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348/2010 Georges Didi-Huberman. Un’etica delle immagini

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Georges Didi-Huberman Un’etica delle immagini

Premessa

PER UN’ETICA DELLE IMMAGINI Georges Didi-Huberman Rendere un’immagine Laura Odello Nota sulla politica delle

sopravvivenze

Raoul Kirchmayr Abitare il visibile

Pietro Montani Apertura e differenza delle immagini

Andrea Pinotti Pazienza del dissimile e sguardo pontefice

Antonio Somaini Montaggio e anacronismo Ludger Schwarte Etica dello sguardo.

Didi-Huberman e la visione tattica Emanuele Alloa Il pensiero fasmide

RIPENSARE WARBURG

Georges Didi-Huberman Epatica empatia.

L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg

Davide Stimilli Il pentimento di Warburg Sigrid Weigel La “dea in esilio” di Warburg Paulo Barone Un groviglio di serpenti vivi Bibliografia di Georges Didi-Huberman

348

ottobre dicembre 2010

3

6 28 32 45 66 84 101 121

132

153

177

203

211

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rivista fondata da Enzo Paci nel 1951 direttore responsabile: Pier Aldo Rovatti

redazione: Paulo Barone, Graziella Berto, Giovanna Bettini, Laura Boella, Deborah Borca (editing, deborahborca@libero.it), Silvana Borutti, Damiano Cantone, Mario Colucci, Alessandro Dal Lago, Rocco De Biasi, Maurizio Ferraris, Edoardo Greblo, Raoul Kirchmayr, Giovanni Leghissa, Anna Maria Morazzoni (coordinamento,

tel. 02 70102683), Ilaria Papandrea, Fabio Polidori, Rosella Prezzo, Pier Aldo Rovatti, Antonello Sciacchitano, Giovanni Scibilia, Davide Zoletto

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Finito di stampare nel dicembre 2010

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Premessa

D a alcuni anni in Italia i libri di Georges Didi-Huberman ricevono una crescente attenzione, soprattutto dopo la tradu- zione di due saggi come Immagini malgrado tutto e L’immagine insepolta che si sono inseriti in dibattiti già molto vivaci e che, partendo da problemi di estetica, la oltrepassano ampiamente: il primo perché prende posizione sulla questione delle fonti stori- che, sul valore della testimonianza e sull’archiviazione dell’e- vento (nel caso specifico la Shoah); il secondo perché ha fornito ulteriori importanti tasselli per una rilettura critica dei percorsi di ricerca di Aby Warburg, anche in contrapposizione alla co- siddetta “scuola warburghiana”.

In virtù della sua capacità di focalizzare e di lavorare con ac- curatezza le diverse problematiche dell’immagine, e di un meto- do che si nutre costantemente di apporti provenienti da discipli- ne diverse, la presenza di Didi-Huberman si è di conseguenza im- posta anche a una cerchia di lettori più ampia rispetto a quella de- gli specialisti (storici dell’arte, iconologi e studiosi di estetica). Il fatto poi che le sue ricerche sulla storia dell’arte italiana e alcuni tra i suoi saggi rivisitassero i motivi di una Kulturgeschichte per la quale, storicamente, in Italia si è rivolta più attenzione che in Fran- cia, ha senza dubbio contribuito a stringere ulteriormente il lega- me tra lui e il nostro paese.

Queste sono alcune delle ragioni per le quali “aut aut” ha rite-

nuto fosse giunto il momento di aprire uno spazio di dialogo con

(4)

4

Didi-Huberman per provare a costruire e mettere alla prova del- le ipotesi di lavoro che si richiamassero ai suoi temi. Ne è nata una sorta di laboratorio, arricchito da due saggi inediti dello stesso Didi-Huberman, dove ciascun intervento si confronta con i suoi scritti e con i suoi modi di affrontare le questioni dell’immagine, così decisive per la nostra cultura, contribuendo a riprenderle e rilanciarle. [R.K., L.O.]

Georges Didi-Huberman è filosofo e storico dell’arte. Nato nel

1953, insegna all’École des hautes études en sciences sociales a Pa-

rigi. È stato ospite a Roma presso l’Accademia di Francia, a Fi-

renze presso la Villa I Tatti (Harvard University Center for Italian

Renaissance Studies) e a Londra presso la School of Advanced

Study e il Warburg Institute. Ha insegnato in numerose università

europee e nordamericane (Johns Hopkins, Northwestern, Berke-

ley, Courtauld Institute, Berlino, Basilea...). Ha ricevuto due pre-

mi dell’Académie des beaux-arts (Parigi), il premio Hans Reimer

della Aby-Warburg-Stiftung (Amburgo), il Premio Napoli, il pre-

mio Humboldt (Berlino). Ha pubblicato numerose opere sulla sto-

ria e la teoria delle immagini e ha curato varie mostre, tra cui L’Em-

preinte al Centro Georges Pompidou (Parigi, 1997), Fables du lieu

allo Studio national des arts contemporains (Tourcoing, 2001) e

Atlas al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía (Madrid,

2010).

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Per un’etica delle immagini

Nei lavori di Didi-Huberman l’immagine è messa in questione da una molteplicità di prospettive. I contributi che qui presentiamo si concentrano su alcuni apporti metodologici e di contenuto che caratterizzano i suoi percorsi.

Ciò che ne emerge è un tratto di fondo che – prendendo in prestito un’espressione dello stesso Didi-Huberman – proponiamo di chiamare “un’etica delle immagini”. Il tema viene aperto da un suo saggio inedito, dedicato

all’immagine cinematografica in Jean-Luc Godard e in

Harun Farocki e all’importanza del “rendere” le immagini.

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Rendere un’immagine

GEORGES DIDI-HUBERMAN

M olto spesso le domande più ingenue na- scondono in sé le risorse necessarie a percepire la reale complessità delle co- se. È ancora il “pensiero grossolano” a rivelarsi il più favorevo- le – come riteneva Walter Benjamin commentando la pedagogia paradossale di Bertolt Brecht nei suoi montaggi epici

1

– a solle- citare una visione dialettica, più sottile, di queste cose comples- se che sono le immagini. Per esempio, non è mai inutile tornare a domandarsi di cosa esattamente un’immagine sia l’immagine, a prescindere dagli aspetti che per primi si rendono visibili in es- sa, dalle evidenze che si manifestano, dalle rappresentazioni che si impongono. Tale domanda ha inoltre il vantaggio di risveglia- re l’interesse per il come delle immagini, altra questione crucia- le. Resta poi la questione stupida – e crudele, in realtà: intendo la questione politica – che consiste nel sapere a chi appartengo- no le immagini. Si dice [in francese]: “prendere una foto” [pren- dre une photo]. Ma ciò che si prende, a chi lo si prende esatta-

6

aut aut, 348, 2010, 6-27

Questo testo fa parte di uno studio più ampio dedicato al lavoro di Harun Farocki e intito- lato Ouvrir les temps, armer les yeux: montage, histoire, restitution. È stato scritto in seguito a un dialogo pubblico con l’artista (Dispersion und Montage. Ein Gespräch zwischen Georges Didi-Huberman und Harun Farocki), che ha avuto luogo a Basilea (Schaulager-Universität- Eikones

NFS

Bildkritik) il 9 settembre 2008, su invito di Ludger Schwarte e Theodora Vi- scher. Il testo fa oggi parte del mio Remontages du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, Minuit, Paris 2010.

1. Cfr. W. Benjamin, “Il romanzo da tre soldi di Brecht” (1935), in Opere complete, vol.

VI

: Scritti 1934-1937, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2004, pp. 242-243.

(7)

mente? Lo si tiene veramente? E non occorre forse renderlo a chi spetta di diritto?

Nel suo antico senso, legato all’antropologia politica del mondo romano all’epoca della Repubblica, l’imago – tralasciamo per il momento l’eikon greca, che è tutta un’altra faccenda – pone im- mediatamente la questione della sua presa e quella della sua resti- tuzione. Il gesso “rapprende” sul volto del morto, occorre poi “ri- tirare” il calco, fondervi la cera calda per ottenere una tiratura [ti- rage] e, a mano a mano che le nuove generazioni si portano via le immagini degli antenati, occorre poi “tirare” di nuovo altre copie, affinché l’immagine, così riprodotta, assicuri la propria funzione di trasmissione genealogica e onorifica. Proprio perché l’immagi- ne è, in tal senso, un oggetto di culto privato – gli antenati, i mor- ti, la famiglia – e al tempo stesso un oggetto di culto pubblico – il

“diritto alle immagini” è infatti concesso a seconda della posizio- ne che occupa l’antenato nella res publica, e l’esposizione delle ima- gines è uno spettacolo pubblico nell’ambito delle “pompe fune- bri” o dei riti di sepoltura –, si può dire che essa istituisca la que- stione della somiglianza al di fuori di ogni sfera “artistica” in quan- to tale. Essa appare piuttosto come un oggetto del corpo privato (il volto stesso di colui di cui si realizza l’immagine) restituito alla sfera del diritto pubblico.

