)

Condizioni tipiche sono rappresentate dalla linfangite polmonare diffusa, dall’insufficienza epatica o respiratoria, e dalla meningiosi neoplastica.

Gli obiettivi generali del trattamento della malattia metastatica sono rappresentati da: - Prolungare la sopravvivenza;

- Ridurre o ritardare la comparsa dei sintomi; - Migliorare la qualità della vita;

- Ottenere la guarigione (in casi selezionati).

È importante comunque ricordare che nella maggior parte dei casi il trattamento della malattia metastatica è considerato un trattamento palliativo, mentre in un numero limitato di pazienti (2-3%) è possibile ottenere lunghe sopravvivenze.

La scelta della terapia sistemica verrà effettuata sulla base delle caratteristiche precedentemente elencate e in particolare sulla base dello stato dei due fattori predittivi validati, cioè lo stato recettoriale ormonale e l’aumentata espressione di HER2.

Nelle pazienti con tumori ormonosensibili e HER2 negativi, in assenza di crisi viscerale o di significativa compromissione funzionale d’organo, l’ormonoterapia deve essere considerata la prima opzione di trattamento.

La terapia ormonale è infatti in grado di fornire sopravvivenze simili a quelle della chemioterapia, con un minor numero di effetti collaterali e con una migliore qualità di vita.

Il trattamento ormonale dovrebbe essere proseguito anche con linee di terapia successive fino a quando la malattia diventa ormonoresistente.

Purtroppo non esiste una definizione condivisa dello stato di ormonosensibilità e di ormonoresistenza, ma secondo studi clinici randomizzati e secondo le linee guida AIOM 2016 è possibile suddividere i carcinomi mammari in tumori con:

 Ormonoresistenza primaria (o de novo): ripresa entro i primi due anni dall’inizio di terapia ormonale adiuvante; nel caso di malattia metastatica, progressione alla terapia ormonale entro 6 mesi dall’inizio del trattamento;
  Ormonoresistenza secondaria (o acquisita, dopo un periodo di

ormonosensibilità): ripresa durante la terapia ormonale adiuvante ma dopo due anni dall’inizio oppure entro 1 anno dal termine di una terapia adiuvante ormonale; oppure, nel caso di malattia metastatica, progressione dopo almeno 6 mesi di terapia ormonale.

Il concetto di resistenza e di sensibilità ha un significato principalmente predittivo per stimare la probabilità di risposta alla terapia ormonale.

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Recentemente è stato evidenziato che la comparsa di mutazioni del gene ESR1 si associa ad una ridotta attività dei farmaci ormonali, e che questo fenomeno aumenta progressivamente con la durata di esposizione e con le linee di terapia. La ricerca di mutazioni di ESR1 è stata effettuata sia su tessuto proveniente dalle metastasi che su DNA circolante, ma non vi sono al momento certezze sul suo valore clinico2.

Nelle pazienti con tumore HER2+/HR+ sia in pre che in post-menopausa, ed anche in quelle con HR-, la terapia di prima scelta, qualora si ritenga indicata, è la combinazione di agenti anti-HER2 con la chemioterapia: in prima linea Docetaxel più Trastuzumab e Pertuzumab, a progressione il TDM1 e infine in terza linea possiamo sfruttare sia Lapatinib più Capecitabina, sia il Trastuzumab con la chemioterapia, e il TDM1.

Nelle pazienti invece con tumore HER2+/HR+ in post-menopausa qualora non si ritenga indicata la chemioterapia possiamo considerare la combinazione di agenti anti-HER2 (Trastuzumab o Lapatinib) con gli inibitori dell’aromatasi.

Infine nelle pazienti con tumori senza espressione di HER2 e di recettori ormonali, la chemioterapia appare al momento l’unica opzione di trattamento, eventualmente in associazione a farmaci anti-angiogenici.

(23)

3. IL TRATTAMENTO ORMONALE NEL TUMORE

DELLA MAMMELLA METASTATICO HR+/HER2-

Nella malattia metastatica con recettori ormonali positivi ed HER2 negativo è indicata una terapia sistemica con l’ormonoterapia, la cui scelta si basa soprattutto sullo stato menopausale della paziente e sulla stima della sensibilità/resistenza ormonale.

