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Durante la sua infanzia la famiglia, in aperta diatriba con la Serenissima, fu privata dei possessi nel Montello

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Capitolo 3

Militari della penisola negli eserciti di tutta Europa

L’età moderna, è noto, è il periodo in cui si pongono le basi per la costruzione dei concetti di Stato e di Nazione; è quindi doveroso ricordare, quando analizziamo il fenomeno dei militari che combattono in eserciti diversi da quello del proprio territorio di nascita, che non stiamo necessariamente parlando di casi di tradimento o di consapevoli scelte di abbandono del proprio sovrano1. La “mobilità di servizio” era uno stato abbastanza naturale. Ciò, però, non significa che nel corso dei secoli gli Stati non abbiano approntato politiche volte a favorire il coinvolgimento degli uomini – soprattutto degli esponenti della nobiltà territoriale – nelle strutture militari e dirigenziali.

Le motivazioni che spingevano gli uomini ad andare a combattere in un esercito

“straniero” potevano anche essere molto diverse. Coloro che lo facevano per palesi divergenze, o addirittura in aperto contrasto, con il proprio sovrano erano sicuramente una minoranza2. Molto più frequentemente la scelta di prendere parte a guerre lontane dalla propria terra non solo era tollerata e approvata dai legittimi regnanti, ma talora addirittura incoraggiata: nel Granducato di Toscana i membri della casa regnante erano mandati a combattere in altri eserciti proprio per far sì che la nobiltà seguisse il loro

1 Anche il concetto di “straniero” è quindi estremamente delicato. Per questioni prettamente pratiche continueremo ad utilizzarlo, intendendo – ovviamente senza alcuna connotazione morale – un esercito o un sovrano che non sono quelli “ufficiali” del territorio cui ci stiamo riferendo.

2 Uno di questi è sicuramente Rambaldo Collalto, dei castellani di San Salvatore, nel Trevigiano.

Durante la sua infanzia la famiglia, in aperta diatriba con la Serenissima, fu privata dei possessi nel Montello; per Rambaldo fu un’onta insopportabile che lo portò a fuggire, sedicenne (nel 1595), per combattere sotto il vessillo imperiale. Al contrario del cugino e del fratello e dello stesso padre, non tornerà mai a servire Venezia. Cfr. G. BENZONI, Collalto Rambaldo, in Dbi, ad voc., XXVI, pp. 783-788.

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esempio. Generalmente comunque si andava a cercare il servizio che avrebbe reso di più, in termini di onore, denaro o ricompense, a seconda delle esigenze.

23%

9%

9%

8%

8%

7%

4%

3%

2%

0%

1%

1%

25%

veneziano

spagnolo

imperiale

sabaudo

Ordine Gerosolimitano

pontificio

toscano

genovese

francese

gonzaghesco

estense

ribelle messinese

altri

Figura 1. Suddivisione dei militari italiani negli eserciti. Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e da Aldo Valori. (Altri: non classificabile, parmense, ribelle corso, olandese, ribelle valdese, della Repubblica di Napoli, ottomano, della Lega cattolica, polacco, inglese, bavarese, svizzero, lucchese, sammarinese, valtellinese)

3.1 La Monarchia spagnola in Italia

Dal grafico appare chiara la preponderanza dell’esercito spagnolo; dato apparentemente prevedibile per la massiccia presenza della Spagna sul territorio italiano, non solo in termini reali di domini assoggettati, ma anche per i forti legami che questa era riuscita a creare con gli altri Stati3.

A lungo la storiografia, in particolare italiana, ha dipinto il periodo della dominazione spagnola sulla penisola come un momento di decadenza per i territori interessati, i quali non solo non avrebbero tratto alcun beneficio dalla presenza asburgica, ma sarebbero stati sfruttati a totale vantaggio delle esigenze

3 Se prendiamo singolarmente i vari repertori, vediamo come, nel caso di quello curato da Corrado Argegni e del Dbi, l’esercito spagnolo risulti addirittura al primo posto con presenze altissime: il 42 % nel primo caso e il 28 % nell’altro. Per una visione complessiva dei grafici sull’argomento rimando all’Appendice B.

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dei sovrani iberici. Per quanto riguarda il Regno di Napoli, Anna Maria Rao ci parla addirittura di una «leggenda nera», formatasi all’inizio del XVIII secolo, che tratteggiava un Regno incapace di sviluppi autonomi e “nazionali” e totalmente soggiogato alle necessità belliche del sovrano “straniero”4.

Anche per quanto riguarda la Lombardia la Spagna è stata a lungo descritta come la causa della decadenza del territorio, prodotto di una sudditanza totale alle scelte di Madrid. Mario Rizzo si oppone a questa visione, a suo dire assolutamente semplificatrice, del periodo5: in realtà il dominio iberico avrebbe portato cambiamenti e innovazioni tali da ricreare un contesto culturale, sociale ed economico in grado di consentire una crescita sotto molteplici punti di vista.

Indubbiamente la seconda metà del Settecento fu teatro di un’innovazione pressoché totale del Ducato milanese, ma questa fu dovuta al contesto socio- politico-culturale che lo rendeva possibile; molti sviluppi trovarono la loro origine negli svariati processi avviati (pur senza un progetto globale) durante la dominazione spagnola. Inoltre, sempre secondo lo storico cremonese, è fuor di dubbio l’attenzione da sempre dimostrata dalla monarchia asburgica alla tutela e al rispetto delle autonomie locali, sviluppata agli albori del suo dominio durante la progressiva conquista della penisola iberica. «Il rispetto per le istituzioni e le usanze dei vari paesi, nonché la disponibilità della monarchia a scendere a compromessi con le classi dirigenti locali, rappresentano una costante nella storia dell’impero asburgico»6.

Diverse furono le politiche a seconda del territorio. Spagnoletti lamenta un totale sfruttamento del Regno di Napoli, a differenza invece di quanto successe per i domini lombardi: mentre questi ultimi godevano di tutti i contatti favoriti dall’essere governati dagli Asburgo, ricadeva sul Meridione tutto il peso della

4 Anna Maria RAO, Esercito e società a Napoli nelle riforme del secondo Settecento, in C. DONATI (a c.), Eserciti e carriere cit., p. 147.

5 Mario RIZZO, «Centro spagnolo e periferia lombarda nell’impero asburgico tra Cinque e Seicento», in Rivista storica italiana, CIV (1992), pp. 315-348.

6 Ivi, p. 317.

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contribuzione militare (risorse materiali, ma anche umane) necessaria alla conquista e al mantenimento dell’impero e delle sue attività belliche7.

