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6. C

OMMENTO TRADUTTOLOGICO

Prima d’iniziare a tradurre un qualsiasi testo, è fondamentale effettuare una lettura critico-interpretativa, per la quale non è sufficiente riferirsi alla lingua del testo fonte: «[l]a lettura critica di un testo presuppone ben piú che la padronanza della lingua di partenza, e la coerenza e la riuscita di una traduzione non dipendono esclusivamente da fattori tecnico-linguistici»

1

. Infatti, generalmente il traduttore non parte dalla singola parola per poi arrivare alla frase, al testo e infine al contesto culturale dell’autore; al contrario: «solo se si conosce a fondo una certa cultura si è in grado di scendere dal testo alla frase e infine alla parola»

2

. Anche Eco ribadisce questo punto: fa infatti notare come, ad esempio, «alcuni testi di Shakespeare e di Jane Austen non siano pienamente comprensibili al lettore contemporaneo il quale non solo non conosca il lessico dell’epoca, ma anche il background culturale degli autori»

3

. Questa riflessione si applica, ovviamente, anche alle opere di Arthur Machen.

Se quest’analisi preliminare viene a mancare, il traduttore «finisce per abbassare la problematica della traduzione al rango di una semplice procedura

                                                                                                               

1 V. TCHERNICHOVA, Tradursi all’altra riva, in S. Bassi – A. Sirotti (a cura di), Gli studi

2 F. CAVAGNOLI, La voce del testo. L’arte e il mestiere di tradurre, Feltrinelli, Milano 2012, p. 35.

3 U. ECO, Dire quasi la stessa cosa, Bompiani, Milano 2003, p. 162.

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tecnica»

4

. È fondamentale, invece, «conoscere l’intera opera dell’autore […]; è importante avere familiarità con il suo immaginario narrativo grazie alla lettura non solo dei suoi altri libri, ma anche delle varie testimonianze che può aver lasciato»

5

. In questo caso, è stato necessario uno studio attento della biografia di Machen, delle letture che in qualche modo lo hanno influenzato e della sua produzione (ad esempio, per comprendere a pieno le idee sulla letteratura riportate in Far Off Things è importante conoscere Hieroglyphics).

Inoltre, «[l]a lettura interpretativa del testo dovrebbe condurre, idealmente, all’elaborazione ragionata di tutto un sistema di scelte di traduzione»

6

. Una di queste scelte fu individuata e affrontata già nell’Ottocento da Schleiermacher:

«[e]ither the translator leaves the author in piece as much as possible and moves the reader toward him; or he leaves the reader in peace as much as possible and moves the writer toward him»

7

. Il traduttore, cioè, deve scegliere se e quanto naturalizzare il testo fonte per agevolare il lettore d’arrivo che si trova davanti a un testo appartenente a un’altra cultura. La politica che porta avanti Schleiermacher, tuttavia, è radicale:

These two paths are so very different from one another that one or the other myst certainly be followed as strictly as possible, any attempt to combine them being certain to produce a highly unreliable result and to carry with it the danger that

writer and reader might miss each other completely8.

                                                                                                               

4 V. TCHERNICHOVA, Tradursi all’altra riva, p. 199.

5 F. CAVAGNOLI, La voce del testo, p. 15.

6 V. TCHERNICHOVA, Tradursi all’altra riva, p. 199.

7  F.  SCHLEIERMACHER, On the Different Methods of Translating, in L. Venuti (a cura di),

The Translation Studies Reader, Routledge, London 2004, pp. 43-63, qui p. 49.

8 Ibidem.

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In realtà, è possibile operare entrambi i procedimenti all’interno di uno stesso testo, scegliendo di volta in volta la soluzione che riteniamo migliore.

Nel caso della traduzione dei racconti e dell’autobiografia di Machen si è cercato, in generale, di non naturalizzare troppo il testo fonte; in altri casi, però, abbiamo ritenuto opportuno venire incontro al lettore italiano contemporaneo.