L’ormonoterapia costituisce un tipo di trattamento in grado di modulare o interrompere il processo di produzione degli estrogeni o la loro funzione oppure di inibire il recettore degli estrogeni sulle cellule tumorali. Nelle donne in premenopausa la produzione di estrogeni è sostenuta soprattutto dai follicoli ovarici sotto il controllo degli ormoni LH e FSH a loro volta controllati dall’ormone LHRH prodotto dall’ipotalamo. Nelle donne in post-menopausa invece la produzione di estrogeni dipende dall’aromatizzazione periferica che avviene nel fegato, nelle ghiandole surrenali e nel tessuto adiposo.

L’estrogeno esercita il suo effetto tramite il legame con il recettore degli estrogeni che a sua volta regola direttamente la trascrizione di geni bersaglio.

La terapia ormonale è finalizzata a modulare ed interrompere questo processo bloccando la produzione ipofisaria di LH/FSH (analoghi di LHRH), bloccando il recettore degli estrogeni (Tamoxifene), degradando sempre il recettore degli estrogeni (Fulvestrant) oppure inibendo la produzione periferica di estrogeni (inibitori dell’aromatasi). Data la loro modalità d’azione lo stato di menopausa è appunto importante per determinare le possibili opzioni di trattamento endocrino che possono essere utilizzate.

3.1 Tamoxifene e LHRH-analogo

Le donne con tumore della mammella metastatico ER+ e/o PgR + in premenopausa sono candidate alla terapia ormonale con Tamoxifene ma in combinazione con LHRH-analogo.

Infatti in passato uno dei trattamenti di scelta in questa categoria di pazienti era l’ovariectomia (castrazione chirurgica); negli ultimi anni questa procedura è stata sostituita dagli LHRH-analoghi, che insieme al Tamoxifene, sono in grado di determinare un “blocco totale estrogenico” con risultati comparabili alla procedura chirurgica.

Questa associazione è stata valutata in uno studio clinico multicentrico e randomizzato che ha coinvolto 318 pazienti affette da carcinoma mammario avanzato; con un follow-up mediano di 93 settimane, il 31% dei pazienti trattati con LHRH-analogo presentava risposte oggettive rispetto al 38% dei pazienti trattati con LHRH-analogo e Tamoxifene. La PFS e l’OS sono stati rispettivamente di 23 e 127 settimane nel gruppo

(24)

LHRH-Inoltre nel sottogruppo di pazienti con solo metastasi scheletriche sono state osservate differenze significative a favore della terapia combinata per quanto riguarda la PFS e l’OS26

.

In un altro studio prospettico randomizzato a tre bracci, 161 pazienti con tumore della mammella avanzato in premenopausa, sono state assegnate in modo casuale al trattamento con LHRH-analogo, Tamoxifene o entrambi. È stato osservato che il trattamento combinato con LHRH-analogo era superiore al trattamento con Tamoxifene o LHRH-analogo da solo per risposta obiettiva, PFS e OS; le percentuali di OS sono state rispettivamente del 34,2% (intervallo di confidenza 95% (CI): 20,4% - 48,0%), 14,9% (95% CI: 3,9% - 25,9%) e 18,4% (95% CI: 7,0% - 29,8%). Non sono state osservate differenze negli effetti antitumorali tra i gruppi di trattamento con singolo agente. Quindi si è potuto concludere che il trattamento combinato LHRH-analogo e Tamoxifene era più efficace ed ha portato ad una sopravvivenza complessiva più lunga rispetto al trattamento con un solo farmaco27.

Successivamente è stata effettuata una meta-analisi28 che ha preso in considerazione 4 studi clinici per un totale di 506 donne in premenopausa con tumore della mammella avanzato; queste sono state randomizzate a ricevere LHRH-analogo da solo o il trattamento combinato LHRH-analogo più Tamoxifene. Con un follow-up mediano di 6,8 anni, è stato osservato un significativo vantaggio in sopravvivenza globale (OS) e in PFS a favore del trattamento combinato; anche il tasso di risposte obiettive (ORR) è stato significativamente più elevato nel trattamento endocrino combinato.