Anche Milano, sebbene in una forma molto differente e sicuramente meno destabilizzante per gli equilibri dello Stato, subì le conseguenze dell’impegno militare spagnolo. Sul suo territorio, strategico da questo punto di vista, venivano radunate le truppe in partenza per i molteplici teatri di guerra in cui era coinvolta la Spagna. Il peso dell’ospitalità di questa grande massa di soldati ricadeva tutto sulla popolazione e i molti danni non solo materiali che questo comportava vengono specificati in tutti i documenti volti a presentare la situazione del territorio8. Oltre ad essere uno dei principali centri di raccolta delle truppe, ovvero la «Piazza d’armi» della monarchia9, il ducato di Milano era anche la porta d’ingresso nella Penisola, confinava con tutti i potenziali nemici della corona spagnola e per questo era necessario che fosse costantemente difeso. Questo bisogno faceva aumentare ulteriormente la presenza militare entro i confini dello Stato, con numeri che, secondo le stime di Ribot García per la seconda metà del Seicento, si aggiravano intorno ai 1200 uomini, solo per il presidio dei castelli e delle fortezze10. Ma alla vigilia della guerra di successione spagnola Milano non è più la regione d’Italia in cui si trovava il maggior numero di soldati professionisti; si assiste, in questo periodo ad un sostanziale calo di disponibilità di soldati validi, di conseguenza, persistendo la necessità di difesa del territorio, si trasforma in un «ridotto

7 «Tutti sottolineavano il gravoso peso finanziario che il napoletano, al pari della Castiglia, sosteneva nel tener in piedi le ragioni dinastiche della grande monarchia nell’Europa intera e, soprattutto, nei principati italiani.» in Angelantonio SPAGNOLETTI, Principi italiani e Spagna nell’età barocca, Milano, Bruno Mondadori, 1996, p. 148.

8 Una prova di quanto dovesse essere inviso alla popolazione l’ospitare soldati nelle proprie case ci è data dai regolamenti delle milizie: chi faceva parte delle milizie foresi, oltre ai vari privilegi cui abbiamo accennato più volte, era esentato dal dovere di alloggiare i militari di professione. Cfr. Enrico DALLA ROSA, Le milizie del Seicento nello Stato di Milano, Milano, Vita e Pensiero, 1991, cap. 9.

9 Luis RIBOT GARCÍA, Milano, piazza d’armi della monarchia spagnola, in C. DONATI (a c.), Eserciti e carriere cit., pp. 41-61.

10 Ivi, pp. 56 e 57.

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ultrafortificato in cui lo spessore delle mura doveva in un certo senso ovviare alla crescente penuria di soldati validi»11.

Abbiamo citato Rizzo che sottolinea la volontà della monarchia iberica di scendere a compromessi con le élite locali; in realtà, a Milano come nel Meridione, Madrid fece molto di più: improntò tutta la sua politica sul totale coinvolgimento dei gruppi dirigenti locali, affidando all’aristocrazia del luogo incarichi sia amministrativi che militari e legandola a sé attraverso la concessione di feudi, titoli e onori. Analizzare il conferimento di queste

«mercedi» è fondamentale per capire come la Spagna riuscì a mantenere un così grande impero tanto a lungo12. Generalmente venivano conservati per gli spagnoli gli incarichi di più alto livello (nel caso della Lombardia, ad esempio, Governatore, Gran cancelliere, Magistrato ordinario e Magistrato straordinario), ma poteva capitare che un membro dell’aristocrazia locale, dotato di talento e soprattutto di buoni contatti sia con la corte madrilena che sul luogo, riuscisse a essere insignito, magari solo temporaneamente, di tali ruoli13. Per quanto riguarda l’ambito militare, erano generalmente prerogativa degli spagnoli incarichi quali generale o maestro di campo; tuttavia nei decenni centrali del Seicento la condizione di emergenza è tale che le possibilità di carriera per i

«naturali» crebbero notevolmente: chi ambiva a tali posizioni doveva mettere in gioco non solo la sua persona, ma anche una notevole somma di denaro, entrambi contributi che la Spagna non poteva permettersi di rifiutare dato l’enorme sforzo profuso nel tenere aperti più fronti contemporaneamente14. Nel Regno di Napoli la concessione di titoli e feudi fu utilizzata fin da subito per convogliare la nobiltà locale in una serie di comportamenti che la portarono

11 Claudio DONATI, Le istituzioni di difesa nell’area italiana tra XVII e XVIII secolo: aspetti politici, economici e sociali, in Rosario VILLARI (a c.), Controllo degli stretti e insediamenti militari nel Mediterraneo, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 191-217.

12 Gianvittorio SIGNOROTTO, Guerre spagnole, ufficiali lombardi, in Antonella BILOTTO, Piero DEL NEGRO, Cesare MOZZARELLI, I Farnese. Corti, guerra e nobiltà in antico regime Atti del convegno di studi, Piacenza, 24-26 novembre 1994, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 367-396.

13 È il caso di Bartolomeo Arese il quale ricoprì diversi incarichi generalmente riservati agli spagnoli. Cfr. Gianvittorio SIGNOROTTO, Milano spagnola. Guerra, istituzioni, uomini di governo (1635-1660), Milano, Sansoni, 1996, cap. 9.

14 Ivi, cap. 11.

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a servire il sovrano sui suoi molteplici campi di battaglia, e si operò anche per far sì che la dedizione dimostrata attraverso le armi trovasse una sua corrispondenza all’interno della struttura statale. Si viene così a creare una cultura che porterà ad esaltare la tradizione di quei casati che di generazione in generazione metteranno «a repentaglio vita e ricchezze per difendere un ideale che coinvolgeva in un unico destino il re e il suo nobile servitore»15. Ben presto, infatti, non basterà più mettersi personalmente con coraggio e valore al servizio del sovrano per ricevere ricompense, diventerà prioritario reclutare uomini a proprie spese.

I titoli che venivano assegnati dalla corona spagnola erano principalmente due:

quello di cavaliere dell’ordine del Toson d’oro e quello di Grande di Spagna.

Difficile stabilire tra i due quale fosse il più importante: entrambi erano destinati alla nobiltà più alta, il secondo aveva sicuramente un carattere di tipo ereditario, il primo veniva utilizzato, almeno all’inizio del dominio spagnolo sulla penisola, per legare alla monarchia principi non sudditi; col passare del tempo, però, venne acquistando un carattere sempre più nazionale16.

A partire dalla seconda metà del Seicento si assiste ad una progressiva perdita di potere della monarchia iberica sull’Italia. Il calo di conferimenti del titolo di cavaliere del Toson d’oro a nobili non sudditi ne è sicuramente un segno.

Francia e Impero sono sempre più presenti negli affari della penisola, di conseguenza l’aristocrazia comincia a rivedere le proprie lealtà, anche perché la Spagna dava chiari segni di debolezza: promesse non mantenute, pensioni non pagate, governatori con atteggiamenti ben poco diplomatici17. Anche Hanlon evidenzia un allontanamento della nobiltà italiana dalla corona di Madrid; un atteggiamento che ricalca quello tenuto dalla nobiltà castigliana solo pochi anni prima e che è ulteriormente sottolineato da un forte calo nel conferimento dei riconoscimenti18. Tale interpretazione non è unanime: secondo Gianvittorio

15 A. SPAGNOLETTI, Principi cit., p. 207 e sgg.

16 Ivi, cap. 2; in particolare pp. 80-84: elenco dei nobili italiani insigniti del titolo di cavaliere dell’ordine del Toson d’oro.

