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CAPITOLO 4 La Corporate Social Responsibility

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Academic year: 2021

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CAPITOLO 4

La Corporate Social Responsibility

1. Cos’è la CSR

2. Teoria dello shareholder e teoria degli stakeholder 3. Analisi delle critiche alla CSR

4. Perché le imprese decidono di orientarsi alla CSR

5. Alcune iniziative a livello nazionale ed internazionale per promuovere la

CSR

6. Cosa ostacola la diffusione della CSR

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1. Cos’è la CSR

La Corporate Social Responsibility (CSR) è un orientamento strategico delle imprese ad assumere un comportamento responsabile davanti all’opinione pubblica e ai propri stakeholder.

Tale concetto innovativo e molto discusso fu espresso per la prima volta dall’economista Robert Edward Freeman nel suo saggio “Strategic Management:

a Stakeholder Approach” del 1984. In realtà, già l’economista italiano Giancarlo

Pallavicini nell’opera “Strutture integrate nel sistema distributivo italiano” del 1968 sostenne che l’attività d’impresa, pur mirando al profitto, debba tenere espressamente presente una serie di istanze interne ed esterne all’impresa, anche di natura socio-economica.

La Corporate Social Responsibility è nata negli USA, dove le imprese sono più motivate a promuovere buone prassi perché favorite da un regime fiscale che non tassa la ricchezza devoluta in beneficenza; successivamente tale concetto si è diffuso anche in Europa, entrando formalmente nell’agenda dell’UE. Durante il Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000, la Corporate Social Responsibility fu concepita come uno degli strumenti strategici in grado di:

• realizzare in Europa una società più competitiva e socialmente coesa; • modernizzare e rafforzare il modello sociale europeo.

Nel Libro Verde: “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” del 2001, la Commissione Europea ha definito la Corporate

Social Responsibility come: «l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate». A tale definizione bisogna

apportare alcune delucidazioni:

⇒ la Corporate Social Responsibility ha carattere volontario, in quanto è l’azienda che, ritenendo che le pratiche di Corporate Social Responsibility siano coerenti con la propria filosofia e i propri fini aziendali, decide liberamente di impegnarsi ad andare oltre i limiti di legge e quindi di gestire efficacemente le problematiche d’impatto sociale ed etico al proprio interno e

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73 nelle zone di attività. Non esiste infatti alcun vincolo che impone alle imprese l’adozione di politiche e strategie di responsabilità sociale.

⇒ le preoccupazioni sociali ed ecologiche possono riguardare: gli effetti indesiderati che le operazioni commerciali producono sulla società; i disagi che la comunità in cui l’azienda opera può subire per causa o meno dell’agire d’impresa.

⇒ con operazioni commerciali si intendono tutte le attività caratteristiche del fare impresa, riguardo alle quali l’approccio alla Corporate Social Responsibility definisce i metodi e lo spirito.

⇒ le parti interessate, più comunemente definiti “stakeholder” (portatore di interesse), sono tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti nell’attività dell’impresa, in quanto destinatari delle attività intraprese dall’azienda o i suoi interlocutori di riferimento.

Impresa / organizzazione Risorse umane Soci/Azionisti Clienti Fornitori Partner finanziari Stato, Enti locali,

Pubblica Amministrazione Comunità

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74 Oggigiorno le imprese avvertono sempre più l’esigenza di occuparsi di responsabilità sociale, perché l’attenzione degli operatori, dell’opinione pubblica e di tutti i portatori di interesse si sta concentrando sull’integrità delle imprese e sugli atteggiamenti da queste assunti nei confronti della comunità nel suo complesso. Il bisogno di etica, trasparenza e responsabilità è avvertito, in modo crescente, dall’opinione pubblica internazionale a seguito di emergenze ambientali, scandali e crack finanziari, piaghe sociali che hanno portato, nel corso del tempo, alla nascita di un nuovo consumatore molto esigente verso le aziende, cui chiede non solo qualità dei prodotti, ma anche sostanziale coerenza globale e correttezza dei comportamenti. In questo nuovo contesto in cui le imprese si trovano ad operare, l’etica diventa parte integrante della qualità del prodotto; il quale non è più apprezzato unicamente per le sue caratteristiche esteriori e funzionali, ma anche per le caratteristiche immateriali che lo accompagnano (esempio: immagine e storia del prodotto, servizi di assistenza e di personalizzazione,..). L’impegno etico dell’impresa entra a far parte della “catena del valore”.

La disciplina della Corporate Social Responsibility, permettendo l’integrazione delle tematiche di responsabilità sociale nelle linee strategiche e di crescita dell’organizzazione aziendale, si rivolge, indipendentemente dalla dimensione (grande, media, piccola), a tutte le imprese:

• a quelle che già adottano, anche se non coscientemente, comportamenti responsabili, favorendone un approccio più coerente e strutturato;

• a quelle che non conoscono la disciplina, proponendo loro un nuovo modo di intendere le proprie attività.

L’impresa, per adottare una reale ed efficace strategia di Corporate Social Responsibility, non deve limitarsi ad adempiere agli obblighi giuridici, ma deve distinguersi e farsi conoscere soprattutto per l’azione benefica nei confronti della società, per la sua capacità di gestire il suo impatto con l’ambiente economico ed istituzionale in cui opera, per la sua abilità a stimolare il “goodwill” dei consumatori. Può perseguire questo obiettivo:

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75 • integrando istanze sociali e ambientali nelle prassi aziendali con azioni di

tutela dell’ambiente (realizzando nuovi processi produttivi o prodotti con minor impatto ambientale);

• costruendo relazioni con il territorio, la comunità locale e le istituzioni pubbliche;

• partecipando alla soluzione dei problemi sociali; • investendo di più nel capitale umano;

• operando un’attenta scelta dei fornitori.

In sostanza, si possono individuare tre regole fondamentali che l’impresa deve seguire in un’ottica di Corporate Social Responsibility:

1) make it real ⇒ fai qualcosa di concreto e buono 2) make it visible ⇒ comunicalo

3) be an agent of change ⇒ fallo fare anche ai tuoi clienti

È possibile individuare una serie di buone pratiche (cioè un’azione o un progetto che, per la metodologia di riferimento, per l’innovatività dell’approccio o per i risultati raggiunti, può essere considerata come esperienza di riferimento), coerenti con i principi della Corporate Social Responsibility, che possono essere adottate nei confronti dei diversi stakeholder con cui l’organizzazione si rapporta:

⇒ RISORSE UMANE: le azioni a loro beneficio possono comprendere: politiche di supporto alle persone con disabilità o alle minoranze; formazione eccedente l’obbligatorietà legislativa; agevolazioni per i dipendenti (es: concessioni di fringe benefit, cioè di compensi in natura consistenti nella fruizione di un servizio “mensa aziendale” o di un oggetto “auto aziendale”);…

⇒ SOCI/AZIONISTI: nei loro confronti le azioni di maggior rilievo riguardano: l’adozione di meccanismi di governance chiari e condivisi; la comunicazione chiara dei risultati e dei possibili rischi futuri; il loro coinvolgimento nelle attività di formazione;...

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⇒ CLIENTI: nei loro riguardi è opportuno: adottare sistemi avanzati di Customer Relationship Management; svolgere periodiche analisi del grado di soddisfazione e delle aspettative della clientela;…

⇒ FORNITORI: le azioni adottabili nei loro confronti sono: definizione di politiche per la scelta dei fornitori che assicurino il rispetto delle leggi e delle convenzioni internazionali; richiesta di certificazioni; verifiche del rispetto delle convenzioni e delle leggi; istituzione di premi per i fornitori socialmente responsabili;…

⇒ PARTNER FINANZIARI (ad esempio le banche, sono quegli stakeholder che, a diverso titolo, sono interessati all’andamento economico-finanziario dell’azienda): a loro beneficio è necessario adottare politiche di disclosure1 e comunicazione delle informazioni utili per consentire loro scelte di finanziamento corrette (es: istituzione di riunioni periodiche con i finanziatori per comunicare apertamente i propri risultati e i propri punti di miglioramento).

⇒ STATO, ENTI LOCALI, PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: le azioni adottabili nei loro confronti riguardano: la sottoscrizione di accordi di programma e/o protocolli d’intesa con istituzioni pubbliche; la partecipazione a tavoli strategici per lo sviluppo locale; l’adozione di un codice etico2 e un sistema di controllo interno per il rispetto delle leggi;…

⇒ COMUNITA’: alcune azioni adottabili nei suoi riguardi sono: apertura dell’azienda alle Università per partnership e studi; programmi di cooperazione internazionale e corporate giving (cioè donazioni, elargizioni, liberalità erogate dall’impresa a favore di organizzazioni e iniziative aventi utilità sociale/ambientale); collaborazione con associazioni di supporto sociale (es: fornitura gratuita ad associazioni o enti ospedalieri di materiali per l’infanzia e giocattoli).