2

E oggi? Vilém Flusser, nel suo articolo su Il politico nell’era delle immagini tecniche, descrive la situazione odierna nel modo se- guente: “In precedenza, le informazioni venivano rese pubbliche nello spazio pubblico e gli uomini dovevano lasciare la loro casa per pervenire a esse [...], gli uomini erano ‘politicamente impe- gnati’, che lo volessero o meno. Oggi però le informazioni sono trasmesse direttamente da spazi privati a spazi privati e gli uomi- ni devono starsene a casa per pervenire a esse [...]. La gente di- venta ‘politicamente disimpegnata’, perché lo spazio pubblico, il

2. Cfr. G. Didi-Huberman, “L’immagine-matrice. Storia dell’arte e genealogia della so-

miglianza” (1995), in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), trad. di S. Chiodi,

Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 59-81.

(8)

forum, diventa inutile. In questo senso si afferma che il politico è morto e che la storia trapassa nella post-storia in cui nulla più pro- gredisce e tutto si limita ad accadere”.

3

Si potrebbe anche dire che l’illusione maggiore prodotta da un tale “apparato di stato” delle immagini è il fatto che nulla accade [se passe] nel mondo che non sia già stato fatto passare in televisione.

Che fare per restituire qualcosa alla sfera pubblica al di là dei limiti imposti da un tale apparato? Occorre istituirne i resti: pren- dere alle istituzioni ciò che esse non vogliono mostrare – lo scar- to, il rifiuto, le immagini dimenticate o censurate – per renderlo a chi spetta di diritto, vale a dire al “pubblico”, alla comunità dei cittadini. È proprio ciò che fa Harun Farocki quando ci mostra, nei suoi film o nelle sue installazioni, degli insiemi di immagini che non erano destinate a essere rese pubbliche. Per esempio, in Ein Bild (1983), assistiamo alla lenta fabbricazione in tempo reale – noiosa come può esserlo qualunque processo artigianale visto dal- l’esterno – di un’immagine erotica per la rivista “Playboy”; in Vi- deogramme einer Revolution (1992), assistiamo al rovesciamento politico delle immagini nel contesto stesso della televisione di sta- to durante gli avvenimenti del 1989 in Romania; in Gefängnisbil- der (2000), si vedono delle immagini che non sarebbero mai do- vute uscire dagli archivi di certe prigioni americane; in Die Schöp- fer der Einkaufswelten (2001), scopriamo delle decisioni di marke- ting destinate a farci strumentalizzare dallo spazio stesso dei no- stri supermercati; infine, in Immersion (2009), Farocki ci offre gli strumenti per prendere posizione su certe tecniche militari di “te- rapia psichica”, appositamente concepite affinché risulti impossi- bile valutarle, o perché le si subisce, o perché le si ignora.

Harun Farocki viene spesso interrogato sul suo modo di prendere, ottenere, manipolare queste “immagini operative” del mondo scientifico, commerciale, sportivo, politico o militare. “Dove pren- de questi materiali?” gli si domanda. E Farocki – con una malizia

3. V. Flusser, “Il politico nell’era delle immagini tecniche” (1990), in La cultura dei me- dia, trad. di T. Cavallo, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 144.

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Nota sulla politica delle sopravvivenze

LAURA ODELLO

I l testo qui tradotto, Rendere un’immagine, è tratto dall’ultimo libro di Georges Didi-Hu- berman appena uscito in Francia, Remonta- ges du temps subi. L’œil de l’histoire, 2, e dedicato al lavoro del cineasta e artista tedesco Harun Farocki. Montando e rimon- tando documenti visivi che testimoniano della violenza politica del nostro tempo, Farocki, sostiene Didi-Huberman, restituisce le immagini a chi spettano di diritto, cioè a tutti noi. Ce le ren- de, dunque, dopo averle modestamente e pazientemente rimon- tate in un lavoro che non cancella la sofferenza o l’ingiustizia che le ha prodotte, e dove trova forma (artistica e politica) la collera che tale sofferenza ha suscitato. Immagini rese a noi, ai nostri occhi, perché possano aprirsi sulla violenza del mondo.

Che l’immagine implichi un gesto politico, è ciò che Georges

Didi-Huberman sembra suggerirci da qualche tempo. Per questo

stesso fascicolo di “aut aut”, un titolo (poi modificato) si era fin

da subito imposto: Politica delle sopravvivenze. Attraverso il lavo-

ro di Georges Didi-Huberman. L’idea era infatti di sollecitare una

riflessione intorno alla ricerca estetica di Didi-Huberman a parti-

re dalla piega sempre più politica che segna la sua recente produ-

zione. Basti pensare agli ultimi tre testi dati alle stampe tra il 2008

e il 2010: Quand les images prennent position, Remontages du

temps subi (inediti in Italia, rappresentano i primi due saggi di una

serie intitolata L’œil de l’histoire, il primo dedicato al lavoro di Ber-

tolt Brecht, il secondo, come già detto, a quello di Harun Farocki)

(10)

e il piccolo testo Survivance des lucioles, tradotto già da qualche mese in italiano con il titolo Come le lucciole. Una politica delle so- pravvivenze. Piega politica che appare ora delinearsi in modo sem- pre più evidente, ma che già si annunciava e si preparava in testi precedenti, da Devant l’image. Question posée aux fins d’une hi- stoire de l’art (1990) fino a Immagini malgrado tutto (2003).

Pur nel ristretto spazio di una nota, sarei tentata di rispondere a quel primo titolo e di invitare a prenderlo sul serio, a rileggere cioè il recente lavoro di Georges Didi-Huberman alla luce dell’e- spressione “politica delle sopravvivenze”, e a domandarsi che ne è della politica nelle immagini e nel lavoro sulle immagini: que- stione immensa, certo, che richiederebbe una minuziosa e atten- ta lettura dei testi e che evidentemente supera lo spazio consenti- to da queste poche righe. Mi limito pertanto a indicare, in modo sommario, due ipotesi o piste provvisorie.

Da un lato, l’immagine è politica, ci dice Didi-Huberman, per- ché essa è montaggio, ossia perché smonta, ricompone, rimonta, e così facendo analizza, contesta, critica, emancipa. I suoi recenti lavori ne sono un perfetto esempio. In Quand les images prennent position, Georges Didi-Huberman ci fa vedere, attraverso Brecht, come il montaggio implichi una presa di posizione politica: nel suo Diario di lavoro o in L’abicì della guerra, Brecht monta, smonta, ri- taglia e ricompone immagini e testi per rappresentare la guerra, creando un vero e proprio atlante di immagini dialettiche. Il la- voro di montaggio consiste nel dislocare e nel disorganizzare le immagini e il loro ordine di apparizione, e nel rimontarle altri- menti: il montaggio infatti separa le immagini per avvicinarle, le distanzia per accostarle, le interrompe per ricomporle nel punto stesso “del loro più improbabile rapporto”.

1

In tal modo esso smon- ta l’ordine del discorso e permette una ricomposizione critica del- la storia, che disorganizza i nessi più evidenti per riscriverli in una nuova configurazione, in un nuovo ordine o piuttosto disordine (che Didi-Huberman definisce con un neologismo: dysposition) delle cose. Il montaggio diventa dunque un operatore politico, in

1. G. Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L’œil de l’histoire, 1, Minuit, Paris 2009, p. 94.

29

(11)

quanto capace di mostrare “nelle immagini come il mondo appa- re, e come si deforma”.

2

Insomma, bisognerebbe forse rileggere Hannah Arendt – sem- bra suggerirci Didi-Huberman – che, scorgendo nell’estetica kan- tiana il principio di una politica possibile, ci ricorda che l’im- maginazione è politica. Ma sono soprattutto Walter Benjamin e Aby Warburg i pensatori che gli offrono i principali strumenti filosofici per pensare una politica delle sopravvivenze.

È infatti Benjamin che invita a pensare le immagini dialettiche, queste figure discontinue, istantanee e fugaci, questi singulti del tempo in cui la storia contraendosi si rende visibile come una pal- la di fuoco che sfonda l’orizzonte del passato e cade verso di noi.

Ed è sempre Benjamin a suggerire a Georges Didi-Huberman che tali immagini lampo – in cui pulsa, fragile, la luce intermittente di un conflitto del tempo, di una tensione tra passato e presente – so- no un modo per organizzare il pessimismo, dunque anche per smontarlo e contestarlo. Spetta invece a Warburg (come Didi- Huberman ha ben illustrato in L’immagine insepolta. Aby War- burg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte) il merito di aver mostrato il ruolo costitutivo delle sopravvivenze nella cultura del- le immagini, e la funzione politica della memoria.