17 Ivi, p. 231 e sgg.

18 G. HANLON, The twilight cit., p. 179 e sgg.

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Signorotto, questo è il momento in cui la nobiltà di origine italiana ha più possibilità di far carriera all’interno dell’esercito spagnolo, proprio perché la monarchia è in crisi; una possibilità che, secondo lui, almeno per quanto riguarda il milanese, viene ampiamente sfruttata, a dispetto di quanto sostengono gli altri studiosi19.

0 2 4 6 8 10 12 14 16 18

1600-09 1610-19

1620-29 1630-39

1640-49 1650-59

1660-69 1670-79

1680-89 1690-99

spagnolo imperiale francese

Figura 2. Suddivisione dei militari italiani operanti nel Seicento per decennio e per esercito, in percentuale rispetto al totale dei combattenti dello stesso decennio. Dati estrapolati dal repertorio di Aldo Valori.

In verità il grafico dei militari suddivisi nei tre eserciti, spagnolo, imperiale e francese, ci mostra effettivamente un brusco calo dei servitori della monarchia di Madrid a partire dalla seconda metà del Seicento. La stessa diminuzione, però, interessa anche l’esercito imperiale, pur con un decennio di anticipo, ma, essendo molto diverse le cifre di partenza, il fatto che a fine secolo le due potenze abbiano circa le stesse percentuali ci fa capire quanto sia stato consistente il crollo spagnolo. Per altro, negli anni Ottanta le due curve divergono mostrando un aumento della presenza italiana nelle file imperiali di circa due punti percentuali rispetto all’esercito iberico.

Possiamo quindi affermare che dalla metà del secolo si nota un diffuso minor coinvolgimento degli italiani nelle strutture militari delle tre monarchie; pur

19 G. SIGNOROTTO, Milano spagnola cit., cap. 9.

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con tutte le incertezze che abbiamo già evidenziato nel secondo capitolo, l’esercito spagnolo risente in particolare di questo calo, e tuttavia non sembra che si tratti di un deciso cambio di fronte nei confronti delle altre due potenze che stanno acquistando potere nel periodo.

3.2 Gli Stati italiani “in prima linea”

Nei decenni in cui la Spagna cercava di far confluire tutta l’aristocrazia italiana nelle sue strutture di potere, due dei più grandi Stati indipendenti della penisola miravano al rafforzamento del proprio esercito, cercando, per quanto possibile, di coinvolgervi i propri sudditi.

Repubblica di Venezia

La Serenissima aveva affrontato una prima riorganizzazione del proprio esercito durante le guerre d’Italia. L’esercito da Mar non presentava alcun problema, il punto debole erano le truppe di terra, nonché la difesa del territorio della Repubblica.

Se non in casi particolari, i sudditi non avevano alcun tipo di obbligo militare, neppure gli aristocratici, né patrizi, né nobili della Terraferma. Chi si impegnava nell’ambito militare lo faceva volontariamente, ma probabilmente si viveva troppo bene perché fosse sentito il bisogno di arruolarsi o di cercare titoli e riconoscimenti attraverso l’investimento di denaro ed energie nelle attività belliche20. Di conseguenza il governo era costretto a cercare la collaborazione di truppe e condottieri stranieri; tuttavia «nonostante il suo carattere cosmopolita, l’esercito veniva considerato come espressione diretta del governo veneziano»21.

Nella prima metà del Cinquecento la Repubblica non solo affrontò una riorganizzazione a livello politico dell’apparato militare, quindi una

20 John R. HALE, L’organizzazione militare di Venezia nel ‘500, Roma, Jouvence, 1990, p. 115 (ed or., Michael E. MALLET and John R. HALE, The military organization of a Renaissance State:

Venice, c. 1400 to 1617, 1984).

21 Ivi, p. 151.

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risuddivisione di incarichi e compiti all’interno dell’apparato di governo22, ma impostò una strategia di maggior coinvolgimento dei sudditi. Le Cernide acquistarono un ruolo fondamentale nella difesa dell’ampio territorio terrestre e divennero allo stesso tempo strumento per far partecipare anche la nobiltà della Terraferma allo sforzo bellico dello Stato. La necessità di inserire nelle dinamiche governative – per quanto possibile, visto che i ruoli di governo erano destinati ai patrizi veneziani – le aristocrazie della Terraferma era sentita già nel XV secolo e già allora era stata messa in atto una precisa politica in proposito che aveva dato i suoi frutti proprio nel periodo delle guerre d’Italia23. Tra la nobiltà maggiormente partecipe spicca la famiglia Savorgnan, castellani legati strettamente a Venezia sin dai tempi della conquista del Friuli. «Salvo qualche rara eccezione i posti migliori erano riservati ai Savorgnan»24. La continuità di servizio è infatti uno dei tratti salienti che lega alcuni dei casati del dominio al governo veneziano: era ritenuto assolutamente necessario conservare questo privilegio, poiché la carriera militare non era un mezzo per cercare promozione sociale, quanto piuttosto il conferimento di un titolo che sanciva un livello ormai acquisito. «Il mestiere delle armi, almeno per quanto riguardava le compagnie di cavalleria pesante, non rappresentava una valvola di sfogo per i cadetti della nobiltà veneta, ma spesso costituiva piuttosto una prerogativa di colui che sarebbe stato destinato a perpetuare la tradizione familiare»25. I giovani nobili venivano incoraggiati dalle famiglie, con il totale appoggio del governo, ad andare a combattere negli eserciti stranieri, con la certezza che al

22 Ivi, cap. 3.

23 Luciano PEZZOLO, “Un San Marco che in cambio di libro ha una spada in mano”. Note sulla nobiltà militare veneta nel Cinquecento, in Amelio TAGLIAFERRI, I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea, Del Bianco, Udine, 1984, pp. 81-94.

24 Antonio CONZATO, Dai castelli alle corti. Castellani friulani tra gli Asburgo e Venezia. 1545-1620, Verona, Cierre, 2005, p. 10. A differenza di Pezzolo, Conzato denuncia da parte di Venezia una totale mancanza di interessamento per i castellani friulani che si protrae dalla conquista del Friuli, quando ovviamente aveva necessitato del loro appoggio, fino alla metà del Cinquecento, momento in cui la Serenissima aveva preso coscienza del fatto che i suoi feudatari stavano servendo altri principi.

25 Luciano PEZZOLO, Nobiltà militare e potere nello stato veneziano tra Cinque e Seicento, in A.

BILOTTO, P. DEL NEGRO, C. MOZZARELLI, I Farnese cit., p. 417.

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loro ritorno sarebbero stati ufficiali competenti da utilizzare al meglio al servizio della Repubblica.