1 Attività informativa che le aziende promuovono nei confronti del mercato, volontariamente o per legge,

per aumentare la propria trasparenza.

2 Documento d’indirizzo che definisce le linee di condotta degli appartenenti all’organizzazione nei

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⇒ AMBIENTE: con riguardo a quest’ultimo le azioni praticabili sono: adozione di politiche di riduzione dei consumi energetici e di emissione di sostanze inquinanti; formazione al riciclaggio e alla riduzione dei consumi sia in azienda, sia privatamente; attuazione di politiche di riforestazione sulla base delle emissioni di anidride carbonica prodotte dalle attività d’impresa.

L’approccio alla Corporate Social Responsibility concorda con il messaggio fondamentale della strategia di sviluppo sostenibile adottata dal Consiglio Europeo di Göteborg nel giugno 2001 secondo cui, nel lungo termine la crescita economica, la coesione sociale e la tutela ambientale vanno di pari passo verso lo

sviluppo sostenibile3.

L’adesione di un sempre maggior numero di imprese alla Corporate Social Responsibility ha portato alla nascita, all’interno delle aziende responsabili, di una nuova figura manageriale il “CSR manager”. Tale figura ha il compito di scegliere, ottimizzare e coordinare le attività di Corporate Social Responsibility di un’impresa; inoltre deve svolgere una funzione di watch dog della comunicazione, al fine di mantenere credibilità e fiducia in merito agli impegni presi pubblicamente dall’impresa. Infatti, in una società civile molto attenta all’operato imprenditoriale (per i cittadini non sono più sufficienti astratte dichiarazioni di principi e valori etici, ma esigono un impegno quotidiano e credibile, che discenda da una precisa politica manageriale e da un sistema aziendale organizzato a tal fine), risulta di fondamentale importanza l’attività dedicata al mantenimento delle relazioni con l’esterno. Spesso lo sviluppo nel tempo di relazioni positive con gli stakeholder può diventare un elemento di valore aggiunto per l’impresa.

3 Il Rapporto di Bruntland del 1987 definì lo sviluppo sostenibile come “sviluppo in grado di soddisfare

i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. Lo sviluppo sostenibile, quindi, consiste in un modello di sviluppo in cui la crescita economica e sociale viene perseguita entro i limiti delle possibilità ecologiche del pianeta, senza compromettere l’integrità degli ecosistemi e la loro capacità di soddisfare i bisogni delle generazioni future. Si deve quindi attuare un utilizzo e una gestione razionale delle risorse in grado di soddisfare adeguatamente i bisogni fondamentali dell’umanità. I requisiti necessari dello sviluppo sostenibile sono: conservazione dell’equilibrio generale e del valore del patrimonio naturale; distribuzione e uso delle risorse in modo equo fra tutti i paesi e le regioni; prevenzione dell’esaurimento delle risorse naturali; decremento della produzione di rifiuti; razionalizzazione della produzione e del consumo dell’energia.

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78 Le imprese, che scelgono di divenire socialmente responsabili, possono aderire volontariamente a standard/certificazioni etiche e ambientali e adottare codici di condotta. A tal proposito è opportuno evidenziare la mancanza di un metro di misura ufficiale e una legislazione comune riguardo la Corporate Social Responsibility; infatti esiste una moltitudine di standard etici, tra i quali si possono segnalare:

• Standard SA 8000, emanato dal Social Accountability International, è lo standard più diffuso a livello mondiale per la responsabilità sociale di un’azienda ed è applicabile ad aziende di qualsiasi settore, dimensione, operanti in qualsiasi regione del pianeta (sia nei Paesi sviluppati, che in quelli in via di sviluppo), per valutare il rispetto da parte delle imprese dei requisiti minimi in termini di diritti umani e sociali. Tale standard prevede otto requisiti specifici collegati ai principali diritti umani in ambito lavorativo (lavoro infantile; lavoro forzato; salute e sicurezza; libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva; discriminazione; procedure disciplinari; orario di lavoro; retribuzione), ed un requisito relativo al sistema di gestione della responsabilità sociale in azienda. Il rispetto di tali requisiti comporta l’assegnazione, da parte di un organismo indipendente, di una certificazione che attesti la conformità dell’azienda ai requisiti di responsabilità sociale della norma.

• Standard AA1000 (o AccountAbility 1000), emanato nel 1999 dall’Institute of Social and Ethical Accountability, è uno standard di processo elaborato per valutare i risultati delle imprese nel campo dell’investimento etico e sociale e dello sviluppo sostenibile. A seguito dell’adozione di questo standard, le imprese possono rafforzare il rapporto con gli stakeholder e migliorare il dialogo con le Istituzioni e la Pubblica Amministrazione, realizzando un rapporto di mutua collaborazione ed arricchimento.

Sempre in un’ottica di comunicazione chiara e trasparente con i propri stakeholder, le imprese socialmente responsabili sono indotte ad affiancare al bilancio d’esercizio (finalizzato alla sola rendicontazione dei risultati di gestione ottenuti alla fine di un esercizio, e quindi volto a comunicare la parte di valore

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79 creato dall’impresa esclusivamente nei confronti degli azionisti) ulteriori strumenti d’informazione:

bilancio sociale: strumento di gestione/comunicazione che descrive la

dimensione sociale dei rapporti tra l’organizzazione e gli stakeholder integrandone le esigenze nelle scelte strategiche. Le informazioni contenute in questo documento permettono, quindi, la giusta valutazione del valore aggiunto creato e la parte destinata ad ogni gruppo di interlocutori (non solo gli azionisti, ma anche: dipendenti; collettività; finanziatori;…), nonché il rafforzamento e/o la creazione di nuovi rapporti con i vari stakeholder (l’instaurarsi di relazioni durature nel tempo rappresenta un elemento di successo per l’impresa).

bilancio ambientale: strumento di gestione/comunicazione che descrive i

rapporti tra l’organizzazione e l’ambiente, valutando gli impatti ecologici delle attività commerciali. Più in particolare, questo documento rappresenta un quadro sintetico, ma allo stesso tempo esaustivo, della quantità e della qualità delle risorse, dei materiali e dell’energia in ingresso e in uscita dal processo produttivo; il suo principale obiettivo è quello di fornire un quadro organico delle interrelazioni tra l’azienda e l’ecosistema attraverso un’opportuna rappresentazione: dei dati quantitativi e qualitativi relativi all’impatto generato dalle attività produttive; dello sforzo economico e finanziario sostenuto dall’impresa per la protezione dell’ambiente. Esistono due fattori che ne limitano la diffusione, e sono: l’assenza di un modello generale di riferimento, nonché l’impossibilità di una sua certificazione (la presenza di ampi spazi discrezionali nella redazione del bilancio ambientale, dovuta all’assenza di principi contabili e di un preciso inquadramento legislativo, rendono impossibile oggettivarne la validità).

bilancio di sostenibilità: strumento di gestione/comunicazione che riunisce

gli approcci sociale ed ambientale strutturandoli organicamente in ottica di riduzione dei disagi per le generazioni future. Questo documento differisce dal bilancio sociale per la presenza delle seguenti caratteristiche:

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80 • valorizzazione della dimensione ambientale al pari di quella economica e

sociale;

• integrazione di una dimensione globale e di una locale dello sviluppo; • grado di interazione tra i soggetti portatori di bisogni;

• essere il risultato di un processo di gestione delle variabili socio-ambientali all’interno dell’organizzazione.

Il bilancio di sostenibilità definisce l’identità, i valori e gli obiettivi strategici dell’impresa, descrive il suo assetto istituzionale e la sua struttura organizzativa, presenta in modo trasparente e rigoroso la pianificazione, la gestione e la rendicontazione degli impegni e performance messe in atto dall’impresa in materia di Corporate Social Responsibility. Lo standard internazionale riconosciuto per la redazione del bilancio di sostenibilità è il Global Reporting Initiative4.

In conclusione, adottando un comportamento socialmente responsabile le imprese conseguono un vantaggio competitivo e riescono a massimizzare gli utili di lungo periodo, in quanto sono in grado di:

• rispondere alle nuove richieste ed attese (economiche, ambientali e sociali) di tutti gli stakeholder;

• migliorare le performance aziendali; • tenere alta la propria reputazione;

• vedere crescere la fiducia e il consenso verso di esse da parte della società; • acquisire i clienti “verdi”, che sono sempre più numerosi.