Quindi in conclusione, la terapia endocrina combinata LHRH-analogo più Tamoxifene è superiore al solo Tamoxifene nelle donne in premenopausa con tumore della mammella avanzato, per cui viene considerata come il nuovo trattamento standard in questa categoria.

3.2 Inibitori dell’aromatasi

Gli inibitori dell’aromatasi sono dei potenti e selettivi inibitori dell’attività dell’enzima aromatasi che rappresenta l’enzima necessario per l’ultima tappa nella biosintesi degli estrogeni. Ci sono due tipi di inibitori dell’aromatasi, steroidei e non steroidei, che interferiscono entrambi con la sintesi degli estrogeni, ma lo fanno con meccanismi diversi.

Gli agenti steroidei, come l’Exemestane, hanno una struttura androgenica e competono con il substrato naturale dell’aromatasi, l’Androstenedione; si legano irreversibilmente al sito catalitico dell’aromatasi, causando la perdita dell’attività enzimatica.

Gli agenti non steroidei invece reagiscono reversibilmente con il citocromo p450 dell’enzima e in questo caso l’interferenza con sintesi degli estrogeni dipende dalla presenza continua dell’inibitore dell’aromatasi.

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Gli inibitori dell’aromatasi di terza generazione (Anastrozolo, Letrozolo ed Exemestane) si sono dimostrati superiore al Tamoxifene nel trattamento del tumore della mammella metastatico HR+/HER2- e sono quindi considerati il trattamento di prima scelta nelle donne in post-menopausa con cancro mammario endocrino-naïve o precedentemente esposte al Tamoxifene.

In uno studio del 2001 Bonneterre et al29., hanno confrontato il Tamoxifene (20mg al giorno) con l’Anastrozolo (1mg al giorno) come terapia di prima linea per il carcinoma mammario avanzato in 1021 donne in post-menopausa. Dopo un follow-up medio di 18,2 mesi, l’Anastrozolo era quasi equivalente al Tamoxifene in termini di PFS (8,5 e 7 mesi rispettivamente); ma in un’analisi retrospettiva di un sottogruppo, l’Anastrozolo si è dimostrato superiore al Tamoxifene per quanto riguarda la PFS nei pazienti con tumore ER+ e/o PgR+ (10.7 mesi vs 6.4 mesi). In termini di risposta obiettiva, il 29% dei pazienti del gruppo Anastrozolo e il 27,1% del gruppo Tamoxifene hanno raggiungo una risposta completa (RC) o una risposta parziale (RP); il vantaggio clinico (RC + RP + stabilizzazione > o = a 24 mesi) era rispettivamente del 57% e del 52% per l’Anastrozolo e per il Tamoxifene.

Quindi è stato visto che nelle donne in post-menopausa con carcinoma mammario avanzato ormonosensibile, l’Anastrozolo dovrebbe essere considerato il trattamento standard di prima linea.

In un altro studio multicentrico di fase III invece è stata analizzata la sopravvivenza globale (OS) e sono stati aggiornati i dati sull’efficacia del Letrozolo rispetto al Tamoxifene in prima linea, in 916 donne in post-menopausa con carcinoma mammario avanzato.

La superiorità del Letrozolo rispetto al Tamoxifene è stata confermata sia per quanto riguarda la PFS (9,4 vs 6,0 mesi, rispettivamente), sia per il tasso di risposte obiettive (32% vs 21%, rispettivamente), sia per i benefici clinici complessivi. L’OS mediana è stata leggermente maggiore nel braccio Letrozolo (34 vs 30 mesi).

Da questo studio quindi si conferma la superiorità del Letrozolo sul Tamoxifene nella terapia ormonale di prima linea in donne in post-menopausa con tumore della mammella metastatico30.

Infine in uno studio clinico di fase III31 è stata valutata l’efficacia e la sicurezza dell’Exemestane rispetto all’antiestrogeno Tamoxifene come trattamento di prima linea per il cancro mammario metastatico nelle donne in post-menopausa.