La situazione che appare sul finire del secolo è però profondamente mutata: la quasi totalità dell’aristocrazia della Terraferma era in servizio presso un altro sovrano, e non certo per formarsi in vista di un possibile rientro. Probabilmente le ragioni di questo stato di cose sono da ricercarsi nel lungo periodo che, dopo le guerre d’Italia, aveva reso praticamente inutile per l’esercito veneziano la cavalleria pesante, facendo sì che la nobiltà terrestre perdesse le proprie peculiarità e non riuscisse più a trovare un proprio ruolo, finendo addirittura per essere dimenticata dal governo26.

Riconosciuta la gravità della situazione, il Senato veneziano tentò alcune soluzioni, in particolare in occasione della guerra di Gradisca, ma non fu sufficiente richiamare in servizio gli assenti per risolvere un problema che affondava le sue radici in scelte e comportamenti ben più lontani nel tempo27. Ad ogni modo dei tentativi messi in atto da Venezia per recuperare i suoi feudatari parleremo più approfonditamente nel prossimo capitolo.

Ducato di Savoia

L’esercito è il veicolo attraverso cui passa la riorganizzazione dello stato sabaudo. Quando salì al trono Emanuele Filiberto lo Stato era in condizioni disastrate: la guerra non solo ne aveva distrutto l’economia, ma soprattutto aveva cambiato gli abitanti, innescando lotte intestine e alterandone stili di vita e valori. Ciò che si prospettava al nuovo sovrano, peraltro valoroso combattente, era un arduo compito: era necessario ricostruire uno stato sin dalle sue fondamenta.

Uno dei primi atti compiuti dal duca fu la costituzione delle milizie, queste dovevano servire a mantenere l’ordine nei territori, ma furono anche un potente mezzo di coinvolgimento dei sudditi nella nuova struttura statale che andava creandosi. Contribuirono infatti a cambiare l’idea che era andata formandosi in

26 L. PEZZOLO, “Un San Marco” cit.

27 A. CONZATO, Dai castelli cit., p. 10 e sgg.

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quegli anni a causa delle «sordide e terrificanti soldatesche che infestavano campagne e villaggi»: i membri delle milizie paesane dovevano essere membri scelti, dotati di ampi privilegi, e nell’organizzare il loro impegno militare venivano anche tenuti in considerazione i cicli stagionali del lavoro agricolo28. Ma soprattutto servirono al sovrano a legare a sé la piccola nobiltà di provincia che imparò a vedere il servizio di milizia come l’unico modo per giungere a corte.

L’impegno militare nello stato dei Savoia divenne così il mezzo più efficace utilizzato dall’aristocrazia per giungere a posizioni elevate nella gerarchia governativa29, ma parallelamente fu anche il modo in cui i duchi riuscirono a creare un solido sistema di governo basato sulla lealtà degli alti ceti che garantiva al tempo stesso un esercito forte, abile e mai privo di forze.

«Un’alternanza di reciproci scambi segnò dunque il rapporto tra esercito e società civile»30. I Savoia utilizzarono le forze armate per rafforzare lo Stato, al fine di preservarlo da tentativi di annessione esterni e conservare una certa indipendenza. Allo stesso tempo l’esercito fu il collante della struttura interna che solidificandosi permetteva ai sovrani di accrescere il proprio prestigio anche nei confronti degli altri Stati.

Le aspettative nobiliari e il forte legame con la corte non furono però l’unica base su cui fu costruito il potente esercito sabaudo: i duchi riuscirono anche a cogliere pienamente i cambiamenti che caratterizzarono in questi secoli non solo le tecniche belliche, ma la società tutta. Per l’educazione dei giovani nobili all’arte militare furono create delle apposite accademie31, dove ci si occupava

28 Walter BARBERIS, Le armi del Principe. La tradizione militare sabauda, Torino, Einaudi, 2003, p.

28 ed. or. 1988.

29 Sabina LORIGA, Soldati. L’istituzione militare nel Piemonte del Settecento, Marsilio, Venezia, 1992, p. 40.

30 W. BARBERIS, Le armi cit., p. XXI.

31 L’Accademia reale fu fondata nel settembre 1677 e l’anno successivo fu aperto dai gesuiti nella capitale un collegio per nobili che nei programmi dedicava ampio spazio alle arti cavalleresche e agli esercizi militari. In entrambe le istituzioni veniva garantito il rispetto assoluto dell’ordine sociale esistente. Cfr. Vincenzo FERRONE, I meccanismi di formazione delle élites sabaude. Reclutamento e selezione nelle scuole militari del Piemonte del Settecento, in C. DONATI (a c.), Eserciti e carriere cit., p. 93.

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anche di come gestire ed addestrare le truppe, aspetto sicuramente non secondario. Allo stesso tempo però furono anche istituite vere e proprie scuole militari32, aperte a tutti, con un esame di ingresso molto severo ed un intenso corso di studi, aspetti non certo graditi ad una nobiltà che vedeva l’esercito solo come un mezzo per giungere più celermente a corte. Saranno istituzioni come la scuola militare di fortificazioni a far sì che non solo gli aristocratici entrassero nei ranghi militari, anche ad alti livelli, e quindi a rendere in parte meritocratica l’organizzazione della struttura militare, innalzandone automaticamente il livello. «L’esercito costituiva un vero e proprio esempio di moderno meccanismo di integrazione sociale»33 e forse proprio questa era la sua forza e ciò che contribuì a distinguerlo dagli altri eserciti della penisola.

3.3 La crescita d’interesse per l’esercito imperiale

In virtù del suo particolare ruolo storico il Sacro Romano Impero ha sempre conservato un certo ascendente sulla penisola italiana. Saranno però la guerra contro il Turco in Ungheria e ancor di più la guerra dei Trent’anni a dare l’occasione a moltissimi grandi condottieri e ufficiali italiani di fornire il proprio apporto a tale esercito.

Quasi tutti gli stati della penisola divisero il loro contributo in risorse umane tra la Spagna e l’Impero – sebbene non in egual misura – e i piccolissimi stati non furono certo da meno. Particolarmente affezionata alle sorti imperiali sembrava la casata estense: il ducato di Modena, infatti, pur cercando di tenere per il proprio esercito la maggioranza delle sue forze, contribuì alle battaglie degli Asburgo d’Austria con quasi un quarto del totale dei suoi militari34. Tra questi forse il più illustre dei condottieri italiani: Raimondo Montecuccoli, la cui vita,

32 La fondazione della scuola militare di fortificazioni risale al 1739, segue di non molti anni la fondazione delle Reali scuole teoriche e pratiche di artiglieria. In entrambi questi casi l’unico criterio di valutazione per l’ingresso era il merito individuale. Cfr. Ivi, p. 95 e sgg.

33 Ivi, p. 107.

34 Della totalità dei militari provenienti dal ducato di Modena, il 49 % rimane a combattere nell’esercito estense, mentre il 23 % si arruola in quello imperiale. Sfortunatamente però la nostra indagine non ci fornisce una base di lavoro molto ampia, almeno per quanto riguarda questo Stato: i militari che vi nascono sono infatti solo 26.