La Corporate Social Responsibility è la sostenibilità del business nel lungo termine; spesso però viene vista come un qualcosa che le imprese pongono in essere solo al fine di compiacere i propri stakeholder ed ottenere un buon ritorno

4 Il Global Reporting Initiative (noto come GRI), al fine di rendere confrontabili i documenti redatti dalle

aziende, individua delle linee guida comuni per la rendicontazione della performance aziendale in campo economico, ambientale e sociale. Gli indicatori di performance:

◊ economica misurano gli scambi monetari tra l’impresa e gli stakeholder, in particolare indicano in che misura avvengono tali scambi e qual è l’impatto che l’attività d’impresa ha sul sistema economico di riferimento;

◊ ambientale individuano l’impatto che l’attività aziendale produce sul sistema eco-ambientale in cui è collocata e sul sistema ecologico generale, fornendo informazioni riguardanti il consumo delle risorse e di energia;

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81 di immagine. Un ulteriore aspetto negativo consiste nel fatto che in alcuni casi, sfruttando l’assenza di garanzie sulla qualità dell’impegno sociale e di vincoli o controlli, le imprese, anziché rivedere la propria vision con la finalità di coniugare impegno sociale e crescita economica, si limitano a “colorare di verde” il sito e il materiale informativo oppure producono un’incoerenza tra i principi socio-ambientali dichiarati e i comportamenti adottati miranti esclusivamente a perseguire i reali interessi dell’azienda.

2. Teoria dello shareholder e teoria degli stakeholder

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito ad un acceso dibattito in ordine a quale fosse il ruolo dell’impresa nella società. In particolare ci si chiedeva se a questa istituzione facesse capo esclusivamente un ruolo economico (produrre ricchezza nel rispetto della legge) o anche un ruolo sociale (contribuire al progresso umano, civile e sociale del contesto in cui opera).

Oggi è pacificamente condiviso l’assunto che l’impresa, in quanto manifestazione propria dei sistemi economici, è chiamata a svolgere all’interno di mercati concorrenziali, in autonomia e nel pieno rispetto delle regole, un compito essenzialmente di natura economica, dalla cui egregia attuazione discende l’assolvimento di un preciso mandato sociale.

Alcuni potrebbero essere indotti a ritenere, erroneamente, che affinché l’impresa ottemperi al suo ruolo sociale è sufficiente che essa eserciti egregiamente la propria attività nel rispetto delle norme che disciplinano, in modo adeguato, gli spazi di iniziativa e responsabilità imprenditoriale.

In realtà si vengono a creare due ordini di problemi: che cosa si intende per assolvimento egregio del mandato che la società affida all’impresa? Quali obiettivi devono guidare il management affinché l’impresa possa assolvere nel miglior modo il suo mandato?

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82 Nella dottrina e nella prassi5, in riferimento a tale tematica, si sono venute a creare due correnti di pensiero:

• la prima, che si identifica con la cosiddetta “teoria dello shareholder”, sostiene che il management deve essere guidato dall’obiettivo dell’efficienza, e quindi dall’obiettivo di produrre ricchezza per gli azionisti;

• la seconda, che coincide con la cosiddetta “teoria degli stakeholder”, ritiene necessario equilibrare le ragioni dell’efficienza con quelle dell’equità, e quindi armonizzare l’obiettivo di profitto con gli obiettivi di carattere etico-sociale.

A questo punto è utile esaminare nel dettaglio le due teorie.

La teoria dello shareholder ha come suo massimo esponente il Premio Nobel per l’economia Milton Friedman il quale, nel suo celeberrimo articolo “The social

responsibility of Business is to increase its profits” pubblicato sul New York

Times il 13 settembre 1970, afferma: “la sola ed unica responsabilità del business è usare le risorse e impegnarsi in attività per aumentare il più possibile i profitti, nel rispetto delle regole del gioco che sono quelle dell’aperta e libera competizione”. Secondo questa concezione, gli azionisti hanno diritto a una speciale e diversa considerazione rispetto alle altre classi di portatori di interessi in quanto responsabili ultimi del destino dell’impresa. Gli amministratori, che soprattutto nelle grandi aziende a capitale diffuso si trovano a gestire capitale altrui, hanno un vero e proprio dovere etico verso gli azionisti. I quali, essendo interessati a salvaguardare le proprie risorse economiche, richiedono una gestione corretta economicamente e la presentazione di un bilancio d’esercizio veritiero e trasparente6. Gli amministratori e i manager, secondo la teoria dello shareholder, sono quindi chiamati ad agire nell’interesse esclusivo degli azionisti, di cui sono i fiduciari, cercando di massimizzare a loro beneficio il profitto (o il valore azionario). Inoltre ad essi non fanno capo ulteriori responsabilità, in

5 I vertici aziendali, più o meno consapevolmente, aderiscono alla prima o alla seconda corrente di

pensiero sopra descritte e questo, permeando l’orientamento strategico di fondo, incide profondamente sulle strategie e sui comportamenti imprenditoriali.

6 Le richieste che gli azionisti fanno agli amministratori circa l’attuazione di una gestione corretta

economicamente e la predisposizione di un bilancio d’esercizio corretto e trasparente, sono importanti e utili anche per tutti gli altri interlocutori che sono legati alla salute dell’impresa per il loro destino professionale (dipendenti; fornitori;..).

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83 aggiunta a quelle legalmente definite, nei confronti delle altre categorie di stakeholder.

Le strategie (intese come l’insieme delle decisioni e delle azioni manageriali che definiscono il modo effettivo e/o desiderato di rapportarsi dell’impresa di fronte ai suoi molteplici interlocutori e alle loro attese, prefiggendosi come obiettivo la simultanea realizzazione con ciascuno di essi di un rapporto strutturale di equilibrio di reciproca soddisfazione e un equilibrio economico-finanziario complessivo a valere nel tempo) delineate dalle imprese che aderiscono a questa corrente di pensiero presentano le seguenti caratteristiche:

• i rapporti con i vari stakeholder appaiono come rapporti puramente strumentali all’obiettivo della massimizzazione del profitto;

• l’equilibrio con ciascun interlocutore viene ricercato su basi essenzialmente negoziali, per questo è di cruciale importanza per l’impresa cercare di costruire posizioni di forza contrattuale;

• la strategia, perseguendo l’obiettivo di accumulare ricchezza a vantaggio degli azionisti, non esercita forza coesiva nei confronti della generalità degli interlocutori, ma anzi fa sorgere relazioni conflittuali;

• la comunicazione di coinvolgimento degli stakeholder intorno alle esigenze di competitività/funzionalità dell’impresa e alla strategia aziendale che si intende implementare o manca del tutto, oppure viene manipolata al fine di opacizzare o mitigare la strategia effettivamente perseguita (solo nel caso in cui la sopravvivenza dell’impresa è messa in grave pericolo e quindi è necessario un risanamento, verrà comunicato con chiarezza come stanno effettivamente le cose e quale strategia si intende adottare per raddrizzarle); • l’eventuale uso di strumenti quali il codice etico e il bilancio sociale, in

presenza di un deficit di legittimazione sociale, serve solo per accreditare un’immagine di impresa etica e socialmente responsabile presso la collettività.

L’esasperata ricerca del profitto, che caratterizza la teoria dello shareholder, può indurre i manager ad adottare comportamenti miopi (il management, perseguendo il mero obiettivo dell’efficienza e non anche dello sviluppo,

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84 inseguendo sistematicamente profitti da taglio dei costi, recupero di efficienza, uscita da business poco o per nulla redditizi, finisce nel pregiudicare inevitabilmente la crescita della redditività nel lungo periodo) o, addirittura, illegali7. Le regole di sana e prudente gestione e le sanzioni in cui si incorre in caso di inosservanza delle stesse sono, infatti, efficaci solo se c’è un’adesione convinta ai valori a esse soggiacenti8. Per eliminare, o comunque sia ridurre, il rischio di comportamenti scorretti da parte del management è necessario che i valori etici (es: integrità; correttezza gestionale; trasparenza informativa; rispetto nei confronti di tutti gli interlocutori e delle loro legittime attese;…) permeino i comportamenti imprenditoriali. A tal fine possono essere seguite due strade:

a) considerare questi valori come vincoli all’obiettivo di profitto, così da scartare a priori le alternative con essi incompatibili e depurare l’obiettivo di