In tal senso, le immagini sono come le lucciole, fragili e pas- seggere, minuscoli lampi di luce, barlumi di speranza che illumi- nano a intermittenza. Quelle stesse lucciole che Pasolini non riu- sciva più a vedere e che Didi-Huberman invita invece a ritrovare nell’oscurità: esse sono le sopravvivenze che resistono alla luce ab- bagliante del potere. Anche se deboli, fragili, instabili, occorre sa- perle cercare nelle zone d’ombra, nei margini bui del vedere. Le lucciole infatti non sono scomparse, esse funzionano a intermit- tenza, e in questa loro fragilità consiste tutta la loro forza, la loro capacità di sopravvivere e riapparire ogni volta.

Da un lato, dunque, il lavoro di Georges Didi-Huberman ci conduce su una prima pista: le immagini sono operatori politici capaci di disegnare sempre nuove configurazioni. Il loro montag- gio/smontaggio/rimontaggio permette di pensare il vedere come

2. Ivi, p. 256.

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aut aut, 348, 2010, 45-65

45

Apertura e differenza delle immagini

PIETRO MONTANI

1. Vorrei proporre qualche riflessione sul concetto di “immagine aperta”, cui Georges Didi-Huberman ha dedicato di recente un’im- portante raccolta di saggi

1

che ne attestano la centralità e la pro- duttività nell’ambito dell’originale dispositivo teorico di cui egli si serve nelle sue indagini sulle arti visive.

Centralità e produttività teoriche, va sottolineato. Perché l’im- magine aperta non designa “un semplice tema da trattare ico- nograficamente o tipologicamente”

2

ma un “fatto di struttura”.

Né può essere intesa come una metafora escogitata per figurare il gesto che disvelerebbe il contenuto spirituale dell’immagine sensibile. Didi-Huberman sa bene, infatti, che l’“immagine sen- sibile” non è che una compagine di differenze interne che non ha alcun bisogno di rinviare a un’idealità – l’ordine dei signifi- cati – che le sarebbe difforme per natura e per rango. Un ordi- ne trascendente, cioè, nel senso platonico del termine – o nel sen- so delle infinite risorgenze del platonismo lungo tutta la specu- lazione sulla cosiddetta “storia dell’arte” (e anche altrove, natu- ralmente...).

È sotto il profilo di un’antropologia filosofica, piuttosto, che l’“apertura” delle immagini andrà riferita all’azione di un corpo sensibile e senziente (visibile e vedente). Un corpo estatico, o “dei- scente”, come lo definiva l’ultimo Merleau-Ponty (richiamato da

1. G. Didi-Huberman, L’immagine aperta (2007), Bruno Mondadori, Milano 2008.

2. Ivi, p. 6.

(13)

Didi-Huberman) introducendo il concetto fenomenologico di

“carne”. Ciò significa che l’incarnazione ne è l’ambito essenziale.

Un ambito di relazioni interne – o meglio, estatiche – emancipa- to da ogni residuo di quella relazionalità metafisica (esterio- rità/interiorità, corpo/anima, sensibile/intelligibile ecc.) che infor- ma l’interpretazione metaforica – e infine anche quella iconogra- fica – dell’apertura.

Che genere di relazioni? Didi-Huberman ne indica tre sottoli- neandone il comune rapporto con un tempo anacronico: l’im- pensato, il sintomo, la sopravvivenza (il warburghiano Nachleben).

Delle tre è la prima – l’impensato – quella che qui mi interessa di più. Non solo perché alle altre due Didi-Huberman ha dedicato un’ampia, e decisiva, riflessione che ora ci autorizza, o ci invita, a ripercorre sotto il segno dell’apertura delle immagini. Ma anche perché, grazie alla sua maggiore generalità e necessaria indeter- minatezza, l’impensato rende disponibile un collegamento con il tema delle riflessioni che vorrei proporre. È un collegamento che passa per Lacan, ma che ha una latitudine filosofica più ampia, co- me del resto sapeva per primo Lacan stesso e come sa Didi-Hu- berman nel momento in cui lo cita.

Il passo in questione va riportato integralmente:

L’espressione immagine aperta mira a un’economia molto par-

ticolare dell’immagine – la maggior parte delle immagini che ci

circondano non ci propongono che schermi, tappabuchi, su-

ture a opera del sembiante [sutures par le semblant] – nella qua-

le forme, aspetti, somiglianze si lacerano e lasciano apparire, di

colpo, una dissimiglianza fondamentale. È allora che, secondo

la profonda osservazione di Lacan nel suo commento al “So-

gno dell’iniezione di Irma”, “il rapporto immaginario raggiun-

ge esso stesso il proprio limite”, non sul versante della simbo-

lizzazione ma sul versante di una reale alterità, il “dissimile es-

senziale, che non è né il supplemento né il complemento del si-

mile [ma] è l’immagine stessa della dislocazione”. L’immagine

aperta designerebbe dunque non tanto una certa categoria di

immagini quanto un momento privilegiato, un evento di im-

(14)

magine nel quale si lacera profondamente, a contatto con un rea- le, l’organizzazione aspettuale del simile.

3

L’immagine aperta, in altri termini, segnalerebbe l’evento stesso dell’apertura. L’estaticità dell’immagine in quanto tale. La soglia che fa cenno al disparato – alla reale alterità o all’alterità del rea- le – nella sua irriducibilità a supplemento o a complemento del- l’immagine. Soglia-limite e insieme “svelamento” originario: a- letheia (o Ereignis), si potrebbe anche dire, a voler prendere in ca- rico, ma non intendo farlo qui, le vistose risonanze heideggeriane di questa interpretazione dell’apertura in quanto evento-svela- mento.

Ne vorrei sottolineare, invece, il carattere intimamente “aura- tico”, nell’idea, suggerita da Didi-Huberman, che in ultima anali- si il concetto di immagine aperta entri di diritto nella costellazio- ne filosofica dell’“aura”, di cui tematizza il tratto della prossimità all’origine e, ciò che più conta, l’attitudine dell’origine stessa alla ripetizione, e cioè al Nachleben nella sua accezione più produttiva (anche teoricamente produttiva: è infatti precisamente il caratte- re anacronistico del tempo dell’origine, la sua Nachträglichkeit, a consentire a Didi-Huberman l’illuminante sinergia nella quale ha saputo stringere Warburg, Freud e Benjamin).

Nel testo che sto commentando, del resto, si accenna a un “ce- rimoniale auratico dell’apertura”.

4

Ma il tema è già attestato, in modo più esplicito e deciso, in altri luoghi dell’opera di Didi-Hu- berman, e in particolare nel saggio L’immagine-aura,

5

nel quale ci viene offerta una penetrante lettura del “declino dell’aura”, la ce- leberrima definizione con cui Benjamin si riferisce al fenomeno della riproducibilità tecnica delle immagini. Se l’aura, leggiamo qui, designa un “fenomeno originario dell’immagine”, un feno- meno “incompiuto” e “sempre aperto”

6

– vale a dire costitutiva-

3. Ivi, pp. 8-9 (traduzione leggermente modificata).

4. Ivi, p. 11.

5. G. Didi-Huberman, “L’immagine-aura. Dell’Adesso, del Già-stato e della modernità”, in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.

217-243.

6. Ivi, p. 220.

47

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Pazienza del dissimile e sguardo pontefice

ANDREA PINOTTI

1. “Non vedevo il nesso”

“Io non vedevo il nesso fra questi elementi, ma supponevo sola- mente che, nell’animo di Warburg, questi elementi si potessero congiungere in una forma unitaria.”

1

Così confessava, nel 1929, l’allievo, nel Discorso di commemorazione dedicato all’uomo che era stato non solo il suo maestro ma anche il suo “secondo padre”, riandando con il pensiero al suo periodo di apprendistato risalente al 1913. Cristianesimo e paganesimo, astrologia demonica e ra- zionalismo scientifico, realismo nordico e antiche formule di pathos, dei dell’attimo e figure cavalleresche, Firenze e Baghdad:

come tenere tutto questo insieme?

Al massimo, il giovane Saxl (all’epoca aveva ventitré anni) po- teva riconoscere analogie come quella individuata su uno specchio etrusco mostratogli una sera indimenticabile dal suo “pedagogo”:

“Vi è raffigurato Prometeo, e le sue braccia, durante il supplizio, vengono tenute in alto da due uomini. La somiglianza dell’imma- gine sullo specchio con le immagini della deposizione di Cristo è commovente”.