Il tasso di risposta complessivo è stato maggiore nel gruppo Exemestane rispetto al gruppo Tamoxifene (46% contro 31%, HR = 1.85, 95% CI, 1.21-2.82, P = 0,005); la PFS è stata più lunga con l’Exemestane (9,9 mesi) rispetto al Tamoxifene (5,8 mesi). Tuttavia queste differenze iniziali non si sono tradotte in un beneficio a lungo termine in PFS, l’endpoint primario, e non c’era neanche differenza nella sopravvivenza globale

(26)

Quindi l’Exemestane è un trattamento ormonale efficace e ben tollerato in questa categoria di pazienti, che offre un significativo miglioramento precoce della PFS rispetto al Tamoxifene.

Inoltre alcuni studi32,33 hanno dimostrato un vantaggio nella combinazione AI e LHRH-analogo nelle donne in pre-menopausa con malattia metastatica, sia come trattamento di prima linea, sia anche come trattamento di seconda linea dopo il fallimento di Tamoxifene più LHRH-analogo.

Vari studi prospettici randomizzati hanno messo in evidenza che nessuno degli AI è migliore degli altri.

In uno studio con 128 donne con carcinoma mammario avanzato, l’exemestane e l’anastrozolo hanno portato a un tasso di risposte obiettive (ORR, 15% in entrambi i gruppi) e OS (rispettivamente 31 e 33 mesi)34 simile.

Sebbene dati farmacocinetici suggeriscono che il Letrozolo sia un inibitore dell’aromatasi più efficace, altri invece sostengono che una volta raggiunta una certa soglia di inibizione dell’aromatasi, le differenze nella soppressione degli estrogeni tra gli AI non sono associate a differenze clinicamente significative35.

Anche in seconda linea non esistono differenze di efficacia tra gli AI.

Ad esempio, in uno studio di fase III, 713 donne in progressione di malattia ad un precedente trattamento ormonale sono state randomizzate a ricevere Letrozolo o Anastrozolo; sebbene l’ORR fosse significativamente più elevato con Letrozolo (19 vs 12) non c’era alcuna differenza significativa nella PFS e nel OS.

La tecnica di passare da un AI ad un altro in caso di progressione ha fornito risultati contrastanti e di solito si sceglie o un’altra classe di agenti oppure una combinazione con un agente mirato. Ad esempio, la somministrazione di Exemestane in seconda linea dopo progressione con un AI non steroideo (Anastrozolo o Letrozolo) è stata valutata in una meta-analisi del 2011 su 9 studi; l’ORR variava dal 2 al 26 per cento con un beneficio clinico dal 12 al 55%.

In un più ampio studio prospettico che comparava Exemestane da solo con Exemestane più Everolimus, dopo una precedente terapia con AI non steroidea, il tasso di risposta e la PFS in coloro che avevano ricevuto il solo Exemestane era minore.

3.3 Fulvestrant

Il Fulvestrant è un antagonista competitivo del recettore degli estrogeni che presenta un’affinità di legame elevata con ER (l’89% di quella dell’estradiolo) ed è in grado di bloccare la dimerizzazione del recettore, inibendo così la sua localizzazione a livello nucleare36. Il complesso che si forma quando il Fulvestrant si lega all’ER è instabile, con conseguente degradazione accelerata della proteina ER37.

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Quindi il Fulvestrant agisce sia da antagonista competitivo che da degradatore selettivo del recettore degli estrogeni (SERD), causando una riduzione dei livelli cellulari di ER38, a differenza del Tamoxifene che agisce anche da agonista parziale di ER39.

Uno dei fattori limitanti nell’utilizzo del Fulvestrant è proprio la sua gestione, infatti presenta una scarsa solubilità e deve essere somministrato mediante un’iniezione intramuscolare.

La dose con cui è stato utilizzato inizialmente era di 250mg ogni 28 giorni ed una serie di studi randomizzati di fase III hanno confrontato il Fulvestrant a questa dose con altre terapie endocrine standard40.

Due studi paralleli effettuati su donne in post-menopausa con malattia avanzata che erano progredite dopo un trattamento endocrino in prima linea, hanno mostrato che il Fulvestrant, a una dose di 250mg ogni 4 settimane, era efficace come l’anastrozolo41,42

. Un altro studio ha confrontato il Fulvestrant con il Tamoxifene in pazienti che non avevano mai ricevuto precedenti terapie endocrine per malattia metastatica o una terapia endocrina adiuvante negli ultimi 12 mesi. Anche questo studio non ha evidenziato alcuna differenza significativa nella PFS (endpoint primario) nei due bracci dello studio (PFS mediana di 6,8 mesi per Fulvestrant e 8,3 mesi per Tamoxifene)43.