7 Un famoso esempio, al riguardo, è rappresentato dallo scandalo del 2 dicembre 2001 che vede coinvolta

la multinazionale dell’energia e del trading delle commodities Enron, definito come “la madre di tutti gli scandali”. Una colossale truffa contabile, durata anni, messa in piedi grazie alla collusione tra i vertici della Enron (il fondatore e presidente Kenneth Lay, l’amministratore delegato Jeffrey Skilling, il direttore finanziario Andrew Fastow) e la società di revisione Arthur Andersen incaricata, dal 1987, di certificarne i bilanci. La scoperta di questa truffa da parte della SEC (Securities and Exchange Commission), avvenuta nell’ottobre 2001, nel giro di due mesi portò al crollo di un gruppo operante in 40 Paesi, con al seguito 20.000 dipendenti e che vantava ben 101 miliardi di dollari di fatturato; un gruppo che nel giro di 15 anni era diventato la settima società più importante degli Stati Uniti ed era stato definito, nel 1996, dalla rivista Fortune come “l’azienda più innovativa del pianeta” e, nel 2000, dal Financial Times come “l’azienda energetica dell’anno”. Peccato che le cifre di profitti e fatturato fossero false, un elaborato inganno tessuto grazie a reti di strumenti fuori bilancio che nascondevano crescenti e gigantesche perdite (era stato, infatti, accumulato un debito di circa 10 miliardi di dollari distribuito in varie banche in tutto il mondo). Molti investitori, fuorviati dalla fama di una società che in 10 anni aveva decuplicato il proprio valore e quindi considerata da tutti solidissima, videro il calo delle quotazioni del titolo Enron, passato da circa 90 $ nel dicembre 2000 a 70$ nel marzo 2001 (per poi crollare nel novembre 2001 a pochi centesimi), come un’opportunità d’acquisto o come la manifestazione di una irrazionalità momentanea del mercato e per questo si esposero ad un rischio assolutamente imprevedibile. Rischio al quale furono esposti, senza via di scampo, anche i dipendenti della società che erano stati incoraggiati ad acquistare le azioni della società sottoscrivendo una clausola che ne impediva la successiva vendita. Furono così bruciati ben 60 miliardi di dollari; mentre i dirigenti della società registrarono ingenti plusvalenze a seguito della preventiva vendita dei titoli da loro posseduti.

Questo storico crack, che ha inflitto gravi danni all’economia e ha compromesso la fiducia dei mercati e dell’opinione pubblica (il fallimento di Enron non solo gravò sugli azionisti che persero tutto, ma colpì duramente i dipendenti che oltre al licenziamento si ritrovarono senza pensione, dal momento che il fondo pensione era stato usato dall’amministrazione della società), dette il via ad una serie di inchieste a tappeto sulla contabilità falsificata e i bilanci gonfiati di decine di grandi imprese americane, quali la WorldCom operante nel settore delle telecomunicazioni e l’Adelphia operante nel settore della televisione via cavo; portò inoltre, nell’estate del 2002, all’emanazione della Sarbanes-Oxley la prima legge antitruffa americana dell’era contemporanea, che prescrisse ai top executive aziendali di assumersi la responsabilità dei bilanci dei loro gruppi e stanziò pene più severe per le truffe contabili e finanziarie.

8 Negli USA, alcuni studi di criminologia in ordine al white collar crime hanno convalidato l’ipotesi che,

nelle imprese guidate dalla brama di profitti o di crescita del valore azionario si instaura una cultura aziendale in conflitto con la cultura del civismo, una cultura che privilegia obiettivi da perseguire a qualunque costo, anche in violazione della legge.

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85 profitto da tutto ciò che lo rende un obiettivo assoluto da perseguire a qualunque costo. Questa strada presenta però un limite, continua infatti a piegare gli interessi degli altri stakeholder al perseguimento dell’obiettivo del profitto.

b) far entrare i valori in esame nella funzione obiettivo dell’impresa, in questo modo sarà possibile implementare strategie e comportamenti imprenditoriali lungimiranti in grado di coniugare le esigenze di competitività e redditività con istanze umanistiche, realizzando così una forte coesione tra tutti gli stakeholder dell’impresa.

Prima di procedere ad analizzare la teoria degli stakeholder, bisogna domandarci: chi sono gli stakeholder? Questo termine, nato a cavallo degli anni sessanta/settanta negli Stati Uniti in relazione a ricerche applicate della Warton School per lo sviluppo di una teoria del management in condizioni ambientali perturbate, ancora oggi non presenta una definizione univoca. Da un punto di vista letterale, questa espressione si traduce in “colui che ha la posta in gioco”. Nella cultura contadina scozzese, il termine in questione viene usato per indicare il vicino del fondo, più precisamente il proprietario dei paletti di confine del fondo agricolo; cioè colui che, pur non avendo rapporti giuridici diretti eccetto quelli di confine, ha rapporti sociali ed è in ogni caso interessato a ciò che succede nel fondo accanto in quanto i suoi interessi potrebbero essere lesi. Questa accezione rimanda alle regole del buon vicinato e del buon vivere, regole etiche secondo le quali, un soggetto nell’ambito del suo diritto (es: tenere la musica alta fino alle 11 di sera) può decidere liberamente di andare incontro all’interesse legittimo del suo vicino (abbassare il volume della musica), senza che quest’ultimo possa vantare alcuna pretesa al riguardo (solo dopo le 11 di sera il vicino diventa portatore di diritti, e in quanto tale è tutelato dalla legge). Nel gergo comune con il termine stakeholder si usa indicare “i portatori di interessi”, cioè tutti quei soggetti che a vario titolo sono coinvolti nell’attività dell’impresa in quanto destinatari delle attività intraprese dall’azienda o i suoi interlocutori di riferimento. Da quanto appena detto si evince l’ampiezza della portata di questa espressione, che ricomprende al suo interno non solo gli shareholder (gli

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86 azionisti), cioè i portatori di interessi e diritti economici precisi, ma anche tutti i detentori di interessi generali (quali: il personale dipendente; i fornitori; i clienti; le comunità territoriali; gli ambientalisti; le generazioni future;…). Per fare un esempio che faciliti la comprensione della vastità di questa categoria si ritiene opportuno citare quanto dichiarato, durante un’intervista televisiva, da un passante in occasione della vertenza sulla chiusura degli stabilimenti di Termini Imerese, in provincia di Palermo, a seguito della nota crisi della Fiat “Se qui

chiude la Fiat chiude anche il barbiere”.

Come dimostrato dalla letteratura economica, il concetto di stakeholder è un concetto dinamico. Nel corso del tempo siamo passati da una visione degli stakeholder come soggetti passivi e in quanto tali soggetti alle conseguenze dell’attività aziendale9, ad una visione come soggetti attivi che si relazionano con l’azienda e partecipano con essa al processo di creazione del valore10.

L’elemento che accomuna i vari stakeholder è rappresentato dal fatto che tutti loro sono portatori di una domanda di accountability, di informazione, di conoscenza. Scendendo nel dettaglio, tutti questi soggetti chiedono e pretendono che l’azienda sia “accountable”, trasparente, che dichiari e racconti con i suoi comportamenti i suoi valori etici. A tal fine, affinché possano riconoscere all’azienda consenso e legittimazione sociale, elementi senza i quali l’impresa è destinata ad essere emarginata e fuoriuscire dal mercato, esigono informazioni da quest’ultima. Questo scambio che si viene a ingenerare tra l’azienda e i suoi stakeholder si trova alla base della cosiddetta teoria degli stakeholder, teoria affermatasi a partire dagli anni ’60.

9 Nel 1964 Eric Rhenman sostenne che gli stakeholder dipendessero dall’azienda per il raggiungimento

dei loro obiettivi personali, e da essi dipendesse l’esistenza stessa dell’azienda.

10 Nel 1994 R.E. Freeman dichiarò che: “gli stakeholder sono coloro che partecipano al processo di

creazione di valore comune”; mentre, sempre nel solito anno, M. Clarkson asserì che “gli stakeholder sopportano un rischio conseguentemente al fatto di avere investito un capitale, umano o economico, in un’azienda”.

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87 La teoria degli stakeholder nasce nel contesto della strategia di impresa, cioè in un contesto che costringe ad allungare lo sguardo oltre l’orizzonte visibile per tentare di immaginarne il posizionamento dell’impresa in scenari e situazioni appena intuibili dove si muovono soggetti nuovi: gli stakeholder.