6.1. Pronomi allocutivi

In tutti i racconti presi in esame riscontriamo una buona componente dialogica, che può nascondere insidie al traduttore per quanto riguarda la scelta del pronome allocutivo. Il problema non si pone in inglese, lingua in cui si usa sempre you, per i rapporti sia formali sia informali, mentre in italiano la questione è piuttosto complessa se si considera che sono racconti scritti nel 1890, quando il sistema italiano degli allocutivi era diverso da quello attuale.

«Per alcuni secoli – grosso modo dal Cinquecento al Novecento inoltrato – l’italiano disponeva di tre allocutivi: tu, voi, lei»

9

. Per la traduzione di questi racconti si è deciso di seguire questo sistema tripartito, distinguendo tra allocutivi reciproci e non reciproci.

Nel primo caso abbiamo un rapporto paritario, e il pronome piú diffuso è voi, indipendente dalla condizione sociale dei parlanti: potevano usarlo sia persone di basso livello sociale sia membri del clero e della nobiltà. Era usato anche tra fidanzati e tra marito e moglie (come accade nei Promessi Sposi).

Questi ultimi due tipi d’interlocutori sono presenti in “A Double Return” e in

                                                                                                               

9 L. SERIANNI, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, UTET Università, Torino [1989] 20102, p. 262.

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“Jocelyn’s Escape”, che in traduzione dànno e ricevono il voi. Nel primo racconto, ad esempio, leggiamo:

“Frank! Back again so soon? I am so glad! I thought you said you might have to be away a week”.

“My dear Louie, what do you mean?”10

Il dialogo è stato tradotto come segue:

«Frank! Siete già tornato? Sono cosí felice! Credevo aveste detto che sareste rimasto fuori per una settimana».

«Mia cara Louie, che cosa volete dire?»

Il voi reciproco è stato usato anche in “A Remarkable Coincidence”, “A Wonderful Woman”, “The Lost Club” e “The Autophone”, nella conversazione tra due amici di vecchia data o, come nell’ultimo caso, tra due persone che non si sono mai incontrate prima. Si è preferito evitare il tu reciproco, che avrebbe alluso a un rapporto confidenziale tra interlocutori di modesta condizione sociale, mentre i personaggi di Machen sono di condizione media; allo stesso modo, si è evitato il voi reciproco, che «può marcare un rapporto molto formale tra autorità elevate»

11

, assente in “The Autophone”. In

“A Wonderful Woman” Villiers si rivolge cosí all’amico: «You, Richardson!

You married! You really astonish me. I thought you were the typical bachelor.

I must congratulate you»

12

. La traduzione è stata: «Voi, Richardson! Voi sposato! Mi stupite, davvero. Pensavo che foste lo scapolo perfetto. Devo farvi

                                                                                                               

10 A. MACHEN, ROS, p. 82.

11 L. SERIANNI, Grammatica italiana, p. 262.

12 A. MACHEN, ROS, p. 84.

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le mie congratulazioni».

Gli allocutivi non reciproci indicano invece un rapporto asimmetrico. Ad esempio, in “Jocelyn’s Escape” e “A Double Return” il sottoposto (rispettivamente il segretario e la domestica) dà del lei al padrone, ricevendo però il tu:

"Yes, mum, of course I did. But, begging your pardon, sir, I thought as how your voice didn’t sound quite natural this morning when you called out to the cabman to drive to Stepney, because you had changed your mind, and didn’t want to go to Waterloo."

"Good God! What are you thinking about? I never came here. I was in Plymouth".13

Il dialogo è strato tradotto:

«Sí, signora, certo che l’ho fatto entrare io. Ma, le chiedo scusa, signore, mi sembrava che la sua voce non suonasse molto naturale quando ha detto al vetturino di andare a Stepney, poiché aveva cambiato idea e non voleva andare a Waterloo».

«Santo cielo! Ma che cos’hai nella testa? Non sono affatto rientrato ieri notte. Ero a Plymouth».

In “An Underground Adventure” troviamo un’altra situazione che prevede l’uso di pronomi non reciproci. In questo racconto un giovane incontra una donna alla stazione della ferrovia sotterranea, che si presenterà come una marchesa: il giovane, di livello sociale inferiore, darà quindi del lei alla marchesa, ricevendo il tu:

                                                                                                               

13 Ibidem, p. 82.

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‘Good heavens! Do you want to marry me?’