2

Lo sguardo acerbo dell’apprendista può istituire abbastanza agevolmente una rete di somiglianze: si tratta, in en- trambi i casi, di corpi umani, di sesso maschile, seminudi, sotto- posti a un supplizio. Soprattutto, la postura dei due corpi è molto

1. F. Saxl, Discorso di commemorazione di Aby Warburg (5 dicembre 1929), trad. di M.

Vinco, “aut aut”, 321-322, 2004, pp. 161-172, qui p. 166.

2. Ivi, p. 165.

(16)

simile (fig. 1). Non ci è dato sapere se la commozione del giovane studioso fosse dovuta più all’analogia a parte obiecti, o più alla sod- disfazione, a parte subiecti, di essere riuscito a intravederla.

Ma, quanto al resto, era “una molteplicità di questioni che fa- ceva disperare”: “Solamente colui che era colmo di questi pro- blemi poteva ricomporre questi dati”.

3

Come? Scorgendo l’iden- tico nel diverso, la logica figurale sottesa all’eterogeneo apparen- temente irriducibile, il nesso fra ethos e pathos, ragione e magia, Nord e Sud, Oriente e Occidente, modernità e antichità. Racca- pezzandosi fra antiche divinità sopravviventi ed enigmatici perso- naggi astrologici, migranti fin dentro l’iconografia delle réclames degli anni venti; imparando a vedere il nesso che lega insieme, nel- la cultura hopi, il fulmine al serpente. Solamente Warburg in per- sona, dunque, poteva sperare di orientarsi in quel caos. Il giova-

3. Ivi, p. 167.

Fig. 1.

A sinistra: La liberazione di Prometeo da parte di Ercole e Castore, bassorilievo sul lato posterio- re di uno specchio etrusco, fine

V

secolo a.C., Louvre, Parigi. A destra: Cosmè Tura, Pietà, parti- colare dal polittico Roverella, 1474, Louvre, Parigi (da A. Warburg, Der Bilderatlas Mnemosyne, a cura di M. Warnke, Akademie Verlag, Berlin 2000, rispettivamente tavole 4 e 42).

67

(17)

ne allievo, destinato a diventare uno specialista di astrologia (ap- punto uno dei modi fondamentali dell’orientarsi umano), avreb- be gradualmente imparato a riconoscere nell’Orientierung il co- mun denominatore delle variegate indagini warburghiane, nonché dell’impresa umana tout court: “L’atto fondamentale della cono- scenza umana è orientarsi di fronte al caos attraverso la posizione di immagini o di segni”.

4

In ciò Saxl vide certamente bene; ma non altrettanto bene sep- pe vedere le modalità con le quali Warburg cercò di costruire, fa- ticosamente, il proprio senso dell’orientamento. Prendiamo, pars pro toto, le parole con cui egli caratterizzò, in quel medesimo di- scorso commemorativo, il progetto Mnemosyne: “L’atlante, pro- prio perché è un’opera sistematica, diviene al contempo un’ope- ra storica. L’opera dei grandi artisti del Rinascimento italiano, co- sì come quella di Dürer, vi viene analizzata in successione crono- logica”.

5

Sistema e cronologia sarebbero dunque, per l’allievo, le cifre costitutive del progetto finale del maestro e, più in generale, gli strumenti con cui ricomporre i disiecta membra delle sue pere- grinazioni intellettuali.

2. Montaggio di eterogenei

Sarebbe difficile immaginare un’interpretazione dell’atlante a que- sta più antipodale di quella proposta da Georges Didi-Huberman.

All’opera sistematica evocata da Saxl viene contrapposto il pro- getto aperto, in progress (“opera ipotetica, irrimediabilmente prov- visoria”, “paradossale”), di un montaggio di elementi eterogenei;

alla successione cronologica, la pratica dell’anacronismo. Una irri- ducibile congerie di eterogenei, il cui unico denominatore comu- ne sembra essere il bianco e nero della fotografia.

6

Mnemosyne è, dunque, un dispositivo fotografico che insegna a vedere che cosa accomuna, al di sotto delle opposte polarizza- zioni etico-culturali, una menade dionisiaca e una Maddalena cri-

4. Ivi, pp. 169-170.

5. Ivi, p. 171.

6. G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la

storia dell’arte (2002), trad. di A. Serra, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 419.

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Montaggio e anacronismo

ANTONIO SOMAINI

“S empre, di fonte a un’immagine, ci tro- viamo di fronte al tempo [...]. Ma che genere di tempo?” È questa la do- manda con cui si apre Devant le temps. Histoire de l’art et ana- chronisme des images di Georges Didi-Huberman,

1

un’ampia ri- flessione sul modo in cui l’incontro con l’immagine costringe la storia a ripensare se stessa e la propria concezione del tempo, accettando l’anacronismo non come un errore metodologico ma come l’unico modo di essere all’altezza della complessità tem- porale dei propri oggetti. “L’anacronismo”, scrive Didi-Huber- man, ed è questa la tesi principale di Devant le temps, “costitui- rebbe [...] la maniera temporale di esprimere l’esuberanza, la complessità, la sovradeterminazione delle immagini.”

2

Attraver- so il confronto con figure come quelle di Warburg, Benjamin e Carl Einstein – accomunati dalla scelta di mettere le immagini al centro della propria ricerca storica e della propria riflessione sul- l’idea stessa di storicità – Didi-Huberman ricostruisce una co- stellazione di autori che hanno pensato la storia dell’arte – e più in generale, la storia delle immagini – come “una storia dunque di oggetti policronici, di oggetti eterocronici e anacronistici”.

3

Una storia non lineare bensì discontinua, irregolare, attraversa-

1. G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2000), trad. di S.

Chiodi, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 11.

2. Ivi, p. 18.

3. Ivi, p. 24.

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aut aut, 348, 2010, 84-100

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ta da ritmi diversi, segnata da improvvise concordanze con il presente. Una storia che solo una strategia di indagine e di espo- sizione fondata sull’anacronismo, sul montaggio di tempi diver- si, è in grado di ricostruire.

Ricollegandomi direttamente alle tesi sostenute da Didi-Hu- berman in Devant le temps, vorrei mostrare nelle prossime pagi- ne come questa idea secondo cui la complessità temporale delle immagini può essere compresa solo attraverso la forza euristica ed ermeneutica del montaggio anacronistico è al centro anche de- gli scritti di Ejzenštejn, un ampio corpus di testi solo in minima parte pubblicati durante la vita del regista sovietico e ancora og- gi in parte inediti. Nei grandi libri rimasti incompiuti come la Teo- ria generale del montaggio (1937), Metod (1932-1948) e La natu- ra non indifferente (1945-1947),

4

ma anche in saggi più brevi co- me Il legame inatteso (1929), Drammaturgia della forma cinema- tografica (1929) e El Greco y el cine (1937),

5

Ejzenštejn estende l’azione del montaggio – vero e proprio baricentro di tutta la sua riflessione teorica e di tutta la sua pratica cinematografica – al di là dei confini del cinema, interpretandolo come uno stile di scrit- tura e come un “metodo” di indagine volto a chiarire l’identità del cinema e la sua collocazione nella storia universale delle for- me artistiche. Proprio come nei protagonisti della costellazione ricostruita da Didi-Huberman in Devant le temps, anche negli scritti di Ejzenštejn emerge la convinzione che l’anacronismo sia l’unica via possibile con cui la storia può affrontare l’anacroni- sticità dei suoi stessi oggetti di studio. Così come in Warburg, Benjamin e Carl Einstein, l’incontro con la complessità tempora-

4. S.M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, con un saggio di F. Casetti, Marsilio, Venezia 2004; Id., Metod, 2 voll., a cura di N. Klejman, Muzej Kino, Mo- skva 2002; Id., La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 2003.

5. Id., “Il legame inatteso”, in Il movimento espressivo. Scritti sul teatro, a cura di P. Mon-

tani, introduzione di A. Cioni, Marsilio, Venezia 1998, pp. 39-48; Id., “Drammaturgia della

forma cinematografica”, in Il montaggio, a cura di P. Montani, con un saggio di J. Aumont,

Marsilio, Venezia 1992, pp. 19-52 (le pagine comprendono degli appunti di Ejzenštejn con

il titolo “Appunti per le integrazioni all’articolo di Stoccarda”); S.M. Eisenstein, “El Greco

y el cine”, in Cinématisme, a cura di A. Laumonier, introduzione, note e commento di F. Albé-

ra, con una prefazione-collage di J.-L. Godard, Les presses du réel, Dijon 2009, pp. 65-128.

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le delle immagini – e, aggiungiamo, dei media che le configurano e le veicolano – costringe la storia a ripensare i propri presuppo- sti e a elaborare nuovi modi di ricostruire ed esporre i processi che la costituiscono.