Nel 1984 R.E. Freeman, il principale esponente di questa corrente di pensiero, pubblica l’opera “Strategic management: a stakeholder approach”, all’interno della quale presenta la sua stakeholder theory. Anche se già da tempo, tra gli studiosi di economia era condivisa l’idea che l’impresa fosse un “sistema aperto11”, nessuno prima di allora si era soffermato ad analizzare l’importanza del ruolo rivestito dagli stakeholder all’interno della strategia d’impresa. Mancanza giustificata dal fatto che fino a quel momento gli stakeholder, non entrando in relazione stretta con l’azienda, erano considerati come una realtà esterna ed estranea al mercato. Questa visione miope non faceva comprendere l’importanza che il consenso riveste per la sopravvivenza dell’impresa. È solo verso la metà degli anni ’80, a seguito di una forte turbolenza ambientale che mise in crisi il tradizionale pensiero strategico di impresa, che si assiste alla nascita del paradigma dell’interdipendenza impresa-ambiente e si inizia a parlare, con particolare attenzione, di stakeholder. È proprio in quegli anni che Freeman utilizza, per la prima volta, tale termine per indicare “ogni gruppo o individuo

che può influenzare il raggiungimento degli obiettivi dell’impresa o ne è

11 L’impresa riceve dall’ambiente gli input necessari per lo svolgimento della propria attività produttiva,

attività che dovrà essere svolta nel rispetto dei vincoli di legge; e restituisce all’ambiente gli output con i quali i clienti potranno soddisfare i propri bisogni.

stakeholder

impresa

informazione

(18)

88

influenzato”. Con questa definizione Freeman vuole porre l’attenzione sul fatto

che i gruppi e gli individui non rappresentano soltanto dei “vincoli” all’agire dell’impresa, ma partecipano al processo di formazione degli obiettivi della stessa. In questo modo viene sottolineata l’importanza degli stakeholder in quanto “spinta”, e non solo “vincolo”, al comportamento di impresa. Questa nuova apertura mentale ha portato alla successiva teorizzazione dell’esistenza di un legame sempre più stretto tra responsabilità sociale e strategia di impresa. In particolare viene evidenziato come l’impresa abbia dei doveri verso tutti gli interlocutori con cui, direttamente o indirettamente, si trova ad interagire. Nell’opera “Ethical theory and business” del 1988 Evan e Freeman dichiarano che “ciascun gruppo di stakeholder ha diritto a non essere trattato come mezzo

orientato a qualche fine, ma deve partecipare alla determinazione dell’indirizzo futuro dell’impresa (questa partecipazione al processo di creazione del valore si

concretizza con il riconoscimento di consenso e fiducia all’impresa, e quindi con il legittimarla socialmente)…l’autentico fine dell’impresa è quello di operare

come veicolo per coordinare gli interessi degli stakeholder (i quali, nel lungo

termine, tendono a coincidere con il fine proprio dell’azienda: la sopravvivenza e lo sviluppo nel tempo)12”. Al management, in quanto portatore di una relazione

12 L’asserzione secondo cui, nel medio-lungo periodo non c’è un conflitto di fondo tra gli obiettivi

specifici dell’impresa (sostenibilità dell’attività e della redditività) e la sostenibilità del benessere e della qualità della vita degli stakeholder, è stata confermata da un numero considerevole di studi che hanno applicato diversi metodi (storico, statistico, econometrico). Più specificatamente, la maggior parte dei risultati ottenuti ha confermato che le imprese che sono sopravvissute più a lungo e che hanno ottenuto indici di redditività medi più elevati sono proprio quelle che hanno dato maggiore importanza agli interessi di tutti gli stakeholder in un’ottica particolarmente lungimirante.

Sempre a sostegno di questa affermazione, si ritiene inoltre opportuno fare due osservazioni. La prima considerazione ha ad oggetto il fatto che gli stakeholder sono spesso portatori di interessi di lungo periodo, ad esempio:

• i dipendenti sono interessati alla sopravvivenza dell’impresa e alla sua buona salute economica e finanziaria affinché siano garantite occupazione, possibilità di carriera e condizioni retributive non inferiori a quelle di mercato;

• i clienti sono interessati ad intrattenere con l’azienda un rapporto fiduciario durevole che l’impresa può consolidare concentrando l’attenzione sui loro bisogni, anche rinunciando a una quota di profitto nel breve periodo;

• la società civile è interessata alla sopravvivenza dell’impresa per salvaguardare nel tempo l’occupazione e le ricadute durevoli di benessere sulla collettività.

La seconda riflessione riguarda il fatto che è nell’interesse proprio dell’impresa dedicare la massima attenzione possibile alle aspettative dei suoi stakeholder:

• per quanto riguarda i lavoratori, l’attenzione continua per le loro esigenze è fondamentale per motivarne l’impegno, esaltarne la produttività, attrarre e mantenere la forza lavoro più specializzata; • nel caso dei clienti, un orientamento verso i loro bisogni, al fine di massimizzarne la soddisfazione,

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89 fiduciaria che lo lega tanto agli stakeholder quanto all’impresa come entità astratta13, viene attribuito il compito di procedere al bilanciamento di tutti gli interessi in gioco. Il management è quindi tenuto ad agire nell’interesse degli stakeholder come se fosse un loro agente, e non solo agente degli azionisti, e deve agire nell’interesse dell’azienda per garantire la sua sopravvivenza nel medio e lungo periodo14.

La teoria degli stakeholder vede l’azienda al centro di un fitto reticolo di relazioni, alimentate da un processo continuo di comunicazione che si avvale di strumenti specifici quali: bilanci sociali; focus group; siti dedicati;...

• il rapporto con la società civile è di cruciale importanza per ottenere eventuali commesse, nonché le infrastrutture necessarie per una fluida operatività.

13 Uno degli stakeholder dell’impresa è l’impresa stessa, intesa come soggetto portatore di interessi

particolari che, al limite, possono trovarsi in contrasto con gli interessi propri di altre categorie di stakeholder.

14 In relazione a questo aspetto, nel 1998 Goodpaster mosse una critica denominata “paradosso dello

stakeholder” secondo la quale, per un verso il manager è pagato dagli azionisti perché massimizzi i profitti nel loro interesse, per l’altro verso il manager deve agire in modo da bilanciare gli interessi di tutti gli stakeholder. IMPRESA Investitori Gruppi politici Clienti Comunità Dipendenti Associazioni di commercio Fornitori Governo

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90 Alla base di quest’immagine troviamo la recente affermazione di Freeman, contenuta in un saggio del 2004, secondo cui “l’impresa è un insieme di relazioni

tra gruppi che hanno un interesse alle sue attività”.

Proseguendo nella lettura del suddetto saggio troviamo scritto “…L’impresa ha a

che fare con il modo in cui clienti, fornitori, occupati, finanziatori (azionisti, detentori di obbligazioni, banche), comunità e managers interagiscono e creano valore. Per capire l’impresa occorre capire come funzionano queste relazioni”.

Da questa citazione è possibile dedurre quale sia l’obiettivo centrale della teoria degli stakeholder, e cioè quello di studiare come far sì che gli interessi dei vari stakeholder vadano nella stessa direzione. Secondo alcuni studiosi, per poter rispondere a questo interrogativo bisogna ricorrere al contratto sociale tra tutti gli stakeholder, strumento grazie al quale è possibile definire i contenuti della CSR. Approfondendo la questione, la versione contrattualista in senso rawlsiano della teoria degli stakeholder, di fronte a soggetti guidati esclusivamente da auto-interesse illuminato ai quali viene chiesto se acconsentirebbero o meno a far parte dell’impresa, permette di individuare l’equilibrio di contrattazione che qualsiasi stakeholder sarebbe disposto ad accettare per cooperare volontariamente. Questo equilibrio rappresenta il frutto di una procedura imparziale che assicura l’eguaglianza morale di tutti i partecipanti. Alla luce di questo ragionamento, secondo la teoria degli stakeholder, l’impresa dovrà perseguire come obiettivo la massimizzazione della funzione che rappresenta la soluzione del gioco di contrattazione tra tutti gli stakeholder15 e non, come invece sostiene la teoria dello shareholder, la funzione di profitto.

15Secondo Jensen, uno dei critici più importanti della teoria degli stakeholder, questa teoria non è in grado

di proporre una funzione-obiettivo efficiente, in quanto tale funzione-obiettivo si dovrebbe basare su una pluralità di criteri corrispondenti agli interessi differenziati, e spesso contrastanti, dei vari stakeholder. Dal momento che il problema di riduzione di diversi argomenti di una funzione di misura (o di valutazione) a un unico metro di misura è stato da tempo affrontato e risolto (si pensi ad esempio alla teoria dei numeri indice che permette di misurare in modo unitario insiemi di grandezze eterogenee), questa critica non risulta essere convincente. Pur essendo infondata, l’osservazione mossa da Jensen ha richiamato giustamente l’attenzione sull’esigenza che il governo dell’impresa sia basato su una funzione-obiettivo semplice, chiara e trasparente che privilegi il lungo periodo, in grado di raccogliere un consenso di fondo da parte di tutti gli stakeholder. In particolare, in tale funzione, devono essere chiariti i pesi e i trade-off che caratterizzano gli interessi dei singoli stakeholder. Inoltre, sempre in accordo con i portatori di interessi, deve essere specificato l’orizzonte temporale operativo delle decisioni strategiche, il quale dovrà essere necessariamente di lungo periodo al fine di orientare e vincolare la pur necessaria massimizzazione di breve e brevissimo periodo.