Altri due studi randomizzati hanno confrontato il Fulvestrant alla dose di 250mg ogni 4 settimane con l’inibitore dell’aromatasi steroideo l’Exemestane, o in mono-terapia o in combinazione con l’inibitore dell’aromatasi non steroideo, l’Anastrozolo.

Nello studio EFECT non si è verificata nessuna differenza in PFS tra Fulvestrant ed Exemestane, con una PFS mediana di 3,7 mesi in entrambi i bracci (HR 0.96; 95% CI 0.82–1.13; p = 0.65)44. È interessante notare che questo studio ha utilizzato una dose di carico di Fulvestrant 500mg al giorno 0 e successivamente 250mg somministrato nei giorni 14 e 28, prima di ripetere ogni 28 giorni.

Nello studio SoFEA di fase III è stato investigato il Fulvestrant in combinazione con l’Anastrozolo o il placebo contro il solo Exemestane, in donne in post-menopausa con malattia avanzata dopo progressione con gli inibitori dell’aromatasi non steroidei 45

. Ancora una volta non c’era una differenza significativa tra i tre bracci con una PFS rispettivamente di 4,4, 4,8 e 3,4 mesi, dimostrando che il trattamento endocrino doppio non è più efficace del solo Fulvestrant o del solo Exemestane.

Tuttavia ci sono stati molti dibattiti riguardo la dose migliore e lo schema di somministrazione ottimale del Fulvestrant.

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somministrazione, sulla base di studi in fase neo-adiuvante (NEWEST)46 ed avanzata (CONFIRM), che hanno mostrato una maggiore efficacia con le dosi più elevate.

In particolare nello studio di fase III randomizzato CONFIRM47, le pazienti metastatiche in post-menopausa che erano progredite durante o entro un anno dal termine di una terapia endocrina adiuvante o dopo una ormonoterapia di prima linea, sono state randomizzate a ricevere Fulvestrant alla dose standard (250mg nei giorni 1-14-28 e poi ogni 28) oppure Fulvestrant ad alta dose (500mg nei giorni 1-1-14-28 e poi ogni 28). Nel gruppo trattato con alte dosi di Fulvestrant è stato evidenziato un prolungamento significativo della PFS rispetto alle pazienti trattate con basse dosi (HR=0,80; 95% CI, 0,68-0,94; p=0,006), con un aumento della durata del beneficio clinico (16,6 mesi vs 13,9mesi).

Inoltre l’OS era significativamente migliore nel braccio Fulvestrant da 500mg, con un OS mediano di 26,4 mesi rispetto ai 22,3 mesi nel braccio da 250mg (HR 0.81; 95% CI 0.69–0.96; p = 0.02)48.

Quindi nell’insieme questi dati mostrano che la dose più elevata di Fulvestrant fornisce un miglioramento statisticamente definitivo sia in PFS che in OS senza un aumento della tossicità e quindi la dose più alta è stata adottata come standard.

Dopo aver stabilito una migliore dose standard per il Fulvestrant di 500mg, è stata allora confrontata ancora una volta con gli inibitori dell’aromatasi per vedere se questo miglioramento in PFS e OS rispetto alla dose più bassa poteva essere tradotto in un miglioramento rispetto agli inibitori dell’aromatasi, al contrario dell’equivalenza che era stata mostrata in precedenza con la dose di 250mg di Fulvestrant.

Nello studio di fase II randomizzato (FIRST)49, il Fulvestrant ad alta dose è stato confrontato all’Anastrozolo (1mg) in 205 pazienti in post-menopausa in prima linea metastatica, di cui il 75% non aveva ricevuto ormonoterapia adiuvante. Non sono state evidenziate differenze nell’endpoint primario cioè nel tasso di beneficio clinico (CBR), definito come la percentuale di pazienti che hanno una risposta oggettiva o una malattia stabile per 24 settimane o più (72.5% vs. 67%, rispettivamente), né nelle risposte obiettive (ORR) 36% vs. 35.5%, ma è stato osservato un prolungamento significativo della PFS mediana (23 vs 13 mesi, con una riduzione del rischio di progressione del 33%)50.