‘Young man, think before you speak, do not rashly refuse my offer. You do not

know what you are throwing away’.14

Coerenti al sistema tripartito, si è data la seguente traduzione:

«Santo cielo! Vuole sposarmi?»

«Giovanotto, pensaci bene prima di rispondere, non rifiutare la mia offerta cosí in fretta. Non sai a che cosa stai rinunciando.

Il tu, inoltre, da un punto di vista sociolinguistico indica la superiorità della marchesa e il suo disprezzo per tutti quelli che considera inferiori.

6.2. Realia

I ricercatori bulgari Vlahov e Florin furono i primi a dare una definizione di realia:

[…] parole (e locuzioni composte) della lingua popolare che costituiscono denominazioni di oggetti, concetti, fenomeni tipici di un ambiente geografico, di una cultura, della vita materiale o di peculiarità storico-sociali di un popolo, di una nazione, di un paese, di una tribú, e che quindi sono portatrici di un colorito nazionale, locale o storico; queste parole non hanno corrispondenze precise in

altre lingue (1969: 438) 15.

Poiché non esiste un traducente diretto nella lingua d’arrivo, i realia rappresentano una sfida per il traduttore, che dovrà trovare un equivalente piú

                                                                                                               

14 Ibidem, p. 98.

15 La definizione è citata in B. OSIMO, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Hoepli, Milano 2003, p. 64.

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o meno approssimativo oppure lasciare il termine invariato inserendo una breve nota a piè di pagina, in modo da colmare il divario che si viene a creare tra autore e lettore del testo tradotto. Tali parole o espressioni sono presenti nei racconti di Machen, e rientrano in un contesto tardo-vittoriano, che il lettore comune italiano di oggi conosce tutt’al piú superficialmente.

Un esempio di realia è sicuramente hansom (cab), che l’OED definisce come «a two-wheeled horse-drawn cab accomodating two inside, with the driver seated behind», e prende il nome dal suo inventore, Joseph A. Hansom.

Una traduzione ottimale sarebbe forse stata carrozza (di) Hansom, che però non è attestata. Eco, quando affronta il problema del riferimento e della negoziazione, riporta l’esempio di un racconto francese: il traduttore inglese ha tradotto la parola coupé con hansom cab, che si differenziano per il fatto che nel primo il cocchiere siede di fronte e nel secondo sul retro. Calesse, invece, in questo caso come in quello dei racconti di Machen, non è appropriato, perché «ha il guidatore davanti, non è di regola coperto, e soprattutto non è una vettura di piazza e viene condotto di solito dal proprietario»

16

. Nei racconti di Machen queste caratteristiche non emergono mai: traducendo quindi con calesse si potrebbe confondere il lettore italiano, che avrebbe in mente un altro tipo di vettura.

Tuttavia, riprendendo l’esempio di Eco, anche hansom cab non è esattamente la stessa cosa di coupé, eppure il traduttore inglese, che ha usato quella parola per evitare fraintendimenti (coupé può far pensare a un’automobile), «ha fatto benissimo, e il suo è un ottimo esempio di

                                                                                                               

16 U. ECO, Dire quasi la stessa cosa, p. 140.

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negoziazione»

17

. E «ha fatto benissimo» perché in quella circostanza non era fondamentale che il cocchiere fosse seduto dietro o davanti. Lo stesso vale nel nostro caso: queste carrozze tipicamente vittoriane (si pensi ai racconti di Sherlock Holmes) rimangono qui nello sfondo, non hanno cioè un ruolo tale da dover essere chiarito al lettore la loro natura specifica (due ruote, vetturino posto dietro ai passeggeri, ecc.). Nella traduzione dei racconti si è perciò preferito tradurre con un (piú generico) vettura, nell’accezione di «carrozza per servizio pubblico, trainata da un cavallo e guidata da un vetturino»

(vocabolario Treccani), che ha il vantaggio di non appesantire il testo e di essere comprensibile a un lettore italiano. Infine, dal contesto è sempre evidente che ci si riferisce a un mezzo di trasporto pubblico, che offre un servizio identico a quello dei moderni taxi.