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91 Questa maggiore attenzione a tutti i portatori di interesse che contraddistingue la teoria degli stakeholder ha portato, come già detto, allo sviluppo della Corporate Social Responsibility corrente di pensiero secondo cui, un’impresa è responsabile socialmente quando riesce a interiorizzare e declinare nelle proprie politiche di gestione i valori e le aspettative dei propri stakeholder. Tutto questo:

• motiva i dipendenti dell’organizzazione, accrescendo il loro senso di appartenenza;

• aumenta la fiducia dei clienti e degli investitori;

• accresce l’orgoglio di tutti gli stakeholder di partecipare al processo di creazione di valore16 di “un’azienda giusta”.

16 La creazione di valore diventa un obiettivo condiviso da tutti gli stakeholder, e non solo dagli azionisti

come accade nel caso della massimizzazione del solo profitto, poiché qui il valore è inteso come costituito da tre elementi:

• valore economico;

• valore competitivo (differenziale rispetto ai concorrenti);

• valore sociale (contributo dell’impresa al benessere e allo sviluppo della collettività che si raggiunge espletando correttamente la funzione di istituto economico-sociale che gli è propria).

FINE DELL'IMPRESA

Teoria dello shareholder

massimizzazione del profitto

nel rispetto della legge

Teoria degli stakeholder

operare come veicolo per

coordinare gli interessi degli

stakeholder (

massimizzare la funzione che rappresenta la soluzione del gioco di contrattazione tra tutti gli stakeholder

)

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92 Ciò consente all’impresa di ottenere la fiducia ed il consenso di tutti i portatori di interessi (dai fornitori ai clienti; dai finanziatori alla comunità di riferimento;…), e quindi di rafforzare la propria reputazione sociale che si tradurrà necessariamente in un maggior vantaggio competitivo di lungo periodo difendibile dalla concorrenza.

3. Analisi delle critiche alla CSR

Nonostante sia stata più volte dimostrata l’importanza di diffondere, nella società del XXI°, comportamenti in linea con la Corporate Social Responsibility; tutt’oggi persistono posizioni scettiche al riguardo. Posizioni che presentano, però, dei fondamenti di verità. In particolare si ritiene opportuno segnalare tre aspetti positivi delle critiche mosse contro la Responsabilità Sociale delle Imprese; i quali concernono rispettivamente:

• gli investimenti socialmente responsabili; • l’uso della CSR come paravento;

• l’occultamento di un pericoloso trade off tra impegno morale e impegno sociale.

Procediamo con l’analizzarne uno alla volta.

Per quanto riguarda il primo elemento sopra individuato, in un’opera del 2003 Beltratti mette in luce la costosità “in senso economico” della finanza etica17; infatti la rinuncia volontaria a investire in certi titoli comporta una riduzione dei rendimenti (l’investitore etico, con il suo comportamento, si preclude l’accesso a investimenti più carenti sotto il profilo etico, ma economicamente più redditizi). Partendo dall’assunto che siamo di fronte ad agenti razionali18, i quali sono disposti ad adottare comportamenti socialmente responsabili solo se ciò permette di modificare l’equilibrio finale del sistema a seguito degli effetti prodotti sui

In questo caso, quindi, il concetto di valore da una parte coglie la complessità aziendale, dall’altra fa riferimento a una serie di valutazioni di ordine etico-sociale che l’impresa deve necessariamente considerare quando definisce le proprie politiche di sviluppo.

17 Con il termine finanza etica si indica un modo di fare finanza rispettoso dell’ambiente e dell’uomo,

tenendo conto di tutto il ciclo di utilizzo del denaro.

18 L’ipotesi di comportamento razionale implica la volontà di massimizzare l’obiettivo per cui si agisce,

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93 prezzi di borsa e sulle curve dei rendimenti dei titoli, il problema che sorge riguarda l’esistenza di una soglia critica del livello degli investimenti socialmente responsabili, al di sotto della quale l’obiettivo che si intende conseguire non viene realizzato. Se tale soglia non viene superata, e quindi il numero delle imprese che adottano comportamenti responsabili non raggiunge la massa considerata critica, il rischio è rappresentato da un eventuale rafforzamento delle posizioni degli scettici.

Il secondo elemento di verità contenuto nelle critiche mosse contro la Corporate Social Responsibility è rappresentato dalla possibilità che, in presenza di consumatori critici (consumatori che sono interessati non solo alla qualità-prezzo dei prodotti, ma anche al processo produttivo che li ha realizzati e quindi disposti a sanzionare con pratiche di boicottaggio le aziende irresponsabili), imprese senza scrupoli decidano di comportarsi, in un primo momento, in maniera “più etica” rispetto a quelle imprese che effettivamente credono nella CSR, in modo da eliminare o ridurre la forza competitiva dei propri concorrenti; per poi tornare, in un secondo tempo, ad agire irresponsabilmente. Tanto più le istituzioni pubbliche cercheranno di promuovere l’adozione di comportamenti socialmente responsabili da parte delle imprese tramite il riconoscimento di incentivi o altre forme di vantaggio, tanto maggiore sarà la probabilità che imprese opportuniste utilizzino la CSR come strumento per fare “crowding out”, e cioè spiazzare le imprese virtuose e accrescere a proprio vantaggio la rendita monopolistica.

Infine, il terzo punto concerne il pericolo che comportamenti socialmente responsabili possano occultare un pericoloso trade off esistente tra impegno morale e impegno sociale. Cioè destinando parte della ricchezza prodotta al finanziamento di progetti sociali (social commitment) manager cinici, poco attenti in fase di produzione del reddito al rispetto dei diritti umani e alla tutela dell’ambiente, riescono ad occultare la loro assenza di scrupoli morali ed apparire socialmente responsabili19. Questo pericolo investe soprattutto le

19 Secondo la celebre dicotomia di J.S. MILL tra leggi della produzione e leggi della distribuzione della

ricchezza, può apparire socialmente responsabile anche quell’impresa che mentre produce ricchezza non presta importanza alla difesa dei diritti umani, al rispetto e all’integrità morale delle persone o alla tutela

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dell’ambiente, ma diventa “compassionevolmente” generosa in fase di distribuzione della ricchezza prodotta. Sono manifestazioni di questa dicotomia i casi storici di A. Carnegie e di J.D. Rockefeller. Andrew Carnegie (1835-1919), passato alla storia come uno degli uomini più ricchi del mondo che ispirò il celebre personaggio della Walt Disney Paperon De Paperoni (il papero miliardario di Paperopoli, un taccagno con il fiuto degli affari, ma con un cuore grandissimo), sfruttando il suo talento e intuito per gli affari costruì la sua ricchezza nel settore siderurgico (ben presto l’acciaio divenne il materiale da costruzione più usato). Nato da una famiglia scozzese di umili origini trasferitasi in America nel 1848, grazie alla sua determinazione, lungimiranza ed ingegnosità divenne il simbolo del sogno americano. Nel 1865 a Pittsburgh fondò la Carnegie Steel Company che, grazie alla realizzazione di una produzione più efficiente dell’acciaio conseguente all’introduzione del metodo Bessemer e all’integrazione verticale dei fornitori, divenne nel 1880 leader nel settore siderurgico. Nel 1901, decidendo di andare in pensione a soli 66 anni, vendette la Carnegie Steel Company al banchiere J.P. Morgan per la modica cifra di 480 milioni $ (pari nel 2015 a 13,6 miliardi $), la più grande operazione commerciale dell’epoca. Destinò la maggior parte del ricavato della vendita in beneficenza; in particolare sovvenzionò l’ambizione di giovani imprenditori con poche risorse finanziarie, finanziò associazioni culturali, musei, biblioteche ed università. Questo lo rese uno dei filantropi più generosi del mondo. Dietro questa facciata da uomo “responsabile”, si cela l’immagine di un uomo senza scrupoli costantemente impegnato a distruggere il diritto dei lavoratori ad organizzarsi, trasformandoli così in strumenti arrendevoli sotto il controllo della direzione. In particolare è doveroso ricordare il drammatico sciopero di Homestead del 1892 che portò alla distruzione del più grande sindacato dell’America (Amalgamated Association of Iron and Steel Workers). Il conflitto in questione, intervenuto presso lo stabilimento della Homestead Steel Works, acquistata da Carnegie nel 1888, nell’area di Pittsburg in Pennsylvania, fu in realtà una serrata architettata da Carnegie e dal suo rappresentate locale Henry Clay Frick in opposizione alle richieste avanzate dai lavoratori in sciopero: salario più alto, e maggiori diritti. Carnegie e Frick sconfissero gli operai di Homestead con la violenza, facendo prima intervenire le guardie di Pinkerton e poi, a seguito della sconfitta di quest’ultime, la Guardia Nazionale della Pennsylvania. In seguito a questa vittoria, Carnegie fu in grado di tagliare i salari, imporre giornate lavorative di 12 ore, eliminare posti di lavoro accrescendo così i suoi profitti. All’interno della Carnegie Steel Company si venne così a creare un clima di “paura e diffidenza” tra i dipendenti; i quali non osavano esprimere apertamente le loro idee né tanto meno riunirsi per discutere degli affari che riguardavano il miglioramento della loro condizione di lavoro, inoltre si rifiutavano di parlare con gli estranei persino in privato, in quanto sospettavano gli uni degli altri.