Inoltre è stata effettuata un’analisi complessiva di sopravvivenza che ha mostrato un OS di 54,1 mesi per il Fulvestrant e 48,4 mesi per Anastrozolo, con un incremento di 5,7 mesi (HR 0,70, 95% CI 0,5-0,98, p = 0,04)51.

Questi risultati sono stati poi alla base per lo studio FALCON52, condotto su una popolazione di 462 donne in menopausa che non avevano precedentemente ricevuto alcuna forma di terapia endocrina (adiuvante o metastatica).

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La PFS (endpoint primario) è risultata significativamente superiore da un punto di vista statistico nel gruppo Fulvestrant 500 vs Anastrozolo (16,6 mesi vs 13,8 mesi; HR=0,797, CI 95%, 0,637-0,999; p= 0,0486), tranne nel sottogruppo di pazienti con metastasi viscerali ove non è stato evidenziato alcun vantaggio in PFS con Fulvestrant 500; mentre il vantaggio è invece maggiore nel sottogruppo senza metastasi viscerali dove è stata riportata una PFS di 22,3 mesi con Fulvestrant 500 vs 13,8 mesi con Anastrozolo.

Il Fulvestrant è stato poi valutato in varie combinazioni con altri agenti endocrini o con nuovi agenti mirati.

Tre studi hanno esplorato combinazioni endocrine con risultati dubbi: infatti gli studi SoFEA45 e FACT53 non hanno mostrato alcun vantaggio mentre lo studio SWOG S022654 ha mostrato una PFS leggermente migliorata di 15 mesi con la combinazione Fulvestrant più Anastrozolo rispetto ai 13,5 mesi con il solo Anastrozolo (HR 0,8, 95% CI 0,68-0,94, p = 0,007).

Ma il Fulvestrant è stato combinato anche con diverse classi di agenti mirati, come gli inibitori CDK 4/6, farmaci che inibiscono la via PI3K / AKT / mTOR e gli inibitori dell’istone deacetilasi (HDAC).

L’efficacia di due differenti pan-inibitori di PI3K, Pictilisib e Buparlisib, è stata valutata in combinazione con il Fulvestrant in tre studi clinici randomizzati controllati con il placebo: la fase II dello studio FERGI che indaga il pictilisib55 e la fase III di BELLE-2 e BELLE-3 che studia il Buparlisib.

Il Buparlisib (BKM120) è stato impiegato in associazione a Fulvestrant in uno studio di fase III su 1147 pazienti in progressione durante o dopo un inibitore dell’aromatasi, comparandoli con il solo Fulvestrant 50056.

Nel 32% dei casi era stata documentata l’attivazione del pathway di PI3K (nel 42% non era risultato attivo e nel 25% dei casi lo stato era sconosciuto). Anche se nel 13% il trattamento è stato sospeso per tossicità, si è comunque osservato un miglioramento statisticamente significativo della PFS (da 5 a 6,9 mesi, HR 0,78), che è risultata quantitativamente maggiore (ma non significativa da un punto di vista statistico) nella popolazione che presentava l’attivazione della via PI3K. Un vantaggio decisamente più elevato è stato invece osservato quando lo stato di attivazione della via di PI3K veniva valutato sul DNA tumorale circolante (3,2 vs 7 mesi HR 0,56); anche i tassi di risposta sono risultati migliori in questo gruppo di pazienti (18,4 vs 3,5%). Al momento tuttavia la tossicità del farmaco limita la sua applicazione clinica.

Anche il Pictilisib è stato utilizzato in combinazione con Fulvestrant 500 in uno studio di fase II randomizzato su 168 pazienti resistenti ad inibitore dell’aromatasi, ma nessuna

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differenza significativa è stata osservata nella PFS ed anche in questo caso la tossicità è risultata significativamente più elevata.