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ovviamente molto avvincente, tratterò qui solo per sommi capi. In giovinezza aveva affrontato gli studi di chi è votato all’abito talare, ma a sedici anni decise di seguire la sua vera vocazione arruolandosi al seguito di Rambaldo di Collalto, generale dell’impero, come semplice soldato. La sua ascesa verso i vertici della gerarchia militare fu veloce: servì a fianco di vari condottieri quali lo Spinola, il Tilly, il Wallenstein. Fu preso prigioniero per ben due volte e in entrambe le occasioni ebbe modo di dedicarsi ancora agli studi e alla scrittura di quei trattati che lo avrebbero reso ancora più famoso delle gesta militari35. Fu l’artefice della conclusione della guerra dei Trent’anni, e fu gran parte merito suo l’aver impedito il crollo definitivo dell’impero. Guidò l’esercito imperiale in diverse altre occasioni, come la guerra contro il Turco in Ungheria e molte battaglie contro l’esercito francese del generale Turenne. Contemporaneamente gli vennero affidate anche importanti azioni diplomatiche, che svolse sempre con grande maestria. Morì all’età di settantadue anni, nel 1680, dopo essere riuscito ad apportare notevoli innovazioni all’esercito imperiale e aver praticamente vinto la sua battaglia per la creazione di un esercito regolare36. Raimondo Montecuccoli non fu il solo dei grandi ufficiali italiani che dettero un enorme contributo alla casa imperiale. Di altri abbiamo già parlato37, ma possiamo ancora vedere alcune vicende di quanti combatterono tra le fila del Sacro Romano Impero, seppur con ruoli minori e di conseguenza anche minor fama38.

35 Relativamente recente è la pubblicazione della prima raccolta delle opere del generale modenese: R. MONTECUCCOLI, Le opere cit.

36 La narrazione della vita del Montecuccoli è presa da Raimondo LURAGHI, Introduzione, in R.

MONTECUCCOLI, Le opere cit., pp. 9-42.

37 Mi riferisco a Ottavio Piccolomini, Mattia Galasso e i principi di casa Medici, trattati nel precedente capitolo.

38 Da notare che Raimondo Montecuccoli è famoso solo per gli “addetti ai lavori”, come dice Luraghi nell’introduzione all’edizione critica delle opere del modenese: «E pure oggi in Italia egli è pressoché dimenticato. Se anche si possa sostenere che il nostro paese non brillò mai eccessivamente per riconoscenza verso i Grandi che lo hanno reso illustre, il caso di Montecuccoli appare addirittura sbalorditivo, apparentemente inesplicabile. Solo la piccola Austria oggi lo ricorda, e nemmeno tanto…», p. 11.

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Anche il ducato di Mantova ebbe un certo numero di uomini che combatterono in Germania, comunque inferiore a chi scelse la monarchia asburgica39; lo stesso vale per il ducato di Parma e Piacenza, dove la percentuale è ancora minore40. La vicenda di Pompeo Ferrari ci può far capire quanto fosse abituale mettere la propria persona a servizio di sovrani esteri, e in particolare dell’imperatore. Il Ferrari, nobile piacentino – stando alla sua parola- nato intorno al 1570, combatté al soldo dell’Impero contro i Turchi in Ungheria comandando una compagnia di fanti. La sua permanenza in quell’esercito non durerà molto.

Tornato in Italia si presterà alla Serenissima, nelle cui file rimarrà, col titolo di sergente maggiore, fino alla morte41. La vicenda di quest’uomo pur essendo tratteggiata nel dettaglio soprattutto per quanto riguarda il “periodo veneziano”, ci delinea un mondo in cui era apparentemente molto semplice viaggiare alla ricerca di incarichi militari. Che la prima scelta sia stata data all’Impero – almeno in questo caso – ci può far pensare ad uno sbocco abbastanza naturale dei sudditi parmensi e piacentini.

Per quanto riguarda lo Stato Pontificio, la percentuale di uomini d’arme che partivano per mettersi al servizio dell’imperatore non è molto alta: solo il 10 %.

Tra questi però ci sono molti nomi illustri: Torquato Conti, il cui denso curriculum militare registra un primo arruolamento nelle armate imperiali, poi un passaggio a quelle spagnole nelle Fiandre come venturiere, dove fece esperienza e guadagnò gradi e riconoscimenti. Ancora un nuovo ritorno all’imperatore, per il quale prese parte alla guerra dei Trent’anni e ricevette il ruolo di tenente di reggimento su proposta del Wallenstein, all’epoca (1626) ancora colonnello. La permanenza in patria a capo delle armate pontificie fu breve, dovette presto tornare in Germania per contribuire alle battaglie contro Gustavo Adolfo. Stanco e provato da sempre minori successi, riuscì a

39 Dei 55 uomini rintracciati nella nostra indagine, nati nel ducato di Mantova, 18 (cioè il 32 %) combatterono per l’esercito spagnolo e 15 (27 %) per quello asburgico.

40 Dei 30 parmensi individuati, 9 (cioè il 30 %) combatterono nell’esercito spagnolo, 5 (17 %) in quello estense, 5 in quello parmense e solamente 3 (10 %) in quello imperiale.

41 Cfr. G. BENZONI, Ferrari Pompeo, in Dbi, ad voc., XLVI, pp. 654-658.

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concludere la sua carriera a servizio del Papa42. Altro nome illustre è Orazio Bourbon del Monte, la cui vicenda è molto simile a quella di Pompeo Ferrari.

Come lui infatti nacque intorno al 1570 e con lui fu all’assalto di Strigonia (Esztergom) sotto bandiera imperiale, nel 1595, per poi passare subito dopo a militare per la Serenissima43. Infine, come ultimo esempio, Enea Silvio Caprara, nipote di Ottavio Piccolomini imparentato anche con il Montecuccoli, che combatté, come tutti i suoi fratelli, nell’esercito imperiale. Sotto la guida dell’ufficiale modenese partecipò a numerose campagne, acquisendo un ruolo e un rilievo sempre maggiori nel corso della guerra in Ungheria, fino a diventare vicepresidente del Consiglio di guerra nel 1692. Morì a Vienna nel 170144.

Nonostante la palese discrepanza che emerge dai nostri dati tra la partecipazione alle imprese spagnole e quelle imperiali, possiamo comunque notare un contributo di rilievo da parte della nobiltà pontificia e sottolineare che questo si fa maggiore durante le campagne dell’imperatore contro l’impero Ottomano. Periodi in cui cresce l’apporto di tutti gli italiani in generale, come si può vedere chiaramente anche dal grafico a pagina 69.

Tuttavia i due Stati che mostrano il maggior attaccamento alle armate imperiali sono il Granducato di Toscana e la Repubblica di Venezia con motivazioni molto diverse.