John Davison Rockefeller (1839-1937), l’uomo più ricco della storia che ispirò il celebre personaggio della Walt Disney Rockerduck acerrimo rivale di Paperon De Paperoni, grazie alla sua astuzia e spregiudicatezza costruì, a Cleveland nel 1870, la Standard Oil Company che ben presto divenne l’industria petrolifera più potente al mondo. Per riuscire in ciò, fece campo minato intorno alla concorrenza. Iniziò con lo stipulare un accordo con le compagnie ferroviarie, con il quale si impegnava a trasportare sui binari un dato numero di barili l’anno in cambio di un prezzo più vantaggioso (riuscì così a distribuire il petrolio a basso costo). Il passo successivo fu quello di sfoltire, in modo rapido, la concorrenza. Per riuscire in questa impresa si avvalse di metodi intimidatori; in particolare offriva due alternative ai suoi concorrenti: la vendita della propria impresa in cambio di quote della Standard Oil Company oppure il fallimento seguito dall’acquisizione all’asta giudiziaria della loro compagnia. Per rendere credibile tale minaccia, non indietreggiò dal corrompere gli uomini politici più influenti (tra cui lo stesso Presidente degli Stati Uniti). In poco tempo, la Standard Oil Company detenne il 95% della produzione americana di greggio. Nel 1911, a seguito di una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che dichiarò illegale il monopolio sul greggio, la Standard Oil fu scissa in 34 società indipendenti (tra cui le odierne: Exxon; Mobil; Amoco; Chevron). Questo non intaccò minimamente la ricchezza di Rockefeller. Nel 1896, a causa delle precarie condizioni di salute, J.D. Rockefeller decise di ritirarsi definitivamente dal mondo degli affari e dedicare tempo e ingenti risorse finanziarie in attività di beneficienza, nacque così la Rockefeller Foundation che, in pochi anni, divenne la principale associazione umanitaria del mondo. Attraverso questa fondazione, lo “squalo degli affari” cercò di rifarsi una reputazione. Reputazione che fu fortemente compromessa dal “massacro di Ludlow” avvenuto il 20 Aprile 1914, durante il quale persero la vita 45 persone, in special modo donne e bambini. Nel suddetto borgo, situato alle pendici delle Montagne Rocciose quasi ai confini del Colorado verso il New Mexico, vivevano migliaia di immigrati polacchi, greci, messicani e italiani che lavoravano nelle miniere di carbone, in gran parte possedute dalla Colorado Fuel and Iron, la più grande impresa del settore di proprietà di J.D. Rockefeller, la cui gestione era stata affidata al figlio Jr. I minatori guadagnavano un salario misero pagato in buoni acquisto negli spacci della compagnia e vivevano in baracche di legno affittate sempre dalla stessa compagnia; inoltre lavoravano in condizioni molto pericolose. Alla luce di questo, nel settembre 1913 iniziarono uno sciopero con il quale chiedevano: un orario di 8 ore; il divieto

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95 imprese di grandi dimensioni, in quanto per esse è più facile elargire donazioni filantropiche rispetto agli operatori economici più piccoli.

Dopo questo breve esame degli elementi di verità propri delle critiche mosse contro la Corporate Social Responsibility, è possibile proseguire la trattazione con l’analisi e la successiva confutazione della critica madre a tale orientamento. Come ben sappiamo, il principale critico della CSR è l’economista statunitense Milton Friedman. Come dichiarato in un famoso articolo del New York Times del 1970 secondo Friedman, l’unica responsabilità sociale dell’impresa è quella di massimizzare i suoi profitti operando in un mercato aperto, corretto e competitivo, in modo da produrre ricchezza e lavoro per tutti nel modo più efficiente possibile. Questa avversione nei confronti di qualsiasi forma di responsabilità sociale delle imprese trova una forte rappresentazione nelle parole di Steinberg “Proprio come si ha prostituzione quando si fa sesso per denaro, anziché per amore, così l’impresa si prostituisce quando persegue l’amore o la responsabilità sociale anziché il denaro”. Secondo i sostenitori di questa corrente di pensiero, il mercato non ha bisogno di certificati di legittimazione, perché è in grado di autolegittimarsi. Questa capacità deriva dal fatto che in un mercato libero e concorrenziale, in assenza di inganno e coercizione, le parti scelgono liberamente di dare vita ad una transazione economica solo se conveniente per entrambi, accettandone anche le conseguenze. Per cui dalla libertà di scelta discende il consenso, dal quale a sua volta discende la legittimazione20. Dal momento che l’impresa è l’istituzione principe del mercato, l’autolegittimazione di quest’ultimo si estende automaticamente all’impresa; per cui la sua unica responsabilità sociale è quella di creare ricchezza per gli azionisti, nel rispetto delle regole del mercato. Saranno poi gli azionisti a decidere, in un secondo momento, cosa fare dell’utile distribuito (destinarlo in tutto o in parte a scopi sociali).

di far lavorare i bambini; una paga decente in dollari e non in buoni acquisto. Sfrattati dalle loro case, si accamparono in un terreno pubblico. Nel frattempo la società, in difesa dei crumiri, assoldò i mercenari dell’agenzia Baldwin-Felts; a cui fu dato l’ordine, in data 20 aprile, di uccidere i minatori in sciopero e bruciarne l’accampamento. La Guardia Nazionale assisté al massacro senza alzare un dito.

20 La nozione di consenso fondata sulla libera scelta è espressa chiaramente in un’opera di Posner del

1981, nella quale si legge: “…una persona che compra un biglietto della lotteria e poi perde, ha acconsentito alla perdita nella misura in cui non vi è traccia di frode o di costrizione”.

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96 La tesi anti-CSR presenta, come già accennato, dei punti deboli:

• la libertà di scelta non necessariamente implica il consenso, a causa dei vincoli a cui è sottoposta la scelta (es: un povero che per allentare il vincolo della miseria è disposto ad offrire i suoi organi in vendita, di certo non acconsente alle conseguenze che ne derivano). La libera scelta di un’alternativa ha quindi forza legittimante solo se anche l’insieme delle alternative può essere oggetto di valutazione da parte del soggetto. Inoltre, affinché dal consenso possa discendere un’obbligazione è necessario che i vincoli della scelta siano condivisi da tutti (cioè tutti i partecipanti al contratto sociale devono condividere la “giustificazione” dei vincoli).

• l’argomentazione secondo cui l’autolegittimazione dell’impresa nasce dall’autolegittimazione del mercato, del quale l’impresa è l’istituzione principe, non tiene conto della diversità del loro principio organizzativo: il mercato si fonda su rapporti orizzontali e simmetrici tra tutti coloro che vi prendono parte; l’organizzazione dell’impresa si basa invece sul principio di gerarchia21.

• nell’economia reale non si realizzano le condizioni che stanno alla base del ragionamento anti-CSR, e cioè: concorrenza perfetta di tutti i mercati, sia quelli degli input che quelli degli output; equa distribuzione del reddito, in modo da garantire a tutti i soggetti la partecipazione al gioco del mercato; immutabilità delle preferenze degli agenti economici rispetto allo svolgimento dell’attività economica; completa separazione del mondo economico da quello politico e della società civile, tale per cui le variabili economiche (es: prezzi, quantità vendute,..), anche se nel corso del tempo possono subire delle variazioni dovute anche agli accadimenti che promanano dalla politica e dalle relazioni sociali, nel lungo periodo tendono ai loro standard di riferimento determinati dai “fondamentali di mercato”. Da notare inoltre che se queste condizioni si realizzassero, in un equilibrio concorrenziale di lungo periodo i profitti dell’impresa sarebbero nulli (paradosso della tesi anti-CSR).