3.4 Inibitori di m-TOR

Alterazioni a carico del pathway di m-TOR sono state riportate frequentemente nei tumori mammari e in altri tumori; l’attivazione della via PIK3-AKT-mTOR è stata associata alla comparsa di ormonoresistenza e questo ha costituito il razionale per lo studio della combinazione degli agenti endocrini con gli inibitori di PI3K/Akt/mTOR. Uno studio neoadiuvante randomizzato di fase II57 ha confrontato 4 mesi di terapia con Everolimus più Letrozolo rispetto a Letrozolo da solo in 270 pazienti con carcinoma mammario HR+ di nuova diagnosi. È stato dimostrato che il tasso di risposta clinica per la combinazione era superiore a quello del Letrozolo da solo (68,1% vs 59,1%); inoltre la soppressione del Ki67 al giorno 15 era significativamente maggiore nel braccio combinato rispetto al Letrozolo da solo (57% vs 30%).

Ciò suggerisce che il doppio targeting, ER e mTOR, impedisce la resistenza endocrina de novo oppure aumenta l’efficacia della soppressione degli estrogeni.

Altri studi hanno esplorato l’utilità clinica di Everolimus nel contesto della resistenza endocrina.

Un primo studio di fase II ha valutato la combinazione di Tamoxifene ed Everolimus (TAMRAD) in donne in post-menopausa con tumore della mammella HR+/HER2- che erano state precedentemente trattate con un IA in ambito adiuvante o metastatico58. Per quanto riguarda l’endpoint primario, il tasso di beneficio clinico (CBR), Tamoxifene più Everolimus è stato significativamente superiore al solo Tamoxifene (61% vs 42%); inoltre la PFS è stata aumentata a 8,6 mesi con la terapia combinata contro i 4,5 mesi con solo Tamoxifene. Infine il vantaggio di Everolimus è stato visto soprattutto nelle donne con resistenza secondaria con la PFS a 9,3 mesi rispetto a 1,6 mesi in quelli con resistenza primaria.

Nello studio randomizzato di fase III BOLERO-2, 724 pazienti con carcinoma mammario avanzato HR+/HER2- che avevano sviluppato resistenza ad un precedente trattamento con un inibitore dell’aromatasi non steroideo (quindi pazienti recidivate durante o entro 12 mesi dal termine del trattamento adiuvante con AI non steroideo) sono state trattate con la combinazione di Everolimus e Exemestane e confrontate con il solo Exemestane59.

Le pazienti che hanno ricevuto la combinazione hanno mostrato una PFS migliore (7 versus 3 mesi, HR = 0,45, 95% CI 0,35-0,54) e migliori risposte obiettive (9,5 versus 0,4%) rispetto alle donne che hanno ricevuto il solo Exemestane. Nonostante il significativo miglioramento in PFS, non sono state osservate differenze significative in sopravvivenza globale (30,9 vs 26,5 mesi, HR 0,89, p=0,14). Inoltre l’Everolimus è

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associato a gravi effetti collaterali di grado 3 e 4, tra cui stomatite (8%), dispnea (4%), polmonite non infettiva ed elevazione degli enzimi epatici (3%).

Quindi entrambi questi due studi indicano chiaramente che Everolimus deve essere preso in considerazione in quei pazienti che hanno sviluppato resistenza endocrina ad un precedente trattamento endocrino. Tuttavia dobbiamo ricordare che questo aumento di efficacia si associa ad un aumento della tossicità.

Un’analisi successiva dei possibili biomarcatori associati all’efficacia della combinazione ha identificato le mutazioni di PIK3CA (in particolare a carico dell’esone 9) e l’amplificazione di FGFR1 come associati a un vantaggio quantitativamente maggiore per la combinazione rispetto al vantaggio osservato nelle forme non mutate o con un altro tipo di mutazione. Quest’analisi esploratoria (peraltro condotta su tessuto proveniente dal tumore primitivo e non dalla metastasi) non ha ancora risvolti nell’attuale pratica clinica.

Nello studio Horizon60, invece, è stata valutata la combinazione del Letrozolo con un altro inibitore di mTOR, il Temsirolimus, (somministrato per via orale per 5 giorni ogni 2 settimane), come prima linea di trattamento nelle donne metastatiche non esposte in precedenza a un AI. Tuttavia in questo setting di pazienti, a fronte di un maggior numero di eventi avversi, la terapia non ha mostrato nessun vantaggio in PFS rispetto al solo Letrozolo (8,9 vs 9,0 mesi).