Il Granducato di Toscana, dove l’Impero ci appare secondo solo all’esercito di casa45, come abbiamo già detto e diremo ancora meglio nel prossimo capitolo, attua una politica che mira a spingere la nobiltà locale a recarsi a combattere sotto le insegne imperiali, sia – come avviene in molti altri eserciti della penisola – per poi avere ufficiali di esperienza da impiegare nel proprio esercito, sia, e questo è peculiare della Toscana, per aumentare la propria influenza alla corte imperiale ed accrescere in una sede fondamentale per le dinamiche

42 Cfr. S. ANDRETTA, Conti Torquato, in Dbi, ad voc., XXVIII, pp. 480-484.

43 Cfr. G. BENZONI, Bourbon del Monte Orazio, in Dbi, ad voc., XIII, pp. 526-527.

44 Cfr. G. BENZONI, Caprara Enea Silvio, in Dbi, ad voc., XIX, pp. 169-177.

45 Su 176 militari toscani individuati in questa indagine sono 24 a combattere sotto lo stendardo imperiale, cioè il 14 %; a fronte di un 44 % che rimane nell’esercito granducale e un 9 % che si mette al servizio della Spagna.

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internazionali la propria posizione rispetto ad altri Stati italiani. Inoltre non è da trascurare il particolare legame che lega il Granducato alla famiglia imperiale:

Cristina di Lorena e la nuora Maria Maddalena d’Austria furono reggenti in attesa della maggiore età del nipote Ferdinando II. Le due granduchesse furono lungimiranti e si adoperarono molto anche in ambito militare, riuscendo a tener lontana la guerra dai loro territori, senza però mai far perdere credibilità al Granducato. In particolare la madre del sovrano si impegnò molto per mandare aiuti – di vario genere, come abbiamo detto – alla sua terra d’origine46. Comunque sia non bastarono i legami familiari a far sì che Cosimo II mantenesse truppe del Granducato in Germania durante la guerra dei Trent’anni: la prima spedizione inviata fu richiamata dopo soli sei mesi, vista la mancanza di ricompense da parte dell’imperatore. Tuttavia, per non incrinare troppo i rapporti, si incentivarono le partenze individuali della nobiltà locale, in particolare attraverso l’esempio dei due giovani cadetti Mattias e Francesco.

La presenza veneziana in terra imperiale ha invece tutt’altre ragioni. Il rapporto tra i due vicini infatti era quantomeno controverso: Venezia temeva costantemente le velleità espansionistiche sulle sue terre e, d’altro canto, l’Impero non era tranquillo nell’avere come vicino il più forte Stato indipendente della penisola. La diplomazia imperiale svolgeva una propaganda che mirava a mostrare la volontà di mantenere inalterato l’equilibrio della penisola. Questa politica dette i suoi frutti: il ceto dirigente della Serenissima cominciò ad essere più bendisposto nei confronti del vicino, anche se comunque rimase sempre un certo atteggiamento di cautela47.

Da un punto di vista militare Venezia non amava vedere i suoi sudditi combattere per sovrani stranieri, se non raramente o per brevi periodi. I nostri dati lo confermano: il numero di combattenti per l’esercito imperiale è, anche in questo caso, inferiore solo a quello di coloro che militarono in casa, ma il dislivello tra le due cifre è enorme: il 6 % rispetto all’89 %. Seppur minima,

46 C. SODINI, L’Ercole cit., in particolare l’introduzione.

47 Federica AMBROSINI, Immagini dell’Impero nell’ideologia del patriziato veneziano del ‘500, in A.

TAGLIAFERRI, I ceti cit. pp. 67-80.

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questa partecipazione imperiale aveva un grande significato: chi andava a servire un altro padrone era in particolare l’aristocrazia della Terraferma cui non era offerto alcun incentivo a rimanere da parte di Venezia. Emblematico è il caso di Rodolfo Colloredo, nato già in Boemia, non collaborerà mai con Venezia, anzi, in occasione dei richiami del Senato durante la guerra di Gradisca, si proclamerà orgoglioso di essere un capitano austriaco in procinto di combattere contro i veneti e affermerà che si è sudditi del principe dal quale si ricevono buoni trattamenti48. In realtà fu uno dei pochi a non tornare dopo l’appello veneziano, preferendo rimanere a servire il sovrano che si era dimostrato più prodigo di riconoscimenti nei suoi confronti.

Nel Settecento, con l’arrivo dell’Impero in Italia come nuova potenza egemone, ci aspetteremmo un cospicuo aumento dei militari al servizio del nuovo padrone. In realtà i nostri dati mostrano una totale inversione di tendenza.

Stando ai soli dati del Dbi (unico repertorio ad includere anche il Settecento), la presenza di italiani tra le file imperiali cala di addirittura 5 punti percentuali.

Bisogna sicuramente affiancare questo dato al complessivo calo cui assistiamo per l’attività militare nel suo complesso: un calo che supera di molto il 5 %.

Anche sommando i combattenti che operano a cavallo dei due secoli a quelli che sono invece in pieno XVIII secolo la differenza con il dato relativo al Seicento è di 11 punti percentuali. Abbiamo anche individuato un calo analogo per quanto riguarda gli altri grandi eserciti dell’epoca: spagnolo e veneziano, mentre aumenti si notano negli eserciti toscano, genovese e soprattutto sabaudo.

Per capire meglio è utile mettere a confronto i due grafici che rappresentano la dimensione degli eserciti nel Seicento e nel Settecento:

48 Cfr. G. BENZONI, Colloredo Rodolfo, in Dbi, ad voc., XXVII, pp. 86-91. Ed anche Antonio CONZATO, Dai castelli cit. p. 275.

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32%

15% 18%

10%

1%

4%

4%

9%

5%

0%

0% 1%

0% 1% spagnolo

veneziano imperiale sabaudo pontifico genovese francese

Ordine gerosolimitano toscano

ottomano ribelle corso polacco estense olandese

Figura 3. Presenza dei militari italiani negli eserciti nel XVII secolo. Dati estrapolati dal Dbi.

26%

13%

23% 9%

2%

6%

4%

2%

9%

0%

4%

2%

spagnolo veneziano imperiale sabaudo pontificio genovese francese

Ordine gerosolimitano toscano

ottomano ribelle corso polacco

Figura 4. Presenza dei militari italiani negli eserciti nel XVIII secolo. Dati estrapolati dal Dbi.

Torniamo a indagare sul calo imperiale di presenze dell’esercito, apparentemente inspiegabile. Innanzitutto è bene ricordare il tipo di esercito che doveva accompagnare l’impero in Italia: privo di flotta, formatosi attraverso la lotta terrestre contro il Turco e la guerra dei Trent’anni, non preparato ad appoggiare così vasti domini. Altro punto debole: la mancanza di un centro coordinatore, particolarmente grave data la sua estrema eterogeneità, sia a

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livello di appartenenza nazionale, sia per quanto riguarda la sudditanza al sovrano territoriale. La monarchia appena insediata dovette quindi operare per riorganizzare in maniera adeguata l’esercito e, allo stesso tempo, trovare il denaro per farlo49. Necessariamente il primo tentativo fu quello di cercare di rendere più omogeneo l’apparato militare. Questa scelta non fu però priva di conseguenze, in particolare nella Lombardia. La situazione che ereditò Maria Teresa era caratterizzata da una crisi gravissima, causata in particolare dal problema della diserzione; le riforme messe in atto dall’imperatrice non migliorarono la situazione, Milano divenne ancor più periferica rispetto al centro dell’impero. La conseguenza diretta di questa progressiva esclusione fu un lento ma costante distacco del patriziato milanese dalla carriera militare, un allontanamento che si fece ancora più notevole visto il coinvolgimento molto ampio che la nobiltà aveva avuto nel periodo di dominio spagnolo50.