Un altro esempio si trova alla fine di “The Autophone”, in cui il protagonista viene trovato sdraiato per terra, probabilmente semi-incosciente, e quando arriva il dottore diagnostica una brain fever. Si tratta di un’espressione complessa soprattutto dal punto di vista semantico-lessicale. Si trova spesso nella letteratura europea dell’Ottocento e sarebbe piú o meno l’equivalente di meningite o encefalite (rispettivamente infiammazione delle meningi e dell’encefalo). Audrey C. Petersen ha dedicato un interessante articolo all’argomento, in cui scrive:

“Brain fever” is so rarely encountered today in either medical or popular vocabulary that contemporary readers who note the phrase at all are inclined to wonder whether it was a real disease or merely a fictional one created by                                                                                                                

17 Ibidem.

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novelists to suit the exigencies of plot or character18.

Tuttavia, aggiunge, non era affatto un’invenzione degli scrittori.

Dall’analisi dei trattati di medicina del tempo emerge che era una condizione patologica nota sia ai medici sia alla popolazione, e quindi ovviamente anche agli autori di narrativa. Due esempi molto conosciuti si trovano in Wuthering Heights (capitolo XIII) e in Madame Bovary (II parte, capitolo XIII). Nel primo caso leggiamo: «Per due mesi i fuggiaschi rimasero assenti; in quel periodo la signora Linton ebbe e superò il peggior attacco di una febbre cerebrale»

19

; nel secondo: «Credettero che fosse in delirio; lo ebbe, a partire dalla mezzanotte. Si era manifestata una febbre cerebrale»

20

. Come si è visto, entrambe le traduzioni offrono un calco del termine inglese brain fever.

Tuttavia, l’aspetto importante non è tanto il danno organico, cioè l’infiammazione delle meningi o dell’encefalo, quanto il delirio, tanto che abbiamo scelto di tradurre con delirio febbrile: «insieme di fenomeni di eccitamento confusionale, accompagnati anche da agitazione e allucinazioni, che qualche volta si manifestano negli stati febbrili» (Vocabolario Treccani).

Si tratta di un’espressione che non perde il suo carattere tecnico, e che allo stesso tempo è facilmente comprensibile dal lettore, cosí come brain fever era un’espressione familiare al lettore di fine Ottocento.

Nel racconto “An Underground Adventure” troviamo shilling dreadful, un’altra espressione strettamente legata al contesto spazio-temporale in cui

                                                                                                               

18 A.C. PETERSEN, Brain Fever in Nineteen-Century Literature: Fact and Fiction, in

«Victorian Studies», Indiana University Press, vol. 19, 4 (Jun., 1976), pp. 445-464, qui p.

445.

19 E. BRONTË, Cime tempestose, tr. it. di R. Binetti, Garzanti, Milano 1990, p. 139.

20 G. FLAUBERT, Madame Bovary, tr. it. di G. Achille, BUR, Milano 2009, p. 198.

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Machen scriveva: «A widowed lady who wished to meet a tall, kind gentleman at an underground station, suggested plots of shilling dreadfuls, and set me wondering what they had to say to each other»

21

. Presumibilmente si tratta di quelli che erano conosciuti come penny dreadful, ovvero giornali economici (costavano appunto un penny), la cui diffusione «fu dovuta in massima parte al loro prezzo ridotto, piú che alla qualità delle storie contenute. […] I racconti ospirati dai penny dreadful erano spesso incentrati su personaggi immorali e discutibili […]»

22

. In questo caso si è resa necessaria un’espressione piú lunga, lasciando però implicito l’aspetto economico e dando invece risalto alla scarsa qualità letteraria attraverso l’aggettivo infimo, che contiene in sé una sfumatura spregiativa. Il breve passo tratto da “An Underground Adventure” pertanto è stato tradotto cosí: «Una vedova che voleva incontrare un signore alto e gentile in una stazione della ferrovia metropolitana sembrava l’inizio di un racconto sensazionalistico d’infimo livello, e mi domandai che cosa dovessero mai dirsi l’un l’altro».