1. Teoria, storia, pratica

La prospettiva di lettura degli scritti di Ejzenštejn che abbiamo appena proposto – incentrata sull’analisi dell’uso fatto dal regista sovietico del montaggio come strumento di indagine per chiarire l’identità del cinema e la sua collocazione storica – solleva subito un problema: è possibile considerare Ejzenštejn come uno “stori- co”, sia pure nel senso ampio e “non accademico” in cui erano sto- rici Warburg, Benjamin e Carl Einstein? Una possibile risposta a questa domanda la troviamo in una nota di diario scritta nel 1947, in un periodo in cui Ejzenštejn, impossibilitato a proseguire la sua attività di regista a causa sia della censura della seconda parte di Ivan il Terribile sia dell’infarto che lo aveva colpito nel 1946, si era dedicato al progetto di coordinare la realizzazione di una Storia generale del cinema per l’Istituto di storia dell’arte dell’Accademia sovietica delle scienze. L’obiettivo dichiarato di questo progetto era di chiarire il ruolo del cinema nel sistema e nella storia delle arti, un obiettivo che Ejzenštejn intendeva perseguire a partire da una sintesi delle linee di ricerca sviluppate nei suoi scritti prece- denti. In questo contesto, nel giugno del 1947 scrive una nota che ci può aiutare a comprendere in che modo nei suoi scritti la teo- ria del cinema fosse inscindibile da una storia, e come entrambe fossero pensate in stretta correlazione con la sua pratica cinema- tografica:

È come se fosse alia iacta est. Il Presidium dell’Accademia del- le scienze mi ha confermato che sarò a capo della sezione di Storia del cinema dell’Istituto di storia delle arti dell’Accade- mia sovietica delle scienze. Per fare questo lavoro non mi era mai bastata la determinazione. Ma se a creare sono una grande quantità di persone, a svelare invece questo processo, as I do see it, non c’è quasi nessuno. E history diventa un terzo anello

86

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Etica dello sguardo.

Didi-Huberman e la visione tattica

LUDGER SCHWARTE

1. Pratiche dello sguardo

Le pratiche dello sguardo nell’opera di Georges Didi-Huberman sono sviluppate in modo così complesso e stratificato che sareb- be difficile cercare di descriverne e soppesarne tutte le sfumature e diramazioni. E tuttavia proprio la dispersione e la complessità dello sguardo sono ciò a cui perviene l’attenzione teoretica di Didi- Huberman. Dallo sguardo procedono – forse proprio in que- st’ordine – le immagini, il mondo, l’uomo, il pensiero.

Lo sguardo conferisce ai corpi peso e pesantezza. I corpi dota- ti di peso sono tali da risplendere, materializzarsi, contrapporsi gli uni agli altri, mostrarsi e rendersi visibili, percettibili, udibili at- traverso la propria presenza.

Georges Didi-Huberman attribuisce centralità al concetto di

“etica dello sguardo” nel libro Immagini malgrado tutto,

1

dove egli descrive in primo luogo il percorso del libro nel suo insieme, con lo scopo di restituire la possibilità di vedere, e contemporanea- mente anche la realtà e la verità, di una sequenza di quattro im- magini scattate dagli uomini del Sonderkommando nel campo di sterminio di Auschwitz. Didi-Huberman non dice che cosa mo- strano quelle immagini, ma rintraccia invece le loro specifiche con- dizioni di esistenza, nei limiti cui ognuna di esse è soggetta; segue il loro percorso lungo diverse tappe e mediante diverse tecniche di manipolazione e ritocco; ce le mostra come frammenti di di-

1. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto (2003), Raffaello Cortina, Milano 2005.

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sperazione, ribellione, resistenza organizzata, fallimento, soprav- vivenza.

Un’immagine è in grado di fissare e conservare le tracce di vi- ta nelle quali è in un certo senso incapsulato l’ultimo respiro di quelli che i loro aguzzini volevano restassero senza parola e senza volto. Al di là delle costrizioni imposte dai carnefici, questo dono dell’immagine è immediatamente evidente, a patto che la si guar- di con occhi diversi da quelli che hanno imparato a valutarne il fa- scino sulla base di mere informazioni. Qui è richiesta un’atten- zione consapevole, giudiziosa e attiva:

Immaginare malgrado tutto, il che esige da parte nostra una dif- ficile etica dell’immagine: né l’invisibile per eccellenza (pigri- zia dell’esteta), né l’icona dell’orrore (pigrizia del credente), né il semplice documento (pigrizia dello studioso). Una semplice immagine: inadeguata ma necessaria, inesatta eppure vera. Ve- ra di una paradossale verità, certo. Direi addirittura che l’im- magine è qui l’occhio della storia: tenace vocazione a rendere visibile. Ma essa è anche nell’occhio della storia: in una zona ben localizzata, in una fase di sospensione visiva.

2

L’etica dello sguardo esige in chi guarda un’attenzione che consi- ste nel riempire i vuoti resi visibili dagli scatti fotografici, una vol- ta che questi siano stati sviluppati; ed esige una capacità di im- maginare che si muova a tentoni verso la realtà della situazione colta nelle istantanee, alla quale si riferiscono gli indizi presenti nelle foto (indexicalité). Una siffatta capacità di immaginare si in- dirizza verso il reale, non sospinge le immagini delle foto verso l’ambito della finzione. Essa diventa così un importante strumen- to della critica visiva, in grado di scandagliare le condizioni che rendono possibile la fotografia al fine di renderne visibili i limiti nella fotografia stessa, e di generare da lì l’immagine.

Guardare oggi queste immagini secondo la loro fenomenolo- gia – pur piena di lacune – significa domandare allo storico un

102

2. Ivi, pp. 59-60.

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lavoro di critica visiva al quale, credo, non è troppo abituato.

Questo lavoro esige un doppio ritmo, una doppia dimensione.

Occorre restringere il punto di vista sulle immagini, non omet- tere nulla di quella che è la sostanza dell’immagine, foss’anche solo per interrogarsi sulla funzione formale di una zona in cui

“non si vede nulla”, come si dice a torto davanti a qualcosa che sembra privo di valore informativo, un riquadro d’ombra per esempio. E simmetricamente bisogna allargare il punto di vista fino a restituire alle immagini l’elemento antropologico che le mette in gioco.

3

L’etica dello sguardo è un procedimento critico che dà conto del fatto che le immagini sono impressioni di un’assenza, di una la- cuna, di un invisibile che può solo essere immaginato, e che tut- tavia senza l’immaginazione non sarebbe un fatto, perdendo in- vece tutta la sua forza probante:

Bisogna allora tornare a dire che Auschwitz è inimmaginabile?

Certo che no. Bisogna semmai dire il contrario: bisogna dire che Auschwitz è solo immaginabile, che siamo costretti all’im- magine e che per questo dobbiamo tentare di svolgerne una cri- tica interna, appunto allo scopo di sbrogliare questo intrigo, questa necessità lacunosa.

4

La critica si indirizza alla particolarità, all’unicità di ogni singola im- magine. Anzitutto la visione deve “entrare in sintonia” con ogni immagine, soprattutto nel caso di questo tipo di immagini: una vi- sione che si muova tra choc ed empatia, che si sviluppi tra l’imma- ginazione e l’esplorazione graduale di una superficie opaca. La cri- tica interna di ogni singola immagine non orienterà l’attenzione di chi vede solo a ciò che di volta in volta resta invisibile nella singola immagine. Nel caso delle quattro fotografie del Sonderkommando lo sguardo risulta in primo luogo dalla distorsione temporale che

3. Ivi, p. 61.

4. Ivi, p. 66.

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aut aut, 348, 2010, 121-129

121

Il pensiero fasmide

EMANUELE ALLOA

S econdo Aby Warburg, le stratificazioni del tempo storico racchiudono fossili viventi, sopravvivenze immemoriali che Warburg, ripristinando a modo suo un termine tecnico dei geologi, chia- mava Leitfossilien. Apparizioni alquanto emblematiche, tali

“fossili guida” cristallizzano in sé la forza motrice di un’intera cultura e ne serbano la memoria del gesto che la travolse. In un libro-chiave (e ancora non tradotto in italiano) che precede i suoi lavori sul concetto di Nachleben in Warburg,

1

Georges Didi- Huberman descrive un suo face-à-face con un tale fossile venuto da tempi preumani e che a sua volta potrà essere letto come l’em- blema dell’intero movimento di pensiero dell’autore. Nell’intro- duzione a Phasmes. Essais sur l’apparition, intitolata giustamen- te “Le paradoxe du phasme”,

2

l’autore evoca una fuggitiva visi- ta al Jardin des plantes. Tra il fitto fogliame dei vivari si nascon- dono rettili, anfibi e insetti che lanciano all’ospite la sfida di chi per primo li scorgerà. Tra le molte gabbie in cui si possono, in mezzo ai boccioli, ammirare le ali sfavillanti di qualche esotico lepidottero vi è però un vivario che, benché allestito con foglie e ramoscelli, pare senza inquilini. Privo di ogni traccia di vita ani-

1. G. Didi-Huberman, L’image survivante. Histoire de l’art et temps des fantômes selon Aby Warburg, Minuit, Paris 2002; trad. L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

2. Id., “Le paradoxe du phasme”, in Phasmes. Essais sur l’apparition, Minuit, Paris 1998,

pp. 15-20.