3.4 E la Francia resta a guardare…

La Francia si impone prepotentemente a livello internazionale con la salita al trono di Luigi XIV: il suo tentativo di ingresso negli equilibri della penisola creerà non pochi problemi alla dominazione spagnola, turbandone il sistema di fedeltà e privando di gran parte del suo significato il meccanismo delle concessioni di titoli ed onori.

Nei suoi interventi nelle politiche locali Luigi XIV e i suoi ministri non vollero in alcun modo utilizzare gli italiani che servivano nel loro esercito, in particolare al momento dell’intervento nella rivolta di Messina51. Fecero un uso molto oculato degli uomini al loro servizio, in particolare tenendo in considerazione la loro nazionalità. Abbiamo già parlato di Almerico d’Este52, incaricato di guidare la spedizione mandata in aiuto di Venezia a Candia; scelto deliberatamente, in quanto modenese, perché la Francia potesse fornire il suo

49 C. DONATI, Le istituzioni cit., p. 202 e sgg.

50 C. DONATI, Esercito e società cit., p. 554.

51 G. HANLON, The twilight cit., p. 195.

52 Cfr. secondo capitolo, p. 55.

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contributo alla lotta della cristianità, senza però turbare eccessivamente l’impero Ottomano, con il quale da molto tempo era in buoni rapporti.

Le truppe italiane che militavano nell’esercito francese erano comunque limitate. Dai nostri dati l’esercito francese risulta poco più nutrito di italiani di quanto non lo siano quelli dei piccoli stati indipendenti della penisola: coloro che servirono oltralpe non furono che 55 su un totale di più di 1500 uomini, quindi solo il 3 %.

Lo stato italiano che più di tutti contribuisce ad alzare la percentuale è il Granducato di Toscana: il 7 % dei suoi militari serviva sotto bandiera francese, il 20 % degli italiani nell’esercito francese era toscano. Uno di questi è Francesco Zanobi Albergotti, nato a Firenze nel 1654, e arruolatosi a 17 anni nel reggimento Royal Italien che stava reclutando lo zio materno dell’Albergotti, Bardo de’ Bardi, conte di Magalotti, andato in Francia al seguito di Mazzarino.

La carriera del fiorentino in terra francese fu folgorante, operò principalmente nelle Fiandre, ma a differenza di quello che era l’uso francese – l’abbiamo detto prima –, fu impegnato anche in terra italiana durante la guerra di successione spagnola53. La vicenda di Adamo Fabbroni, di famiglia appartenente al patriziato fiorentino, ci può far capire quanto fosse agevole per un Toscano recarsi a servire il sovrano francese. Alla morte del padre, nel 1762, viste le precarie condizioni economiche della famiglia, si recherà in Corsica arruolandosi come semplice soldato con le truppe francesi di occupazione dell’isola. La sua esperienza durò comunque ben poco, giacché tornò in Toscana per dedicarsi a studi di agronomia54.

3.5 Italiani mercenari o fedeli al sovrano? Quanti e quali cambiamenti di fronte

È abbastanza interessante cercare di vedere quanti dei militari coinvolti nella nostra indagine abbiano combattuto in più di un esercito.

53 Cfr. E. FASANO GUARINI, Albergotti Francesco Zanobi, in Dbi, ad voc., I, pp. 631- 633.

54 Cfr. R. PASTA, Fabbroni Adamo, in Dbi, ad voc., XLIII, pp. 669- 673.

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86%

14% 0%

un solo esercito più di un esercito nessun esercito

Figura 5. Mobilità dei militari nei vari eserciti. Dati estrapolati dal Dbi e dai repertori curati da Corrado Argegni e Aldo Valori.

Sfortunatamente però, per le particolarità di alcune nostre fonti, il dato non è facilmente ricavabile e sicuro. Il fatto che solo poco più di un decimo su 1700 militari non abbia avuto che un solo esercito in tutta la carriera sembra abbastanza strano, soprattutto considerato tutto ciò che abbiamo detto fino ad adesso. Probabilmente i dati rilevati dal Dbi, anche se ci offrono una base statistica decisamente più limitata, sono più attendibili per quanto riguarda questa analisi. Infatti gli altri due repertori ci forniscono informazioni talmente scarne per ciascuna voce che non possiamo considerarle sempre esaustive.

M obilità dei militari

70%

28%

2%

un solo esercito più di un esercito nessun esercito

Figura 6. Mobilità dei militari nei vari eserciti. Dati ricavati dal Dbi.

In questo caso il dato è nettamente più alto, molto probabilmente più aderente alla realtà, anche se possiamo ancora interrogarci sul fatto che, se servire un signore piuttosto che un altro poteva essere relativamente semplice per un ufficiale, probabilmente lo era ancor di più per un soldato. Vista la frequenza

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delle diserzioni, che spesso portavano a cambiamenti di fronte, piuttosto che alla fuga, sarebbe interessante poter vedere se e di quanto si alzerebbe questa percentuale.

Considerando quello che abbiamo detto finora, si dovrebbe intuire facilmente che la percentuale di coloro che cambiavano esercito per precisa volontà di tradire il precedente padrone è molto bassa, se non quasi nulla. Innanzitutto era normale andare a militare all’estero per acquisire la pratica necessaria per avere un buon incarico una volta tornati nella terra natia. Così fece, ad esempio, Pietro Caetani, duca di Sermoneta, il quale fu mandato a servire sotto Alessandro Farnese per la precisa volontà dei genitori di tenerlo lontano dalla vita irrequieta della nobile gioventù romana. Rimase al servizio spagnolo per più di cinque anni, nei quali si distinse particolarmente giungendo anche ad essere ammesso nel Consiglio di guerra. Nel 1590 tornò in patria dove, viste le sue indubbie capacità, venne subito nominato prefetto generale della cavalleria e successivamente fu comandante in capo dell’esercito pontificio col rango di maestro di campo generale nella spedizione contro Cesare d’Este55.

Era anche possibile che si militasse prima nell’esercito di casa e poi ci si recasse all’estero senza nessuna ragione impellente, come nel caso di Giulio Barbolani, asceso rapidamente agli alti ranghi dell’Ordine di Santo Stefano, del quale decise però di abbandonare il comando dopo una sfortunata impresa. Si recò quindi a combattere sotto le insegne imperiali dopo che la granduchessa Maria Maddalena lo ebbe presentato al fratello principe Leopoldo: in Fiandra fu, da subito, comandante di truppe e consigliere di guerra e di camera56.