In Far Off Things troviamo un’altra parola culturo-specifica – quindi senza un traducente diretto in italiano – che indica qualcosa di simile al penny dreadful: il cosiddetto yellowback, che l’OED definisce come «a cheap novel in a yellow board binding». In questo caso è preponderante il fatto che si tratti di edizioni economiche, quindi la traduzione scelta è stata semplicemente

«romanzi in edizione economica».

Un ultimo esempio è rappresentato dalla parola stile, che si ritrova in molti romanzi vittoriani e che Machen usa piú volte nell’autobiografia. La

                                                                                                               

21 A. MACHEN, ROS, p. 95.

22 M. FARAONE (a cura di), Scorci improvvisi di altri orizzonti, Lulu.com, Morrisville 2008, p. 41.

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definizione dell’OED è «an arrangement of steps that allows people but not animals to climb over a fence or wall». In italiano si deve ricorrere a una minima parafrasi esplicativa. Il Grande dizionario Hoepli Inglese-Italiano dà questa definizione: «scaletta o gradini sui due lati o a cavallo di un muretto, una staccionata e simili, che ne consentono il superamento alle persone ma non agli animali». Nella traduzione sarebbe impensabile usarla, e quindi si è estratto l’essenziale, traducendo gradini della staccionata, o in alcuni casi addirittura staccionata, a seconda del contesto.

6.3. Riferimenti culturali

Per quanto riguarda i riferimenti culturali, gli ostacoli maggiori nella traduzione di Far Off Things comprendono i titoli di romanzi e i nomi di luoghi pubblici, ad esempio le chiese. Machen tende a semplificare e ad abbreviare entrambi, poiché sa che il suo pubblico capirà ugualmente a che cosa si sta riferendo; tuttavia, nella traduzione è bene aiutare il lettore di oggi, per non complicare inutilmente la lettura. Ad esempio, all’inizio del capitolo II Machen parla dei libri che poteva trovare nella biblioteca del padre: «There was a row of little Elzevir classics, “with the Sphere”, bound in parchment that had grown golden with its two hundred and odd years; there was also Mr.

Verdant Green in his tattered paper wrapper as my father had bought him at Oxford»

23

. Il titolo completo del romanzo in questione, di Cuthbert M. Bede (pseudonimo di Edward Bradley), è The Adventures of Mr. Verdant Green:

Machen non solo lo abbrevia, ma non lo mette neanche tra virgolette (come fa

                                                                                                               

23 A. MACHEN, FOT, p. 33.

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con la maggior parte degli altri titoli). In questo caso il lettore deve mettere in atto un processo d’inferenza, per mettere in relazione ciò che viene detto con ciò che viene inteso. Presumibilmente il lettore del 1915 era in grado d’inferire che il nome di una presunta persona (Mr Verdant Green) potesse essere usato per indicare un’opera letteraria; il lettore italiano di oggi, invece, potrebbe forse arrivarci considerando il contesto, ma dovrebbe fare uno sforzo in piú.

Pertanto la traduzione ha semplicemente aggiunto il corsivo, per mostrare che si parla di un libro, e il resto del titolo tra parentesi quadre: [The Adventures of]

Mr. Verdant Green.

Nel capitolo quinto dell’autobiografia Machen fa riferimento a due chiese e una foresta, senza però specificarlo in alcun modo al lettore: «I knew the churchyard of Llanddewi, looking down the steep hillside into the chanting valley of the Soar, and Kemeys, between the Forest and the Usk, and Partrishw, in the heart of the wild mountains beyond Abergavenny»

24

. Nell’edizione di riferimento la curatrice Catherine Fisher inserisce due note a piè di pagina spiegando che Kemeys e Partrishw sono due chiese gallesi e che Forest indica Wentwood Forest. Nella traduzione, tuttavia, si è preferito non appesantire troppo il testo e, come nel caso precedente, si è scelto di aggiungere gli elementi di chiarimento tra parentesi quadre: «Conoscevo il camposanto di Llanddewi, che dominava la ripida collina che dava nella valle melodiosa del Soar, [la chiesa di] Kemeys, tra la foresta [di Wentwood] e l’Usk, e [la chiesa di] Partrishw, nel cuore delle montagne incontaminate oltre Abergavenny».