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male, il cassone trasparente sembra aspettare l’arrivo imminen- te del nuovo pigionale. Sul punto di passare oltre, lo sguardo del passante si sofferma sul cartello, che indica invece che l’animale nel vivario già c’è: “Phasmes”, ossia fasmidi, dal greco phasmoi- dea. La presenza del fasmide è quella di un phantasma, ricorren- za spettrale o fantasmatica, appunto, di ciò che c’è senza pro- prio esserci. Phasma veniva denominato appunto il corpo di Eu- ridice negli inferi, eterea sagoma che si confonde con le molte altre che la circondano nell’oscurità dell’Ade. Ma phasma si di- ce anche della larva, stadio intermedio e incerto che precede l’in- dividuazione. Dov’era allora il fasmide del Jardin des plantes?

Scrive l’autore:

Guardando il suo decoro, lo “sfondo” senza animale, capii a un improvviso momento – momento in cui svanisce l’incertez- za, ma con essa anche ogni certezza – che la vita di quest’ani- male non era altro che questo decoro e questo sfondo. Stento a spiegarmi. Di solito, quando si dice che c’è qualcosa da ve- dere e che non vedi niente, ti avvicini: immagini che ci sia lì un dettaglio inavvertito del tuo paesaggio visivo. Vedere apparire i fasmidi richiese il contrario: defocalizzare, allontanarsi un po- co, abbandonarsi a una visibilità fluttuante, ecco cosa dovetti fare più o meno per caso, o per un movimento anticipando la paura. Ma questi due passi indietro mi misero di colpo di fron- te all’evidenza spaventosa che la piccola foresta del vivario non era altro che l’animale che si pensava si fosse nascosto in essa.

L’essere senza capo né coda appartato nel cassone trasparente spo-

sta e rende indistinguibile le linee tra l’animale e il vegetale (già

Athanasius Kircher, nel 1600, riteneva che i fasmidi fossero in par-

te piante e in parte animali), disloca i confini tra visibile e invisi-

bile e rende inapplicabili i concetti gestaltisti di figura e sfondo. Il

fasmide è lo sfondo che lo nasconde e lo sostenta: si nutre delle

medesime foglie che gli conferiscono la sua invisibilità e dei me-

desimi stecchi di cui imita la forma. “Il fasmide è ciò che mangia e

ciò in cui abita [...]. La copia divora il suo modello.”

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Il fasmide e la descrizione dei suoi paradossi non solo costitui- scono l’incipit di una serie dove coesistono – in modo disparato – fotografie, ex voti, sogni, macchie d’inchiostro, giocattoli, Padri del deserto e oggetti quotidiani. Non solo il fasmide inaugura un atlante posto sotto il segno del disparato (inteso secondo la defi- nizione leibniziana, cioè il “disparato” come ciò che non può es- sere riassunto in nessun ordine superiore del concetto), ma ne co- stituisce in qualche modo la chiave, il Leitfossil. Questo insetto so- pravvissuto dall’epoca dell’infanzia del pianeta (i reperti fossili più giovani, racchiusi nell’ambra dell’Eocene, sembrano indicare che potrebbe risalire addirittura a trecento milioni di anni fa) diventa per Didi-Huberman l’emblema di una experientia disparationis che scompiglia ogni sguardo “pre-parato”. Che sarebbe “parato in an- ticipo”, dunque, immunizzato fin dapprima come lo è lo sguardo dello specialista a tutto ciò che lo potrebbe fuorviare dalla certez- za del metodo, della via tracciata del methodos.

Il pensiero fasmide è un pensiero per così dire del “disparare”.

Dis(im)parare a vedere quel che credevamo di vedere e che vede- vamo perché sapevamo (o credevamo di sapere). E dunque anche disperare del proprio sapere (“l’evidenza spaventosa”). Esperien- za della disparità, insomma, che sopravviene sempre inaspettata.

D’un colpo – d’uno sparo. L’improvvisa esplosione visiva del pan (“pan!”), come suggeriva Didi-Huberman, filando sul petit pan de mur jaune proustiano.

3

“Impelagarsi col carattere disparato, sem- pre singolare dell’apparenza” nota l’autore nell’incipit di Phasmes,

“significa porsi ogni volta in modo nuovo la domanda sullo stile che questa apparenza richiede”. Più che uno stile disparato (stile eclettico, free style), il pensiero fasmide sarebbe dunque uno stile del disparato che assumerebbe le forme eterogenee di ciò che de- scrive. Ecco la sfida intellettuale per ogni interprete: “Che il pen- siero di fronte all’oggetto appariscente si comporti come il gene- re dei fasmidi nei confronti della foresta nella quale penetra”.

3. G. Didi-Huberman, La peinture incarnée, Minuit, Paris 1985; trad. La pittura incar- nata. Saggio sull’immagine vivente, il Saggiatore, Milano 2008; Id., “Question de détail, que- stion de pan”, appendice a Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Mi- nuit, Paris 1990, pp. 271-318.

123

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Ripensare Warburg

I saggi di Didi-Huberman riprendono costantemente

l’eredità poliedrica e frammentaria di Aby Warburg. Nel

testo con cui si apre la sezione, Didi-Huberman propone

una lettura, tra storia dell’arte e antropologia, delle indagini

warburghiane sulla divinazione antica. Gli altri contributi

discutono criticamente alcuni aspetti del lascito di Warburg,

invitando a sondarne ulteriormente la ricchezza.

(28)

Epatica empatia. L’affinità degli incommensurabili in Aby Warburg

GEORGES DIDI-HUBERMAN

È noto che la nozione di empatia – come quella di pathos – gode di cattiva fama nell’attuale discorso degli storici e dei critici dell’arte. Ma occorre constatare che l’Einfühlung è a pie- no diritto uno dei momenti fondatori della storia dell’arte co- me disciplina moderna, sia nella sua versione cosiddetta “for- malista” sia in quella “iconologica”. Ciò è risaputo nel caso di Heinrich Wölfflin, specialmente quando si scorre il suo testo del 1886, intitolato Prolegomeni a una psicologia dell’architet- tura.

1

Sembra meno evidente in Aby Warburg, la cui ricerca iconologica si vede troppo spesso ridotta a questioni di “con- tenuti”, di “fonti” archivistiche o di “simboli” letterari. Ricor- derò semplicemente, nei limiti di questo intervento, l’impor- tanza delle questioni di empatia, al limitare del primo lavoro pubblicato da Warburg – la sua tesi sui quadri mitologici di Botticelli – così come della sua ultima impresa incompiuta, il Bilderatlas Mnemosyne.

Sappiamo che dopo due successive revisioni delle bozze del- la sua tesi, nel 1892, Warburg decise improvvisamente di ag- giungere una Osservazione preliminare (Vorbemerkung) nella qua- le, in sole quindici righe, veniva delineato quel notevole pro- gramma teorico già implicito nella sua ricerca delle “fonti” bot-

1. Cfr. H. Wölfflin, Prolegomeni a una psicologia dell’architettura (1886), et al. edizioni, Milano 2010.

132

aut aut, 348, 2010, 132-152

(29)

ticelliane, e al quale doveva rimanere fedele per tutta la vita.

2

Il breve testo appare dunque, modestamente, come la sola dichia- razione d’intenti – la sola presa di posizione epistemologica – del giovane storico al limitare di ciò che egli amava chiamare il suo

“ammasso d’erudizione”. Ma, per capirlo meglio, dobbiamo te- nere conto di tre elementi supplementari: anzitutto Warburg vol- le dare una conclusione teorica al suo saggio, nella forma di Quat- tro tesi (Vier Thesen) lapidarie, che rinunciò a pubblicare nell’e- dizione originale.

3

Poi scrisse, su ventisette febbrili foglietti, un abbozzo di Conclusione (Schluß) che cercava di definire, in ter- mini teorici, le relazioni tra “immagine ed esperienza”.

4

Infine e soprattutto, la composizione del lavoro su Botticelli, dal 1888, era accompagnata da un considerevole sforzo di elaborazione fi- losofica, di cui possiamo ritrovare gli schizzi in un voluminoso manoscritto dal titolo ambizioso: Frammenti per i fondamenti di una psicologia monista dell’arte.