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4. IL RUOLO DEGLI INIBITORI DELLE CDK 4/6 NEL

CARCINOMA DELLA MAMMELLA

La complessità del meccanismo di regolazione del ciclo cellulare e l’abilità nel sostenere una divisione cellulare non programmata sono dei segni distintivi del fenotipo tumorale maligno61. Sono state descritte infatti molte alterazioni nelle proteine chiave di regolazione del ciclo cellulare in vari tipi di cancro, incluso il tumore della mammella. Il potenziale terapeutico del ciclo cellulare come target di terapia è noto da tempo, ma questo approccio nella pratica clinica è stato inizialmente limitato dalla bassa specificità dei primi inibitori del ciclo cellulare62.

Il Flavopiridolo infatti appartiene al gruppo dei pan-inibitori delle CDK relativamente non selettivo, di prima generazione, ed è stato il primo di questa classe di farmaci ad entrare negli studi clinici sull’uomo63

; viene somministrato per via endovenosa e i suoi target comprendono un ampio spettro di CDK (1, 2, 4/6 e 7)64, per cui è in grado di indurre l’arresto in fase G0 e G1 in una varietà di cellule tumorali.

Purtroppo però le sue limitazioni oltre alla via di somministrazione riguardano anche la sua scarsa attività e soprattutto le tossicità dose-limitanti, come la diarrea e la neutropenia, dovute proprio alla bassa selettività sulle chinasi ciclino-dipendenti.

Figura 3. Struttura chimica e formula degli inibitori delle CDK 4/665

La nuova generazione di inibitori delle CDK, ad oggi utilizzata negli studi clinici sul tumore della mammella, è invece caratterizzata da un’elevata selettività per CDK 4/6 e comprende il Palbociclib, il Ribociclib e l’Abemaciclib, che sono in grado di indurre un arresto reversibile in fase G1 del ciclo cellulare nei modelli tumorali Rb positivi. Verosimilmente vi è anche una differenza tra questi tre prodotti riguardo l’azione sulle CDK 4/6 che potrebbe giustificare uno spettro di tossicità leggermente differente tra l’uno e l’altro, in particolare dell’Abemaciclib rispetto a Palbociclib e Ribociclib.

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4.1 Ciclo cellulare e meccanismo d’azione degli inibitori delle CDK 4/6

Il ciclo cellulare rappresenta il macchinario molecolare tramite il quale si effettua la decisione sull’adeguatezza della divisione cellulare e comprende quattro fasi: la fase G1, nel quale le cellule decidono se crescere e dividersi oppure entrare in quiescenza (G0), la fase S della replicazione del DNA, la fase G2 di preparazione alla mitosi e infine la fase M, dove avviene la divisione del materiale genetico e della cellula.

Il controllo del ciclo cellulare avviene nel famoso punto di restrizione ad opera della proteina Rb, che regola la progressione dalla fase G1 alla fase S.

In particolare la funzione della proteina Rb dipende dal suo stato di fosforilazione: quando la proteina Rb è non-fosforilata, impedisce l’avanzamento del ciclo cellulare, inibendo i fattori di trascrizione E2F, tramite il blocco dei loro domini di attivazione, e il reclutamento dell’istone deacetilasi66

.

Figura 4. Il ciclo cellulare

Il complesso ciclina D-CDK 4/6 invece è in grado di fosforilare la proteina Rb, questo induce un cambiamento conformazionale che inibisce il legame dell’istone deacetilasi e consente la successiva iperfosforilazione mediante la ciclina E-CDK2; dopo di ché viene rilasciato il fattore di trascrizione E2F che permette l’ingresso in fase S66.

Una volta che la proteina Rb viene fosforilata, le cellule sono obbligate a completare il ciclo cellulare che non è più influenzato dagli stimoli esterni.

Infatti la prima fase del ciclo cellulare (G1), prima del punto di restrizione, è tutto sommato una fase ancora reversibile, mentre una volta superato questo punto, ci sono sì dei controlli negativi sul ciclo, ma questo non è più soggetto a stimoli esterni e quindi la cellula andrà incontro a mitosi.

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