                                                                                                               

24 Ibidem, p. 112.

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6.4. Note a piè di pagina

Le note a piè di pagina sono utili per aiutare il lettore italiano a capire al meglio il testo. Tuttavia, seguendo le tendenze editoriali d’oggi, si è cercato di limitare il loro uso ai casi in cui non fosse veramente indispensabile.

Ad esempio, all’inizio di “The Lost Club” il protagonista pensa a varie cose, tra cui «encounters of the Row», un sintagma perfettamente comprensibile per il lettore coevo di Machen, ma oscuro per quello italiano di oggi: si riferisce al Rotten Row, una via di passeggio per la buona società londinese. Mantenendo la traduzione fluida, si è spiegato al lettore con una brevissima nota a che cosa si stesse facendo riferimento. In Far Off Things Machen dice che, dopo aver comprato i giornali, ne tagliava le pagine: era una pratica comune a fine Ottocento, e i destinatari dell’autobiografia la conoscevano. La brevissima nota a piè di pagina spiega al lettore contemporaneo che all’epoca i quotidiani dovevano essere tagliati per separarne le pagine prima di poter essere letti.

Un altro uso delle note del traduttore (N.d.T.) è quello di spiegare una scelta traduttiva, per evitare fraintendimenti. In “A Double Return” un uomo che viaggia nello stesso treno di Halswell, il protagonista, spiega perché si sono dovuti fermare: «You see, them there signals is against us, and if we was to go on we should jolly well go to kingdom come, we should»

25

. Per rendere in italiano gli errori presenti nel testo fonte, si è deciso di scegliere un italiano non completamente sgrammaticato, ma che denota un livello d’istruzione basso: «Vedete, ci sono dei segnali contro, e se andessimo in avanti ce ne

                                                                                                               

25 A. MACHEN, ROS, p. 80.

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andremmo dritti dritti al creatore, eh sí». In questo caso abbiamo aggiunto una nota a piè di pagina in corrispondenza di andessimo, chiarendo la strategia traduttiva.

Le note possono anche aiutare il lettore a riconoscere le citazioni, frequenti nell’autobiografia di Machen. Probabilmente lo stesso titolo dell’opera, Far Off Things, è una citazione da The Solitary Reaper di William Wordsworth, che molti lettori italiani potrebbero non cogliere. All’inizio del capitolo I Machen fa riferimento a un romanzo di William Makepeace Thackeray, Pendennis, con una citazione indiretta: «I hold with Foker in “Pendennis” that every fellow likes a hand»

26

. Foker è un personaggio del romanzo, che a un certo punto dice: «you know every chap likes a hand». La nota del traduttore pertanto aiuta a identificare la citazione, e a spiegare un passaggio altrimenti poco chiaro.

6.5. Difficoltà lessicali

Nei racconti e nell’autobiografia alcune precise scelte dell’autore hanno determinato alcuni ostacoli dal punto di vista traduttivo e, a differenza di quanto avveniva per i realia, in questo caso le difficoltà non derivano dal diverso contesto culturale.

Uno dei testi in esame s’intitola “The Autophone”: anche se effettuando una semplice ricerca sembra che sia esistito uno strumento musicale o per riprodurre la musica con questo nome, leggendo il racconto ci rendiamo conto che si tratta di un neologismo, almeno nell’accezione che Machen usa. Nella

                                                                                                               

26 A. MACHEN, FOT, p. 8.

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storia un uomo fa visita al protagonista, il reverendo Hammond, per presentargli una sua invenzione: l’autophone. Una volta messo in funzione, attraverso una scatola musicale, esso riproduce le voci di alcuni ragazzi che Hammond conosceva da adolescente, alcuni dei quali ormai morti: «a babel, a tumult of voices, of voices that he knew and remembered; one striving with another, calling to him out of the deep past; and some the voices of the dead»

27

. Alla fine scopriamo che molto probabilmente tutto quest’episodio è un’allucinazione di Hammond dovuta a un delirio febbrile, ma possiamo comunque pensare a uno strumento che permette di far riemergere il passato di chi lo mette in azione. Nello specifico, è un passato peccaminoso, in contrasto col ruolo di Hammond all’interno della Chiesa: «‘Ha ha! Do you hear that, you fellows? Hammond’s in luck. Didn’t you see him with her? The old rascal thought it was too dark under the tree, but Davis spotted him»

28

.