5

Questo per dire fino a che pun- to le quindici righe della Nota preliminare fossero, agli occhi di Warburg, cariche di senso.

Retrospettivamente, nei tre brevi paragrafi che compongono il testo non è difficile riconoscere i tre concetti più importanti sui quali, a lungo andare, si sarebbe fondata l’intera storia dell’arte warburghiana. Il primo paragrafo enuncia che la ricerca delle “fon- ti” botticelliane – filosofiche o poetiche – punta a “mettere in lu- ce ciò che nell’antichità ‘interessava’ gli artisti del Quattrocento”.

6

Al di là delle idee ancora vaghe di “interesse”, perfino di “in- fluenza”, è proprio la nozione di “sopravvivenza” (Nachleben) che si trattava di evidenziare progressivamente in quanto modello tem- porale suscettibile di rendere giustizia ai paradossi storici e ai “mo- vimenti di fonti” osservati da Warburg.

2. A. Warburg, Botticelli (1893), Abscondita, Milano 2006, p. 11 (le bozze con e senza la

“Vorbemerkung” si trovano a Londra, al Warburg Institute Archive [d’ora in poi

WIA

], agli indici

III

.39.6., ff. [1]-[5]).

3. Presenti nell’edizione francese , le “Quattro tesi” mancano in quella italiana. [N.d.T.]

4. A. Warburg, Schluß (1892),

WIA III

.38.4., f. [1].

5. Id., Grundlegende Bruchstücke zu einer monistischen Kunstpsychologie (1888-1905),

WIA III

.43.1-2.

6. Id., Botticelli, cit., p. 1.

(30)

Il secondo paragrafo isolava, anch’esso molto sobriamente, un

“veicolo” visivo privilegiato dei processi temporali. È il punto in cui, visivamente, si concentrava la tesi: “Questo raffronto consen- te infatti di vedere passo per passo come gli artisti e i loro consi- glieri vedessero negli ‘antichi’ un modello [Vorbild] richiedente un movimento esterno intensificato [eine gesteigerte äußere Beweg- ung] e si appoggiassero a modelli antichi ogni qual volta si trat- tasse di raffigurare il moto fisico attraverso accessori [äußerlich bewegtes Beiwerk] come fogge e capigliature”.

7

Il movimento amplificato – intensificato – come mezzo forma- le di una memoria dell’antico? In quel punto Warburg anticipa- va, di certo, ciò che avrebbe chiamato alcuni anni più tardi “for- mule di pathos” (Pathosformeln). Ora, l’efficacia stessa di quei mezzi figurativi poteva essere compresa, agli occhi del giovane sto- rico, solo mettendo in gioco una vera e propria psicologia – per- fino una metapsicologia – dell’immagine che fosse in grado di espri- merne la necessità, tanto formale quanto antropologica. Il terzo paragrafo, per questo, si richiama a una terza nozione, evocata co- sì d’improvviso da sembrare ancora molto misteriosa, la nozione di “empatia” (Einfühlung): “Questa prova è significativa per l’e- stetica psicologica [psychologische Ästhetik], poiché qui, nell’am- biente degli artisti intenti alle loro creazioni, si può osservare nel suo divenire la sensibilità per l’atto estetico dell’‘empatia’ come potenza creatrice di stile [der ‘Einfühlung’ in seinem Werden als stilbildende Macht]”.

8

Come le tre Grazie nella Primavera di Botticelli, queste tre no- zioni fondamentali – sopravvivenza, formula di pathos, empatia – formano un circolo indissolubile lungo l’intera analisi warbur- ghiana. Possiamo seguirne la dinamica, di cui l’arte di Botticelli (e, più in generale, quella del Quattrocento fiorentino) ci offre le ammirevoli, emozionanti e mobili linee di forza. Si potrebbe così seguirne il motivo insistente – il leitmotiv o Leitfossil, come War- burg amava dire – attraverso l’intera opera dello storico, fino a

134

7. Ibidem [traduzione modificata, N.d.T.].

8. Ibidem [traduzione modificata, N.d.T.].

134

(31)

Il pentimento di Warburg

DAVIDE STIMILLI

Pulcherrima manus, per microscopium conspecta, terribilis apparebit.

Spinoza, Epistola

LIV

I l primo seminario di Aby Warburg dopo il suo ritorno da Kreuzlingen, dedicato al Signi- ficato dell’antichità per il mutamento stili- stico nell’arte italiana del primo Rinascimento, venne da lui vis- suto come un esperimento cruciale, sia perché doveva servire da ulteriore conferma della sua piena guarigione,

1

sia perché rappresentava il momento inaugurale di una nuova fase della sua vita, gli ultimi anni di fruttuosa attività ancora concessigli, a cui amava riferirsi come la sua “messe di fieno durante il tem- porale”. È quindi comprensibile come, in conclusione del se- minario, potesse tirare un sospiro di sollievo all’aver superato l’ostacolo: “Questa parte della mia esistenza andata – finora – come sperato”.

2

All’estremo opposto, nel preparare il suo incontro d’apertura il 25 novembre del 1925, Warburg aveva avvertito il bisogno di porlo sotto gli auspici di due “motti guida” che dovevano servire

1. Ludwig Binswanger aveva già dato il suo placet dopo la conferenza in memoria di Franz Boll, che Warburg tenne il 25 aprile 1925: cfr. la sua lettera del 14 agosto 1925, in L. Bin- swanger, A. Warburg, Die unendliche Heilung. Aby Warburgs Krankengeschichte, a cura di C. Marazia e D. Stimilli, diaphanes, Zürich 2007, p. 141, e l’edizione della conferenza in A.

Warburg, “Per Monstra ad Sphaeram”: Sternglaube und Bilddeutung. Vortrag in Gedenken an Franz Boll und andere Schriften 1923 bis 1925, a cura di D. Stimilli e C. Wedepohl, Dölling und Galitz, München 2008, pp. 63-127; trad. di D. Stimilli, Per Monstra ad Sphaeram, Ab- scondita, Milano 2009, pp. 43-105.

2. Warburg Institute Archive (d’ora in avanti:

WIA

)

III

.113.9., quaderno in quarto, iscrit-

to da Warburg sulla copertina: Kulturwissenschaftliche Bibliothek Warburg W.S. 26/27 Übun-

gen W.S. - 1925/26. S.S. 26, p. 21.

(32)

da “principi conduttori” per l’intero seminario:

3

“1. Cerchiamo la nostra ignoranza e la colpiamo ovunque la troviamo; 2. Il buon Dio è nel dettaglio”.

4

Sulla pagina successiva dei suoi appunti per quella sessione, Warburg sottolinea l’importanza della sua idio- sincratica ars nesciendi prima di ripetere il suo motto più famoso, al quale appende, senza elaborare ulteriormente, la chiosa: “Mi- glioramento del metodo 1902 [Verbesserung der Methode 1902]”.

Il solo interprete, che io sappia, ad aver commentato questo la- conico appunto, Dieter Wuttke,

5

lo ha inteso come un program- ma in nuce: in altre parole, ciò a cui Warburg aspirava con il suo seminario del 1925 sarebbe stato un miglioramento rispetto al me- todo del 1902, e il motto sarebbe dunque inteso a riassumere il nuovo approccio. Mi sembra più probabile, perché più consono al tono retrospettivo degli appunti nel loro complesso e all’affer- mazione che il secondo motto era stato ispirato dall’“esempio dei grandi filologi tedeschi” – primo fra tutti Hermann Usener, di cui era stato allievo a Bonn

6

–, supporre che il miglioramento di me- todo a cui Warburg allude si fosse invece verificato nel 1902, e che ora, nel riprendere in mano le fila della sua vita e della sua opera, egli sentisse il bisogno di rivolgere lo sguardo indietro a quel mo- mento. In entrambi i casi, come Wuttke riconosce, senza peraltro fornire una risposta, la domanda da porsi prima di ogni altra è:

che si tratti del miglioramento rispetto a un metodo previamente praticato o di quello stesso che egli intendeva migliorare nel 1925, qual è il metodo del 1902?

Prima ancora di tentare una risposta, è già importante consta- tare come Warburg indichi nel 1902 l’occorrere di una svolta. Si tratta, tuttavia, di un anno che è stato in larga misura sorvolato nelle ricostruzioni della sua attività, dipendenti come siamo da una edizione ancora incompleta dei suoi scritti. Due pubblicazioni no-

3. Come sostiene in una lettera a Johannes Geffcken,

WIA

, General Correspondence (d’o- ra in poi:

GC

), 16 gennaio 1926.

4.

WIA III

.113.9., cartella iscritta Einführung, f. [2].

5. Nel “Nachwort” a A. Warburg, Ausgewählte Schriften und Würdigungen, a cura di D.

Wuttke, Koerner, Baden-Baden 1992

3

, p. 623.