21

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97 • l’assunto di base di questa teoria secondo il quale, l’impresa deve

massimizzare i propri profitti nel rispetto delle regole del gioco (cioè delle norme vigenti), in assenza di istituzioni civili e giuste22, risulta un po’ troppo riduttivo. Nella realtà, a causa della spesso incompletezza dei contratti nonché dell’inesistenza di alcuni mercati, sorgono problemi di agenzia (principale-agente) e problemi correlati all’abuso di autorità da parte di chi detiene il diritto residuale di controllo nei confronti degli stakeholder non controllanti. Quindi solo se le regole del gioco economico fossero complete; se i processi di legiferazione fossero in grado di adattarsi rapidamente all’evoluzione delle vicende economiche; se l’esecutorietà delle norme non comportasse costi talmente elevati da incoraggiare comportamenti elusivi o corruttivi23 allora non sarebbe necessario parlare di CSR. L’impresa che adotta comportamenti socialmente responsabili concorre a definire un’etica civile, un’etica in grado di costruire forme di condensazione organizzativa da cui possono nascere istituzioni civili e giuste.

4. Perché le imprese decidono di orientarsi alla CSR

Nelle economie avanzate la gestione della responsabilità sociale, e cioè l’attenzione agli stakeholder, si traduce sempre più spesso in una condizione necessaria per rimanere sul mercato. Adottando un comportamento etico l’impresa evita, infatti, di deludere l’opinione pubblica e quindi di essere delegittimata ai suoi occhi, come invece accade per i concorrenti “irresponsabili” che cercano di conquistare posizioni di mercato attraverso comportamenti eticamente scorretti.

22

Le norme da sole non sono in grado di evitare il ripetersi di reati e catastrofi ambientali, sociali e finanziari. L’esecutorietà delle norme dipende, in primo luogo, dalla costituzione morale delle persone; cioè dalla loro struttura motivazionale interna, prima ancora che da sistemi di enforcement esogeno. Per questo motivo è importante che la società incoraggi, soprattutto attraverso l’educazione, la diffusione su larga scala delle virtù civiche.

23 Se l’etica non entra nella funzione obiettivo degli agenti, ogni qualvolta sussista qualche probabilità di

trasgredire le norme senza costo (cioè senza il rischio di essere scoperti e danneggiare conseguentemente la reputazione aziendale), ciò sarà fatto.

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98 A fronte di ciò il management avverte, quindi, la necessità di gestire l’impresa secondo un nuovo orientamento24 nel quale la responsabilità sociale riveste un ruolo strategico nella conduzione dell’impresa, permeandone ogni funzione:

• produzione; • marketing;

• gestione del personale; • …

Orientarsi alla CSR comporta garantire, attraverso la redazione di appropriati strumenti di rendicontazione e di comunicazione sociale, un tasso di trasparenza adeguato in grado di generare consenso tra gli stakeholder25. Anche quello in oggetto è un orientamento alla qualità; l’unica differenza rispetto all’orientamento che lo precede è che in questo caso l’oggetto di osservazione non è la qualità del prodotto o del processo, ma la qualità dei valori ispiratori della gestione.

Dall’esame di una pluralità di casi, sia a livello nazionale che internazionale, è emerso che le imprese possono decidere di adottare l’orientamento della gestione alla CRS per tre ragioni:

a) per moda o avanguardia; b) per esigenze e spinte esterne; c) per presa di coscienza.

Alcune imprese, pur non essendo soggette a pressioni particolari o non avendo ancora maturato una forte convinzione sull’importanza dell’essere etico, decidono di orientarsi alla responsabilità sociale d’impresa e, conseguentemente, di adottare gli strumenti ad essa inerenti o perché vogliono essere le prime in un

24

Nell’arco di oltre cent’anni si sono susseguiti e sovrapposti diversi orientamenti alla gestione dell’impresa: autoreferenzialità; prodotto; mercato; finanza; globalità; dimensione; controllo; qualità; responsabilità sociale dell’impresa ed etica.

25 Il primo documento con il quale l’azienda cerca di ottenere la legittimazione del mercato è

rappresentato dal bilancio d’esercizio. Ogni interlocutore ha, infatti, il diritto morale ad essere informato correttamente sugli andamenti aziendali. Questo principio etico è stato tradotto, già da molti anni, dall’evoluzione della dottrina aziendale e dalla legislazione dei Paesi economicamente più avanzati in un vero e proprio diritto di tutti i terzi (attuali o potenziali) a disporre di un minimo comune periodico e neutrale di dati e informazioni di bilancio in grado di fornire un quadro corretto e chiaro di come l’azienda si sta comportando nella sua attività continua di sopravvivenza e sviluppo. L’importanza di una chiara, corretta e veritiera informativa di bilancio si comprende soprattutto alla luce del seguente quesito: “come potrebbe il pubblico avere fiducia nel comportamento etico di un’azienda di cui è accertato che la contabilità e il bilancio d’esercizio non sono attendibili?”

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99 settore o in un’area geografica (avanguardia), o perché intendono emulare il comportamento di altre imprese (moda). Questo punto di accesso al tema della Corporate Social Responsibility spesso non ha un effetto duraturo in quanto, finito l’effetto annuncio, l’impresa non ha altre ragioni per proseguire il percorso intrapreso. Un esempio pratico di quanto appena detto è rappresentato dal caso delle Ferrovie dello Stato. Quest’ultime, pur essendo state insieme alla Fondazione Cassa di Risparmio di Vignola tra le prime a pubblicare il bilancio sociale, dopo appena un anno smisero di rendicontare il loro impegno sociale. Altre aziende possono decidere di adottare questo nuovo orientamento gestionale a seguito delle spinte esercitate da concrete esigenze, quali:

• l’avvio del processo di privatizzazione (in Italia, durante il processo di privatizzazione di banche, public utilities e servizi, l’adozione dell’orientamento alla responsabilità sociale d’impresa è servito a rassicurare gli stakeholder non finanziari che il passaggio al perseguimento di risultati economici non avrebbe pregiudicato il principio di socialità; principio che, fino ad allora, aveva guidato la gestione delle aziende pubbliche);

• il recupero di immagine a seguito di spiacevoli fatti ed episodi di cronaca (es: chiusura di stabilimenti produttivi; ristrutturazioni;…);

• l’operatività in un settore particolarmente sensibile ai temi ambientali (le aziende operanti in questi settori sono state tra le prime a rendicontare la loro responsabilità d’impresa);

• …

Infine, va ricordato l’esistenza di quel gruppo di imprese che decidono di adottare un orientamento CSR in quanto credono fermamente nell’importanza dell’essere socialmente responsabili. In queste realtà, è all’interno del management che sorge la necessità di mutare e migliorare il rapporto dell’impresa con il contesto economico di riferimento. Questo è quanto è accaduto nelle imprese cooperative, in particolare nelle banche popolari e nelle banche cooperative di credito. In queste imprese, caratterizzate dal fatto che spesso un medesimo soggetto si identifica con più categorie di stakeholder (es:

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100 gli azionisti sono dipendenti e spesso anche clienti dell’organizzazione), si è registrato un forte proliferare:

• della produzione di bilanci sociali; • dell’adozione di codici etici;

• del ricorso al dialogo attivo e attento con gli stakeholder.

Per questo motivo, l’esperienza di queste forme organizzative è servita da confronto per le altre imprese dello stesso settore, e ne ha promosso l’adozione di comportamenti imitativi.

Il confronto è fondamentale ai fini della divulgazione della Corporate Social Responsibility:

• il confronto con il settore non profit, responsabile per definizione, è servito da esempio per il settore profit e per la pubblica amministrazione;

• nelle multinazionali, dove la decisione di adottare un orientamento CSR matura nei vertici della casa madre, il confronto avviene tra il management locale e le esperienze realizzate dalle altre filiali dell’azienda (in queste realtà vige la logica “think global and act local”).

Da quanto detto in ordine all’importanza del confronto per diffondere la responsabilità sociale delle imprese, possiamo concludere nel dire che tra le tre motivazioni all’orientamento CSR si instaura un “circolo virtuoso”: i soggetti che hanno piena consapevolezza dell’importanza di essere etici adotteranno per presa di coscienza il nuovo orientamento; invece, i soggetti che non hanno ancora maturato tale convinzione ricorreranno a tale orientamento per moda. Successivamente la moda si trasformerà in esigenza, che a sua volta creerà consapevolezza; la quale solleciterà il raggiungimento di nuove posizioni di avanguardia e così via.

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