Presumibilmente, la parola autophone è stata creata sulla stessa base di Gramophone, in italiano grammofono: «nome brevettato, comp. del gr. γράµµα

«segno inciso» e ϕωνή «suono» (quindi, propr., «registrazione del suono»)»

(Vocabolario Treccani). Il prefisso auto- aggiunto da Machen è il «primo elemento di parole composte derivate dal greco o di formazione moderna, nelle quali significa ‹di sé stesso› (per es., autobiografia, autodifesa)» (Vocabolario Treccani). Il neologismo, quindi, letteralmente significa «suono di sé stesso», intendendo uno strumento che emette suoni (in questo caso voci) che fanno riferimento a chi lo accende (e in particolare al suo passato). Nella traduzione, per mantenere la struttura morfologica del testo fonte si è semplicemente

                                                                                                               

27 A. MACHEN, ROS, p. 71.

28 Ibidem.

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creato un calco: autòfono.

In Far Off Things Machen critica una traduzione inglese di Le mille e una notte. Dopo averne citato un breve passaggio, riflette su come il traduttore può mantenere un certo effetto stilistico presente nel testo fonte, e riporta come esempio la sua traduzione (fatta per diletto) di una poesia di Rabelais. La traduzione di Le mille e una notte viene criticata perché suona quasi come una filastrocca per bambini. Chiude la riflessione scrivendo:

I suppose that the real translator when confronted by such puzzles contrives to think of an indirect rather than a direct solution. For example, the right way of getting the effect of the Arabic jingle into English might be sought by the path of alliteration; or possibly blank verse might give to the English reader something of the same kind of pleasure as that enjoyed by the Oriental in reading a prose which

infringes on the region of poetry29.

Durante la lettura non è immediatamente chiaro cosa significhi Arabic jingle. In questo caso Arabic non significa soltanto arabo, ma fa riferimento alle Mille e una notte, tradotte in inglese anche come Arabian Nights. La parola jingle, invece, sembra riferirsi alla musicalità della prosa poetica del testo arabo, piú che a un “motivetto musicale”. In italiano non esiste una parola che rimandi allo stesso tempo alla lingua araba e alle Mille e una notte: si è scelto di tradurre con musicalità araba, espressione oscura come quella di Machen, a cui è stata comunque aggiunta una nota a piè di pagina per spiegare il riferimento alla raccolta di novelle orientali.

                                                                                                               

29 A. MACHEN, FOT, p. 39.

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6.6. Difficoltà sintattiche

I testi in esame non presentano particolari ostacoli dal punto di vista sintattico. Come abbiamo già avuto modo di vedere, Far Off Things ha sicuramente una sintassi piú complessa rispetto ai racconti, con proposizioni generalmente piú lunghe, sebbene ciò spesso dipenda dal semplice accumulo di frasi.

Se nella maggior parte dei casi la sintassi è lineare, ciò non significa che Machen non usi subordinazioni e incisi complessi, che possono risultare in proposizioni difficili da comprendere. Nel capitolo III dell’autobiografia ne troviamo un esempio:

I stayed in Turnham Green, then a place of many amenities standing amongst fields and gardens and riparian lawns, which, long ago, have been buried beneath piles of cheap bricks and mortar, for a year and a half, and then again I altered my

plans, or fate rather altered them for me30.