6. Cfr. ancora la lettera a Geffcken (vedi sopra, nota 3).

154

(33)

tevoli videro la luce nel 1902: il saggio sull’Arte del ritratto e bor- ghesia fiorentina, come volume a sé, e quello sull’Arte fiamminga e primo Rinascimento fiorentino nello Jahrbuch der Königlich Preus- sischen Kunstsammlungen,

7

che doveva essere il primo in una se- rie di supplementi al saggio postumo di Jacob Burckhardt sul ri- tratto.

8

A dispetto della loro innegabile importanza, tuttavia, il punto di svolta che a Warburg premeva segnalare, cercherò di di- mostrare, è rappresentato dalla stesura di un testo ancora larga- mente sconosciuto, per l’ambivalenza nei suoi confronti dello stes- so Warburg, come vedremo, ma anche perché né i suoi esecutori testamentari né i suoi biografi hanno saputo sottrarlo all’immeri- tato oblio.

9

Come apprendiamo in apertura del saggio, Il ritratto di un suona- tore di lira italiano a Dublino: Attalante Migliorati, la scrittura ne venne stimolata dalla fotografia di un dipinto rinascimentale ri- prodotto nel volume per il 1902 della rivista “L’Arte”: il ritratto di un musico (fig. 1) nella National Gallery of Ireland a Dublino, attribuito congetturalmente alla “scuola ferrarese” dall’autore del- l’articolo, Herbert Cook.

10

Dieci anni più tardi, nel ringraziare un altro studioso per l’invio di un articolo su un pittore ferrarese, Bal- dassare Estense,

11

a cui il ritratto veniva ora attribuito, Warburg

7. A. Warburg, “Bildniskunst und florentinisches Bürgertum”, in Gesammelte Schriften, Teubner, Leipzig 1932, vol.

I

, pp. 89-126, ristampato come vol.

I

.1 della Studienausgabe, Aka- demie Verlag, Berlin 1998 (che d’ora in poi cito con l’abbreviazione

GS

seguita da numero di volume e pagina); trad. di E. Cantimori, “Arte del ritratto e borghesia fiorentina”, in La ri- nascita del paganesimo antico, La Nuova Italia, Firenze 1966, pp. 109-146; Id., “Flandrische Kunst und florentinische Frührenaissance”, in

GS I

.1, pp. 185-206; trad. di E. Cantimori, “Ar- te fiamminga e primo Rinascimento fiorentino”, in La rinascita del paganesimo antico, cit., pp. 147-170. Cito solo dalla traduzione italiana, che modifico tacitamente ove necessario.

8. J. Burckhardt, “Das Porträt in der italienischen Malerei”, in Beiträge zur Kunstgeschi- chte von Italien, Basel 1898.

9. Ma vedi ora l’eccellente saggio di Alessandro Scafi, L’enigma di un musico: Aby War- burg e l’iconografia musicale, “Musica e Storia”, 1, 2007 (pubblicato nel 2009), pp. 163-203, a cui rimando per un’esposizione più dettagliata della genesi del testo di Warburg, da lui tra- dotto e pubblicato in appendice: pp. 188-192. Cito dalla traduzione di Scafi, da cui mi di- scosto tacitamente ove necessario.

10. H. Cook, Pitture italiane esposte a Burlington House, “L’Arte”, 5, 1902, pp. 114-122, qui pp. 118-119. Il ritratto è riprodotto come fig. 11 con la didascalia “Ritratto di violinista”.

11. W. Gräff, Ein Familienbildnis des Baldassare Estense in der Alten Pinakothek, “Mün-

chener Jahrbuch”, 2, 1912, pp. 208-224, qui pp. 219-220.

(34)

aut aut, 348, 2010, 177-202

177

La “dea in esilio” di Warburg

SIGRID WEIGEL

N ei testi di Warburg della cartella Ninfa fiorentina, scritti nel 1900 e negli anni a seguire, la ninfa è caratterizzata come una “dea in esilio” e quindi viene indirettamente descritta co- me una qualche parente dei personaggi del libro di Heinrich Heine Gli dei in esilio (1853). Il nome del progetto “Frammen- to delle ninfe”, mai pubblicato, lo dobbiamo a Ernst Gombrich.

In una annotazione sulla ninfa che egli ci riporta troviamo: “Chi è dunque la ‘Ninfa’? Come essere reale, in carne e ossa, può es- sere stata una schiava tartara liberata, ma nella sua vera essenza è uno spirito elementare, una dea pagana in esilio. Se vuoi vede- re i suoi antenati, guarda il bassorilievo sotto i suoi piedi”.

1

La circostanza per cui il cosiddetto “Frammento delle ninfe”

fino a oggi non è ancora stato pubblicato è tanto più stupefacen- te se pensiamo alla posizione di primo piano che la ninfa riveste nella scienza della cultura di Warburg.

2

Il testo è apparso una prima volta nei Vorträge aus dem Warburg-Haus, Akademie Verlag, Ber- lin 2000, vol.

IV

, pp. 65-103, ed è stato qui in parte rivisto.

1. E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1970), Feltrinelli, Milano 2003, p. 113 (corsivi miei).

2. Nella nuova edizione dei Werke in einem Band di Warburg troviamo pubblicati lo scambio epistolare frammentario con Jolles e il manoscritto di una conferenza inclusa nella cartella Ninfa fiorentina, dal titolo: “Florentinische Wirklichkeit und antikisierender Ideali- smus. Francesco Sassetti, sein Grab und die Nymphe des Ghirlandajo”. Cfr. A. Warburg, Werke in einem Band, a cura di S. Weigel, M. Treml e P. Ladwig, Suhrkamp, Frankfurt a.M.

2010, pp. 198-233.

(35)

“La Nymphe n’existe pas.” Il “Frammento delle ninfe”

come oggetto di studio storico-scientifico

Il fatto che la ricezione del “Frammento delle ninfe” giri intorno a un punto cieco dell’opera è il sintomo di una discrepanza signi- ficativa tra l’enorme storia degli effetti della scienza della cultura di Warburg da una parte, e la solo parziale e in parte spezzettata pubblicazione dei suoi scritti dall’altra, che spesso ha come con- seguenza una conoscenza abborracciata dei suoi pensieri e anno- tazioni genuini. Perciò è particolarmente impressionante che l’im- magine di Warburg oggi abbia preso forma soprattutto a partire da quei lavori che fanno parte di progetti che l’autore non ha por- tato a compimento. A questi appartengono:

1) il progetto dell’atlante Mnemosyne,

3

quella raccolta debor- dante e in ogni caso interminabile di riproduzioni di quadri, scul- ture, cartoline, foto e immagini pubblicitarie, che Warburg rac- colse in base a singoli motivi, scene o gesti espressivi, e ordinò, e più volte modificò e riordinò, come se fossero, per così dire, trac- ce di pensieri della storia della cultura (per la mostra di Vienna fu- rono ricostruite le grandi tavole di un metro e settanta per un me- tro e quaranta, grazie alle foto degli schizzi);

4

2) il Discorso di Kreuzlingen, che Warburg tenne nel 1923, du- rante il suo soggiorno nella clinica di Ludwig Binswanger, sul viag- gio che ventisette anni prima aveva fatto nella terra degli indiani pueblo nel Nord America; e inoltre la redazione del testo ap- prontato dai suoi collaboratori Fritz Saxl e Gertrud Bing, sulla scorta delle sue note e schizzi, che è divenuto famoso con il titolo Il rituale del serpente;

5

3. Cfr. la traduzione italiana dell’atlante, A. Warburg, Mnemosyne. L’atlante delle imma- gini, Aragno, Torino 2002, che si riferisce all’edizione tedesca a cura di M. Warnke, Bildera- tlas Mnemosyne, Akademie Verlag, Berlin 2000. [N.d.T.]

4. Id., Mnemosyne. Materialien, a cura di W. Rappl, G. Swoboda, W. Pichler, M. Kos, Döl- ling und Galitz, München-Hamburg 2006; cfr. S. Weigel, Zur Archäologie von Aby Warburgs Bilderatlas Mnemosyne, in K. Ebeling, S. Altekamp (a cura di), Die Aktualität des Archäolo- gischen in Wissenschaft, Medien und Künsten, S. Fischer, Frankfurt a.M. 2004, pp. 185-208.

5. La nuova edizione dei Werke in einem Band riporta due stesure dei manoscritti per la

conferenza di Kreuzlingen e un manoscritto per una conferenza del 1897, che venne scritto

subito dopo il viaggio [cfr. A. Warburg, Il rituale del serpente: una relazione di viaggio, Adelphi,

Milano 1998; parzialmente pubblicata in “aut aut”, 199-200, 1984, N.d.T.].

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