Capitava anche piuttosto frequentemente che i sovrani si “prestassero” i grandi condottieri: questi facevano una proposta direttamente agli ufficiali, i quali poi chiedevano il permesso al proprio padrone per potersi mettere al servizio di qualcun altro. Se l’ufficiale era stimato, ma in quel momento non particolarmente necessario, e se i rapporti con il futuro nuovo sovrano erano buoni, generalmente nulla ostacolava il passaggio. Questo il caso del noto

55 Cfr. M. RAFFAELI CAMMAROTA, Caetani Pietro, in Dbi, ad voc., XVI, pp. 217- 219.

56 Cfr. R. CANTAGALLI, Barbolani Giulio, in Dbi, ad voc., VI, pp. 262- 263.

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condottiero Camillo Capizucchi: fece pratica combattendo, a soli sedici anni, con Andrea Doria per la liberazione dell’isola di Corsica, successivamente passò al servizio di Massimiliano d’Austria e poi arrivò a combattere la battaglia di Lepanto con l’esercito pontificio. Ancora non pago si recò nelle Fiandre per sfuggire alla monotonia della vita romana. Tornato a Roma dopo dieci anni, all’età di sessant’anni quella vita gli andava ancora stretta: chiese al Papa il permesso di andare a combattere nelle truppe imperiali in Ungheria57.

Infine l’ultima casistica riguarda coloro che, servendo un signore diverso dal proprio, erano pronti a cambiare totalmente fronte nel momento in cui il proprio sovrano ne avesse avuto necessità. È questo il caso di Giovan Battista Colloredo, terzo di nove fratelli, che, proprio per questa ragione, a sedici anni non si lasciò sfuggire l’occasione di andare a combattere nell’esercito imperiale durante la guerra dei Trent’anni. Giunto al grado di tenente colonnello e fattosi notare per numerosi atti di coraggio, alla fine della guerra fu chiamato dal Senato veneto a mettere le sue capacità al servizio del suo Stato. Sicuramente anche per il cospicuo stipendio e per la mancanza di altre occasioni per continuare la sua carriera nel precedente esercito, il Colloredo accettò prontamente58. Come lui furono molti i nobili della Repubblica di Venezia che, pur avendo per anni servito altri sovrani, alla chiamata del Senato – come accadde in occasione del conflitto contro gli Uscocchi - tornarono, seppur magari controvoglia, perché ritenevano che fosse la cosa giusta da fare59.

3.6 I traditori e gli infiltrati

Rispetto a coloro che cambiavano fronte in aperto contrasto con il sovrano erano probabilmente molto più consueti gli infiltrati. La vita di corte era piena di figure ambigue che, anche se non assoldate da nessuno, cercavano di acquisire più informazioni possibile per riuscire, forse, a rivenderle al miglior

57 Cfr. M. GIANSANTE, Capizzucchi Camillo, in Dbi, ad voc., XVI, pp. 564-566.

58 Cfr. G. BENZONI, Colloredo Giovan Battista, in Dbi, ad voc., XXVII, pp. 80-82.

59 A. CONZATO, Dai castelli cit., p. 276.

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offerente. La stessa cosa doveva valere per l’esercito, ovviamente soprattutto per le alte posizioni, dove si discuteva di azioni e piani.

La guerra infatti non era l’unico strumento offensivo: prima di giungervi, non tanto diversamente dai giorni nostri, si tentavano varie strategie, alcune lecite, altre meno. Ogni stato aveva degli infiltrati nelle stanze del potere degli altri sovrani, una rete sotterranea di collaboratori60. Un vero e proprio sistema spionistico opportunamente organizzato dai governi, anche se forse ancora da perfezionare: non erano sempre persone affidabili coloro cui si contava per avere informazioni di altissima portata e non sempre era un sistema di tipo ufficiale: «spie sui generis, avventurieri, rinnegati, doppiogiochisti, viaggiatori, cortigiani, clienti, facenti capo e personalmente legati a singoli personaggi piuttosto che a strutture ben definite»61.

Nelle nostre indagini abbiamo trovato una spia dichiarata dalla storia particolarmente avvincente: Mario Birago. Nato a Milano verso la metà del XVI secolo, ereditò dal padre, oltre che terre e feudi, anche il «mestiere di spione al servizio degli Spagnoli». Sfruttando i parenti impiegati in alti incarichi in Francia e in Piemonte, il Birago riusciva a fornire notizie decisamente utili alla corte di Madrid. Tra il 1559 e il 1563 comandò una compagnia dell’esercito francese nelle guerre di religione; al suo ritornò riprese i contatti con gli Spagnoli, sicuro che la sua proposta di collaborazione sarebbe stata ben accetta.

Tre governatori successivi lo utilizzarono per raccogliere informazioni, ma nessuno riuscì mai a fargli avere ciò che lui aveva chiesto: una carica militare nell’esercito spagnolo. Filippo II, pur informato del suo prezioso lavoro, o forse proprio per questo, gliela negò. Infine, stanco di aspettare, Mario Birago tornò a Parigi, dove godeva certamente di una migliore considerazione. Svolse per i francesi importanti incarichi diplomatici, ma non passò molto tempo prima che,

60 Giovanni MUTO, Il re per la difensiva, il re per la offensiva: dalle strategie alle fonti per la storia militare, in L. ANTONIELLI e C. DONATI (a c.), Al di là cit., p. 25. A proposito del sistema spionistico organizzato dai vari stati vedi anche: Paolo PRETO, I servizi segreti di Venezia, Milano, Il Saggiatore, 1994 e Alain DEWERPE, Espion: une anthropologie historique du secret d'État contemporain, Paris, Gallimard, 1994.

61 Domenico LIGRESTI, «L’organizzazione militare del Regno di Sicilia», in Rivista storica italiana, CV (1993), p. 674.

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contattato dal nuovo governatore di Milano, riprendesse le vecchie mansioni.

La sua vita fu un’alternanza di doppi ruoli: è probabile che, come il padre, si desse al classico doppio gioco, fornendo anche importanti informazioni sugli Spagnoli alla corte francese. Tuttavia, nonostante la sua sicura e praticamente costante collaborazione con gli iberici, il sovrano gli rifiutò sempre un qualsiasi riconoscimento62.

Probabilmente figure come quella di Mario Birago andarono aumentando nel corso del XVII secolo, in corrispondenza con la crisi del sistema spagnolo che, come abbiamo già accennato, portò molti nobili a rivalutare le loro fedeltà. Non potendo più contare sulla Spagna, i cui titoli avevano sempre meno valore e le cui promesse in termini di ricompense materiali erano sempre meno rispettate, una buona parte dell’aristocrazia si trovò quindi a offrire la propria collaborazione ai nuovi poteri che si stavano affacciando sulla penisola, magari senza troncare del tutto i legami con il precedente sovrano. Se così è stato, la fitta rete sotterranea di collaboratori di cui parlavamo ad inizio paragrafo, finì per diventare un groviglio nel quale non si riusciva più neppure ad intuire dove stessero chiaramente le parti.

62 Cfr. R. ZAPPERI, Birago Mario, in Dbi, ad voc., X, pp. 603-606.

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