Qui l’inciso sottolineato costringe il lettore a tornare indietro e rileggere la proposizione, e in traduzione si è preferito facilitare la lettura inserendolo tra due lineette in modo da farlo risaltare meglio da un punto di vista visivo e da evitare la confusione generata da una serie di virgole con valori diversi (inoltre, non essendo una cifra stilistica dell’autore, si è preferito non rimanere “fedeli”

al testo fonte):

Soggiornai a Turnham Green – allora un luogo pieno di attrattive situato in mezzo ai campi, ai giardini e ai prati rivieraschi, che, molto tempo fa, sono stati                                                                                                                

30 A. MACHEN, FOT, p. 77.

(18)

  LXXXVI  

sepolti sotto un ammasso di mattoni dozzinali e malta – per un anno e mezzo, e poi di nuovo cambiai i miei piani, o il destino, piuttosto, li cambiò per me.

Sia nell’autobiografia sia nei racconti troviamo moltissimi punti e virgola.

Nella nostra traduzione si è mantenuto ogni qual volta la sua funzione nel testo fonte corrispondesse a quella che svolge nella lingua italiana; tuttavia, si è sostituito con una virgola o con i due punti per una maggiore chiarezza. Ad esempio, in “A Remarkable Coincidence” il protagonista chiede al proprio maggiordomo di portargli un boccale di birra: l’amico seduto accanto a lui scoppia a ridere, sorpreso da questa richiesta, e il maggiordomo è confuso, non sa cosa dire o fare perché egli stesso beve lo Chardonnay. Nel testo fonte leggiamo: «[t]he butler blushed; he drank burgundy himself»

31

. Il punto e virgola in questo caso spiega perché arrossisce: assolve quindi una funzione esplicativa, tipica in italiano dei due punti. La traduzione pertanto è stata: «[i]l maggiordomo arrossí: lui stesso beveva Chardonnay». Un altro esempio lo troviamo in “A Wonderful Woman”: «I have no time for business; I have definitely chosen a great subject, the study of which will occupy me for the rest of my life»

32

. Anche in questo caso il punto e virgola introduce la spiegazione del perché il personaggio non ha tempo per gli affari, ed è quindi stato sostituito dai due punti: «[n]on ho tempo per gli affari: ho scelto in via definitiva un grande argomento, il cui studio mi terrà occupato per il resto della mia vita».

Nel capitolo III di Far Off Things in un’unica proposizione troviamo ben tre punti e virgola, con tre funzioni differenti:

                                                                                                               

31 A. MACHEN, ROS, p. 76.

32 Ibidem, p. 84.

(19)

  LXXXVII  

One can talk of the causes that impel a grain of corn to grow from the ground;

sound seed, good soil, good farming; dry weather, wet weather, each in its

season; but at the last the engendering of the green shoot remains a mystery33.

Il primo ha una funzione esplicativa, cioè introduce le cause del fenomeno descritto, e può esser sostituito dai due punti; il secondo separa alcune cause da altre, e pertanto può essere eliminato, inserendo al suo posto una semplice virgola; il terzo separa due proposizioni coordinate complesse, che si è preferito lasciare, giacché si tratta della funzione piú comune del punto e virgola in italiano. Il testo fonte è stato reso in questo modo:

Si può parlare delle cause che sollecitino un seme di granturco a crescere dal terreno: un seme integro, un buon terreno, una buona coltivazione, un ambiente secco e un ambiente umido, ciascuno nel periodo giusto; ma alla fine la produzione del germoglio verde rimane un mistero.

In conclusione, le principali difficoltà traduttive dei racconti e dell’autobiografa di Arthur Machen sono dovute nella maggior parte dei casi dalle consuete asimmetrie tra l’inglese e l’italiano (pronomi allocutivi, caratteristiche sintattiche), e in altri casi dalla distanza che intercorre tra le due culture. Altri ostacoli dipendono dal fatto che questi racconti sono stati scritti e pubblicati circa cento anni fa, in un contesto sociale differente, e destinati perciò a un pubblico molto lontano dal lettore italiano contemporaneo: ciò ha richiesto aggiustamenti nel testo di arrivo e alcune note a piè di pagina. Il compito del traduttore, in questi casi, è dare un’idea della distanza temporale

                                                                                                               

33 A. MACHEN, FOT, p. 80.

(20)

  LXXXVIII  

del testo fonte rispetto al contesto di ricezione senza cadere nell’antiquariato e

nell’affettazione arcaicizzante.

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